Un documento secretato rivela che le “zone di tiro” dell’IDF sono costruite per dare terra ai coloni

In una riunione top secret tenutasi nel 1979, qui per la prima volta svelata, l’allora Ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò che le zone di tiro avevano lo scopo di creare “riserve di terra” per gli insediamenti coloniali, nel contesto del suo più ampio piano di stabilire “confini etnici” tra ebrei e palestinesi.

Yuval Abraham

11 luglio 2022 –  +972 Magazine

Un documento inedito rivela che Israele ha creato “zone di tiro militari” nella Cisgiordania occupata come meccanismo per trasferire terreni agli insediamenti coloniali. Quelle zone di tiro, istituite apparentemente ai fini di addestramento militare, sono state realizzate nell’ambito di una strategia più ampia rivolta a creare un “confine etnico” tra ebrei e palestinesi.

Secondo il verbale di una riunione “top secret” del 1979 della Settlement Division della World Zionist Organization [la Divisione per le colonie, è un ente privato che agisce nell’ambito dell’Organizzazione Sionista Mondiale ma è interamente finanziato da fondi pubblici israeliani. Agisce come agente governativo nell’assegnazione di terre ai coloni ebrei in Cisgiordania, ndt.] che lavora in tandem con il governo israeliano, l’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò come la realizzazione di zone di tiro in tutta la Cisgiordania avesse come unico obiettivo finale quello di fornire la terra ai coloni israeliani.

“Essendo la persona che ha fatto nascere nel 1967 le zone di tiro militari, ho voluto destinarle tutte a uno scopo: fornire un’opportunità per l’insediamento coloniale ebraico nell’area”, disse Sharon durante la riunione. “Non appena la Guerra dei Sei Giorni finì, ero ancora di stanza nel Sinai con la mia divisione. Quando ho disegnato queste zone mi trovavo nel Sinai. Le zone di tiro sono state create per uno scopo: costituire delle riserve di terra per le colonie”.

40 anni dopo, le osservazioni di Sharon hanno avuto conseguenze di vasta portata, poiché migliaia di palestinesi a Masafer Yatta, nelle grandi colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano sono attualmente sotto diretta minaccia di espulsione dopo che la loro terra è stata dichiarata zona di tiro militare.

La Divisione delle Colonie si era riunita per discutere la creazione di insediamenti coloniali nelle aree della valle del Giordano dichiarate zone di tiro, e quindi chiuse ai palestinesi. Sharon rese noto di aver delineato i confini delle zone di tiro sin dall’inizio e ordinato il trasferimento delle basi militari in Cisgiordania in modo che la terra fosse sequestrata a fini di insediamento coloniale.

Sharon sarebbe diventato ancora più esplicito riguardo ai suoi piani per le zone di tiro. Solo due anni dopo, durante un altro incontro della Divisione per le Colonie, il ministro affermò che era stata decisa [la realizzazione, ndt.] della zona di tiro 918 al di sopra di Masafer Yatta [insieme di 19 frazioni palestinesi nelle colline meridionali di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndt.] per fermare la “diffusione degli abitanti dei villaggi arabi sul fianco della montagna verso il deserto”. A maggio l’Alta Corte israeliana ha dato il via libera all’espulsione di oltre 1.000 palestinesi da otto villaggi di Masafer Yatta per consentire all’esercito di addestrarsi nell’area.

All’udienza dell’Alta Corte lo Stato ha affermato che la distruzione di queste comunità – che gli abitanti affermano essere lì almeno dalla fine del 19° secolo – è necessaria per l’addestramento. La scorsa settimana l’esercito ha iniziato a inviare carri armati, impiegare armi da fuoco e posizionare mine vicino alle case del villaggio.

Protezione delle periferie ebraiche

Due ulteriori documenti portati alla luce da +972 fanno chiarezza sulla motivazione politica alla base della creazione di colonie e zone di tiro nelle colline meridionali di Hebron. In base a quanto dichiarato da Sharon, egli ha cercato di creare una “zona cuscinetto” tra i cittadini beduini di Israele nel Negev/Naqab e gli abitanti palestinesi della Cisgiordania meridionale, dove si trova Masafer Yatta.

“Esiste un fenomeno, in corso da diversi anni, di contiguità fisica tra la popolazione araba del Negev e gli arabi delle colline di Hebron. Si è creata una situazione in cui il confine [della terra di proprietà araba] si è spinto più profondamente nel nostro territorio”, disse Sharon al comitato nel gennaio 1981. “Dobbiamo creare rapidamente una zona cuscinetto di insediamenti coloniali che si insinui tra le colline di Hebron e la comunità ebraica del Negev. Sharon è arrivato persino a etichettare questa zona cuscinetto come un “confine etnico” che avrebbe impedito ai palestinesi della Cisgiordania di raggiungere la “periferia di Be’er Sheva [città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, ndt.]”.

I verbali di un incontro del 1980 rivelano come Sharon ritorni sulla stessa questione: “A Hura [una cittadina beduina nel Negev/Naqab] c’è una comunità araba in crescita di migliaia di persone. Questa comunità ha contatti con la popolazione araba delle colline meridionali di Hebron. Pertanto il confine passerà praticamente nelle vicinanze di Be’er Sheva, vicino a Omer [una ricca città del Negev-Naqab]. Supponiamo che io aggiunga altre decine di migliaia di ebrei a Dimona o Arad [due città operaie nel sud di Israele], e che li voglia lì. Come colmerò questo divario? Come farò a creare un cuneo tra i beduini del Negev e gli arabi delle colline meridionali di Hebron?

Sharon avrebbe presto avuto una risposta alla sua domanda. Quell’anno Israele dichiarò 30.000 dunam [3.000ettari] di terra nella punta meridionale della Cisgiordania delle zone di tiro militari. Come Sharon aveva ben chiaro, queste zone furono realizzate come confini etnici: a sud delle zone militari c’erano dozzine di villaggi beduini non riconosciuti all’interno di Israele, mentre a nord e ad ovest c’erano le città palestinesi e le cittadine delle colline a sud di Hebron. All’interno della zona militare rimasero le migliaia di palestinesi che ora devono affrontare un trasferimento di popolazione.

Durante queste discussioni Sharon stabilì persino la creazione di nuovi insediamenti coloniali ebraici nel Negev-Naqab, come Meitar, così come nelle colline occupate a sud di Hebron, come Maon e Susiya, che avrebbero fatto parte della stessa zona cuscinetto.

Per Sharon, come per molti altri leader israeliani, la nozione stessa di territorio arabo contiguo era una minaccia diretta alle ambizioni dello Stato di controllare quanta più terra possibile su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.]. Ancora oggi, le colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Negev/Naqab rimangono una parte cruciale della strategia di controllo di Israele.

Un segreto di Pulcinella

Secondo un rapporto di Kerem Navot, un’organizzazione [israeliana, ndr.] che tiene traccia degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, nel 2015 circa il 17% della Cisgiordania è stata designata come sede di varie zone di tiro militari, in particolare nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e lungo il confine orientale con la Giordania. La maggior parte di queste assegnazioni furono fatte immediatamente dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 e all’inizio degli anni ’70. Secondo il rapporto l’esercito utilizza solo il 20% circa di queste zone per l’addestramento.

Alcuni esempi recenti mostrano che Israele si sta spingendo ancora più in là dei cuscinetti etnici di Sharon tra ebrei e palestinesi. Oggi i palestinesi in tutta la Cisgiordania vengono espulsi dalle zone di tiro, mentre i coloni stanno lentamente prendendo il loro posto.

Nell’ultimo decennio, ad esempio, i coloni hanno stabilito 66 cosiddetti avamposti agricoli, che occupano enormi appezzamenti di terra in Cisgiordania, nonostante abbiano pochi residenti. Circa un terzo di quel territorio, 83.000 dunam [8.300 ettari], che i coloni hanno conquistato attraverso il pascolo, si trovano all’interno di zone di tiro militari. Queste aree – almeno sulla carta – dovrebbero essere chiuse sia agli ebrei che ai palestinesi. I soldati israeliani nella Valle del Giordano hanno persino ammesso apertamente che consentono ai coloni di utilizzare le zone di tiro, mentre vietano ai palestinesi di fare lo stesso.

Dror Etkes, a capo di Kerem Navot, ha detto a +972 che negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo del subentro di coloni nelle zone di tiro. “Questa è la logica conseguenza di quanto fece Ariel Sharon 55 anni fa. Le fattorie avamposto coloniale sono state progettate in modo tale da consentire l’occupazione di vaste aree di pascolo, che nell’agosto del 1967 erano state dichiarate zone di tiro militari”, afferma Etkes.

Questo meccanismo si sta ripetendo nelle colline meridionali di Hebron. L’anno scorso la Divisione per le Colonie ha assegnato un terreno nella zona di tiro 918 a uno dei coloni che vivono nelle vicinanze. Le foto aeree mostrano che nella zona di tiro sono state costruite nuove strutture appartenenti a tre avamposti coloniali – Mitzpe Yair, Avigayil e Havat Ma’on – stabiliti nell’area nel 2000. L’anno scorso, i coloni hanno persino cercato di realizzare un nuovissimo avamposto coloniale direttamente all’interno della zona di tiro.

Che le zone di tiro siano utilizzate per rafforzare il progetto di colonizzazione e l’espropriazione della popolazione nativa dei territori occupati è ormai un segreto di Pulcinella e tutti vi sono coinvolti, tranne i palestinesi.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un tribunale tedesco sentenzia che la Deutsche Welle ha licenziato illegalmente una giornalista palestinese

Ali Abunimah

8 luglio 2022 – Electronic Intifada

In Germania un tribunale ha dichiarato che la Deutsche Welle [emittente informativa pubblica tedesca, ndtr.] ha illegalmente licenziato una giornalista palestinese in base a false accuse di antisemitismo.

Maram Salem ha fatto parte di un gruppo di giornalisti arabi licenziati dalla rete pubblica in seguito a una campagna ufficiale di calunnie che li accusava di fanatismo antiebraico per le loro affermazioni o critiche riguardo ad Israele.

Mercoledì il tribunale del lavoro di Bonn ha sentenziato che il licenziamento di Salem non è valido.

Secondo una dichiarazione del suo avvocato, Ahmed Abed, “durante l’udienza il tribunale ha stabilito che i post su Facebook di cui era accusata non erano antisemiti e la rescissione del contratto è stata illegittima.”

La dichiarazione aggiunge che Salem “ha spiegato di essere da molto tempo una sostenitrice dei diritti delle donne, dei diritti dell’uomo, degli animali e LGBTQ e che le accuse l’hanno profondamente ferita. Ha chiesto alla DW di assumersi le proprie responsabilità, scusarsi pubblicamente e ritirare le accuse.”

Il comunicato afferma che il tribunale ha rigettato le accuse di antisemitismo degli investigatori Ahmad Mansour, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger e Beatrice Mansour.

Ahmad Mansour, uno psicologo tedesco palestinese in stretto rapporto con la lobby israeliana, e Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ex-ministra della giustizia tedesca, erano stati incaricati da Deutsche Welle di indagare in merito al presunto antisemitismo all’interno dell’emittente.

Le opinioni anti-musulmane, anti-arabe e filoisraeliane di Mansour ne hanno fatto uno dei beniamini dei media tedeschi e di istituzioni finanziate dallo Stato.

A febbraio Deutsche Welle ha licenziato Salem insieme a vari altri giornalisti sulla base del loro rapporto. Secondo la dichiarazione del suo avvocato, la Deutsche Welle, che si maschera da campione della libertà di parola e di stampa, ha cercato di dipingere come antisemita la citazione di Salem riguardo all’“illegale occupazione israeliana”.

“Il verdetto dimostra che le campagne di diffamazione contro donne palestinesi come me o Nemi El-Hassan non hanno più successo,” afferma Salem. “Fin dall’inizio era chiaro che sono innocente.” El-Hassan è una giornalista tedesca di origini palestinesi a cui è stato annullato un programma scientifico da un’altra emittente, la Westdeutscher Rundfunk.

La presunta infrazione di El-Hassan è stata “linkare” post Instagram sull’account di Jewish Voice for Peace, ben nota associazione con sede negli USA che si impegna per i diritti dei palestinesi e si oppone al sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele.

“Il tribunale del lavoro di Bonn ha messo in chiaro che le gravi accuse di antisemitismo contro Maram sono assolutamente prive di fondamento,” afferma l’avvocato Abed. “Ora la Deutsche Welle dovrebbe proteggere Maram invece di piegarsi alle provocazioni.”

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo per il Sostegno Legale], un’associazione che lotta contro la repressione nei confronti dei palestinesi attraverso il ricorso ai tribunali, ha salutato la vittoria di Salem come il “primo successo nella causa della Deutsche Welle.”

Anche Farah Maraqa, giornalista palestinese giordana licenziata nel corso della caccia alle streghe contro gli arabi, ha denunciato la Deutsche Welle. La sua causa è ancora in corso.

L’appoggio incondizionato nei confronti di Israele è visto dalla dirigenza tedesca come una forma di riparazione per l’uccisione di milioni di ebrei europei da parte del governo tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

Di conseguenza le istituzioni tedesche reprimono i palestinesi e i sostenitori dei loro diritti facendo ricorso a intimidazioni giudiziarie, calunnie, censura e violenze.

L’impegno tedesco nel sostegno ai crimini di Israele contro i palestinesi è talmente inflessibile da consentire a Israele di uccidere nella totale impunità cittadini tedeschi, compresi minorenni.

Ma, in un segnale di speranza che democrazia e diritti umani possano essere possibili in Germania, i tribunali hanno reagito contro la repressione anti-palestinese.

Con un’altra recente sconfitta della censura ufficiale, la città di Stoccarda ha riconosciuto di aver illegittimamente cancellato dal proprio sito web un’informazione relativa a un’associazione locale di sostegno ai palestinesi.

L’amministrazione cittadina ha ottemperato a una sentenza del tribunale e ripubblicato l’ informazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Politica USA su Israele-Palestina: cosa (non) è cambiato con Biden

In occasione del viaggio di Joe Biden in Israele e Palestina Al Jazeera ha paragonato le sue politiche alle strategie di Donald Trump.

Ali Harb

12 luglio 2022 – Al Jazeera

Il presidente Joe Biden, che si definisce sionista, è spesso citato dai suoi più importanti consiglieri per aver detto che se non ci fosse Israele gli Stati Uniti dovrebbero inventarne uno.

Così, quando è salito alla Casa Bianca, i difensori dei diritti umani palestinesi e gli elettori arabo-americani che l’avevano sostenuto, non nutrivano grandi aspettative di cambiamento sotto la sua guida circa la posizione USA verso Israele.

Comunque, fra le promesse durante la campagna di Biden e quelle degli inizi della sua presidenza di portare avanti una politica estera incentrata sui diritti umani, molti avevano sperato che il presidente avrebbe almeno ribaltato alcune delle decisioni del suo predecessore Donald Trump che avevano ulteriormente allineato gli USA con Israele.

Ma i difensori dei diritti umani sostengono che fino ad ora il presidente democratico non sia riuscito ad adempiere neppure alle sue modeste promesse ai palestinesi e che al momento la posizione USA sia più simile a quella che aveva con Trump che con Barack Obama.

Mentre Biden viaggia verso Israele per la prima volta da quando è presidente, Al Jazeera esamina quali delle politiche di Trump sono state cambiate da Biden e quali sono rimaste immutate.

Ambasciata USA a Gerusalemme

Di tutti i cambiamenti a favore di Israele delle politiche di Trump, trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme è stata forse la più gravida di conseguenze. La decisione del 2018 ha dato un appoggio concreto degli USA alle rivendicazioni di Israele sull’intera città santa come sua capitale.

Israele ha annesso illegalmente Gerusalemme Est nel 1980 dopo averla conquistata nel 1967.

Mentre i palestinesi esprimevano la propria indignazione contro la decisione e le Nazioni Unite la dichiaravano a grandissima maggioranza “nulla e senza effetto legale”, a Washington venne approvata da politici di entrambi i partiti.

In vista dello spostamento dell’ambasciata e in presenza di una debole reazione araba Trump dichiarò Gerusalemme “fuori discussione”.

Biden non ha mai preso seriamente in considerazione l’idea di riportare l’ambasciata a Tel Aviv. Gli USA sotto la sua amministrazione hanno trattato Gerusalemme come se fosse la capitale di Israele, usando allo stesso tempo un linguaggio ambiguo per descrivere la propria visione di Gerusalemme Est.

Per esempio, il rapporto annuale sui diritti umani redatta dal Dipartimento di Stato USA include Gerusalemme Est nella sezione riguardante Israele. Ma aggiunge in una postilla: “Con il linguaggio usato in questo rapporto non si vuole prendere posizione su nessuno dei temi relativi all’assetto finale oggetto del negoziato fra le parti del conflitto, incluso quello dei confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme o dei confini tra Israele e qualsiasi futuro Stato palestinese.”

Il consolato per i palestinesi di Gerusalemme

Nel 2019 Trump ha chiuso il consolato per gli affari palestinesi a Gerusalemme e trasferito le sue funzioni all’ambasciata israeliana nella Città Santa.

La decisione recide i legami con i palestinesi ed esplicita la bocciatura USA delle loro rivendicazioni su Gerusalemme.

Da candidato Biden aveva promesso di riaprire il consolato, ma, a oltre un anno e mezzo dall’inizio della sua amministrazione, lo spostamento non si è materializzato.

Mentre i funzionari USA dicono di essere ancora interessati a ristabilire la sede diplomatica, Biden e i suoi più importanti collaboratori sono riluttanti a scontrarsi pubblicamente con Israele, che si oppone alla riapertura del consolato.

“Da presidente Biden farà immediatamente dei passi per ripristinare l’assistenza economica e umanitaria al popolo palestinese, in conformità con la legislazione USA, inclusa l’assistenza ai rifugiati, operando per affrontare l’attuale crisi umanitaria a Gaza e per riaprire il consolato USA a Gerusalemme Est, e lavorerà per riaprire la missione diplomatica palestinese a Washington,” disse Biden durante la sua campagna davanti a una tribuna di elettori arabo americani nel 2020.

La missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington, chiusa da Trump nel 2018, non è stata riaperta neppure da Biden a causa di pressioni interne bipartisan contro la decisione.

Colonie

Da candidato Biden aveva promesso di opporsi all’annessione ed espansione delle colonie. E in contrasto con Trump, che non si era mai pubblicamente opposto alle azioni israeliani, l’amministrazione Biden ha occasionalmente criticato a voce l’approvazione di nuove colonie nella Cisgiordania occupata.

Ma tali smorzate critiche spesso sono contenute in vaghe dichiarazioni che stabiliscono paralleli fra le azioni israeliane e quelle palestinesi affermando che gli USA disapprovano un’escalation da entrambe le parti.

Lo scorso ottobre Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stat USA, in una rara occasione era stato esplicito nella critica di Israele dopo il suo annuncio di un piano su grande scala di espansione delle colonie.

“Noi ci opponiamo fermamente all’espansione delle colonie che è totalmente in contrasto con i tentativi di diminuire le tensioni e garantire la calma,” aveva detto Price in quell’occasione.

Ma quel linguaggio diretto è rapidamente svanito.

La scorsa settimana è stato chiesto a Price se gli USA avessero fatto pressione su Israele per porre fine al progetto di una colonia che avrebbe separato le comunità palestinesi in Cisgiordania da quelle a Gerusalemme Est e ha detto: “Noi abbiamo dialogato regolarmente con entrambe le parti per incoraggiarle a non compiere passi che avrebbero esacerbato le tensioni a questo proposito, in caso in cui qualcosa del genere allontani ulteriormente la soluzione dei due Stati.”

La scorsa settimana Maya Berry, direttrice esecutiva dell’Arab American Institute (AAI), un think-tank con sede a Washington, ha detto ad Al Jazeera che l’amministrazione continua a trovare eccezioni per giustificare le violenze israeliane contro i palestinesi.

“È la continuazione di un approccio politicizzato,” ha detto delle politiche di Biden sul conflitto.

“Che si tratti dell’amministrazione Biden o di specifici membri del Congresso, essi stanno facendo di Israele un’eccezione. Non si permetterebbe a nessun altro Paese di fare quello che fa Israele senza che debba affrontare conseguenze politiche sulla scena internazionale. E il protettore principale a questo riguardo sono gli Stati Uniti.”

Aiuti a Israele

Nonostante le crescenti richieste di porre condizioni o restrizioni agli aiuti USA a Israele, Biden in realtà ha  incrementato l’assistenza di Washington al suo principale alleato nella regione rispetto ai tempi di Obama e Trump.

Israele riceve annualmente 3,8 miliardi di dollari in assistenza e quest’anno ha ottenuto un miliardo di dollari extra per “ripristinare Iron Dome [“Cupola di Ferro”], il sistema antimissilistico di difesa, dopo la guerra a Gaza nel maggio 2021.

In un editoriale del Washington Post uscito la scorsa settimana Biden si è dichiarato orgoglioso di aver approvato “il più massiccio pacchetto di aiuti per Israele” della storia.

Aiuti ai palestinesi

Mentre Trump aveva praticamente posto fine a tutti gli aiuti USA ai palestinesi, tagliando completamente i fondi all’United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente] (UNRWA), Biden ha rinnovato parte di quegli aiuti.

Biden ha detto che, dall’insediamento nel 2021, la sua amministrazione ha ripristinato 500 milioni di dollari di aiuti ai palestinesi, inclusi dei fondi per l’UNRWA che nell’era Obama aveva ricevuto annualmente circa 350 milioni di dollari.

Normalizzazione

L’amministrazione Biden è totalmente impegnata nello sforzo di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi iniziato con Trump e noto come gli Accordi di Abramo.

Il Dipartimento di Stato dice che la normalizzazione arabo-israeliana non soddisfa la necessità di pace fra Israele e i palestinesi. Ma gli analisti dicono che Biden ha difeso quella stessa normalizzazione dell’era Trump che ha ignorato i palestinesi.

Infatti, prima del suo viaggio in Medio Oriente, Biden ha ripetutamente citato la normalizzazione come motivo della sua visita.

“Parte dello scopo del viaggio in Medio Oriente è approfondire l’integrazione di Israele nella regione, cosa che io penso saremo in grado di fare e che è un bene per la pace e per la sicurezza di Israele. Ecco anche spiegato il motivo per cui i leader di Israele hanno fortemente approvato la mia visita in Arabia  Saudita,” ha detto Biden lo scorso mese.

Le alture di Golan

Quando Trump aveva riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture di Golan siriane occupate, molti esperti di diritto internazionale segnalarono che la decisione avrebbe minato il divieto di acquisire territori con la forza.

Sebbene Biden stia caldeggiando il concetto di integrità territoriale in Ucraina, la sua amministrazione ha confermato l’appartenenza ad Israele delle alture di Golan.

Anche se il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha in precedenza usato un linguaggio ambiguo per descrivere il territorio siriano, dall’insediamento di Biden nessun cambiamento delle politiche USA sul tema è mai stato annunciato.

“Le politiche statunitensi riguardo al Golan non sono cambiate e affermazioni contrarie sono false,” ha detto l’anno scorso su Twitter l’Ufficio per gli affari del Medio Oriente del Dipartimento di Stato.

Legami con i palestinesi

Se Trump ha quasi totalmente ignorato i palestinesi nelle sue politiche per la regione, l’amministrazione Biden ha cercato di riallacciare le relazioni americane con i leader palestinesi.

Ci sono state parecchie telefonate fra alti funzionari USA e palestinesi, incluse quelle tra Biden e il presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Lo scorso mese l’amministrazione USA ha annunciato che la sezione per gli affari palestinesi dell’ambasciata americana a Gerusalemme inizierà a rapportarsi direttamente su “questioni rilevanti” con il Bureau per gli Affari del Vicino Oriente all’interno del Dipartimento di Stato.

In seguito al cambiamento diplomatico si è ribattezzata Office of Palestinian Affairs (OPA) quella che era la Palestinian Affairs Unit (PAU).

Ma gli esperti l’hanno liquidata come una mossa prevalentemente di facciata, sottolineando come non sia un’adeguata sostituzione all’impegno per un vero consolato per i palestinesi a Gerusalemme.

“Nelle presenti circostanze mi sento molto sicuro nell’affermare che questo è semplicemente un tentativo propagandistico per cercare di placare la frustrazione dei palestinesi, soprattutto alla luce dell’imminente visita del presidente nella regione,” ha detto ad Al Jazeera Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center, Washington DC.

Ciononostante l’amministrazione si è attribuita quella che descrive come un ristabilimento delle relazioni con l’Autorità Palestinese.

“Abbiamo collaborato con Israele, Egitto, Qatar e Giordania per mantenere la pace impedendo ai terroristi di riarmarsi. Abbiamo anche ricostruito i legami USA con i palestinesi,” ha scritto Biden sul Washington Post.

Organizzazioni internazionali

Biden è rientrato in contatto con molte organizzazioni ONU e internazionali, tra cui il Consiglio per i Diritti Umani che Trump aveva abbandonato a causa delle loro critiche a Israele.

Ma i funzionari USA hanno sempre sottolineato che stanno tornando in questi forum per proteggere Israele dall’interno e non per difendere gli sforzi di appoggiare i diritti umani dei palestinesi.

Lo scorso mese il Dipartimento di Stato ha rimproverato una commissione di inchiesta del Consiglio per i Diritti Umani che aveva pubblicato un rapporto in cui accusava Israele di cercare di acquisire un controllo permanente sui palestinesi  “senza intenzioni di porre fine all’occupazione”.

Il 7 giugno Price ha dichiarato che la commissione di inchiesta “rappresenta un approccio unilaterale e fazioso che non fa nulla per contribuire all’avanzamento delle prospettive di pace”.

Allo stesso modo l’amministrazione Biden ha revocato le sanzioni che Trump aveva imposto sui funzionari della Corte Penale internazionale (ICC), mantenendo nel contempo la sua opposizione alle indagini della ICC sulle violazioni israeliane.

Nelle ultime settimane il Dipartimento di Stato ha detto ripetutamente che la ICC non è la “sede appropriata” per indagare sull’assassinio di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera ammazzata a maggio dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid.

Hagai El-Ad

12 luglio 2022 – Haaretz

Non so perché il primo ministro Naftali Bennett abbia deciso di dare le dimissioni. Una cosa può e dev’essere subito chiara: la ragione che ha citato – l’impossibilità di far approvare il rinnovo delle disposizioni d’emergenza che estendono le leggi israeliane ai cittadini in Cisgiordania – è una narrazione di convenienza, ma non è nient’altro che questo. Non sono le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria [definizione biblica della Cisgiordania, ndt.] che hanno fatto cadere il governo, non è riguardo ad esse che andremo a votare, e quello che è stato svelato è l’esatto contrario di quanto sostenuto: non è un dissidio che ha fatto sciogliere la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.], ma un consenso generalizzato.

Secondo la narrazione che prende a pretesto le disposizioni il 1 luglio 2022 avrebbe dovuto essere il giorno d’inizio del collasso dell’ordine pubblico nell’“area di Giudea e Samaria” e la demolizione dei legami tra Israele e quelle terre. Il primo giorno della “giungla”, del “caos” e dell’“anarchia” – tutte citazioni dal ministro della Giustizia Gideon Sa’ar alla Knesset. Il procuratore generale Gali Baharav Miara, che, per dirla in modo cortese, fa frequenti dichiarazioni pubbliche, non ha lesinato sforzi per descrivere l’abisso che si avvicinava nel conto alla rovescia da giugno a luglio. Un abisso con da una parte il beato ordine pubblico e dall’altra il minaccioso caos.

Dobbiamo finire nell’abisso o saremo salvati all’ultimo momento? Mai prima d’ora così tanti hanno atteso con il fiato così sospeso la decisione riguardo alle disposizioni, di cui la maggioranza non aveva mai sentito parlare. In ogni caso, possiamo stare tutti tranquilli. Prima di mezzanotte la Knesset si è sciolta e le disposizioni sono state automaticamente prorogate. Ma eravamo davvero sull’orlo del disastro?

Innanzitutto, disposizioni o meno, non sarebbe cambiato niente. Migliaia di prigionieri palestinesi non sarebbero usciti marciando da un lato all’altro della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndt.]. I coloni non sarebbero stati improvvisamente giudicati da tribunali militari e nessuna strenua muraglia dell’ordine pubblico si sarebbe sgretolata.

C’è un recente esempio di un’altra norma temporanea (certo, temporanea) che non si è riusciti a rinnovare: la legge razzista che vieta ai palestinesi di sposarsi a ovest della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] se uno di loro è residente a est di essa. La legge è scaduta nel luglio 2021. E poi cosa è successo?

Improvvisamente migliaia di coppie palestinesi hanno ottenuto uno status legale in Israele? Legge o non legge, la ministra degli Interni Ayelet Shaked ha continuato con la politica precedente. Dopo sei mesi l’Alta Corte di Giustizia ha detto qualcosa al riguardo, e due mesi dopo la legge è stata di nuovo approvata. Legge o non legge, i palestinesi non potrebbero, non possono e non potranno ottenere uno status legale qui. Disposizioni o non disposizioni, lo status degli ebrei nei territori non verrà declassato. In fin dei conti siamo i padroni della terra. Di tutta la terra.

Secondo, si noti la confusione concettuale che cerca di definire lo status quo (con le disposizioni) come “ordine” e opposto al disastro previsto (senza disposizioni) come “caos”. Com’è esattamente lo status quo, in cui milioni di sudditi vivono senza diritti da 55 anni: “ordine”? Perché un futuro non basato su disposizioni di apartheid è “caos”?

Una delle precondizioni fondamentali dello stato di diritto è l’uguaglianza davanti alla legge. Le disposizioni riguardanti Giudea e Samaria, come molti altri aspetti del regime di apartheid, sono l’esatto contrario dell’uguaglianza davanti alla legge. Pertanto sono una parte essenziale del caos, dell’anarchia morale, del disordine insito in un regime che privilegia un gruppo etnico-nazionale rispetto a un altro.

Terzo, tutto il teatrino riguardante le disposizioni su Giudea e Samaria non rivela alcun dissidio. Al contrario svela il consenso generalizzato tra l’opinione pubblica e il parlamento (eletto dalla parte dell’opinione pubblica titolare di diritti politici) riguardo al regime di supremazia ebraica sui palestinesi. Il consenso è così vasto e così solido che tutti sanno molto bene che non cambierà nulla. Questa è l’unica ragione per cui hanno voluto “giocare con il fuoco” con le disposizioni, in quanto il fuoco è ovviamente spento. Se fosse stata in gioco una questione fondamentale, non ci saremmo mai arrivati vicino.

Disposizioni o meno, quello che l’attuale vicenda (proprio come la legge sulla cittadinanza dell’anno scorso) rivela è che il regime è più potente di qualunque legge. E dato che ciò che conta sono i fatti fondamentali del regime, e non passeggere mosse politiche, non c’è niente di cui essere entusiasti.

Va tutto bene, tutti sono a favore dell’apartheid, tutti ne fanno parte (e grazie al governo del cambiamento per aver messo in chiaro questo punto). Se necessario gli aspetti formali prima o poi verranno risolti e i palestinesi continueranno a vivere secondo le leggi della giungla morale che abbiamo imposto loro. Quello che chiamiamo lo stato di diritto.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi]




Un’organizzazione per i diritti umani riporta i piani USA per costruire edifici diplomatici su terreni palestinesi a Gerusalemme Est

Gli USA stanno pianificando di costruire un complesso di edifici diplomatici su una proprietà privata confiscata a palestinesi nella Gerusalemme Est occupata.

Redazione di Middle East Monitor

Martedì 12 luglio 2022 – Middle East Monitor

L’agenzia di notizie Anadolu riferisce che domenica una organizzazione per i diritti umani ha affermato che gli Stati Uniti stanno pianificando di costruire un complesso di edifici diplomatici su una proprietà privata confiscata a palestinesi nella Gerusalemme Est occupata.

In una dichiarazione il centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele (Adalah) ha affermato che hanno trovato nuove prove che il terreno su cui dovrebbero essere costruiti gli edifici diplomatici secondo il piano congiunto statunitense-israeliano si trova su una proprietà privata presa a palestinesi.

Adalah ha specificato che “la terra su cui gli edifici diplomatici USA dovrebbero essere costruiti è registrata a nome dello Stato di Israele, ma è stata confiscata illegalmente a rifugiati palestinesi e palestinesi deportati internamente usando la legge israeliana del 1950 sulla proprietà degli assenti”.

Richiamando l’imminente visita in Israele del presidente USA Joe Biden, Adalah ha affermato che i discendenti degli originari proprietari del terreno che comprendono cittadini USA e palestinesi residenti a Gerusalemme Est chiedono “l’immediata cancellazione del piano”.

La dichiarazione aggiunge: “Se costruiti, gli edifici dell’ambasciata statunitense saranno collocati su terreni che sono stati confiscati ai palestinesi in violazione del diritto internazionale.”

L’arrivo di Biden in Israele è previsto per il 13 luglio, come parte del viaggio che includerà la città cisgiordana di Ramallah e l’Arabia Saudita.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Cisgiordania: l’esercito israeliano disperde violentemente le proteste in difesa della moschea di al-Aqsa

Cresce il numero dei feriti durante le manifestazioni dei palestinesi contro l’esercito israeliano dopo l’assalto alla moschea di al-Aqsa

Shatha Hammad

15 aprile 2022 – Middle East Eye

Ramallah, Palestina occupata – Venerdì nella Cisgiordania occupata l’esercito israeliano ha attaccato violentemente i palestinesi che protestavano in seguito ai raid delle forze di occupazione israeliane contro i fedeli nella moschea di al-Aqsa.

In una breve dichiarazione la Mezzaluna Rossa (Croce rossa) ha comunicato che i loro medici hanno assistito 224 feriti nel corso degli attacchi israeliani in parecchie città.

Ha inoltre aggiunto che l’esercito israeliano ha preso di mira il loro personale impedendone il lavoro sul posto mentre prestava i primi soccorsi ai feriti. A Beita, vicino a Nablus, l’esercito ha sparato con proiettili veri contro un’ambulanza danneggiando la carrozzeria.

Il giornalista Wahaj Bani Mufleh ha detto a MEE che decine di abitanti di Beita stavano tenendo la preghiera del venerdì sulle loro terre minacciate di confisca a favore delle colonie sul [monte] Jabal Sabih. Le forze israeliane hanno attaccato gli abitanti dopo le preghiere e tentato di cacciarli dalla zona.

Bani Mufleh ha aggiunto che gli scontri di Jabal Sabih si sono poi spostati all’entrata principale della cittadina, dove le forze israeliane sono sempre presenti. L’esercito ha usato contro i manifestanti un fuoco di fila di bombe lacrimogene e proiettili veri.

Mercoledì gli abitanti del villaggio sono stati testimoni di violenti scontri che hanno causato la morte di Fawaz Dwaikat giovedì in seguito alle ferite ricevute, scatenando un’escalation di tensioni e proteste durata fino a venerdì.

Le troupe televisive di al-Hurra e al-Ghad hanno detto di essere state attaccate da un colono mentre riprendevano gli scontri a Beita e che questi ha danneggiato le loro apparecchiature.

Il giornalista Khaled Badir ha detto che uno dei coloni ha tentato di aggredire i giornalisti mentre cercavano di trovare riparo in un luogo sicuro e che varie telecamere sono state scagliate per terra e danneggiate.

Scontri fra giovani palestinesi ed esercito israeliano sono scoppiati in varie zone: nelle città di Beit Dajan, Qaryut e Qasra fuori Nablus; all’entrata nord di Betlemme; nel villaggio di Kafr Qaddoum, est di Qalqilya; all’ingresso nord della città di Al-Bireh e a Bab Al-Zawiya, nel centro di Hebron.

In parecchie zone della Cisgiordania fin dagli inizi di aprile c’è stata un’escalation di violenza israeliana. Negli ultimi tre giorni durante le incursioni dell’esercito israeliano in varie città sono stati uccisi sette palestinesi. Il bilancio delle vittime dagli inizi di aprile è salito a 17 e dall’inizio del 2022 il numero dei morti è arrivato a 47.

L’attacco contro Al-Aqsa

In Cisgiordania le proteste sono iniziate alcune ore dopo che la diffusione delle immagini dei raid delle forze israeliane nella moschea di al-Aqsa aveva scatenato la rabbia dei palestinesi.

Decine di fedeli sono stati feriti dall’esercito israeliano, che durante l’assalto del sito a Gerusalemme Est ha usato proiettili di acciaio ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti.

Sheikh Ekrima Sabri, l’imam di Al-Aqsa, ha detto che l’incursione intendeva spianare la strada ai coloni israeliani perché facessero irruzione nella moschea durante la celebrazione della pasqua ebraica di Pesach che comincia questa sera.

Sabri ha detto a Middle East Eye che “ciò che è successo oggi è stato un attacco premeditato e orchestrato dopo la mobilitazione delle forze di occupazione per attaccare fedeli indifesi.”

I palestinesi temono che nei prossimi giorni si assista a un’escalation nella frequenza degli scontri, specialmente a causa della costante minaccia dei coloni di effettuare sacrifici rituali di animali all’interno della moschea di al-Aqsa, che i palestinesi considerano una grave offesa in uno dei luoghi islamici più sacri.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

Neppure il regime di apartheid in Sudafrica mise mai fuorilegge i difensori dei diritti umani come ha appena fatto Israele che ha dichiarato “organizzazioni terroriste” sei associazioni palestinesi

John Dugard

16 novembre 2021- Mondoweiss

 

Israele ha definito “organizzazioni terroriste” sei associazioni dedite alla causa dei diritti umani nella Palestina occupata. Esse sono: A- Haq che monitora violazioni dei diritti umani nella Palestina occupata e che recentemente ha giocato un ruolo importante nel fornire assistenza al pubblico ministero della Corte Penale Internazionale nelle sue indagini sui crimini commessi da Israele nella Palestina occupata; Addameer che fornisce supporto legale ai prigionieri palestinesi e denuncia le torture contro i detenuti commesse da Israele; Defense for Children International  [Difesa internazionale dei minori -Palestina] che promuove il benessere dei minorenni nella Palestina occupata; la Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del lavoro agricolo], la Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] e il Bisan Center for Research and Development  [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo].

Questa dichiarazione, fatta ai sensi di una legge israeliana del 2016, autorizza Israele a chiudere i loro uffici, confiscarne i beni, incarcerare i dipendenti, proibirne il finanziamento e punire il sostegno pubblico per le loro attività.

Oggi si fanno sempre più spesso paragoni fra le leggi e le pratiche dell’apartheid in Sudafrica e in Israele nella Palestina occupata. Due organizzazioni per i diritti umani molto autorevoli, Human Rights Watch, con base negli Stati Uniti, e l’ong israeliana B’Tselem hanno recentemente dichiarato che Israele pratica l’apartheid nella Palestina occupata. Al momento iI pubblico ministero della Corte Penale Internazionale sta indagando se Israele abbia commesso il crimine di apartheid nella Palestina occupata. Nel 2007, quando ero relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati ho denunciato di non avere dubbi che le leggi e le pratiche israeliane costituiscano apartheid, un giudizio basato su 40 anni di vita sotto l’apartheid in Sudafrica e per aver diretto un organismo di difesa dei diritti umani per oltre 10 anni.

Ciò mi induce a esaminare la reazione nel Sudafrica sotto l’apartheid contro le organizzazioni di opposizione o che monitoravano le sue pratiche razziste e repressive.

La legislazione del Sudafrica assomigliava alla legge israeliana del 2016 che ha permesso di dichiarare illegali le organizzazioni. Applicando tali norme il governo sudafricano mise fuori legge, fra gli altri, il partito comunista, l’African National Congress, il partito Liberale, il National Union of South African Students [Sindacato nazionale degli studenti sudafricani] e il Christian Institute, [Istituto Cristiano]. Queste leggi erano chiaramente così ampie da permettere al regime d’apartheid di chiudere organizzazioni che monitoravano violazioni di diritti umani, difendevano diritti umani e lottavano per i diritti umani.

Verso la fine degli anni ’70, al culmine dell’apartheid, furono fondate varie organizzazioni per i diritti umani, quasi tutte con fondi provenienti dagli Stati Uniti.

Insieme monitoravano violazioni di diritti umani, propugnavano uguaglianza razziale e libertà politica, si opponevano alla repressione politica e lottavano per il cambiamento sociale. Il lavoro di queste organizzazioni assomigliava, sotto molti aspetti, a quello delle sei organizzazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali. Una di queste era il Centre for Applied Legal Studies [Centro per gli Studi Giuridici Applicati] che dirigevo io.

Il regime di apartheid in Sudafrica mise in chiaro di non gradire queste organizzazioni di difesa dei diritti umani, soprattutto quando le loro pubblicazioni e denunce attiravano l’attenzione su tortura, confisca di terre, demolizioni di case, repressione politica e apartheid, il tipo di attività per cui le sei associazioni palestinesi per la difesa dei diritti umani sono state bandite.

Ma non bandì queste organizzazioni, sebbene ci fossero leggi che l’avrebbero autorizzato. Perché? Sospetto che la ragione principale fosse che erano tutte organizzazioni che cercavano di usare la legge per far progredire la giustizia razziale. Esse dimostravano, specie a una comunità internazionale ostile, che il Sudafrica rispettava lo Stato di Diritto. E il Sudafrica sapeva che ciò era cruciale per mantenere una sembianza di rispettabilità agli occhi degli Stati occidentali.

Ora Israele ha vietato sei associazioni palestinesi che difendono i diritti umani e che, nei limiti della legge, cercano, come le loro controparti sudafricane, di ottenere giustizia per i palestinesi denunciando torture, demolizioni di case, confisca di terre, espansione delle colonie, violenza dei coloni, persecuzione razziale, trasferimenti forzati di palestinesi e l’apartheid israeliano.

Tutto ciò prova che Israele non si preoccupa di presentare un’immagine di Stato di diritto. Non ne ha bisogno perché sa che l’Occidente non agirà contro alcuna violazione. Sa che il suo eccezionalismo è un valore occidentale che perdona a Israele tutti i suoi crimini.

Oggi persone imparziali e informate non si pongono più la domanda: “Israele commette il crimine di apartheid nella Palestina occupata?” Esse accettano l’evidenza che mostra chiaramente che gli ebrei israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est, compresi gli oltre 800.000 coloni e soldati, costituiscono un gruppo razziale che sistematicamente opprime il gruppo razziale palestinese tramite atti inumani, la definizione del crimine di apartheid dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Si fanno invece la domanda: “L’apartheid israeliano è peggio di quello del Sudafrica?”. A giudicare dalle ultime azioni di Israele contro i paladini dei diritti umani la risposta deve essere “sì”.

John Dugard

John Dugard è professore emerito presso le Università di Leiden e Witwatersrand (Johannesburg). Era relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani nella Palestina occupata e autore del libro “Confronting Apartheid: A personal history of South Africa, Namibia and Palestine.” ([Confrontare gli apartheid: una storia personale di Sudafrica, Namibia e Palestina)

 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)

 

 

 

 

 

 

 

 




Ex soldati israeliani rivelano: niente è così integro come un cuore spezzato

Ex soldati israeliani rivelano: niente è così integro come un cuore spezzato

Jim Miles

11 novembre 2021 –  Palestine Chronicle

La scorsa settimana (11-04-2021) Independent Jewish Voices [Voci ebraiche indipendenti: organizzazione di eminenti intellettuali britannici che combattono l’opinione che tutti gli ebrei sostengano le politiche del governo israeliano, ndtr.] (IJV – Canada) ha presentato un webinar intitolato “From IDF to IJV”, che illustrava la storia di tre ebrei già appartenenti all’esercito israeliano ma che nel corso degli anni e attraverso esperienze simili se pur diverse hanno finito per collaborare con IJV-Canada.

Il conduttore del programma, Aaron Lakoff, ha sottolineato la “solidarietà senza compromessi” di IJV con le lotte del popolo palestinese per i diritti umani e l’uguaglianza civile in Palestina, in sostanza, in tutta la Palestina storica. IJV è stata una delle prime organizzazioni in Canada a riconoscere e sostenere la campagna del BDS. Per riassumere l’immagine complessiva dello scoprire di essere stati ingannati dalla famiglia, dal governo e dalla società civile, si è fatto riferimento agli scritti ebraici radicali di Kokzter Rebbe [il rabbino Menachem Mendel of Kotzk (1787-1859), ndtr.]: “Niente è così integro come un cuore spezzato”. Il suo significato non mi è risultato chiaro fino a quando non ho sentito le tre storie.

I racconti

Tutti e tre i protagonisti risultavano avere delle esperienze simili ma con delle differenze; la principale caratteristica comune era il loro ebraismo laico, per cui la religione insita nell’essere ebrei era sostituita da una fede nel sionismo. L’adesione all’esercito era scontata, incoraggiata da una influente propaganda. Era un esercito come nessun altro, l’esercito più etico del mondo.

La conduttrice del webinar, Lia Tarachansky, ha rilevato come l’esercito sia mutato in tre  aspetti significativi: in primo luogo, la maggior parte degli sforzi è stata dedicata all’Unità 8200, il reparto di intelligence dell’esercito, e ai suoi compiti massicci di sorveglianza e hasbara [parola in lingua ebraica che indica gli sforzi mediatici per diffondere informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndtr.]; successivamente ha menzionato l’uso crescente di un esercito “telecomandato”, con l’impiego dell’intelligenza artificiale e la robotica moderne per affrontare qualsiasi presunto nemico; e – cosa più sorprendente, anche se forse non lo è, in linea con quanto avviene negli Stati Uniti – la privatizzazione delle attività dell’esercito nel tentativo di assolvere il governo da responsabilità per i crimini commessi.

Prese di coscienza

Pur accettando inizialmente il loro impegno nell’esercito, con il tempo, a volte rapidamente, questi soldati hanno progressivamente perso le loro illusioni sull’esercito e sulla politica israeliana in generale. Per Daphna Levit, un’ebrea Mizrahi [ebrei originari del mondo arabo, ndtr.], l’esercito presentato nelle scuole era “sempre qualcosa per cui provavamo ammirazione” e il ruolo dell’esercito costituiva un “impegno glorioso ed eroico” nella misura in cui era “bello morire per il paese” – Dio era diventato Sion.   Il suo compito nella guerra del 1967 era quello di scortare gli addetti alle comunicazioni in diverse zone di guerra e, nel far questo, “creare una narrazione” differente da ciò che vedeva. Ha citato in particolare l’immagine dei profughi palestinesi che attraversavano l’Allenby Bridge [importante ponte internazionale che collega la Cisgiordania alla Giordania, ndtr.] verso la Giordania, una scena resa non fedelmente dalla descrizione che le è stata fornita.

Yom Shamash si avventurò in Israele nel 1971, sentendosi “al sicuro” in Israele, che era in pace avendo “neutralizzato” l’Egitto [in seguito al conflitto arabo israeliano del giugno 1967, chiusosi dopo sei giorni con la vittoria di Israele, ndtr.]. Nel descriversi come “un pessimo soldato”, ha raccontato di essere stato distaccato nel deserto del Sinai quando la guerra dello Yom Kippur [conflitto arabo israeliano dell’ottobre 1973, ndtr.] colse “tutti di sorpresa” e che “la mia unità venne decimata”. Iniziò a mettere in discussione il senso di tutto, chiedendosi “per cosa sono morti… per la sabbia?”     Venne totalmente sconvolto quando seppe che Golda Meier aveva respinto la richiesta di colloqui di pace da parte di Anwar Sadat. Ha rievocato come, in precedenza, durante il suo addestramento, fosse all’aperto durante un pattugliamento notturno e si fosse reso conto che la strana sensazione sotto i suoi stivali derivava dal “marciare sugli ortaggi” – si stavano addestrando calpestando gli orti dei palestinesi.

Giungendo poco più tardi, Rafi Silver emigrò in Israele nel 1971 e si stabilì in un kibbutz (dove i soldati “erano venerati”) sulle alture del Golan. Provenendo da una famiglia profondamente sionista rimase “intrappolato nel mito dell’esercito” e le sue convinzioni vennero poi “fatte a pezzi dalla realtà”.  Al momento di decidere dove arruolarsi, il problema comune era “come entrare in un corpo d’élite”: non mettersi alla prova era motivo di vergogna. Cosa che superò nei primi quindici minuti dell’addestramento iniziale.

Ha rievocato l’”incidente definitivo” che fece cambiare le sue convinzioni radicalmente verso la pace.   Nel 1996 prestò servizio in un’unità di riserva che aveva imposto un blocco e un coprifuoco di una settimana in un campo profughi vicino a Betlemme. Ha raccontato che nel buio della notte, cessato il coprifuoco, aveva visto un ragazzo alzarsi dalla posizione accovacciata che i soldati gli avevano ordinato di assumere. Di riflesso, nel buio della notte, teso e impaurito dal contesto del campo, mosse il dito sul grilletto del suo fucile pronto a sparare. “Ero spaventato.” Un altro membro dell’unità gli intimò di non sparare e alla fine lui disse: “Basta… non ce la faccio più… ho quasi ucciso un ragazzino”.

L’altro

Un forte filo conduttore è costituito dal modo in cui venivano rappresentati i palestinesi. Nessuno dei protagonisti ha avuto rapporti diretti con loro.

Yom ha affermato che ogni giorno vedeva giungere dei palestinesi per lavorare nei parchi israeliani a Gaza, ma di non aver avuto contatti con loro. Ha detto: “Ai soldati israeliani veniva chiesto di fare ogni genere di cose orribili” e quando protestava, gli veniva detto “È l’unico modo per farlo… quelle persone non sono come te”, erano “meno che umani”. Il lavaggio del cervello nell’esercito era volto a creare soldati obbedienti, che non facessero domande, sottolineando che “l’altro non è come te”.

Daphna all’inizio li vedeva solo come fredde vittime di una guerra da cui doveva ricavare una narrazione che sostenesse lo Stato e non la realtà. Nata in Israele, ne aveva “sentito parlare” ma non aveva visto nessun palestinese, fornendo così la sua definizione della natura di “apartheid” di Israele. Un po’ più tardi, mentre lavorava con Physicians for Human Rights [Medici per i diritti umani: ONG con sede negli Stati Uniti che documenta e difende contro le atrocità e le gravi violazioni dei diritti umani, ndtr.], si è imbattuta in una ragazzina in una clinica in cui lavorava. La ragazzina le chiese da dove venisse, e quando le disse di essere israeliana, il viso della ragazzina espresse lo sgomento di trovarsi insieme al “nemico”.

Dopo il suo servizio di leva Rafi è tornato a Gaza come civile nel campo profughi di Jabaliya – e ha visto ciò che non vedeva come soldato: degli esseri umani. Era “stupito” dal fatto che, sebbene ogni palestinese sapesse che era stato nell’esercito, “non ho incontrato l’ostilità o l’odio che mi aspettavo”. Divenne, alla fine, un rapporto umano, e non ideologico.

“Niente è così integro come un cuore spezzato.”

Dopo un’educazione che inculca un particolare dogma ideologico, può essere traumatizzante solo fino a un certo punto vedere quelle convinzioni infrangersi o dissolversi gradualmente.

Questi ex appartenenti all’esercito hanno compiuto un percorso emozionale da una fede convinta nella superiorità della loro religione – il sionismo – e nella maggiore eticità del loro esercito fino a diventare attivisti contro i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità israeliani in Palestina. Anche molti altri hanno compiuto questo percorso e si può sperare che molti più cuori saranno spezzati per essere integri.

Jim Miles è un educatore canadese e un giornalista che collabora regolarmente attraverso articoli di opinione e recensioni di libri con Palestine Chronicles. Il suo interesse per questo argomento nasce originariamente da una prospettiva ambientalista, che prende in esame la militarizzazione e la sottomissione economica della comunità globale e la sua mercificazione da parte del dominio delle imprese e del governo americano.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




l settore della sicurezza della Autorità Nazionale Palestinese: consolidare la repressione di Stato

ll settore della sicurezza della Autorità Nazionale Palestinese: consolidare la repressione di Stato

Alaa Tartir *

14 novembre 2021   Al Shabaka

 

Nell’ottobre 2021, il Palestinian Civil Society Team for Enhancing Public Budget Transparency [un’organizzazione della società civile palestinese per la trasparenza del bilancio pubblico, ndt] ha rivelato che il settore della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) continua a ricevere la maggior parte del budget di quest’ultima. Durante la prima metà del 2021, sono stati spesi più di 50 milioni di shekel israeliani (oltre 14 milioni di euro) per la riforma delle forze di sicurezza dell’ANP (PASF). La PASF ha anche ricevuto 1.675 milioni di shekel (circa 480 milioni di euro) – oltre il 22% del budget totale dell’ANP. L’88% della cifra è stato destinato agli stipendi, un aumento di 115 milioni di shekel (circa 33 milioni di euro) rispetto ai primi sei mesi del 2020.

Queste cifre indicano il netto divario tra i bisogni del popolo palestinese e le priorità dell’ANP. Mentre i palestinesi cercano di porre fine all’oppressivo quadro di sicurezza imposto dagli Accordi di Oslo, l’ANP continua a investire politicamente, finanziariamente e istituzionalmente nello status quo, rafforzando l’ambito della sicurezza con il pretesto della stabilità e della costruzione dello Stato.

Invece di condurre ad un processo di democratizzazione, inclusione e responsabilità, i processi di riforma della sicurezza dell’ANP, sponsorizzati a livello internazionale – che sono stati il ​​fulcro del progetto di costruzione dello Stato post-2007 dell’ANP – hanno portato alla repressione, alla persecuzione e alla professionalizzazione dell’autoritarismo dell’ANP. In questo modo quest’ultimo si è strutturalmente radicato nel sistema politico palestinese.

Repressione e deterioramento delle condizioni sociali

Dopo l’uccisione dell’attivista critico dell’ANP Nizar Banat nel giugno 2021, la PASF ha represso le proteste pacifiche con l’uso illegittimo della forza, prendendo di mira, con arresti arbitrari e torture, giornalisti, attivisti della società civile e avvocati. Il livello di repressione osservato durante l’estate del 2021 è stato senza precedenti ed evidentemente si è trattato di un’operazione complessa: ha mostrato il costante coinvolgimento delle istituzioni legali, politiche, di sicurezza ed economiche dell’ANP. Far convergere le forze per reprimere in modo più efficace è uno sviluppo preoccupante e, a meno che non venga contrastato con meccanismi di responsabilità controllati dalla popolazione stessa, l’aggressione autoritaria si intensificherà e non vi sarà spazio per alcuna transizione democratica.

Il consolidamento del potere nel settore della sicurezza continua ad essere un obiettivo chiave dell’ANP. L’obiettivo delle campagne del 2007 della PASF era “ripulire” la Cisgiordania dalle armi non in possesso dell’Autorità Nazionale Palestinese, condurre un processo di disarmo, arrestare coloro che sfidavano l’autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese e inviare un messaggio chiaro ai palestinesi che l’Autorità Nazionale Palestinese era l’unica struttura di governo e di potere. Quindi, l’ANP ha adottato un “approccio indifferenziato” per confiscare le armi e intenzionalmente non ha distinto tra le “armi dell’anarchia” e quelle della “resistenza armata”. Ciò ha significato che criminali e membri della resistenza sono stati trattati e presi di mira allo stesso modo. Come ha chiesto con scherno un abitante del campo profughi di Balata: “Come può un ladro essere tenuto nella stessa cella di un muqawim (combattente per la libertà)?”

Le conseguenze dei processi di riforma del settore della sicurezza (SSR) richiedono tempo per manifestarsi nella società e in Palestina stanno diventando chiare solo ora. Le campagne di sicurezza del 2007, ironicamente denominate “sorriso e speranza” e il processo di riforma che ne è seguito, ancora in corso, hanno creato profondi problemi strutturali e carenze che hanno portato a radicare una cultura della paura, addomesticare o criminalizzare la resistenza, e hanno approfondito la sfiducia che i palestinesi provano nei confronti della loro leadership.

In effetti, la tortura e l’uccisione di oppositori politici, l’arresto arbitrario in condizioni disumane di voci critiche, l’aumento dei livelli di sorveglianza e la diminuzione di quelli di tolleranza e pluralità, sono ingredienti chiave per il deterioramento della società palestinese. Un’ulteriore sorveglianza oppressiva degli spazi sociali toglierà potere al popolo palestinese, rafforzerà la sua frammentazione e indebolirà la sua capacità di resistere efficacemente alle strutture coloniali e oppressive.

Ripensare la gestione del settore della sicurezza

Ripensare una gestione del settore della sicurezza palestinese nella quale sia data priorità al popolo palestinese deve essere parte di qualsiasi dialogo nazionale serio e globale. Il consolidamento del potere, anziché dell’inclusività e della responsabilità, ha fatto sì che le PASF siano più responsabili nei confronti dei donatori e del regime israeliano che nei confronti del popolo palestinese. Invertire questo processo è un punto fondamentale per il settore della sicurezza. Per far ciò è necessario quanto segue.

  • La società civile e la leadership palestinesi devono impegnarsi in un dialogo nazionale inclusivo, onesto e complessivo. Rivedere il programma nazionale palestinese nell’ottica della gestione del settore della sicurezza potrebbe servire a molteplici scopi, poiché richiede l’avvio di un dibattito sulle strategie di resistenza, la natura delle strutture di gestione degli affari pubblici e i meccanismi di responsabilizzazione.
  • Le fazioni politiche palestinesi e la società civile devono esigere che l’ANP ridistribuisca equamente il proprio budget, anche nei settori economici produttivi, per porre fine agli stanziamenti gonfiati dell’establishment della sicurezza dell’ANP.
  • La società civile palestinese deve fare pressione sull’ANP affinché metta in atto la decisione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di porre fine al coordinamento della sicurezza con Israele, cosa che non ha fatto nonostante le sue dichiarazioni.
  • La società civile e la leadership palestinesi devono adottare una strategia di resistenza unitaria, anche per quanto riguarda la resistenza armata, per evitare che le armi diventino strumenti nella lotta interna alle fazioni politiche, specialmente in tempi di transizione del potere e vuoti di leadership.

*Alaa Tartir è consulente per i programmi di Al-Shabaka.  Tartir è anche ricercatore associato presso il Center on Conflict, Development, and Peacebuilding e visiting fellow presso il Dipartimento di Antropologia e Sociologia del Graduate Institute of International and Development Studies (IHEID), Ginevra, Svizzera. Tra le altre attività, Tartir è stato borsista post-dottorato presso The Geneva Centre for Security Policy (GCSP) dal 2016-17, ricercatore e docente invitato (2015) presso il Dipartimento di Storia e Storia dell’Arte dell’Università di Utrecht, Paesi Bassi, e, tra il 2010 e il 2015, è stato ricercatore in studi di sviluppo internazionale presso la London School of Economics and Political Science (LSE), dove ha conseguito il dottorato di ricerca.

 

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 




Israele deve smettere di utilizzare città arabe come terreno di addestramento delle IDF

Israele deve smettere di utilizzare città arabe come terreno di addestramento delle IDF

Zehava Galon

15 novembre 2021 – Haaretz

 

La scorsa settimana il comando Nord delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] ha condotto un’esercitazione utilizzando mezzi blindati nel Wadi Ara [regione di Israele abitata in prevalenza da arabo-israeliani, ndtr.] e nella città di Umm al-Fahm. La giustificazione ufficiale – perché non è esattamente di questo che si è trattato – dell’esercito è stata che lì i vicoli “ricordano il sud del Libano”.

L’esercitazione è avvenuta sei mesi dopo le ostilità contro Gaza e gli sporadici incidenti all’interno di Israele, e persino gli ufficiali delle IDF dovrebbero comprendere ciò che queste manovre rappresentano per gli abitanti di Umm al-Fahm: “Vi possiamo occupare in qualunque momento.” Il presidente della commissione di controllo di Umm al-Fahm, Ali Adnan, in seguito ha affermato alla radio pubblica Kan Bet che Israele sta trasformando i suoi abitanti arabi in nemici, come in Libano.

Se l’esercito voleva fare un’esercitazione in una città che assomigli al sud del Libano ha spazio e anche finanziamenti sufficienti per costruire un quartiere che sembri Marjayoun [cittadina del sud del Libano, ndtr.]. Le IDF non avrebbero progettato e realizzato manovre militari del genere a Safed [città quasi esclusivamente ebraica, ndtr.]. Non avrebbero terrorizzato gli abitanti ebrei in questo modo. Dopo gli avvenimenti di maggio, l’esercito israeliano ha sostenuto che gli autisti di autobus arabi non si sono fatti vedere per le sue esercitazioni. Circa una settimana dopo è risultato che lo stesso esercito aveva rifiutato di coinvolgerli.

Ed è proprio questo il punto. L’esercito si stava addestrando a Umm al-Fahm esattamente come fa regolarmente nelle comunità della Cisgiordania. Gli abitanti sono al massimo comparse. E, se viene sparato un proiettile o un colpo di mortaio vagante, ovviamente si tratterebbe di sfortuna, ma non sarebbe molto importante e in Israele non provocherebbe nessun commento negativo.

Il principale risultato, mai raggiunto in precedenza nella storia di Israele, di questo governo è la collaborazione con la Lista Araba Unita [gruppo politico islamista che fa parte dell’attuale coalizione di governo israeliana, ndtr.]. Ma com’è che anche questo governo continua a trattare come nemici i cittadini arabi di Israele, con la loro pluridecennale esperienza di discriminazione istituzionalizzata e l’altrettanto istituzionale incitamento all’odio?

È per questo che la delinquenza nella società araba viene definita “terrorismo” ed è così che la scorsa settimana è emersa un’altra notizia scioccante: il servizio di sicurezza interna [israeliano] Shin Bet ha estorto delle confessioni a tre abitanti di Giaffa riguardo alla loro presunta aggressione contro un soldato. Se l’avvocato dei sospettati non avesse trovato un video del luogo del delitto e non lo avesse usato per dimostrare che i tre sono arrivati dopo l’incidente, è praticamente certo che sarebbero stati condannati.

Questa è la situazione quando sei un cittadino arabo nello Stato ebraico: sei sempre colpevole. Gli arabi possono essere sottoposti a detenzione amministrativa [cioè senza prove né accuse, ndtr.] e le loro case possono essere perquisite senza un mandato, due procedure che lo Shin Bet e le IDF utilizzano quotidianamente in Cisgiordania.

E qui è il caso di menzionare una cosa che gli ebrei preferiscono dimenticare, ma che è per sempre impressa nella memoria degli arabi di Israele: questi metodi non sono stati inventati in Cisgiordania. Vennero utilizzati per la prima volta contro i cittadini arabi di Israele durante il periodo dello stato d’assedio, finché esso non finì nel 1966.

In pratica ci viene chiesto di scegliere tra due sistemi di governo. Uno, un regime basato sull’etnia, un regime di superiorità ebraica, l’altro, la cittadinanza: “Ci sarà una stessa legge e uno stesso rito per voi e per lo straniero che soggiorna presso di voi” (Numeri, 15:16). Quelli che protestano contro la definizione di Israele come Stato di apartheid dovrebbero opporsi fermamente contro l’idea perversa di due sistemi giuridici separati, all’interno dell’Israele propriamente detto: uno per gli ebrei e uno per gli altri israeliani. Ma sorprendentemente quelli che protestano sono esattamente gli stessi che stanno insistendo perché vengano ripristinati i metodi del governo militare.

I diritti umani non possono essere separati: se non ci sono diritti per gli arabi di Israele, i diritti degli ebrei verranno minacciati. I nuovi strumenti saranno troppo allettanti per la polizia e le altre forze di sicurezza. Meglio fermarsi qui prima che sia troppo tardi.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)