I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

Mersiha Gadzo e Anas Jnena

18 giugno 2018, Al-Jazeera

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che Israele ha concesso solo a un terzo dei dimostranti feriti il permesso di attraversare il checkpoint di Erez per essere curati

 

Il solo modo in cui ora a Sari al-Shubaki può comunicare è aprire e chiudere le palpebre.

La mattina del 14 marzo un cecchino israeliano l’ha colpito al collo con un proiettile durante le manifestazioni a Gaza. Da allora, il ventiduenne è paralizzato. Un frammento del proiettile è rimasto fra la spalla e il collo.

Nell’ultimo mese è rimasto ricoverato in condizioni critiche nel reparto di cure intensive dell’ospedale Al Shifa della città di Gaza.

Da allora, la famiglia sta aspettando che Israele gli conceda un permesso per uscire attraverso il checkpoint di Erez a nord di Gaza, che i palestinesi chiamano Beit Hanoun, per essere curato.

Il giorno successivo a quello in cui Sari è stato colpito, i medici hanno detto che l’avrebbero trasferito in Egitto per le cure, ma la speciale ambulanza ICU necessaria per spostarlo non è mai arrivata come era stato invece promesso, dice Dawud al-Shubaki, suo padre.

“Non so se è la verità o se è perché lo considerano un caso senza speranza. Mi sembra che abbiano dei casi prioritari, visto che ci sono così tanti feriti” dice Dawuf ad Al Jazeera dall’[ospedale] Al Shifa.

Senza altra possibilità, Dawuf ha continuato a protestare nel cortile dell’ospedale per far conoscere le condizioni del figlio e ricevere aiuto.

“C’è ancora speranza. È cosciente. Ci hanno detto dall’ospedale S. Giuseppe di Gerusalemme che sarebbero pronti ad accoglierlo, ma quanto tempo ci vorrà? Il ferito che era nel letto vicino a lui è morto ieri”, dice Dawuf.

“Faccio appello a chiunque abbia ancora un cuore misericordioso perché faccia sì che mio figlio riceva le cure di cui ha bisogno. Non possiamo pensare di perderlo. Se muore sarà una catastrofe per tutta la famiglia” dice Dawuf, scoppiando in lacrime.

Dall’inizio delle manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’esercito di Israele ha ucciso per lo meno 129 palestinesi dell’enclave costiera assediata, e ha ferito più di 13000 persone.

In mancanza di risorse adeguate per provvedere alle cure necessarie ai pazienti, i dottori dell’impoverita Striscia di Gaza normalmente derivano i malati agli ospedali di Israele, della Cisgiordania e qualche volta della Giordania.

Ma per andarci i pazienti hanno bisogno di un permesso rilasciato da Israele, che spesso lo rifiuta senza spiegazioni o ci mette troppo tempo a concederlo per condizioni sanitarie urgenti.

L’altra possibilità è di uscire attraverso la frontiera sud di Rafah per essere curati in Egitto, ma la cosa è spesso dilazionata.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), al 3 giugno è stato concesso a 12 feriti su 22 di attraversare Rafah per essere curati in Egitto.

A causa del blocco israelo-egiziano che dura da 11 anni, i malati a Gaza affrontano da tempo ostacoli per lasciare Gaza e sottoporsi a cure indispensabili, cosa che ha causato a molti una lenta morte, ma i dimostranti feriti affrontano ora ostacoli anche più stringenti per attraversare Erez.

Secondo un nuovo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della SAlute, dall’inizio del movimento della Marcia del Grande Ritorno solo un terzo dei palestinesi feriti durante le manifestazioni ha avuto dalle autorità israeliane un permesso di uscita.

Al 3 giugno, dei 66 manifestanti feriti che hanno presentato domanda per essere trasferiti attraverso Erez, solo 22 sono stati approvati – rispetto a un tasso di approvazione del 60% nel primo trimestre del 2018.

Trentatré, cioè il 50%, hanno ricevuto un rifiuto – una percentuale significativamente più bassa rispetto all’8% del primo trimestre 2018.

I restanti pazienti stanno ancora aspettando, e intanto due di loro sono morti.

“È stato deciso che sarà rifiutata senza appello ogni richiesta di ingresso in Israele a scopo medico inoltrata da un terrorista attivo o da un dimostrante che abbia preso parte ai fatti violenti avvenuti vicino alla barriera”, ha commentato in una mail ad Al Jazeera un portavoce del COGAT, l’ente amministrativo dell’occupazione militare di Israele.

‘Una politica punitiva e vendicativa’

Secondo Adalah – il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba -, il rifiuto di Israele di evacuare i manifestanti feriti corrisponde ad una forma di punizione.

Prima del 15 aprile, a nessuno dei feriti durante le proteste della Marcia del Grande Ritorno è stato concesso il permesso di attraversare Erez per le cure.

Il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e Adalah hanno dovuto fare ricorso alla Corte Suprema di Israele perché i malati palestinesi potessero essere trasferiti attraverso Erez.

Il 16 aprile, tre giudici della Corte Suprema israeliana hanno unanimemente deciso che fosse consentito a Yousef Kronz, ventenne, ferito da un proiettile dell’esercito israeliano, di lasciare Gaza per cure mediche urgenti a Ramallah, per salvare la gamba rimasta.

Adalah riferisce che, a causa del ritardo imposto dall’esercito israeliano e dal tribunale riguardo alla sua iniziale richiesta di trasferimento inoltrata più di due settimane prima, Kronz ha già subito l’amputazione di una gamba.

La Corte ha deciso che Kronz non costituiva alcuna minaccia e che la sua condizione sanitaria rappresenta “un totale cambiamento nella sua vita”.

“Dalla nostra esperienza nel caso Kronz, l’esercito israeliano cerca di implementare una politica punitiva e vendicativa nel rifiutare ai residenti di Gaza accesso a trattamenti medici salvavita in Cisgiordania solo perché hanno partecipato ad una manifestazione” ha detto Mati Milstein, coordinatore per i media internazionali di Adalah.

“Di fatto, durante le udienze del tribunale, rappresentanti del governo hanno detto chiaramente che il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha deciso di impedire il trasferimento per trattamenti medici urgenti dei gazawi feriti che abbiano partecipato alle proteste e alle manifestazioni pacifiche – anche a rischio di un’amputazione.”

Secondo le leggi umanitarie internazionali, come forza d’occupazione Israele è obbligato ad assicurare ai palestinesi accesso alle cure e a garantire strutture mediche, ospedali e servizi nei territori occupati.

Tuttavia, per la delegazione di Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI) che ha visitato Gaza in aprile, lavorare nei migliori ospedali disponibili in città è stato come tornare indietro di diversi decenni.

Dr. Jamal Hijazi, del Centro Medico Shaare Tzedek di Gerusalemme, ha spiegato che non ci sono antibiotici, e i malati se li devono portare. Non ci sono nemmeno disinfettanti e lo staff medico usa al loro posto una soluzione salina, aumentando la probabilità di infezioni.

PHRI ha riferito che lo staff medico usa più volte i prodotti usa-e-getta, come pure i medicinali scaduti. Mancano anche materiali fondamentali come garza, morfina, punti di sutura chirurgici, anestetici e tutori per fratture alle gambe.

“I feriti non sono curati adeguatamente, e qualcuno paga con la vita”, ha detto PHRI nell’ultimo rapporto, in riferimento al pesante bilancio di vittime del 14 maggio.

“Costretti a frugare fra i resti delle scorte mediche e dei medicinali, su qualsiasi cosa riescano a mettere le mani, i medici si sentono come nullatenenti che chiedano l’elemosina.”

Non c’è altro da fare che aspettare

Il paramedico Mazen Jabreel Hasna è stato sottoposto a sei operazioni chirurgiche per salvare la sua gamba destra dopo che è stato colpito da un proiettile a frammentazione nell’area di Malaka a Gaza.

I medici hanno detto che avrebbero trasferito il trentatreenne in Egitto o in Giordania per un’operazione chirurgica, ma questo non è ancora successo. Aspettando il permesso, ha paura che le arterie artificiali che i medici hanno usato per salvargli la gamba possano presto esplodere o guastarsi, visto che non sono della misura giusta.

“Ora sono in attesa e se Dio vorrà, potrò farlo prima che qualcosa vada storto”, dice Hasna.

Anche Omar al-Housh, di 25 anni, sta aspettando il permesso di lasciare Gaza per operarsi. Il dolore è continuo, dice. “Giorno e notte.”

Passa tutto il tempo a letto, incapace anche di usare le stampelle e tiene la gamba ferita sotto un lenzuolo; non ha il coraggio di guardarla da quando il 14 maggio un cecchino israeliano l’ha colpita con un proiettile a frammentazione.

Il fratello mostra foto della gamba colpita di Omar – una profonda ferita va dall’anca alla caviglia, muscoli e tessuti completamente esposti.

Quando è arrivato Omar l’ospedale ha chiesto urgentemente donazioni di sangue. Ha ricevuto più di 60 unità di sangue a causa delle vene e dei vasi danneggiati e ha subito tre operazioni per salvargli la gamba.

Omar ha detto che il giorno dopo esser stato colpito gli è stato negato il trasferimento in Egitto.

Attualmente è sulla lista d’attesa per operarsi in Giordania, poiché in punti di sutura usati per cucire le sue vene e i vasi sanguigni danneggiati non sono del tipo giusto e la frattura delle ossa è parzialmente scomposta.

Sta aspettando il permesso dalle autorità israeliane e giordane, ma gli è stato già più volte rifiutato l’ingresso.

“Ci vuole tanto tempo e ho paura che mi rifiuteranno ancora una volta l’ingresso in Israele o in Giordania”, dice Omar.

“I medici hanno fatto un’operazione d’urgenza, temporanea, per evitare che la mia ferita peggiorasse. Voglio poter camminare di nuovo” dice Omar, aggiungendo che la sua pena è diventata anche mentale, poiché soffre di incubi e flashback.

Omar ha lavorato occasionalmente con il fratello come pescatore, ma lui e la sua famiglia non possono pagare le medicazioni e gli analgesici, ciò che aggrava il problema.

“Tutti i giorni ha bisogno di analgesici e iniezioni, altrimenti sveglia tutto il vicinato con le sue urla, ma io non posso permettermeli”, dice il padre Younis al-Housh, insegnante.

“L’altro giorno mi ha chiesto di non prendergli le iniezioni e i medicinali perché si sente di peso. Vedete come è diventata dura la vita qui? Ma ciò che ora è importante è che vogliamo che sia curato fuori di qui e possa camminare.”

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele potrebbe rioccupare Gaza, scatenare un altro massiccio attacco militare, oppure togliere l’assedio.

Al Jazeera

Di Adnan Abu Amer

20 giugno 2018

Quando i palestinesi hanno indetto la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, Israele ha intuito un’opportunità di scontro. Ha cominciato ad abbattere a fucilate un manifestante disarmato dopo l’altro, sparando nel contempo a tutto volume la versione propagandistica sul fatto che questi palestinesi costituivano una ‘minaccia’ alla sua sicurezza e che quindi aveva il “diritto di difendersi”.

Ad oggi i soldati israeliani hanno ucciso oltre 120 manifestanti palestinesi pacifici. Ma gli israeliani non si sono fermati qui.

Dato che l’opinione pubblica internazionale si stava volgendo pericolosamente contro di loro, le forze di occupazione israeliane hanno incominciato a reagire alle manifestazioni pacifiche prendendo di mira i gruppi della resistenza armata a Gaza, bombardando le loro aree di esercitazione, i depositi di armi, i tunnel e le infrastrutture logistiche, ed assassinando anche parecchi dei loro membri.

L’esercito israeliano non ha giustificazioni per questi attacchi; ha voluto semplicemente stabilire una nuova situazione di fatto sul terreno: la resistenza pacifica verrà affrontata con la forza bruta ed ogni escalation porterà ad un più esteso attacco militare.

Dopo qualche discussione, da Gaza è stata lanciata una risposta militare. Molti all’interno dei gruppi della resistenza armata erano convinti che Israele non avrebbe potuto imporre questa nuova  situazione sul terreno e che si doveva dimostrare che ci sarebbe stata una reazione ai suoi attacchi militari.

Ciò che questo episodio dimostra, tuttavia, è che è sempre più difficile per Israele mantenere lo status quo. La sua strategia, secondo cui “Gaza non vivrà e non morirà”, non sembra più funzionare. Esso teme che i palestinesi non si accontenteranno più di piccole concessioni e aggiustamenti.

Ed è in questo contesto che Israele sembra trovarsi di fronte a tre opzioni riguardo a Gaza: la rioccupazione, un’altra guerra o la fine dell’assedio.

Rioccupazione

Ci sono state alcune voci dell’estrema destra nel governo israeliano, nell’esercito e nell’elite intellettuale che hanno auspicato la rioccupazione di Gaza. Ritengono che stabilire nuovamente il controllo militare sulla Striscia potrebbe rimuovere la minaccia che essa costituisce.

Chiedono di occupare l’intera Striscia con truppe sul terreno e operare un radicale smantellamento dei gruppi armati di Gaza. Dopo che ciò sarà avvenuto, Gaza dovrebbe presumibilmente essere consegnata ad una parte terza, come l’Autorità Nazionale Palestinese o un organismo internazionale, che si occupi ed amministri i bisogni umanitari della popolazione.

Coloro che perorano questa soluzione sanno benissimo che stanno prevedendo un sanguinoso disastro. Israele troverà senza dubbio una forte resistenza a Gaza, che causerà decine, se non centinaia, di morti tra i soldati israeliani. Non c’è niente di più doloroso per Israele del ritorno dei suoi soldati dal campo di battaglia in neri sacchi per cadaveri.

Se rioccuperà la Striscia, lo Stato di Israele dovrà fornire livelli minimi di cibo, acqua ed elettricità alla popolazione economicamente sfinita. Ciò imporrebbe un notevole peso sul bilancio statale.

Il numero di vittime che una simile operazione militare causerebbe alla popolazione civile di Gaza  rappresenterebbe per la narrazione israeliana una catastrofe sul piano internazionale. L’indignazione internazionale per i crimini israeliani sta aumentando di giorno in giorno ed alla fine raggiungerà un punto di rottura.

È importante ricordare che questa opzione non è molto apprezzata nelle sfere decisionali di Tel Aviv, sia all’interno del governo che dell’esercito o dell’intelligence, poiché si rendono semplicemente conto di quanto esorbitante sarebbe il prezzo che dovrebbero pagare.

Un nuovo attacco militare

Questa opzione di un nuovo importante attacco militare a Gaza è popolare tra i personaggi politici e militari influenti in Israele, in quanto viene vista come meno onerosa rispetto ad una rioccupazione. Sembra corrispondere all’impellente necessità di trovare un nuovo deterrente contro Hamas dopo i suoi recenti lanci di razzi sugli insediamenti israeliani vicini a Gaza.

Israele si è abituato a scatenare un attacco a Gaza ogni pochi anni, all’interno della sua politica del  “falciare l’erba”. Ogni volta che le risorse di Hamas – sia umane che logistiche – crescono, sorge la necessità di eliminarle con attacchi aerei o uccisioni sul campo che ripristinino la deterrenza di Israele per qualche altro anno.

Dopo le diverse operazioni che Israele ha scatenato tra il 2006 e il 2014, potrebbe ben essere in procinto di scatenarne un’altra. Nonostante la loro convinzione che questa opzione sia urgentemente necessaria, i generali di alto grado sono dubbiosi in proposito perché sanno che nel corso degli ultimi quattro anni i gruppi armati palestinesi hanno ricostituito le loro risorse e addestrato le loro fila.

Una guerra a Gaza non sarebbe una scampagnata, ma loro la vedono come un male necessario o una “guerra senza altra scelta”.

Togliere l’assedio

Questa opzione vedrebbe Israele togliere l’assedio alla Striscia di Gaza sul piano economico ed amministrativo. Implicherebbe anche la costruzione di un porto o di un aeroporto sotto stretto controllo di sicurezza israeliano e con garanzie internazionali.

Questa opzione porrebbe sulle spalle di Israele l’onere di sostenere i due milioni di abitanti di Gaza, ma le sue implicazioni strategiche portano la leadership israeliana ad evitarla. Essa renderebbe possibile la creazione di un’entità palestinese con caratteristiche simili ad uno Stato, senza che debba fornire ad Israele le consuete “garanzie di obbedienza”, come avviene per la Cisgiordania.

Inoltre non vi sarebbero sufficienti garanzie che Hamas non tragga vantaggio da queste nuove strutture portuali per far entrare armi che potrebbero sovvertire lo status quo militare.

Poiché la situazione sul terreno a Gaza si modifica e le minacce di Israele contro i palestinesi aumentano, tutte e tre le opzioni sono possibili. Israele farà i suoi accurati calcoli per ognuna di esse, ma alla fine saranno gli sviluppi sul terreno a determinare quale strada prenderanno gli eventi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Il dottor Adnan Abu Amer è direttore del Dipartimento di Scienze Politiche all’università palestinese Ummah di Gaza

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 

 




La storia della Palestina e di Israele

La storia più convincente e sensata della Palestina e di Israele

PalestineChronicle – 19 giugno 2018

Di Rima Najjar

La storia che sta dietro alla Palestina e a Israele è una storia di colonialismo di insediamento di ebrei europei – cioè, sionismo.   E dato che il razzismo è un sintomo e uno strumento del colonialismo di insediamento, il sionismo è visto anche come antisemitismo, e come supremazia etnica o ebraica, arabofobia e islamofobia. 

La triangolazione di antisemitismo, islamofobia e arabofobia nella storia della Palestina e di Israele è parte del movimento coloniale di insediamento del sionismo e non è una “nuova storia” nel senso di come il termine è stato presentato dallo storico israeliano Benny Morris nel 1980 per rendere umane, nel discorso accademico israeliano, le vittime del sionismo.   Riflette semplicemente una terminologia moderna e comprende eventi storici che la mentalità sionista in buona misura ancora non accetta.

In linea generale questi avvenimenti storici sono semplici. Gli ebrei sionisti (che si autoproclamavano atei) decisero di costruire uno Stato ebraico in Palestina e finirono per prendersi con la forza la maggior parte della terra e per espellere la maggior parte della popolazione arabo-palestinese non ebraica, impedendole di tornare.

Ora Israele sta occupando il resto del territorio che l’Organizzazione Sionista Mondiale non era riuscita a prendersi e continua a “insediarvisi”.

Ne “La fine del sionismo: razzismo e lotta palestinese”, Joseph Massad [docente alla Columbia University, ndtr.] scrive:

“Il sionismo, in quanto movimento colonialista, è costituito nell’ideologia e nella prassi da un’epistemologia religiosa e razziale attraverso la quale concepisce se stesso ed il mondo attorno a lui… Non si mette più in discussione, persino tra molti israeliani, che l’impatto del sionismo sul popolo palestinese nell’ultimo secolo include: l’espulsione di una maggioranza di palestinesi dalle loro terre e case, impedendone il ritorno, e la successiva confisca delle loro proprietà per uso esclusivo degli ebrei;  l’imposizione dal 1948 al 1966 di un sistema di  apartheid militare sui palestinesi rimasti in Israele, che da allora si è attenuato in un sistema civile discriminatorio di supremazia ebraica; l’occupazione militare e un sistema di apartheid imposto alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza ed alla loro popolazione per i rimanenti 35 (ora 51) anni, come anche la continua colonizzazione di quei territori occupati.”

In questo senso la storia del colonialismo di insediamento degli ebrei europei – cioè del sionismo – che sta dietro la Palestina e Israele (come opposto alla storia come “narrazione” o mito sionista) ha a monte la voce della ragione, perché rivela un’atrocità a cui si deve porre rimedio.

Riconoscere ed assumersi la responsabilità dei crimini storici ed attuali di Israele contro gli arabi palestinesi è il primo passo per risolvere la Nakba.  I particolari storici riguardo a come e perché questi tragici avvenimenti sono accaduti hanno riempito molti libri, ma non è questo il punto.

La questione generale ha di per sé la voce della ragione, se si considerano anche la giustizia come ragionevole e l’ingiustizia come irragionevole.

Per esempio, cos’è ragionevole e plausibile riguardo ad Ivanka Trump, figlia del presidente USA Donald Trump e moglie di Jared Kushner, che ora può comprarsi una casa a Gerusalemme e “tornare” in Israele grazie alla sua conversione all’ebraismo ed all’ebraicità del suo marito americano, mentre a Ghada Karmi, un’araba palestinese musulmana, viene negato il ritorno alla sua patria e non le viene neppure consentito di ricomprare la casa rubata a suo padre?

In “Umanizzare il testo: la ‘nuova storia’ israeliana e il percorso della storiografia sul 1948”, Ilan Pappe [storico israeliano attualmente docente in Gran Bretagna, ndtr.], universalmente noto per il suo “La pulizia etnica della Palestina”, scrive:

“Una cosa è chiara quando si analizzano le sorti della nuova storia israeliana dal tempo dei suoi inizi, alla fine degli anni ’80, fino alla sua breve/momentanea scomparsa nel 2000: la ricostruzione storica è strettamente legata agli sviluppi e sconvolgimenti politici generali. In società lacerate da fratture e conflitti interni ed esterni, il lavoro degli storici è costantemente pervaso dal dramma politico intorno a loro. In questi contesti geopolitici la pretesa di obiettività è particolarmente fuori luogo, se non totalmente infondata.”    

Storici ebrei dissidenti radicali come Ilan Pappe in Israele sono fondamentali per una storia che ha dalla sua parte la voce della ragione. Sono un ponte verso un pubblico più vasto in Israele.

Spesso i palestinesi si chiedono cosa sia necessario per fare breccia nella coscienza dell’opinione pubblica occidentale riguardo alla tragica storia della Palestina lunga 70 anni.

Credo che il modo migliore per spostare l’opinione pubblica occidentale dall’appoggio ad Israele verso il sostegno alla causa palestinese sia continuare a sottolineare quello che ha già avuto luogo attraverso l’abbandono del cosiddetto “processo di pace” e della “soluzione dei due Stati” – la comprensione, finora  poco chiara, che il problema di Israele risiede nella sua natura di progetto sionista di colonialismo d’insediamento in Palestina, piuttosto che di “occupante” militare.

In “Perché il termine ‘occupazione israeliana’ deve essere rifiutato”, Ramzy Baroud scrive:

“…Spesso si sostiene che Israele è un occupante che ha violato le norme sull’occupazione come stabilite dalle leggi internazionali. Sarebbe stato così un anno, due anni o cinque anni dopo che l’occupazione iniziale ha avuto luogo, ma non 51 anni dopo. Da allora l’occupazione si è trasformata in una colonizzazione a lungo termine.”

Molte persone credono che la “Grande Marcia del Ritorno” abbia riscosso reazioni giornalistiche così positive nei media occidentali perché le proteste sono state essenzialmente non violente – ad esempio, non si può dire che abbiano minacciato la sicurezza di Israele e quindi la forza mortale che Israele utilizza è “sproporzionata” e criminale.

È il massimo a cui arriva l’azione non violenta palestinese. Ciò non fa nulla per cambiare la percezione dell’opinione pubblica occidentale di Israele come uno Stato legittimo simile a quelli occidentali, che protegge le proprie frontiere (benché con una forza sproporzionata) contro un mare di arabi o la percezione dei palestinesi come “turbolenti” e “barbari”, il cui unico desiderio malvagio è di uccidere ebrei.

La resistenza non violenta sicuramente ha i suoi vantaggi, ma a mio parere non deve mai essere imposta ad un popolo oppresso e brutalizzato come se fosse un terreno moralmente superiore di resistenza.

Inoltre l’enfasi sulla tattica della resistenza non violenta delegittima implicitamente altre forme di resistenza, santificando alcuni martiri palestinesi e prigionieri tenuti in detenzione amministrativa [cioè senza un’imputazione né una condanna, ndtr.] in sciopero della fame ed accettando le giustificazioni di Israele per l’uccisione e l’arresto di migliaia di altri palestinesi.

Quello che c’è di diverso nella “Grande Marcia del Ritorno” è che la sua richiesta di tornare mette in rapporto l'”occupazione” e l’assedio [di Gaza] con la Nakba, mettendo in scena per il pubblico occidentale, con la protesta e la resistenza, la colonizzazione di tutta la Palestina.

Questa richiesta, udita per la prima volta nella storia recente della resistenza palestinese, sta spostando la percezione dell’opinione pubblica occidentale.

Sulle reti sociali attivisti per la giustizia in Palestina hanno a lungo utilizzato diverse tattiche (soprattutto documentando e rendendo pubbliche le violazioni delle leggi internazionali e della dignità umana da parte di Israele) per raggiungere il pubblico occidentale (per aprirsi un varco nei principali media dell’Occidente). Le più efficaci sono le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS – PACBI), che hanno convinto grandi nomi dell’accademia e celebrità della cultura e dello sport ad abbracciare la causa dei palestinesi.

L’opinione pubblica occidentale è anche diventata più informata della reazione violenta sionista contro le campagne del BDS, soprattutto in quanto incide sulla libertà di parola.

In generale, per rivolgersi a un pubblico occidentale, soprattutto quello di sinistra, è efficace fare riferimento ai valori progressisti applicabili alle ingiustizie contro tutti i gruppi marginalizzati nella società occidentale, in quanto ciò evidenzia la contraddittorietà di  prendere in considerazione unicamente la causa palestinese come se fosse un’eccezione.

Il pubblico occidentale si presume faccia parte della tradizione giudaico-cristiana, un termine coniato da George Orwell nei lontani anni ’30 per combattere l’antisemitismo. Sfortunatamente questa tradizione umanistica è stata infangata perché ora antisemitismo e antisionismo vi sono inesorabilmente legati, e quindi lottare contro uno significa lottare contro l’altro.

La civiltà occidentale è stata a lungo definita dalle conquiste coloniali (in Medio oriente con islamofobia e arabofobia) e dal potere imperialista; ciò ha dato vita al sionismo.

Oltretutto,

“… una volta occupata la posizione di superiorità militare, la cultura colonialista produce, attraverso un’ampia gamma di mezzi di comunicazione, un’infinita serie di asserzioni che lentamente e sottilmente – con l’aiuto di libri, giornali, scuole e i loro testi, pubblicità, film, radio – invade le menti e plasma la visione del mondo del gruppo a cui si appartiene…La colonizzazione efficace porta l’oppresso a identificarsi con la visione del mondo dell’oppressore.” [citazione da “Pelle nera, maschere bianche” di Frantz Fanon, ndtr.]

L’Autorità Nazionale Palestinese ora si identifica con il suo oppressore in modo così profondo che non si vergogna, come imposto da Israele, di reprimere brutalmente i palestinesi che in Cisgiordania si riuniscono contro le misure economiche punitive di Mahmoud Abbas a Gaza.

Ciò che alla fine cambierà la percezione del pubblico occidentale saranno gli stessi palestinesi che comunque scelgono di resistere. Devono insistere sulla liberazione – sulla decolonizzazione e non solo sulla “fine dell’occupazione”.

– Rima Najjar è una palestinese la cui famiglia paterna viene dal villaggio di Lifta, nella periferia occidentale di Gerusalemme, svuotato dei suoi abitanti con la forza. È un’attivista, una ricercatrice e docente in pensione di letteratura inglese all’università di Al-Quds, nella Cisgiordania occupata.   Ha offerto quest’articolo a PalestineChronicle.com. 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




False accuse e scudi umani a Gaza

La falsità delle accuse israeliane sugli scudi umani a Gaza

Cercando disperatamente di giustificare l’uccisione di manifestanti disarmati, Israele usa ancora una volta il suo mantra degli ‘scudi umani’.

Al-Jazeera

Di Neve Gordon e Nicola Perugini, 18 giugno 2018

È diventato un macabro rituale. Ogni settimana migliaia di palestinesi marciano verso la barriera che circonda la piccola striscia di terra in cui sono imprigionati da anni, mentre i cecchini israeliani scelgono le loro vittime e sparano.

Dal 30 marzo, 132 palestinesi sono stati uccisi e oltre 13.000 feriti perché hanno coraggiosamente protestato contro le conseguenze del permanente assedio militare israeliano a Gaza.

Ad alcuni la marcia palestinese potrebbe sembrare suicida, ma per i palestinesi è l’estremo atto di resistenza pacifica. La malnutrizione, la mancanza di acqua potabile, le quotidiane interruzioni di corrente elettrica, la disoccupazione di massa e l’estrema povertà non sono slogan astratti per i civili che hanno preso parte a queste manifestazioni.

Quindi, settimana dopo settimana, marciano verso la barriera nella speranza che il mondo ascolti la loro disperazione e che qualche Paese, qualche leader, o anche qualche movimento appoggi la loro causa e li aiuti a rompere l’assedio.

Ma ogni settimana Israele fa di tutto per proporre una narrazione diversa. L’esercito israeliano ha diffuso sui social media immagini e video di bambini presenti nelle proteste. Un breve videoclip trasmette una ninnananna interrotta dal suono di spari e chiede retoricamente: “Dove sono oggi i bambini di Gaza?” Dopo aver mostrato i bambini in mezzo alle manifestazioni, visualizza sullo schermo la parola “qui” scritta tutta in maiuscolo.

Simili video vengono utilizzati come “prova definitiva” che i palestinesi usano i bambini come scudi umani.

La propaganda israeliana sugli “scudi umani” ha riguardato anche civili adulti. In seguito all’indignazione internazionale per l’assassinio della ventunenne Razan Al-Najjar, uccisa mentre curava un manifestante ferito, l’esercito israeliano ha fatto circolare un video montaggio intitolato “Hamas usa i paramedici come scudi umani”.

Il video si basa su un’intervista alla rete televisiva Al Mayadeen in cui Razan descrive il proprio lavoro come medico: “Mi chiamo Razan Al-Najjar. Sono qui in prima linea come scudo umano per proteggere e salvare i feriti in prima linea.”

L’unità multimediale dell’esercito israeliano ha opportunamente modificato l’intervista, omettendo l’affermazione di Razan secondo cui per lei fare scudo ai feriti fa parte delle sue responsabilità come operatore medico. Hanno anche volutamente ignorato un’altra clip postata sul sito web del New York Times, in cui lei descrive le manifestazioni di protesta come un tentativo “di mandare un messaggio al mondo: senza armi, possiamo fare molto.”

Israele giustifica i suoi attacchi violenti continuando ad accusare Hamas di usare scudi umani, nella strenua speranza di sollevare indignazione morale, cercando al contempo anche di predisporre una difesa legale  per ciò che è ingiustificabile.

Sul piano morale, l’accusa lascia intendere che i palestinesi sono dei barbari. Non diversamente dall’immaginario sui barbari pagani che offrivano i figli agli dei, suggerisce che i palestinesi di Gaza non hanno problemi a mandare i propri figli e figlie in prima linea. Il messaggio implicito è che i popoli civilizzati proteggono i propri figli, mentre i palestinesi li sacrificano.

In termini giuridici, uno scudo umano è un civile che viene usato per fare in modo che un legittimo obbiettivo militare non possa essere attaccato. Accusando Hamas di utilizzare scudi umani, Israele spera di spostare la colpa dal cacciatore alla preda poiché, in base al diritto internazionale, la responsabilità per la morte degli scudi umani non grava su chi uccide, ma su chi li utilizza.

Il messaggio che Danny Danon, ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, ha consegnato in una lettera inviata al Consiglio di Sicurezza è esattamente questo: “i terroristi continuano a nascondersi dietro a bambini innocenti per garantire la propria sopravvivenza”.

Con questa affermazione, Danon non solo sposta le responsabilità [sui palestinesi] ma, di fatto, qualifica chiunque partecipi alla ‘Marcia del Ritorno’ come obiettivo militare.

Proprio in quanto gli scudi umani, per definizione, sono posti a difesa di legittimi obiettivi militari, l’accusa apparentemente senza fine che i palestinesi usano scudi umani per proteggere i manifestanti rivela che per Israele tutti i manifestanti palestinesi sono potenziali bersagli.

Ma nonostante il massimo impegno da parte di Israele, l’argomento “scudi umani” è sempre meno convincente. In un recente rapporto Human Rights Watch ha accusato Israele di perpetrare crimini di guerra  nei suoi tentativi di reprimere le richieste palestinesi di liberazione.

Intanto l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato a schiacciante maggioranza una risoluzione di condanna dell’uso da parte di Israele di “violenza indiscriminata”, mentre il responsabile ONU per i diritti umani  Zeid Ra’ad al-Hussein ha chiesto un’indagine.

Ciò che è ancora più spaventoso, tuttavia, è che Gaza non è un’eccezione.

Dal Venezuela, dove i preti hanno difeso  militanti antigovernativi dalla violenza mortale della polizia antisommossa, al Sudafrica, dove studenti bianchi hanno fatto scudo a studenti neri quando essi hanno manifestato contro le tasse scolastiche insostenibili, agli Stati Uniti, dove  veterani [di guerra] hanno cercato di proteggere nativi americani pacifici brutalmente assaliti dai cani delle forze di sicurezza, colpiti dagli idranti con temperature sotto zero e da proiettili ricoperti di gomma nella Riserva di Standing Rock, sempre più persone sono definite scudi umani o agiscono realmente come scudi umani.

Nonostante le differenze tra queste situazioni, l’immagine dello scudo umano – che venga usata per giustificare la violenza coloniale o per proteggere i dimostranti – è divenuta onnipresente nel nostro attuale panorama politico.

Questo a sua volta suggerisce che i manifestanti sono considerati sempre più come bersagli legittimi e che il repertorio delle violenze e delle giustificazioni legali utilizzato in guerra è entrato nell’ambito della vita civile e sta diventando la normalità.

Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non rispecchiano necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon è un ricercatore dell’istituto Marie Curie e docente di diritto internazionale alla Queen Mary University di Londra.

Nicola Perugini è docente alla Scuola di scienze politiche e sociali dell’università di Edinburgo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che Israele ha concesso solo a un terzo dei dimostranti feriti il permesso di attraversare il checkpoint di Erez per essere curati

Al-Jazeera

Mersiha Gadzo e Anas Jnena – 8 giugno 2018

 

Il solo modo in cui ora a Sari al-Shubaki può comunicare è aprire e chiudere le palpebre.

La mattina del 14 marzo un cecchino israeliano l’ha colpito al collo con un proiettile durante le manifestazioni a Gaza. Da allora, il ventiduenne è paralizzato. Un frammento del proiettile è rimasto fra la spalla e il collo.

Nell’ultimo mese è rimasto ricoverato in condizioni critiche nel reparto di cure intensive dell’ospedale Al Shifa della città di Gaza.

Da allora, la famiglia sta aspettando che Israele gli conceda un permesso per uscire attraverso il checkpoint di Erez a nord di Gaza, che i palestinesi chiamano Beit Hanoun, per essere curato.

Il giorno successivo a quello in cui Sari è stato colpito, i medici hanno detto che l’avrebbero trasferito in Egitto per le cure, ma la speciale ambulanza ICU necessaria per spostarlo non è mai arrivata come era stato invece promesso, dice Dawud al-Shubaki, suo padre.

“Non so se è la verità o se è perché lo considerano un caso senza speranza. Mi sembra che abbiano dei casi prioritari, visto che ci sono così tanti feriti” dice Dawuf ad Al Jazeera dall’[ospedale] Al Shifa.

Senza altra possibilità, Dawuf ha continuato a protestare nel cortile dell’ospedale per far conoscere le condizioni del figlio e ricevere aiuto.

“C’è ancora speranza. È cosciente. Ci hanno detto dall’ospedale S. Giuseppe di Gerusalemme che sarebbero pronti ad accoglierlo, ma quanto tempo ci vorrà? Il ferito che era nel letto vicino a lui è morto ieri”, dice Dawuf.

“Faccio appello a chiunque abbia ancora un cuore misericordioso perché faccia sì che mio figlio riceva le cure di cui ha bisogno. Non possiamo pensare di perderlo. Se muore sarà una catastrofe per tutta la famiglia” dice Dawuf, scoppiando in lacrime.

Dall’inizio delle manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’esercito di Israele ha ucciso per lo meno 129 palestinesi dell’enclave costiera assediata, e ha ferito più di 13000 persone.

In mancanza di risorse adeguate per provvedere alle cure necessarie ai pazienti, i dottori dell’impoverita Striscia di Gaza normalmente derivano i malati agli ospedali di Israele, della Cisgiordania e qualche volta della Giordania.

Ma per andarci i pazienti hanno bisogno di un permesso rilasciato da Israele, che spesso lo rifiuta senza spiegazioni o ci mette troppo tempo a concederlo per condizioni sanitarie urgenti.

L’altra possibilità è di uscire attraverso la frontiera sud di Rafah per essere curati in Egitto, ma la cosa è spesso dilazionata.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), al 3 giugno è stato concesso a 12 feriti su 22 di attraversare Rafah per essere curati in Egitto.

A causa del blocco israelo-egiziano che dura da 11 anni, i malati a Gaza affrontano da tempo ostacoli per lasciare Gaza e sottoporsi a cure indispensabili, cosa che ha causato a molti una lenta morte, ma i dimostranti feriti affrontano ora ostacoli anche più stringenti per attraversare Erez.

Secondo un nuovo rapporto del WHO, dall’inizio del movimento della Marcia del Grande Ritorno solo un terzo dei palestinesi feriti durante le manifestazioni ha avuto dalle autorità israeliane un permesso di uscita.

Al 3 giugno, dei 66 manifestanti feriti che hanno presentato domanda per essere trasferiti attraverso Erez, solo 22 sono stati approvati – rispetto a un tasso di approvazione del 60% nel primo trimestre del 2018.

Trentatré, cioè il 50%, hanno ricevuto un rifiuto – una percentuale significativamente più bassa rispetto all’8% del primo trimestre 2018.

I restanti pazienti stanno ancora aspettando, e intanto due di loro sono morti.

“È stato deciso che sarà rifiutata senza appello ogni richiesta di ingresso in Israele a scopo medico inoltrata da un terrorista attivo o da un dimostrante che abbia preso parte ai fatti violenti avvenuti vicino alla barriera”, ha commentato in una mail ad Al Jazeera un portavoce del COGAT, l’ente amministrativo dell’occupazione militare di Israele.

 

‘Una politica punitiva e vendicativa’

Secondo Adalah – il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba -, il rifiuto di Israele di evacuare i manifestanti feriti corrisponde ad una forma di punizione.

Prima del 15 aprile, a nessuno dei feriti durante le proteste della Marcia del Grande Ritorno è stato concesso il permesso di attraversare Erez per le cure.

Il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e Adalah hanno dovuto fare ricorso alla Corte Suprema di Israele perché i malati palestinesi potessero essere trasferiti attraverso Erez.

Il 16 aprile, tre giudici della Corte Suprema israeliana hanno unanimemente deciso che fosse consentito a Yousef Kronz, ventenne, ferito da un proiettile dell’esercito israeliano, di lasciare Gaza per cure mediche urgenti a Ramallah, per salvare la gamba rimasta.

Adalah riferisce che, a causa del ritardo imposto dall’esercito israeliano e dal tribunale riguardo alla sua iniziale richiesta di trasferimento inoltrata più di due settimane prima, Kronz ha già subito l’amputazione di una gamba.

La Corte ha deciso che Kronz non costituiva alcuna minaccia e che la sua condizione sanitaria rappresenta “un totale cambiamento nella sua vita”.

“Dalla nostra esperienza nel caso Kronz, l’esercito israeliano cerca di implementare una politica punitiva e vendicativa nel rifiutare ai residenti di Gaza accesso a trattamenti medici salvavita in Cisgiordania solo perché hanno partecipato ad una manifestazione” ha detto Mati Milstein, coordinatore per i media internazionali di Adalah.

“Di fatto, durante le udienze del tribunale, rappresentanti del governo hanno detto chiaramente che il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha deciso di impedire il trasferimento per trattamenti medici urgenti dei gazawi feriti che abbiano partecipato alle proteste e alle manifestazioni pacifiche – anche a rischio di un’amputazione.”

Secondo le leggi umanitarie internazionali, come forza d’occupazione Israele è obbligato ad assicurare ai palestinesi accesso alle cure e a garantire strutture mediche, ospedali e servizi nei territori occupati.

Tuttavia, per la delegazione di Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI) che ha visitato Gaza in aprile, lavorare nei migliori ospedali disponibili in città è stato come tornare indietro di diversi decenni.

Dr. Jamal Hijazi, del Centro Medico Shaare Tzedek di Gerusalemme, ha spiegato che non ci sono antibiotici, e i malati se li devono portare. Non ci sono nemmeno disinfettanti e lo staff medico usa al loro posto una soluzione salina, aumentando la probabilità di infezioni.

PHRI ha riferito che lo staff medico usa più volte i prodotti usa-e-getta, come pure i medicinali scaduti. Mancano anche materiali fondamentali come garza, morfina, punti di sutura chirurgici, anestetici e tutori per fratture alle gambe.

“I feriti non sono curati adeguatamente, e qualcuno paga con la vita”, ha detto PHRI nell’ultimo rapporto, in riferimento al pesante bilancio di vittime del 14 maggio.

“Costretti a frugare fra i resti delle scorte mediche e dei medicinali, su qualsiasi cosa riescano a mettere le mani, i medici si sentono come nullatenenti che chiedano l’elemosina.”

 

Non c’è altro da fare che aspettare

Il paramedico Mazen Jabreel Hasna è stato sottoposto a sei operazioni chirurgiche per salvare la sua gamba destra dopo che è stato colpito da un proiettile a frammentazione nell’area di Malaka a Gaza.

I medici hanno detto che avrebbero trasferito il trentatreenne in Egitto o in Giordania per un’operazione chirurgica, ma questo non è ancora successo. Aspettando il permesso, ha paura che le arterie artificiali che i medici hanno usato per salvargli la gamba possano presto esplodere o guastarsi, visto che non sono della misura giusta.

“Ora sono in attesa e se Dio vorrà, potrò farlo prima che qualcosa vada storto”, dice Hasna.

Anche Omar al-Housh, di 25 anni, sta aspettando il permesso di lasciare Gaza per operarsi. Il dolore è continuo, dice. “Giorno e notte.”

Passa tutto il tempo a letto, incapace anche di usare le stampelle e tiene la gamba ferita sotto un lenzuolo; non ha il coraggio di guardarla da quando il 14 maggio un cecchino israeliano l’ha colpita con un proiettile a frammentazione.

Il fratello mostra foto della gamba colpita di Omar – una profonda ferita va dall’anca alla caviglia, muscoli e tessuti completamente esposti.

Quando è arrivato Omar l’ospedale ha chiesto urgentemente donazioni di sangue. Ha ricevuto più di 60 unità di sangue a causa delle vene e dei vasi danneggiati e ha subito tre operazioni per salvargli la gamba.

Omar ha detto che il giorno dopo esser stato colpito gli è stato negato il trasferimento in Egitto.

Attualmente è sulla lista d’attesa per operarsi in Giordania, poiché in punti di sutura usati per cucire le sue vene e i vasi sanguigni danneggiati non sono del tipo giusto e la frattura delle ossa è parzialmente scomposta.

Sta aspettando il permesso dalle autorità israeliane e giordane, ma gli è stato già più volte rifiutato l’ingresso.

“Ci vuole tanto tempo e ho paura che mi rifiuteranno ancora una volta l’ingresso in Israele o in Giordania”, dice Omar.

“I medici hanno fatto un’operazione d’urgenza, temporanea, per evitare che la mia ferita peggiorasse. Voglio poter camminare di nuovo” dice Omar, aggiungendo che la sua pena è diventata anche mentale, poiché soffre di incubi e flashback.

Omar ha lavorato occasionalmente con il fratello come pescatore, ma lui e la sua famiglia non possono pagare le medicazioni e gli analgesici, ciò che aggrava il problema.

“Tutti i giorni ha bisogno di analgesici e iniezioni, altrimenti sveglia tutto il vicinato con le sue urla, ma io non posso permettermeli”, dice il padre Younis al-Housh, insegnante.

“L’altro giorno mi ha chiesto di non prendergli le iniezioni e i medicinali perché si sente di peso. Vedete come è diventata dura la vita qui? Ma ciò che ora è importante è che vogliamo che sia curato fuori di qui e possa camminare.”

 

 

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Quello che i combattenti ebrei del 1948 dicono della Nakba

Quello che i combattenti ebrei del 1948 dicono della Nakba

Middle East Eye

 

Thomas Vescovi – 1 giugno 2018

 

Per gli israeliani il 1948 incarna l’ora della gloria del progetto sionista, il momento in cui gli ebrei ritornano nelle pagine della Storia come attori del loro destino e, soprattutto, riescono a realizzare l’utopia diffusa 50 anni prima da Theodor Herzl: la costruzione in Palestina di uno Stato come rifugio per il “popolo ebraico”.

Per i palestinesi, il 1948 simbolizza l’avvento del processo coloniale che li ha spogliati della loro terra e del loro diritto alla sovranità, la loro “Nakba” (catastrofe).

Le prime voci dissonanti

Con differenti modalità, alcuni israeliani, fin da subito dopo il 1948, hanno testimoniato sugli avvenimenti passati. Durante il conflitto alcuni quadri del movimento sionista chiamano in causa i dirigenti in merito al trattamento della popolazione araba di Palestina, che giudicano indegna dei valori che i combattenti ebrei sostengono di difendere. Altri prendono appunti nell’attesa di testimoniare quando ci sarà il cessate il fuoco.

Yosef Nahmani, ufficiale superiore dell’Haganah [principale milizia armata sionista, legata al partito Laburista, ndt.], la forza armata dell’Agenzia ebraica che diventerà l’esercito israeliano, così scrive nel suo diario, il 6 novembre 1948: “A Safsaf, dopo (…) che gli abitanti hanno sventolato bandiera bianca, (i soldati) hanno riunito separatamente gli uomini e le donne, legato le mani a cinquanta o sessanta contadini e li hanno giustiziati e sepolti tutti in una fossa comune. Hanno anche violentato molte donne del villaggio (…) Dove hanno imparato un comportamento così crudele, simile a quello dei nazisti? (…) Un ufficiale mi ha raccontato che i più spietati sono stati quelli che venivano dai campi [di concentramento].”

In realtà, dal momento in cui la guerra finisce, il racconto dei vincitori si impone e la società civile israeliana affronta numerose altre sfide, molto più urgenti della sorte dei rifugiati palestinesi. Quelli che vorrebbero testimoniare lo fanno attraverso la narrativa e la letteratura.

Così lo scrittore e uomo politico israeliano Yizhar Smilansky fin dal 1949 pubblica Khirbet Khizeh, dove evoca l’espulsione dall’omonimo villaggio arabo. Per l’autore, non c’è nessun bisogno di avere rimorsi su questa parte della storia, questo “lavoro sporco” era necessario per costruire il progetto sionista. La sua testimonianza riflette una sorta di espiazione del peccato: riconoscere i propri torti e svelarli per liberarsi di un peso.

Diventato un successo, il romanzo viene adattato a film per la televisione nel 1977, ma la sua diffusione suscita vivaci dibattiti perché rimette in discussione la versione israeliana di un popolo palestinese partito volontariamente dalle sue terre per non vivere accanto agli ebrei.

Altre opere vengono pubblicate, ma poche danno altrettanta prova di realismo della trilogia di Netiva Ben-Yehuda, pubblicata nel 1984, il cui titolo, tradotto dall’ebraico, è “Il cammino dei legami: romanzo su tre mesi del 1948”. Comandante del Palmach, l’unità d’elite dell’Haganah, evoca le atrocità e le vessazioni commesse contro la popolazione civile araba e fornisce degli elementi sul massacro di Ein Zeintoun, che avvenne intorno al 1^ maggio del 1948.

La focalizzazione su Deir Yassin

Il 4 aprile 1972 il colonnello Meir Pilavski, membro del Palmach, nelle pagine di Yediot Aharonot, uno dei tre principali quotidiani israeliani, si confida sul massacro di Deir Yassin, che ebbe luogo il 9 aprile 1948 e in cui quasi 120 civili persero la vita. Afferma che i suoi uomini si trovarono nei pressi degli avvenimenti, che venne loro consigliato di ritirarsi quando compresero che erano in azione i miliziani dell’Irgun e dello Stern, gruppi di estremisti che si erano separati dall’Haganah.

Da allora le discussioni si concentrano sugli avvenimenti di Deir Yassin, fino al punto di dimenticare le altre circa 70 stragi di civili arabi. La questione è importante per la sinistra sionista: attribuire la responsabilità dei massacri ai gruppi estremisti.

Nel 1987, quando appaiono le prime opere dei “nuovi storici” israeliani, quali quelle di Ilan Pappé, una parte consistente dei battaglioni ebrei del 1948 è messa in discussione. Per chi aveva taciuto durante gli ultimi decenni, è tempo di parlarne pubblicamente.

Anche una parte della società israeliana sembra pronta a capire. Nel contesto della prima Intifada palestinese e dei negoziati che hanno preceduto [gli accordi di pace di] Oslo, gli ambienti pacifisti hanno intenzione di interrogare la loro società sul rapporto con l’Altro e sulla storia nazionale.

Questi spazi di dibattito si chiudono brutalmente con lo scoppio della seconda Intifada, più militarizzata e che si inserisce in un contesto di fallimento dei colloqui di Camp David e di rottura dei negoziati israelo-palestinesi. Il caso Teddy Katz incarna questo cambiamento di contesto.

Il “caso” Teddy Katz

Membro sessantenne di un kibbutz, nel 1985 Teddy Katz decide di riprendere i suoi studi e segue un percorso di ricerca storica all’università di Haifa sotto la direzione di Ilan Pappé. Intende chiarire gli avvenimenti che si sono svolti in cinque villaggi palestinesi, spopolati nel 1948. Realizza 135 interviste a combattenti ebrei, di cui 65 riguardanti la tragedia che avrebbe avuto luogo nel villaggio di Tantura, svuotato dei suoi 1.200 abitanti il 23 maggio 1948 da un battaglione del Palmach.

Dopo due anni di ricerca, nei suoi lavori Katz afferma che da 85 a 110 uomini vennero uccisi a sangue freddo sulla spiaggia di Tantura, dopo aver scavato la propria fossa. La strage continuò in seguito nel villaggio, casa per casa. Una caccia all’uomo si svolse anche nelle strade. Il massacro terminò con l’intervento degli abitanti ebrei del villaggio vicino di Zikhron Yaakov. Alla fine furono uccise più di 230 persone.

Nel gennaio del 2000 un giornalista di Maariv [uno dei principali quotidiani israeliani, considerato indipendente, ndtr.] decide di tornare a visitare alcuni dei testimoni di cui parla Katz. Il principale testimone, Bentzion Fridan, comandante del battaglione del Palmach che ha operato a Tantura, nega tutto e, con altri ufficiali, presenta denuncia contro Katz. Questi deve affrontare una decina di avvocati decisi a difendere l’onore degli “eroi” della Nazione.

Sotto pressione mediatica – che parla di lui come di un “collaborazionista” che racconta la versione del nemico – e giudiziaria, accetta di firmare un documento in cui riconosce di aver falsificato le testimonianze. Benché qualche ora dopo decida di ritrattare e una commissione accademica sia intervenuta in suo favore, la procedura giudiziaria viene chiusa.

Tra il tracollo di Oslo, il ritorno al potere del Likud, il fallimento dei negoziati di Camp David e di Taba, la seconda Intifada e gli attentati kamikaze, la versione palestinese del 1948 non interessa più ai pacifisti israeliani, troppo impegnati per lo più a rientrare nei ranghi per non subire la condanna di una società ripiegata su se stessa.

Testimoniare per i posteri

Nel 2005 il regista Eyal Sivan e l’Ong israeliana Zochrot lavorano al progetto “Towards a Common Archive” [Verso un Archivio Comune], inteso a raccogliere le testimonianze di combattenti ebrei del 1948. Circa una trentina accetta di testimoniare, senza remore o quasi, su quello che ha fatto e visto durante questo periodo ricco di avvenimenti e in cui le narrazioni si scontrano.

Perché qualche anno dopo dei combattenti accettano di testimoniare? Per Pappé, direttore scientifico del progetto, ci sono tre ragioni. In primo luogo la maggior parte è arrivata alla fine della propria vita e quindi non ha più paura di parlare.

In secondo luogo, questi ex-combattenti ritengono di essersi battuti per un ideale che vedono degradarsi con l’ascesa in Israele degli ambienti religiosi, d’estrema destra e dello choc neoliberista imposto da Netanyahu durante i suoi successivi governi. Infine, si sono convinti che prima o poi le giovani generazioni verranno a conoscenza dell’origine dei rifugiati palestinesi e pensano che la trasmissione di questa storia imbarazzante faccia parte della loro responsabilità.

Le testimonianze di questi combattenti non sono omogenee. Alcuni si lasciano andare apertamente, mentre altri non desiderano affrontare certi argomenti. Tuttavia se tutti concordano sulla necessità, nel 1948, di espellere le popolazioni arabe per costruire lo Stato di Israele, le loro opinioni a volte si scontrano sull’utilità di sparare sui civili.

Tutti affermano di aver ricevuto ordini precisi relativi alla distruzione delle case arabe per impedire ogni volontà di ritorno della popolazione esiliata.

La “pulizia” dei villaggi veniva fatta in modo metodico: mentre si avvicinavano al posto, i soldati tiravano o lanciavano delle granate per spaventare la popolazione. Nella maggior parte dei casi questi atti erano sufficienti a far scappare gli abitanti. A volte, era necessario far saltare in aria una o due case all’entrata del villaggio per obbligare a fuggire i pochi che si ostinavano a non scappare.

Riguardo ai massacri, per alcuni questi atti facevano parte delle operazioni di “pulizia”, dato che la direzione del movimento sionista le aveva autorizzate, in certi casi, ad andare oltre questo limite. Il “limite”, appunto, veniva superato sistematicamente quando la popolazione si rifiutava di andarsene, oppure si trincerava per resistere e combattere.

A Lod più di un centinaio di abitanti si rifugiò così nella moschea, credendo alle voci secondo cui i combattenti ebrei non attaccavano i luoghi di culto. Un tiro di lanciarazzi distrusse il loro rifugio, che crollò su di loro. In seguito i corpi vennero bruciati.

Secondo altri, i dirigenti Yigal Allon, capo del Palmach, e David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, si sarebbero opposti a sparare contro i civili, dando l’ordine di lasciarli andare e poi di distruggere le case.

I combattenti testimoniano anche di un atteggiamento contraddittorio dei palestinesi. Nella maggior parte dei casi sembravano “terrorizzati” e completamente sconcertati dagli avvenimenti, il che accelerava il flusso dei rifugiati. Secondo queste testimonianze, alcuni arabi supplicavano i soldati di non far loro “come a Deir Yassin”.

Altri sembravano convinti di poter tornare a casa loro alla fine dei combattimenti, tanto che un testimone afferma che alcuni abitanti del villaggio di Bayt Naqquba lasciarono ai loro vicini ebrei del kibbutz di Kiryat-Avanim, con cui avevano buoni rapporti, le chiavi delle loro case in modo che potessero controllare che niente venisse saccheggiato.

Questi buoni rapporti tra ebrei e arabi ritornano regolarmente, e sono rare le testimonianze che parlano di astio prima dell’inizio della guerra. Durante un’espulsione presso Beersheba, dei contadini palestinesi andarono a chiedere aiuto agli abitanti del vicino kibbutz, che non esitarono a intervenire e a denunciare le azioni dei soldati sionisti.

Più di 60 anni dopo gli eventi, i combattenti non si dimostrano, o lo sono poco, pentiti.  Secondo loro era necessario liberare lo spazio del territorio promesso dall’ONU per fondarvi lo Stato ebraico e far sparire gli arabi dalla scena.

– Thomas Vescovi è docente e ricercatore di storia contemporanea. È autore di “Bienvenue en Palestine” [Benvenuti in Palestina] (Kairos, 2014) e di “La Mémoire de la Nakba en Israël” [La memoria della Nakba in Israele] (L’Harmattan, 2015).

Le opinioni esposte nell’articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Estrema destra israeliana contro conferenza sui bambini palestinesi

Deputati della Knesset interrompono la conferenza sui “Bambini sotto occupazione”

Quattro deputati di destra espulsi dall’auditorium della Knesset dopo aver interrotto una discussa conferenza organizzata dai partiti di sinistra: “Fino a che punto siete disposti a cadere in basso? Fino a portarci il nemico in casa?” ha gridato il deputato del Likud Oren Hazan.

Ynet

Inbar Tvizer – 07/03/2018

La conferenza “Bambini sotto occupazione” ospitata lunedì alla Knesset ha provocato proteste prima ancora del suo inizio, culminate quando quattro membri della Knesset hanno interrotto gli oratori e sono stati espulsi con la forza dall’auditorium dagli addetti alla sicurezza.

La prima conferenza di questo genere è stata promossa da partiti di sinistra per discutere delle conseguenze del conflitto israelo-palestinese sui bambini che vivono in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme est.

Gli organizzatori della conferenza hanno detto che avrebbero discusso dei “diversi aspetti della vita dei bambini sotto occupazione israeliana – povertà, restrizioni negli spostamenti, mancanza di elettricità, di strutture idriche ed educative, così come della detenzione di bambini in base a leggi discriminatorie che rendono difficile per le famiglie riunirsi e dell’influenza del blocco nella Striscia di Gaza.”

La ministra della Cultura e dello Sport Miri Regev [del Likud, partito di destra al potere, ndtr.] ha descritto la conferenza come “una quinta colonna” e il presidente di Yesh Atid [partito di centro all’opposizione, ndtr.] Yair Lapid ha twittato che l’appoggio dell’“Unione Sionista” [coalizione di centro tra il partito Laburista e Kadima, all’opposizione. ndtr.] alla conferenza era un “regalo ai nemici di Israele.”

Alla discussa conferenza erano presenti diplomatici stranieri di stanza in Israele, compresi gli ambasciatori dell’Unione Europea, dell’Olanda e il vice ambasciatore della GB, e hanno esposto il loro punto di vista riguardo al suddetto argomento.

Il parlamentare Oded Forer (di Yisrael Beytenu [Israele Casa Nostra]) [partito nazionalista di estrema destra, al governo, ndtr.] è stato espulso dalla conferenza dopo aver gridato alla deputata Michal Rozin (del Meretz) [partito della sinistra sionista, all’opposizione, ndtr.]: “Dovresti vergognarti. Stai tenendo una conferenza senza menzionare i bambini (israeliani) che sono stati uccisi (dai terroristi palestinesi). È uno schifo.”

Gli addetti alla sicurezza della Knesset hanno espulso anche il deputato Oren Hazan (del Likud) che ha gridato: “Fino a che punto siete disposti a cadere in basso? Fino a portarci in casa il nemico? State danneggiando il (nostro) Paese.”

Il presidente della Knesset Yoel (Yuli) Edelstein ha vietato la proiezione di un video che mostra la vita di bambini palestinesi a confronto con quella di bambini ebrei.

Ciononostante i promotori della conferenza hanno inviato a tutti i partecipanti un link del video. Rozin ha detto: “Mostreremo questo video, che lo vogliano o no.”

“La ministra Miri Regev ci ha chiamati ‘quinta colonna’, Lapid chi ha chiamati ‘un regalo al nemico di Israele’. Pare che le tenere anime dei bambini terrorizzino i servi dell’opinione pubblica,” ha attaccato Rozin.

“Le loro reazioni non sono patriottiche e non riflettono l’amore per Israele. Siete quelli che mandano i (nostri) soldati a mettere in pratica questa politica e non avete il diritto di chiudere i vostri occhi e ignorare le sue implicazioni.”

Il capogruppo della “Lista Unitaria” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, all’opposizione, ndtr.] Ayman Odeh ha ringraziato la deputata Ksenia Svetlova (dell’Unione Sionista), che è stata una degli organizzatori della conferenza e l’unica del suo partito che l’ha sostenuta, per “non essersi arresa alle pressioni messe in atto contro di lei dall’opposizione.”

Un altro importante organizzatore della conferenza, il deputato Dov Khenin (della Lista Unitaria), ha detto: “L’attacco della destra radicale contro questa conferenza mostra che l’occupazione non può essere o considerata separatamente dallo spazio democratico in Israele.”

“(Quelli che ci attaccano) si stanno scontrando con il nostro diritto e dovere come membri della Knesset di esprimere le nostre posizioni. Continueremo ad essere conseguenti con la nostra posizione e non cederemo,” ha garantito il deputato.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




L’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Sono le colonie, stupido: l’insuccesso al Consiglio di Sicurezza è totalmente di Netanyahu

Per otto anni gli USA hanno messo in guardia Netanyahu che la sua politica avrebbe avuto un costo, ma lui ha preferito tenersi buona la lobby delle colonie piuttosto che fare un piano di azione. Può dare la colpa solo a se stesso.

Haaretz

Di Barak Ravid – 24 dicembre 2016

Solo un’ora dopo il voto di venerdì al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Ben Rhodes, consigliere del presidente Barak Obama, ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha spiegato perché gli Stati Uniti non hanno posto il veto sulla risoluzione riguardante le colonie. Rhodes ha risposto alle domande per un’ora, ma le sue osservazioni possono essere riassunte in questo modo: abbiamo messo in guardia Netanyahu per otto anni che questo è ciò che sarebbe successo. Non ci ha ascoltati: ora può dare la colpa solo a se stesso.

La descrizione di Rhodes è esatta. Il fatto che gli USA si siano astenuti non dovrebbe sorprendere nessuno, soprattutto non il primo ministro israeliano. Il vecchio luogo comune a proposito di quello che si può prevedere non è mai stato così vero. Infatti, è stato lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu che lo ha scritto sul muro con le sue iniziative negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi. La risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è una sua sconfitta personale.

Dalle ultime elezioni, e soprattutto l’anno scorso, il governo di Netanyahu ha condotto una politica di notevole accelerazione della costruzione nelle colonie, demolizione di case palestinesi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, il territorio della Cisgiordania sotto totalmente controllata da Israele. Ndtr.] e di autorizzazione di colonie illegali. La saga riguardante l’evacuazione di Amona [avamposto illegale dei coloni che la Corte Suprema israeliana ha ordinato di evacuare. Ndtr.] e la legge nota come “Legge della regolarizzazione” [legge che intende legalizzare retroattivamente Amona ed altri avamposti. Ndtr.] è l’apice di questa tendenza. Netanyahu, insieme al ministro dell’Educazione Naftali Bennett e della Giustizia Ayelet Shaked, ha fatto tutto il possibile per spingere Obama al Consiglio di Sicurezza.

Durante tutti questi mesi la comunità internazionale non è stata per niente indifferente. Il rapporto del Quartetto sulla pace in Medio Oriente, reso pubblico in luglio, ha messo in guardia proprio sui punti inclusi nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Da allora, praticamente ogni settimana, il Dipartimento di Stato USA ed i ministri degli Esteri delle potenze occidentali hanno diramato condanne sempre più severe della politica di colonizzazione del governo israeliano, avvertendo che minacciava di seppellire la soluzione dei due Stati. Ogni mese il Consiglio di Sicurezza ha tenuto un incontro nel quale ha chiesto ai rappresentanti di molti Paesi di prendere decisioni relative alle colonie.

Netanyahu lo sapeva. Ha ricevuto una serie di documenti riservati dal ministero degli Esteri e dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale che lo avvertivano di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a cui gli USA non avrebbero posto il veto. Lui stesso lo ha dichiarato pubblicamente e in discussioni riservate dozzine di volte negli ultimi mesi e lo ha citato dalla tribuna dell’ONU in settembre. Netanyahu sapeva anche molto bene quanto fossero precari i rapporti con Obama e quanto scarsa fosse la sua capacità di influenzarne le decisioni.

Invece di fare un piano d’azione, Netanyahu si è occupato di Amona, Amona e ancora Amona. Invece di cambiare politica per evitare una disfatta diplomatica e un danno a livello internazionale per Israele, Netanyahu ha preferito tenersi buona la lobby dei coloni per poter sopravvivere politicamente. Sapeva che avrebbe pagato un prezzo per le sue azioni, ma ha agito come se tutto andasse bene. Una persona che sa tutto questo e continua con la stessa politica è affetto da una mancanza di discernimento e di responsabilità, o è semplicemente un giocatore d’azzardo compulsivo.

Solo mercoledì Netanyahu ha fatto un’apparizione arrogante sulla sua pagina Facebook privata. Di fronte alla camera da presa, il primo ministro di Israele ha superato se stesso nell’autocelebrazione, informando tutti quelli che lo guardavano che la posizione internazionale di Israele non era mai stata migliore. Quarantotto ore dopo si è scoperto che le parole di Netanyahu erano avulse dalla realtà.

Netanyahu ha ragione quando afferma che Israele è corteggiato da molti Paesi, ma sbaglia e si inganna riguardo a quanto pesino duramente su Israele 50 anni di occupazione. Una solida maggioranza di Paesi che hanno votato per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non è anti-israeliana o antisemita. Il messaggio del loro voto è semplice: sono le colonie, stupido.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza rivela ancora una volta quanto chiaro e netto sia il consenso internazionale contro le colonie. Non si tratta solo di Obama. Ha votato a favore [della risoluzione] il governo inglese di destra del primo ministro Theresa May e del ministro degli Esteri Boris Johnson.  Lo stesso hanno fatto i governi di Spagna e Russia, del presidente Vladimir Putin, buon amico di Netanyahu, e la Cina, di cui Bennett e altri ministri dicono che non si interessa dei palestinesi ma solo della tecnologia israeliana, e la Nuova Zelanda, il cui capo del governo di destra, Bill English, nel 2003 aveva attaccato il ministro degli Esteri del suo Paese per aver abbracciato Yasser Arafat.

Il primo ministro si consolerà sicuramente per il fatto di essere riuscito a portare dalla sua parte la persona che il prossimo mese sarà presidente degli USA. Non è sicuro che si tratti di una cosa di cui possa essere fiero. Netanyahu ha ingannato Donald Trump e gli ha provocato la prima sconfitta diplomatica.  Tranne che il presidente egiziano, nessun altro leader di un Paese del Consiglio di Sicurezza ha tenuto conto di Trump.

Dopo questo episodio, Netanyahu è in debito con Trump persino prima che quest’ultimo inizi il suo mandato. E’ in debito per averlo fatto perdere. E Trump non ama perdere. Anche la risposta del presidente eletto è interessante: Trump non ha attaccato la risoluzione, né ha difeso le colonie: lo ha fatto con una dichiarazione piuttosto laconica.

Prima e dopo il voto, il primo ministro si è lasciato andare ad una campagna di attacchi contro Obama che sembrano notizie false su un sito delirante della destra negli USA. L’accusa più stravagante è stata che Obama era parte di una cospirazione con i palestinesi, ha di fatto abbandonato Israele e l’ha colpito alle spalle. Sì, lo stesso Obama che solo poche settimane fa ha dato ad Israele 38 miliardi di dollari in aiuti per la sicurezza. Netanyahu non ha osato dire di Putin, May o del presidente cinese Xi Jinping  neppure un decimo di queste cose. Ci sono molti precedenti di presidenti americani che si sono astenuti all’ONU su risoluzioni riguardanti Israele. Non ci sono precedenti del modo in cui Netanyahu ha agito nei confronti di Obama.

Netanyahu può cercare di accusare Obama, Mahmoud Abbas, la sinistra e persino il tempo o il mufti per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma ciò non potrà eliminare la disfatta diplomatica di venerdì. Alla fine, è successo per responsabilità di Netanyahu.

E’ ad avvenimenti del genere che l’ex-primo ministro e ministro della Difesa Ehud Barak faceva riferimento quando ha parlato di uno tsunami diplomatico. Barak lo ha anche riassunto bene sul suo account Twitter durante il fine settimana: “Sconfitta senza precedenti al Consiglio di Sicurezza. Il primo ministro deve cacciare il suo ministro degli Esteri.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama

La risoluzione ONU: una vendetta personale di Obama contro Netanyahu

Middel East Eye

Yossi Melman – Sabato 24 dicembre 2016

Il primo ministro israeliano, abituato all’appoggio incondizionato degli USA, è rimasto colpito dall’iniziativa di Obama. Se ne farà una ragione.

La risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di venerdì, che denuncia le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata (che sono illegali in base alle leggi internazionali e un ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese) è stata uno shock per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il suo governo di destra.

Fino all’ultimo minuto hanno sperato che in qualche modo, deus ex machina, Washington avrebbe posto il veto sulla proposta. Ma gli Usa si sono astenuti, consentendo l’adozione della risoluzione da parte degli altri 14 membri del consiglio.

Non è la prima volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva una risoluzione contro l’occupazione israeliana e la sua politica illegale di costruzione ed espansione delle colonie ebraiche. Ma in questa occasione la risoluzione è molto più mirata. Sottolinea il ruolo distruttivo giocato dalle colonie nel dividere e controllare la Cisgiordania per impedire la nascita di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

E’ stata anche la prima risoluzione dal 1980 su cui gli USA non hanno posto il veto o impedito che venisse proposta.

La decisione degli USA di astenersi riflette una politica di lunga durata contraria alle colonie. Ma si è trattato anche un atto di vendetta e di ritorsione personale del presidente Obama contro Netanyahu. La Casa Bianca usa un eufemismo quando sostiene che la politica delle colonie da parte di Netanyahu è stata responsabile della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fin dal primo momento di Obama alla Casa Bianca, Netanyahu ha cospirato contro di lui con la maggioranza repubblicana del Congresso USA. Nonostante sia stato uno dei presidenti che più ha sostenuto e generosamente finanziato Israele, Obama è stato detestato da un ingrato Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha ripetuto continuamente il suo sostegno alla soluzione dei due Stati, ma ha fatto tutto quanto gli era possibile per sabotarla. Ha anche cospirato con il partito Repubblicano per far fallire l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i “P5 più uno” – cioè, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania.

Netanyahu e il suo governo, preso in ostaggio anni fa dai coloni, che rappresentato appena il 10% della popolazione ebraica di Israele, ha ignorato il fatto che la risoluzione è equilibrata. Chiede ai palestinesi di bloccare gli incitamenti alla violenza e il terrorismo.

Eppure Netanyahu ha espresso tutta la sua rabbia e frustrazione verso Obama stravolgendo la verità e accusandolo di aver deviato dalla “tradizione” politica USA di appoggiare sempre Israele. Il borioso Netanyahu si è autoconvinto che l’appoggio incondizionato degli USA è uno dei Dieci Comandamenti.

Paralizzato dal suo timore verso Vladimir Putin, che egli ha ripetutamente elogiato e descritto come un amico, Netanyahu ha totalmente ignorato il fatto che anche la Russia ha appoggiato la risoluzione.

In un messaggio personale, Netanyahu ha promesso di ignorare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e per ritorsione ha richiamato l’ambasciatore israeliano in Nuova Zelanda e quello in Senegal, due Nazioni che hanno proposto la mozione.

Riguardo alle implicazioni della risoluzione su Israele e la Palestina, si tratta di un’arma a doppio taglio. Innanzitutto, la risoluzione non fa riferimento al capitolo sette della Carta dell’ONU, che parla di “minacce per la pace” e quindi è ben lungi dall’imporre sanzioni internazionali su Israele o sulle sue colonie.

Singole Nazioni possono utilizzare la risoluzione come una base legale per giustificare la propria decisione di boicottare le colonie e persino Israele. Ma lo faranno, e in che misura? La risoluzione funge anche da impulso per il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che prende di mira le colonie e Israele.

La risoluzione è anche una vittoria per l’anziano presidente palestinese Mahmoud Abbas e per la sua strategia di utilizzare l’arena diplomatica per combattere l’occupazione. Abbas è stato recentemente sottoposto a terribili pressioni all’interno del suo stesso movimento, Fatah, e della più ampia Organizzazione per la Liberazione della Palestina perché desse le dimissioni a causa del fallimento delle sue politiche e per non essere riuscito ad avvicinare i palestinesi alla creazione di uno Stato.

Ma è prematuro che i palestinesi si rallegrino. Una volta superato lo shock, Netanyahu si sposterà probabilmente ancora più a destra e costruirà ancora più colonie. Crede che il prossimo mese, quando Donald Trump entrerà nello Studio Ovale [l’ufficio del presidente alla Casa Bianca. Ndtr.], Israele avrà mano libera per fare tutto quello che vuole.

– Yossi Melman  è un commentatore in materia di sicurezza e di intelligence e co-auotore di “Spie contro l’Armageddon”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ “israelizzazione” di Gerusalemme non ha funzionato

L’ “israelizzazione” di Gerusalemme è un progetto che non ha funzionato. L’ultimo attacco lo testimonia.

Meron Rapoport

Middle East Eye – martedì 11 ottobre.

 

Israele sostiene di aver convinto i palestinesi di Gerusalemme a preferire il suo dominio. L’attacco di domenica, ampiamente appoggiato dalla maggior parte dei palestinesi, dimostra il contrario.

Via Haim Bar Lev, la strada a più corsie meglio nota come “Strada n. 1”, collega la città vecchia di Gerusalemme ai suoi quartieri settentrionali. Corre per lo più parallela al confine precedente al 1967, prima che Israele occupasse ed annettesse le zone palestinesi della città, allora sotto controllo giordano.

Costruita 20 anni fa, è stata parte dei tentativi di integrare il centro di Gerusalemme con i nuovi quartieri ebraici costruiti sulla “Linea Verde” [il confine tra Israele e Giordania precedente al 1967. Ndtr.], con lo scopo di circondare i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord e consolidare l’idea di una Grande Gerusalemme sotto il perenne dominio ebraico-israeliano.

La metropolitana leggera, costruita un decennio fa, era stata pensata come un altro tentativo di “unificare” Gerusalemme, mettendo in collegamento gli estesi quartieri annessi, in cui vivono circa 100.000 israeliani, al cuore della città, passando attraverso i quartieri densamente abitati dai palestinesi. Il percorso della metropolitana leggera corre lungo la “Strada n.1”, associando i vecchi tentativi di “unificazione” con quelli nuovi.

Progetto fallito

Cosa abbastanza interessante, Misbah Abu Sbeih, un attivista islamista del quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, ha iniziato il suo attacco a mano armata di domenica in una stazione della metropolitana leggera situato sulla “Strada n.1”, uccidendo un’ebrea sessantenne e, in seguito, un ufficiale di polizia israeliano.

Non era la prima volta che sia la metropolitana leggera che la “Strada n.1” sono state il bersaglio di attacchi palestinesi. Dopo il brutale assassinio del giovane Muhammed Abu Khdeir [bruciato vivo dai suoi rapitori. Ndtr.] da parte di estremisti ebrei due anni fa, i quartieri palestinesi di Gerusalemme nord sono esplosi con rabbia.

Molte delle azioni violente dell’attuale haba (“sfogo” in arabo) o “Intifada dei coltelli” palestinese, iniziata esattamente un anno fa a Gerusalemme, hanno avuto luogo in vari punti lungo la “Strada n.1”. I veri e propri simboli dei tentativi di unificare e “israelizzare” Gerusalemme sono diventati i luoghi caldi della violenza e della morte.

Nonostante la sua pretesa di rappresentare Gerusalemme, con le zone annesse, come una città unificata, per molti anni Israele ha ignorato Gerusalemme est, forse nella speranza che i suoi abitanti avrebbero preferito emigrare, rafforzando così il controllo di Israele su quelle aree. Ciò è stato molto evidente nelle restrizioni sulle costruzioni palestinesi in città. Almeno un terzo delle unità immobiliari di Gerusalemme est sono state costruite senza permessi.

Pur rappresentando circa il 40% degli 830.000 abitanti della città, i quartieri palestinesi ricevono solo il 10% del bilancio municipale, a volte anche meno, determinando il più alto livello di povertà in Israele, un impressionante 75.3% di popolazione sotto il livello di povertà a Gerusalemme est.

L’attuale sindaco, Nir Barkat, eletto otto anni fa, ha apparentemente tentato di cambiare questa situazione. Barkat, strenuo oppositore di ogni concessione politica ai palestinesi di Gerusalemme, ha sostenuto che solo migliorando le condizioni di vita nei quartieri palestinesi Israele avrebbe potuto affermare la propria sovranità indiscutibile sulla città.

Durante il mandato di Barkat gli investimenti a Gerusalemme est sono aumentati e la stampa israeliana si è riempita di articoli sul processo di “israelizzazione” attraverso il quale molti palestinesi gerosolimitani sono stati formati e poi assunti.

Una ricerca condotta dal “Washington Institute” [centro studi statunitense sulla politica in Medio Oriente. Ndtr.] nel 2011 – che ha rilevato che il 40% dei palestinesi di Gerusalemme avrebbe preferito la cittadinanza israeliana piuttosto che quella palestinese – è stata vista come una prova che questo processo di “israelizzazione” era in corso. Un recente sondaggio ha dato persino un dato più alto, il 52%, che sceglierebbe di essere israeliano se Gerusalemme fosse divisa tra Israele e un futuro Stato palestinese.

Gerusalemme instabile

Che i sondaggi siano giusti o sbagliati, è assolutamente evidente che questo presunto processo di “israelizzazione” è stato molto limitato. Come ha dimostrato Aviv Tartasky, un ricercatore dell’organizzazione per i diritti umani “Ir Amim” a Gerusalemme, le autorità israeliane non sono realmente pronte a “pagare il prezzo” di un vero e significativo coinvolgimento dei palestinesi nella vita cittadina di Gerusalemme.

Ogni tentativo dei palestinesi di chiedere pari diritti, persino legittimando implicitamente la sovranità israeliana in questa città contesa, è stato liquidato o persino umiliato.

Nonostante questo presunto processo di “israelizzazione”, o forse a causa di ciò, Gerusalemme è il luogo più instabile di tutte le zone palestinesi. Nel luglio 2014 Shu’afat e altri quartieri di Gerusalemme nord hanno iniziato la loro mini-intifada dopo l’uccisione del giovane Abu Khdeir.

Nell’ottobre 2015 un accoltellamento nella Città Vecchia è stato il segnale d’inizio dell'”Intifada dei coltelli”, che continua tuttora a fasi alterne. Proprio il luogo che Israele voleva “israelizzare” è diventato la culla dell’attuale ondata di violenza.

Questa è stata di nuovo una sorpresa per le autorità israeliane. Solo un mese fa, Barkat si è vantato con attivisti del Likud [il suo partito, di destra e al governo nazionale. Ndtr.] che Israele era riuscito a ripristinare la tranquillità a Gerusalemme est grazie alla sua politica ” del bastone e della carota”, riferendosi alla chiusura e ad altre punizioni collettive inflitte ai quartieri palestinesi dopo la prima ondata di accoltellamenti.

“Gli abitanti cattivi ora capiscono..che non conviene stare dalla parte del male,” ha detto, secondo quanto citato da Haaretz.

Il suo vice, Meir Turgeman, che è anche a capo della commissione edilizia locale, è stato ancora più esplicito: “Abbiamo sempre vissuto con la falsa speranza che se avessimo aiutato questo popolo (i palestinesi), esso avrebbe cambiato il suo comportamento animalesco,” ha detto Turgeman dopo gli omicidi di domenica, “ora risulta che non è servito.”

Come risposta all’aggressione, Turgeman ha anche annunciato che bloccherà ogni permesso di costruzione per i palestinesi.

Sogni rinviati

Ohad Hemo, corrispondente di “Canale 2″ [televisione privata. Ndtr.] israeliano, ha sostenuto che l’ascesa di Hamas e di altri gruppi islamisti a Gerusalemme è, in buona misura, prodotta da Israele. Secondo Hemo, il fatto che Israele abbia espulso l’Autorità Nazionale Palestinese da Gerusalemme est, un processo che è iniziato con la chiusura dell'”Orient House” [sede dell’OLP a Gerusalemme. Ndtr.] nel 2001, ha determinato un vuoto in cui Hamas si è infiltrato.

Abu Sbieh, l’aggressore di domenica, era attivo in varie organizzazioni islamiste. Era noto in tutta Gerusalemme est come il “leone di Al-Aqsa”, per la sua partecipazione in vari incidenti con poliziotti israeliani e attivisti di destra ebrei all’interno ed attorno a quello che i musulmani chiamano ” Haram a-Sharif” [la Spianata delle Moschee. Ndtr.] e che gli ebrei chiamano “Il Monte del Tempio”.

L’identificazione come difensore di Al-Aqsa contro i tentativi israeliani di modificare lo status del luogo sacro ad entrambi – sicuramente la questione più delicata per i palestinesi a Gerusalemme ed altrove – spiega l’ampio appoggio che l’azione di Abu Sbieh ha ricevuto a Gerusalemme est. Se c’è stato sconcerto tra l’opinione pubblica palestinese riguardo al coinvolgimento di palestinesi molto giovani, a volte persino bambini di 12 anni, in episodi di accoltellamento, questo non è il caso di Abu Sbieh.

Abu Sbieh. 39 anni, è lontano dal profilo medio dei palestinesi che hanno partecipato agli attacchi, reali o presunti, contro forze di sicurezza o civili israeliani. Il fatto che abbia usato un fucile automatico F16 può indicare che non si sia trattato solo di un altro attacco improvvisato e spontaneo. E’ più simile a quelli della Seconda Intifada che a quello cui abbiamo assistito lo scorso anno.

E’ troppo presto per dire se l’incidente di domenica segnerà davvero un punto di svolta verso uno scontro più violento tra israeliani e palestinesi. Persistono illazioni sui suoi reali motivi.

Ma ancora una volta Gerusalemme ha dimostrato che, soggetta all’attuale politica israeliana, ci sono molte più probabilità che possa diventare teatro di violenze, minacciando si espandersi in altri territori palestinesi, piuttosto che un laboratorio di “israelizzazione” forzata.

Meron Rapoport  è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del “Premio internazionale Napoli per il Giornalismo” per un’inchiesta sul furto di ulivi a danno di proprietari palestinesi. E’ stato capo della redazione notizie di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)