Dichiarazioni HRW e Ong israeliane

Israele/Palestina: dichiarate terroriste alcune ONG palestinesi

Un attacco contro il movimento per i diritti umani

 22 ottobre 2021     Human Rights Watch

(New York) – Il 19 ottobre 2021 il Ministero della Difesa israeliano ha emanato un’ordinanza militare per dichiarare “organizzazioni terroriste” sei associazioni della società civile palestinese nei Territori palestinesi occupati. Tali gruppi sono: Addameer, al-Haq, Difesa dei Bambini Palestinesi, Comitati del Sindacato per il Lavoro Agricolo, Centro “Bisan” per la Ricerca e lo Sviluppo e Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi. La designazione, ai sensi di uno statuto israeliano del 2016, mette di fatto fuorilegge l’attività di queste associazioni della società civile. Autorizza le autorità israeliane a chiuderne le sedi, a sequestrarne i beni e ad arrestarne e porre in detenzione il personale, e non solo ne vieta il finanziamento, ma proibisce persino di esprimere pubblicamente sostegno in loro favore.

Human Rights Watch e Amnesty International, che lavorano a stretto contatto con la maggior parte di queste associazioni, hanno emesso questa dichiarazione congiunta:

“Questa sorprendente e ingiusta decisione è un attacco del governo israeliano al movimento internazionale per i diritti umani. Da decenni, Israele cerca costantemente di impedire il monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani e punisce chi critica le sue leggi repressive contro i palestinesi. Il nostro personale e le nostre organizzazioni hanno subito espulsioni e divieti di viaggio, ma sono i difensori dei diritti umani palestinesi a sopportare il peso maggiore della repressione. Questa decisione rappresenta un’allarmante escalation che minaccia di mettere il bavaglio alle più importanti organizzazioni della società civile palestinese. Poiché da decenni la comunità internazionale non prende posizione contro le gravi violazioni dei diritti umani commesse da Israele e gli consente di non pagare alcuno scotto, le autorità israeliane si sono sentite incoraggiate ad agire in questo modo arrogante”.

“Da come reagirà a questo decreto, si capirà se e come la comunità internazionale vorrà proteggere i difensori dei diritti umani. Siamo orgogliosi di lavorare da decenni con i nostri partner palestinesi che rappresentano il meglio della società civile globale. Siamo al loro fianco nella lotta contro questa oltraggiosa decisione”.

 

Comunicato congiunto: azione estrema contro i diritti umani

25 ottobre 2021                   B’TSELEM

La designazione da parte del Ministero della Difesa di insigni organizzazioni della società civile palestinese – alcune delle quali collaborano con noi all’interno della comunità palestinese in difesa dei diritti umani- come organizzazioni terroristiche, è un’azione devastante che criminalizza le fondamentali attività in difesa dei diritti umani. In tutto il mondo le attività di documentazione, promozione e sostegno legale sono fondamentali per la protezione dei diritti umani. Criminalizzare tali attività è un atto di viltà, caratteristico dei regimi repressivi autoritari.  I difensori della società civile e dei diritti umani vanno protetti. Esprimiamo la nostra solidarietà verso i colleghi palestinesi e chiediamo ai membri del governo israeliano e alla comunità internazionale di opporsi senza riserve a questa decisione.

Adalah [fornisce protezione legale alla minoranza araba, ndtr]| Istituto Akevot per la ricerca sul Conflitto Israelo-Palestinese | B’Tselem | Bimkom – Planners for Planning rights [organizzazione israeliana per i diritti umani costituita da pianificatori e architetti professionisti, ndtr] | Breaking the Silence Combatants for Peace [soldati veterani israeliani contrari all’Occupazione, ndtr]| Emek Shaveh [in difesa dei siti archeologici come beni comuni alle varie comunità, ndtr] | Gisha [protegge la libera circolazione dei palestinesi, in particolare di Gaza, ndtr]| Hamoked: Center for the Defence of the Individual [assiste i palestinesi che vivono sotto ocuupazione, ndtr] | Haqel – In Defense of Human Rights [protegge i diritti alla proprietà dei palestinesi, ndtr]| Human Rights Defenders Fund [fornisce protezione legale ai difensori dei diritti umani, ndtr] | Ir Amim [promuove l’idea di Gerusalemme come città condivisa da arabi ed ebrei, ndtr] | Kav Laoved – Worker’s Hotline [tutela i diritti dei lavoratori più svantaggiati, ndtr] | Kerem Navot [centrata sulla ricerca e monitoraggio delle politiche di espropriazione subite dai palestinesi sotto Occupazione, ndtr]| Machsom Watch [donne israeliane in difesa delle comunità palestinesi, ndtr] |Mothers Against Violence [Madri contro la Violenza, ndtr]|Parents Against Child Detention [Genitori contro la Detenzione dei Minori, ndtr]| Peace Now [arrivare alla “pace in cambio di territori”, ndtr]| Physicians for Human Rights Israel [Medici per i Diritti Umani, ndtr]|Rabbis for Human Rights [Rabbini per i Diritti Umani, ndtr] | Standing together [per una mobilitazione da sinistra di arabi ed israeliani, ndtr]| The Association for Civil Rights in Israel [la più antica associazione in difesa dei diritti umani in Israele, ndtr | The Public Committee Against Torture in Israel [contro i reati di tortura, ndtr]| Yesh Din [fornisce protezione legale alle vittime di abusi, ndtr] | Zazim – Community Action [arabi ed ebrei insieme per promuovere democrazia e diritti, ndtr]

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Ci prendono di mira per una ragione: siamo riusciti a cambiare il paradigma

Yuval Abraham

25 ottobre 2021 – +972 magazine

Dopo essere state messe all’improvviso fuorilegge in quanto “organizzazioni terroristiche”, le associazioni palestinesi per i diritti umani parlano a +972 del perché le accuse israeliane non solo sono infondate, ma rappresentano un atto di persecuzione politica.

La scorsa settimana, quando il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha firmato un ordine esecutivo che dichiara “organizzazioni terroristiche” sei associazioni palestinesi per i diritti umani, il governo non si è nemmeno preoccupato di fingere che si trattasse di un procedimento corretto. Con un rapido colpo di penna le ong – Al-Haq, Addameer, Bisan Center, Defense for Children International-Palestine, the Union for Agricultural Work Committees e the Union of Palestinian Women’s Committees – sono state istantaneamente messe fuori legge senza neppure un processo né la possibilità di rispondere alle accuse contro di loro.

Eppure la grande maggioranza dei mezzi di informazione israeliani, invece di mettere in discussione la dubbia natura di questa iniziativa, ha semplicemente copiato la dichiarazione ufficiale del ministero della Difesa sull’argomento, che accusa le sei organizzazioni di essere legate al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un partito e un movimento laico e marxista-leninista definito un gruppo terroristico da Israele.

Il governo sostiene che le ong hanno riciclato fondi destinati a interventi umanitari e li hanno trasferiti invece a scopi militari, accusando inoltre i funzionari delle organizzazioni di essere, o essere stati, dell’ FPLP. Per anni anche associazioni israeliane di destra, nel tentativo di troncare i finanziamenti dall’estero, hanno cercato di mettere in rapporto queste organizzazioni con il FPLP.

La decisione del ministero della Difesa è basata su informazioni raccolte dallo Shin Bet [servizio di intelligence interna, ndtr.], che non le ha rese pubbliche. Ma, secondo fonti a conoscenza del caso giudiziario, le prove del servizio segreto sarebbero basate sulla testimonianza di un unico impiegato licenziato per corruzione da una delle associazioni.

Tuttavia esistono parecchie prove che contraddicono la versione dello Shin Bet. Negli ultimi 5 anni, su pressione del governo israeliano e di ong filo-israeliane, vari governi europei e fondazioni private che finanziano la società civile palestinese hanno condotto approfonditi controlli su ognuna delle sei organizzazioni. Nessuno ha trovato prove di uso scorretto dei fondi.

Oltretutto le stesse organizzazioni prese di mira descrivono un quadro totalmente diverso dalle accuse sollevate dallo Shin Bet, con molte prove a loro sostengo.

Ho parlato con presidenti o importanti membri di cinque ong, tutti noti attivisti, avvocati e intellettuali che criticano duramente sia il regime israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese (l’ Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] ha rifiutato di parlare con Local Call, il sito in ebraico di +972, in cui è stato originariamente pubblicato questo articolo). Rigettando totalmente le accuse israeliane, essi descrivono questi ultimi attacchi come parte della pluriennale persecuzione politica della società civile palestinese da parte di Israele per zittire il loro lavoro.

“Non abbiamo niente da nascondere”

“Siamo l’unica organizzazione per i diritti umani che si concentra sui minori in Palestina,” dice Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma per la trasparenza di Defense for Children International-Palestine, fondata nel 1991.

“Il nostro lavoro è duplice,” spiega. “Il primo è giuridico: rappresentiamo circa 200 minori all’anno nei tribunali israeliani e palestinesi. Il secondo è politico: dal 2000 abbiamo documentato l’uccisione di oltre 2.200 minorenni palestinesi per mano delle forze militari israeliane, in particolare a Gaza.”

Il comunicato del ministero della Difesa distribuito ai giornalisti in seguito all’annuncio di Gantz non specifica la ragione precisa per cui DCI-Palestine, un’associazione molto rispettata e attiva nelle commissioni ONU e nel Congresso USA, sia stata etichettata come “organizzazione terrorista”.

“In passato siamo stati attaccati, ma ciò è avvenuto tramite gruppi di destra come NGO Monitor,” aggiunge Abu Eqtaish, in riferimento all’organizzazione che controlla le attività delle associazioni sociali palestinesi e della sinistra che criticano le politiche israeliane per bloccare le loro fonti di finanziamento. NGO Monitor afferma che DCI-Palestine “guida una campagna che sfrutta i minori per promuovere la demonizzazione di Israele ed è legata al gruppo terroristico FPLP. Molte delle sue accuse sono false e fanno parte dei tentativi di calunniare Israele con accuse di ‘crimini di guerra’ e di promuovere il BDS.”

Abu Eqtaish definisce le accuse contro DCI-Palestine “assurde”, sottolineando che non ci sono prove che la sua organizzazione finanzi l’FPLP. “Israele e le associazioni di destra si sono rivolte a tutti i governi e alle fondazioni che ci finanziano per mettere in dubbio la nostra legittimità come organizzazione. Invece di preoccuparci di denunciare le violazioni dell’occupazione contro i minori, abbiamo dovuto difendere noi stessi.”

Secondo Abu Eqtaish, in passato tutti gli enti che finanziano DCI-Palestine, compresi i governi di Italia e Danimarca, così come l’Unione Europea, hanno condotto indagini indipendenti riguardo alle affermazioni di Israele. “Ci hanno chiesto di produrre prove che le denunce erano senza fondamento, e noi gliele abbiamo fornite. Non abbiamo niente da nascondere. Tutti i nostri bilanci sono pubblici.”

Anche un tribunale britannico ha scoperto che queste accuse sono false. Nel 2020 ha ordinato a UK Lawyers for Israel [Avvocati del Regno Unito per Israele], un’organizzazione che opera in modo simile a NGO Monitor, di ritrattare le sue affermazioni secondo cui DCI-Palestine appoggerebbe l’ FPLP o gli trasferirebbe fondi. Il tribunale ha anche chiesto a UK Lawyers for Israel di dichiarare pubblicamente che DCI-Palestine non ha “attualmente stretti legami, e non fornisce alcun apporto finanziario o materiale ad alcuna organizzazione terroristica.”

“Utilizzando questa strategia non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi, e per questo l’hanno modificata,” dice Abu Eqtaish. “In luglio forze dell’esercito hanno fatto irruzione negli uffici dell’associazione a Ramallah e hanno confiscato computer e documenti giudiziari riguardanti minori. Ci siamo rivolti a un tribunale militare per chiedere la restituzione della documentazione. Il tribunale ha respinto la richiesta.”

Egli conclude: “Adesso nell’organizzazione stiamo cercando di capire quali passi intraprendere. Sappiamo che queste accuse sono infondate. L’attacco contro l’organizzazione è soprattutto un’aggressione contro i suoi scopi: evidenziare i crimini dell’occupazione contro i minorenni e chiedere alla comunità internazionale di punire Israele per essi.”

“Chiunque sa dove va a finire ogni singolo shekel”

Fondata nel 1979, Al-Haq è la più antica e grande ong palestinese per i diritti umani e il sostegno giudiziario nei territori occupati. Secondo Hisham Sharbati, operatore sul campo di Al-Haq che ha lavorato con l’organizzazione per 12 anni, la ragione della recente definizione da parte di Israele è esclusivamente politica. “Al-Haq ha un ruolo molto importante nel fornire informazioni contro Israele alla Corte Penale Internazionale dell’Aia,” spiega. “A causa delle nostre attività molti nel mondo stanno chiaramente definendo Israele uno ‘Stato di apartheid’. È per questo che siamo perseguitati.”

Sharbati cita il fatto che all’inizio del mese Gantz si è incontrato con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas a Ramallah e hanno parlato di ‘costruire fiducia’. “Che razza di costruzione della fiducia c’è quando (Gantz) attacca le associazioni della società civile palestinese in questo modo? Questa iniziativa intende privare il popolo palestinese di alcune delle organizzazioni più importanti che ha per difendere i propri diritti contro l’occupazione e contro l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Né la dichiarazione del ministro della Difesa israeliano né il documento poco più dettagliato che è stato in seguito inviato ai giornalisti fanno riferimento ad Al-Haq, nonostante sia la più grande delle sei organizzazioni. Non è ancora per niente chiaro su quali basi Al-Haq sia stata messa fuorilegge.

Le accuse contro Al-Haq devono essere state originate da un’altra fonte. Nel 2015, mentre le pressioni internazionali contro Israele stavano montando, il governo destinò decine di milioni di shekel all’ormai abolito ministero degli Affari Strategici per guidare una “campagna contro gli effetti della delegittimazione e del boicottaggio contro Israele,” con Gilad Erdan, ora ambasciatore USA in Israele, nominato a capo dell’istituzione.

Una delle principali attività del ministero era etichettare le associazioni della società civile palestinese come affiliate ai terroristi per far pressione sui governi europei perché tagliassero i finanziamenti. Secondo rapporti ufficiali pubblicati dal ministero, le sei organizzazioni messe sulla lista nera la scorsa settimana erano uno dei principali obiettivi.

Il ministero degli Affari Strategici pubblicò rapporti con titoli come “Terroristi in giacca e cravatta”, “Soldi insanguinati” e “Rete di Odio”, riprendendo i messaggi di vari gruppi di destra. In particolare NGO Monitor accusò il direttore generale di Al-Haq, Shawan Jabarin, di essere attivista dell’FPLP. Eppure il ministero non ha ancora fornito una qualunque prova dei rapporti dell’ong con la violenza.

“Sono nell’organizzazione da 12 anni e nessuna persona di Al-Haq è stata arrestata durante questo periodo,” afferma Sharbati. “Il nostro lavoro è totalmente legale e trasparente. I nostri finanziatori ricevono relazioni dettagliate. Siamo sotto stretta osservazione e chiunque sa dove va a finire ogni singolo shekel.”

Riguardo alle accuse secondo cui alcuni degli operatori dell’organizzazione sarebbero membri dell’FPLP, Sharbati afferma: “Se qualcuno è stato attivo nell’FPLP, è stato messo in prigione ed è stato rilasciato qualche mese dopo, che c’è di male? Ciò significa che non dovrebbe lavorare da nessuna parte? Se qualcuno ha fatto qualcosa di illegale arrestatelo. Ma non ci sono prove di illeciti.”

“Assolutamente manipolatorio”

Il Bisan Center è un piccolo centro di ricerca palestinese di sinistra. È formato da otto accademici e guidato da Ubai Aboudi, che scrive di economia e sociologia.

“Siamo stati fondati nel 1986 da un gruppo di studiosi e scienziati,” spiega Aboudi. “Sosteniamo i diritti di comunità emarginate, facciamo pressione contro il riscaldamento globale, promuoviamo l’uguaglianza di genere e ci opponiamo alle politiche di occupazione di Israele.”

Aboudi è stato arrestato due volte negli ultimi due anni: una volta da Israele e poi dall’Autorità Nazionale Palestinese. Durante il primo arresto alla fine del 2019 il tribunale militare israeliano lo ha accusato di essere membro dell’FPLP. “Non avevano prove e il giudice ha deciso che c’erano problemi con gli indizi,” sottolinea.

Tuttavia Aboudi alla fine ha accettato di patteggiare ed è stato in prigione per 4 mesi (secondo varie associazioni per i diritti umani i tribunali militari israeliani, che operano come braccio integrato nel controllo di Israele sui palestinesi sotto occupazione, hanno una percentuale tra il 95% e il 99% di condanne).

“Non ho alcun rapporto con il FPLP, ma sono padre e volevo tornare prima possibile dai miei tre figli, per cui ho accettato il patteggiamento,” spiega. All’epoca la detenzione amministrativa di Aboudi aveva scatenato una campagna internazionale e circa un migliaio di scienziati e studiosi aveva firmato una petizione per la sua liberazione.

Quest’anno Aboudi è stato arrestato due volte dall’ANP per aver protestato contro l’uccisione di Nizar Banat, un attivista e critico del governo picchiato a morte in giugno quando era nelle mani delle forze di sicurezza palestinesi.

Un mese dopo l’esercito israeliano ha fatto irruzione negli uffici del Bisan Center a Ramallah ed ha confiscato i computer. Secondo il comunicato stampa del ministero della Difesa, Bisan è stato dichiarato “organizzazione terroristica” perché membri dell’FPLP hanno tenuto riunioni nei suoi uffici. Inoltre, sostiene la dichiarazione, il precedente direttore del Centro, I’tiraf Rimawi, era membro del braccio armato dell’FPLP. Rimawi è stato imprigionato per tre anni e mezzo in quanto membro del gruppo studentesco dell’FPLP, quando non era dipendente del Bisan Center.

“Questa prospettiva (israeliana) è assolutamente manipolatoria,” dice Aboudi. “Come può un’intera organizzazione essere responsabile delle azioni che una persona avrebbe commesso fuori dal lavoro? Se uno lavora in una banca degli Stati Uniti e viola la legge, allora la banca viene chiusa?”

Riguardo all’uso di locali di Bisan per riunioni dell’FPLP, Aboudi afferma: “Il nostro ufficio non serve ad alcuno scopo che non riguardi le nostre ricerche. Non è mai stato utilizzato da milizie armate e il centro non ha alcun rapporto con azioni violente. Legga le nostre ricerche, la nostra visione del mondo si basa sull’uguaglianza e sulla giustizia sociale.”

Come le altre associazioni, Aboudi afferma che la pretesa di Israele secondo cui i gruppi agiscono come “ancora di salvezza” e come procacciatori di fondi per l’FPLP è una totale invenzione e che “il bilancio del centro è pubblico e a disposizione di tutti.”

A maggio, nota Aboudi, Israele ha invitato rappresentanti di ambasciate estere ed ha chiesto che smettano di finanziare le organizzazioni palestinesi per i diritti umani. In seguito a ciò il governo belga ha condotto un controllo dei finanziamenti che invia a Bisan, ed ha stabilito che non ci sono basi per le accuse del governo. “Tutti i nostri finanziamenti, circa 800.000 shekel [circa 21.600 €] all’anno, vanno alle ricerche ed agli stipendi,” sostiene.

Come per le altre organizzazioni, i dipendenti di Bisan ora temono che, in seguito alla dichiarazione di Israele, i finanziatori del resto del mondo esiteranno ad appoggiare il centro, che fallirà. “Questa è sempre stata la lotta principale del (primo ministro) Naftali Bennett e della (ministra degli Interni) Ayelet Shaked: perseguitare le organizzazioni palestinesi dei diritti umani,” afferma Aboudi.

“I loro rapporti con i gruppi dei coloni di estrema destra, come NGO Monitor e Regavim, sono profondi. Per anni hanno pensato di mettere fuorilegge le associazioni palestinesi per i diritti umani. Ora si sono ritrovati con l’opportunità di farlo, e l’hanno colta al volo.”

“L’occupazione è la fonte della violenza”

L’Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del Lavoro Agricolo] è stata fondata nel 1986. Tra le altre aree di attività, assiste i contadini palestinesi che coltivano le proprie terre nell’Area C, i due terzi della Cisgiordania che sono sotto totale controllo israeliano, in cui sono costruite e si espandono le colonie israeliane e dove Israele impedisce sistematicamente lo sviluppo dei palestinesi. Secondo il direttore dell’UAWC Abu Seif, Il suo lavoro è la ragione per cui sono stati messi fuorilegge.

“Israele vuole annettere l’Area C,” afferma. “Il nostro lavoro rafforza la presenza palestinese lì, in una zona in cui non è gradita. È per questo che da anni ci stanno perseguitando.”

Abu Seif continua: “Regavim (un’organizzazione israeliana di destra) ci ha attaccato quotidianamente, perché aiutiamo i contadini palestinesi a coltivare circa 3.000 dunam [300 ettari] di terreno all’anno e ad aprire strade agricole che mettono in relazione le aree A, B e C. Tutto il nostro lavoro viene fatto su terra privata, per aiutare gli agricoltori. Per ragioni politiche Israele impedisce loro di sfruttare i propri terreni, per espellerli.

Israele ha accusato due ex-dipendenti di UAWC di essere coinvolti nella morte di Rina Shenrab, una diciassettenne israeliana, in Cisgiordania nell’agosto 2019. Il ministro della Difesa ha citato l’assassinio dell’adolescente come la ragione dell’indicazione dell’unione come “organizzazione terroristica”.

“Erano due persone su un’organizzazione con 120 dipendenti, in cui nel corso degli anni hanno lavorato in migliaia,” afferma Abu Seif in merito alle accuse. “Non è che l’organizzazione abbia deciso di operare in quel modo. In quanto associazione rifiutiamo la violenza e diciamo che l’occupazione ne è la causa.”

Secondo Abu Seif per anni Israele ha cercato motivazioni relative alla sicurezza da utilizzare come scusa per chiudere varie associazioni palestinesi che operano nell’Area C.

Alla fine del 2020 la Commissione per gli Esteri e la Difesa della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] si è riunito per discutere della lotta del governo contro queste organizzazioni. Durante la riunione il deputato Zvi Hauser [del partito di destra Nuova Speranza, ndtr.] ha evidenziato che la discussione era “di interesse nazionale prioritario” perché “ciò determinerà i futuri confini dello Stato.”

“Non si tratta solo di una lotta per la terra e per chi comanda, ma anche una lotta diplomatica, “ha detto durante la riunione della commissione Ghassan Alyan, ex- capo dell’Amministrazione Civile, l’ente del governo militare israeliano che gestisce i territori occupati. Alyan ha aggiunto che nel 2020, quando Bennett era ministro della Difesa, egli ha incontrato gli ambasciatori e diplomatici dei Paesi europei ed ha chiesto che smettessero di finanziare le organizzazioni palestinesi che operano nell’Area C.

“Abbiamo avvertito tutti: non tollereremo alcun progetto internazionale senza il consenso israeliano… e negli ultimi due anni siamo riusciti a ridurre il numero dei progetti,” ha affermato Alyan durante la riunione. “Nel 2019 c’erano circa 12 progetti, mentre nel 2015 ce n’erano in corso circa 75.”

“Israele sta tentando di stravolgere la reputazione di queste organizzazioni presso i nostri finanziatori,” afferma Abu Seif. “Se gli europei smettono di finanziarli, tutti questi gruppi spariranno. E sta funzionando”.

“Si stanno concentrando su due tipi di organizzazioni: quelle che agiscono a livello internazionale, come Al-Haq, e quelle che operano nell’Area C, come noi,” aggiunge Abu Seif. “Non è iniziato tutto due giorni fa, va avanti da anni.”

Il 7 luglio di prima mattina forze israeliane hanno fatto irruzione negli uffici dell’UAWC e li hanno chiusi. Quella mattina Abu Seif è arrivato e ha scoperto che i computer erano stati confiscati e le porte sigillate. Sulla porta era anche attaccato un ordine di chiusura emesso dal governatore militare israeliano.

“Devi capire che la nostra organizzazione si occupa solo di agricoltura. La maggioranza di noi è composta da ingegneri. Anch’io sono un ingegnere. Ora Israele ci arresterà tutti? Questa organizzazione è esistita per 35 anni,” dice Abu Seif.

Comunque la dichiarazione di sei organizzazioni storiche come “terroriste” non ha precedenti, afferma Abu Seif. “Ciò è stato possibile solo per via del nuovo governo,” sostiene. “Per quanto Netanyahu fosse malvagio, non è mai arrivato a un’iniziativa così drastica. A mio parere era più cauto. La lobby dei coloni e Regavim possono fare pressione più facilmente sull’attuale governo, che è molto più estremista.”

“Le radici di questo attacco”

Sahar Francis dirige Addameer, che fornisce supporto legale a prigionieri e detenuti palestinesi rinchiusi nelle prigioni di Israele e dell’ANP. “La maggior parte del lavoro della nostra organizzazione è con le autorità israeliane,” dice Francis. “Aspetto di vedere quello che diranno ai nostri avvocati nei tribunali militari.”

Francis continua: “Questa è una decisione politica, che deriva dalle continue persecuzioni contro di noi.  Come si può pubblicare sui giornali una dichiarazione simile senza sentire quello che queste associazioni hanno da dire? Senza un processo o il diritto a un dibattimento?”

Secondo Francis la decisione del governo fa parte di un’iniziativa ampia e a lungo termine contro la società civile palestinese. “È iniziata con un attacco da parte di organizzazioni di destra come NGO Monitor, che era in rapporto diretto con il governo israeliano,” spiega. “Poi, nel 2015, è stato lanciato il ministero degli Affari Strategici di Gilad Erdan, ed ha cercato di prosciugare i nostri finanziamenti a tempo indefinito.”

Secondo il comunicato stampa del Ministero della Difesa, Addameer è stata definita una “organizzazione terroristica” perché è stata creata da importanti membri dell’FPLP per occuparsi di prigionieri politici e delle loro famiglie. Eppure Addameer è stata fondata nel 1991, il che, se le accuse fossero vere, renderebbe la recente definizione da parte di Israele in ritardo di 30 anni.

La dichiarazione del ministro sostiene anche che negli uffici di Addameer ci sono stati incontri con importanti membri dell’FPLP e che l’organizzazione porta messaggi ai prigionieri per conto dell’FPLP. Tuttavia non sono state fornite ulteriori spiegazioni.

“Queste accuse sono semplicemente false,” risponde Francis. “L’associazione non è dell’FPLP. Ci occupiamo solo di difesa legale e di fare pressione a livello locale e internazionale. Siamo stati presi di mira per anni per una ragione: siamo riusciti a cambiare il paradigma in tutto il mondo parlando di apartheid e non solo di occupazione, e stiamo fornendo materiali all’Aia [cioè alla Corte Penale Internazionale, ndtr.].

“Dobbiamo tornare alle radici di questo attacco,” evidenzia. “Dall’inizio dell’occupazione Israele ha agito contro le organizzazioni della società civile. Ha definito illegali i sindacati dei lavoratori e degli studenti. Durante la Seconda Intifada ci fu un massiccio attacco contro le associazioni di solidarietà con il pretesto che erano legate ad Hamas. Penso che allora abbiamo fatto l’errore di non averlo preso sufficientemente sul serio. All’epoca l’Autorità Nazionale Palestinese ne era contenta perché, colpire quelli che vi si opponevano, favoriva i suoi interessi.

Il nostro messaggio, insieme alle altre organizzazioni, è che non smetteremo di lavorare. Non smetteremo di fornire servizi a quelli che hanno bisogno di noi. Rifiutiamo di stare in silenzio sul governo di apartheid dell’occupazione.”

  • Yuval Abraham è un fotografo e uno studente di linguistica.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dopo che i cecchini israeliani hanno ucciso 40 palestinesi in 3 mesi, il capo dell’esercito ha detto: ‘così non va, rilassatevi’

Dopo che i cecchini israeliani hanno ucciso 40 palestinesi in 3 mesi, il capo dell’esercito ha detto: ‘così non va, rilassatevi’

Dopo che i soldati israeliani hanno ucciso “come se nulla fosse” più di 40 palestinesi in 2 mesi, il capo di stato maggiore dell’esercito ha detto: “Così non va bene” ed ha ordinato ai cecchini di “rilassarsi”. Ma quando il giornalista Ohad Hemo ha riportato l’accaduto al Forum della Politica Israeliana, la presidentessa Susie Gelman ha subito espresso le sue preoccupazioni riguardo all’evasione dei prigionieri palestinesi da un carcere israeliano.

 Philip Weiss

17 settembre 2021 – Mondoweiss

 

Tre giorni fa un’associazione filoisraeliana ha tenuto un dibattito che ha rivelato la sua totale indifferenza nei confronti delle vite dei palestinesi. Il giornalista israeliano Ohad Hemo ha detto al Forum della Politica Israeliana, un’organizzazione lobbistica israelo-americana, che, dopo che i soldati israeliani hanno ucciso “come se nulla fosse” più di 40 palestinesi in Cisgiordania in due mesi, il capo dell’esercito ha detto: “Questo non va bene” ed ha ordinato ai cecchini di “rilassarsi”.

Susie Gelman, la presidentessa del Forum della Politica Israeliana, non ha risposto alla scioccante notizia, ma ha riportato la discussione sui suoi “motivi di preoccupazione” – l’evasione dei prigionieri palestinesi da un carcere israeliano.

Ecco la descrizione secondo Hemo di questa furia omicida:

Nelle ultime settimane è successo qualcosa in Cisgiordania. Posso dirvi che negli ultimi due mesi ci sono stati più di 40 palestinesi uccisi con armi da fuoco da Israele. E siamo arrivati al punto che il capo dell’esercito ha convocato tutti i comandanti impegnati in Cisgiordania e ha detto loro: ‘Aspettate un momento, così non va bene. Voglio dire che vengono uccise facilmente persone in incursioni, manifestazioni o altro. Perciò per favore parlate ai vostri cecchini. Parlate alla vostra gente nell’esercito. Solo questo, perché si rilassino’.

Hemo, il giornalista che si occupa della questione palestinese per il Canale 12 israeliano, ha preso spunto da un notiziario del 10 agosto. Dopo che i soldati israeliani avevano ucciso più di 40 palestinesi in tre mesi, compresi “civili…uccisi per errore”, Aviv Kochavi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha richiesto dei cambiamenti.

Il Forum della Politica Israeliana palesemente non si preoccupa di queste uccisioni. Si stava svolgendo una discussione sull’evasione del 6 settembre in cui sei palestinesi sono fuggiti attraverso un tunnel dal carcere di Gilboa, e Gelman, che stava intervistando Hemo, ha ripetutamente espresso preoccupazione riguardo alle “conseguenze” di questa grave violazione della sicurezza”.

“Parlaci di questi sei prigionieri”, ha detto Gelman. “Voglio dire, questo genere di cose non dovrebbero proprio accadere. Vi sono ovviamente moltissime domande e sicuramente ci sarà un’indagine su che cosa sia andato storto…Come è mai possibile? …. Probabilmente alcune persone a causa di questo fatto perderanno il lavoro.”

Hemo ha detto: “Quattro di loro sono condannati all’ergastolo per aver ucciso degli israeliani o aver preso parte ad attacchi terroristici …. Mahmoud al-Arda è un killer, credetemi, è un vero terrorista della Jihad islamica.”

Hemo ha ripetutamente definito i palestinesi dei terroristi. Nessuno dei 4.500 palestinesi prigionieri di Israele sono prigionieri politici, ha detto Hemo, sono tutti “terroristi.”

“Stiamo parlando di circa 4.500 prigionieri attualmente detenuti nelle carceri israeliane. Non parlo di prigionieri politici, parlo di terroristi.”

Gelman e Hemo non si sono mai posti l’ovvia domanda: ci sono state delle conseguenze per gli assassini israeliani degli oltre 40 palestinesi? La risposta è sicuramente ‘no’. L’associazione (israeliana) per i diritti umani B’Tselem ha documentato che solo “in casi molto rari” i soldati israeliani sono accusati di reato per aver ucciso o ferito dei palestinesi. E quando lo sono, raramente vengono condannati. Al contrario i palestinesi in Cisgiordania vengono condannati ad un tasso di quasi il 100% nei tribunali militari – che è uno dei motivi per cui Human Rights Watch lo scorso aprile ha affermato che Israele pratica l’apartheid.

Hemo si presenterà il mese prossimo ad un’altra associazione filoisraeliana.

Philip Weiss

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net ed ha fondato il sito nel 2005-06.

 

      (Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il sistema scolastico israeliano fa un piccolo ma significativo passo nella discussione sulla Nakba

Il sistema scolastico israeliano fa un piccolo ma significativo passo nella discussione sulla Nakba

La nuova prova, che sembra destinata ad estendersi oltre le attuali 55 scuole superiori, analizza le affermazioni di un capo militare israeliano che intendeva “ripulire l’interno della Galilea” dai palestinesi.

Or Kashti

19 settembre 2021 – Haaretz

 

Una domanda negli esami di maturità di storia di quest’estate ha sorpreso le persone che sono al corrente del conflitto fra narrazioni che segna l’argomento. Per la prima volta in questo esame, che fa parte del diploma di scuola superiore, agli studenti è stato chiesto di analizzare una fonte storica sulla Nakba dei palestinesi, quando più di 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante la guerra del 1947-49, e la responsabilità israeliana in questo, anche se parziale.

Il testo che gli studenti sono stati invitati ad affrontare non è poco significativo: viene dalle memorie di Yigal Allon, comandate della squadra speciale d’elite del Palmach [formazione dell’ Haganah, milizia paramilitare ebraica all’epoca del mandato Britannico in Palestina, ndtr.] in seguito uno dei  comandanti del nuovo esercito israeliano durante la guerra. Allon scrisse con orgoglio di come, durante il conflitto, riuscì a “ripulire l’interno della Galilea” dai suoi abitanti arabi attraverso la guerra psicologica.

Questa domanda provocatoria era destinata a studenti con un curriculum di storia più approfondito di quello normale, ma i suoi principi sono già entrati nell’esame del programma regolare.

La domanda sulla “creazione del problema dei rifugiati palestinesi” appare nell’esame di storia in un programma speciale avviato in circa 55 scuole superiori. Il programma prevede meno materiale ma approfondisce maggiormente alcuni periodi. Include due testi da analizzare.

Uno venne pubblicato nel giugno del 1948 in un giornale arabo con sede a Giaffa: esso criticava la “quinta colonna, quanti abbandonano le proprie case e attività economiche e vanno a vivere altrove.” L’altra cita Allon sulla conquista della parte orientale dell’Alta Galilea e la valle di Hula, all’estremo nord.

“Abbiamo solo cinque giorni fino all’imminente data del 15 maggio [quando era prevista la fine del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.]. Abbiamo visto la necessità di ripulire l’interno della Galilea e di creare una contiguità territoriale ebraica nell’Alta Galilea,” scrisse Allon nel “Libro del Palmach”. Allon intendeva provocare la fuga di “decine di migliaia di arabi ostili rimasti in Galilea, e che durante un’invasione potrebbero colpirci dal fronte interno.” Così fece diffondere la voce secondo cui “in Galilea erano arrivati molti rinforzi e stavano per andare a bruciare tutti i villaggi nella [valle di] Hula.”

Chiese agli ebrei che erano in rapporto con gli arabi “di avvertirli in quanto amici di fuggire prima che fosse troppo tardi. E nella valle di Hula si è diffusa la voce che era tempo di scappare. Decine di migliaia sono fuggiti. Lo stratagemma ha ottenuto pienamente il suo obiettivo… vaste zone sono state purificate.”

Riguardo alla fonte palestinese, agli studenti è stato chiesto di distinguere tra il fatto storico, la partenza di arabi benestanti da Giaffa e da altre città, e l’opinione del giornalista su di essi (“quinta colonna”). Agli studenti è stato anche chiesto di confrontare i due testi e spiegare se il confronto “corrisponde a quanto si è studiato sulla creazione del problema dei rifugiati.”

Quindi in questo caso la novità risiede nel riconoscimento di un contributo israeliano al “problema”. Mentre ci sono citazioni in lavori di Benny Morris [noto storico israeliano, ndtr.] e di altri studiosi che affrontano l’espulsione di palestinesi e l’impedimento del loro ritorno durante e dopo la guerra, è difficile ignorare il posto che il problema ha ottenuto in un esame ufficiale. Forse il prossimo anno verrà persino menzionato il termine “Nakba”.

Il cambiamento è significativo anche nel contesto delle lotte negli ultimi due decenni, soprattutto da parte dei ministri dell’Istruzione di destra, contro i tentativi di modificare la narrazione storica che generazioni di studenti hanno imparato a memoria. All’inizio degli anni 2000 l’allora ministra dell’Istruzione Limor Livnat avversò i testi scolastici apparsi poco prima che assumesse l’incarico (e che erano stati approvati dal ministero dell’Istruzione; il testo “Mondo di Cambiamenti” venne bandito).

Allo stesso modo nel 2009 l’allora ministro dell’Istruzione Gideon Sa’ar [ex dirigente del Likud e attuale segretario del partito di destra “Nuova Speranza”, ndtr.] ritirò dalle librerie un testo che proponeva una discussione in base alle fonti contrastanti sulle cause del problema dei rifugiati.

All’interno di questa controversia c’era l’articolo di uno studioso palestinese che scrisse che il Piano D dell’Haganah, la milizia pre-statale, era un’“opportunità storica (per gli ebrei) di ripulire il Paese dagli arabi, di negare la presenza araba cancellandola.” Nel 2016 anche l’allora ministro dell’Istruzione Naftali Bennett curò la pubblicazione di un testo riscritto di educazione civica, secondo cui la maggioranza dei rifugiati scappò “temendo per la propria vita o rispondendo alla richiesta dei dirigenti locali o dei Paesi arabi limitrofi.”

“Grande progresso”

Il prof. Eyal Naveh dell’università di Tel Aviv, il cui testo della fine degli anni ’90 venne duramente criticato dalla destra, afferma di non ricordare nulla riguardo alla “questione dei profughi” nei precedenti esami di maturità. “È un grande progresso,” afferma. “L’inizio della guarigione…In fin dei conti la citazione di Allon può essere utilizzata per criticare la nascita dello Stato, eppure chi ha scritto il testo dell’esame ha avuto sufficiente fiducia da utilizzarlo.”

Naveh afferma che chiedere un confronto tra i due testi potrebbe comportare niente meno che un profondo cambiamento pedagogico.

“Il confronto consente agli studenti di comprendere che non c’è una sola verità, ma che alla storia, come a qualunque questione umana, viene data un’interpretazione diversa, a cui gli studenti devono aggiungere la propria interpretazione,” sostiene. “Questo esame dialoga con il passato, si collega a dilemmi contemporanei e provoca un pensiero critico. Gli studenti devono affrontare le questioni, e ciò è eccellente.”

Tsafrir Goldberg dell’università di Haifa è stato uno degli autori del testo “Costruire uno Stato in Medio Oriente”, che venne eliminato nel 2009.

Afferma che i nuovi programmi di storia, noti con l’acronimo in ebraico di “Sahlav”, “consentono una discussione critica e invitano i docenti a sfidare i loro studenti con domande meditate e a tenere una discussione e un dibattito su questioni insidiose. È stato Bennett a decidere che l’esame di maturità in storia dovesse essere assegnato in base alle linee innovative di Sahlav. Quindi dovrebbe essere visto come un chiaro sentiero di chiarezza.”

Le lettere dell’acronimo ebraico Sahlav non significano niente di particolarmente stimolante: “Curiosità, ragionamento e apprendimento in modo divertente.” L’obiettivo è incoraggiare “l’apprendimento attivo”, un approccio che dovrebbe impedire che gli studenti dimentichino quello che hanno imparato pochi minuti dopo l’esame. Un modo per farlo, concordano i pedagogisti, è il continuo impegno su questioni complesse che possono anche essere delicate: per esempio la Nakba.

Il 60% del voto nel programma si basa su esami predisposti dagli insegnanti e su documenti assegnati da loro, il 40% su un esame con il libro a disposizione sviluppato specificamente per il programma. Due anni fa circa 7.000 studenti hanno fatto l’esame. Durante la pandemia le scuole hanno scelto di fare solo un esame esterno per le materie umanistiche, per cui il numero di studenti che hanno fatto l’esame Sahlav è sceso a circa la metà. Non ci sono state praticamente differenze nella media dei voti tra l’esame Sahlav e quella dell’esame di maturità normale.

Le scuole che vogliono far parte del programma Sahlav devono rispondere a certe condizioni, comprese più ore di classe di storia, e gli insegnanti devono partecipare a una serie di seminari di formazione. Il programma è in corso in scuole di tutto il Paese, ma non distribuito in modo omogeneo: circa metà delle scuole sono nelle comunità agricole come kibbutz [con proprietà collettiva, ndtr.] e moshav [con proprietà cooperativa, ndtr.], e non è inclusa alcuna scuola della comunità araba.

Il risultato potrebbe essere un involontario allargamento del divario: da una parte ci sono insegnanti che insistono a indagare questioni controverse e studenti che imparano a fare domande e vedono le cose da una prospettiva differente. Dall’altra, insegnanti e studenti che si basano più su un insegnamento ripetitivo.

Secondo Gilad Maniv, responsabile per l’insegnamento della storia nel ministero dell’Istruzione e l’ideatore di Sahlav, il programma si basa sul normale curriculum di insegnamento della storia, ma in modo più approfondito, quindi le questioni sono più impegnative.

Non si tratta solo della responsabilità israeliana per la fuga dei palestinesi dalla Galilea, ma comporta l’invito agli studenti a dire la loro e forse anche a mettere a confronto affermazioni di studiosi famosi (per esempio Tom Segev, sull’indifferenza del ministero dell’Istruzione e di “moltissime persone nel Paese per la lotta agli immigrati clandestini” – ebrei che entrarono illegalmente durante il Mandato britannico. Anche il fatto che “nel curriculum la Prima Aliyah [immigrazione ebraica in Palestina tra il 1881 e il 1903, ndtr] e la Seconda Aliyah [dal 1904 al 1914, ndtr.] siano raggruppate insieme. Ciò è giustificato?)”

Una simile sfida non è nuova. Quando Bennett era ministro dell’Istruzione agli studenti venne chiesto se “la principale enfasi nell’insegnamento della Guerra d’Indipendenza [la prima guerra arabo-israeliana nel 1947-49, ndtr.]” dovesse essere posta sulla sua natura in quanto “guerra esistenziale dell’Yishuv (la comunità ebraica nel periodo pre-statale) e dello Stato di Israele.”

“I libri di testo si occupano della Nakba e del problema dei profughi, quindi il test riflette il curriculum,” afferma Maniv, aggiungendo che, dato che l’esame permette di utilizzare il libro di testo, “ciò consente un ragionamento critico come fare un confronto.”

L’unità Ricerca e Sviluppo dell’insegnamento della storia

Naveh, dell’università di Tel Aviv, suggerisce una spiegazione lievemente diversa. Sostiene che i cambiamenti sono principalmente il risultato delle “pressioni e critiche da parte di accademici e giornalisti che sono andate avanti per decenni. Il ministero dell’Istruzione lavora con lentezza, ma le cose mano a mano filtrano.” Un’altra possibilità è che il piccolo contesto esclusivo consente una maggiore libertà.

Maniv definisce il programma “l’unità ricerca e sviluppo dell’insegnamento della storia.” I cambiamenti richiedono “una preparazione a lungo termine.” Gli insegnanti “che sono abituati a dettare il materiale per l’esame devono rileggere fonti storiche e affrontare questioni complesse.”

È difficile anche per gli studenti: a volte hanno difficoltà a emanciparsi da un “apprendimento meccanico,” sicuramente quando gli altri argomenti sono ancora insegnati in modo tradizionale.

Maniv afferma che qualche anno fa questo è stato il contesto di una protesta studentesca nella scuola in cui l’insegnamento è stato impostato con il programma Sahlav. Hanno presentato una petizione al preside per “ritornare alla dettatura nelle lezioni di storia.”

Eppure Maniv dice che il prossimo anno la sua unità prevede di aggiungere una parte con il libro a disposizione per l’esame di maturità normale. “Se gli esami di diploma continueranno ad esistere nei prossimi anni, saranno nel formato Sahlav,” afferma.

Il “problema dei profughi palestinesi” è stato inserito nel programma ufficiale alla fine degli anni ’90, ma è passato più di un decennio prima che i libri di testo iniziassero ad affrontarlo. Da allora esso è comparso a distanza di qualche anno nei normali esami di maturità.

Un altro esempio, totalmente diverso dall’approccio Sahlav, può essere trovato nell’esame di storia della maturità nell’inverno del 2020: “Spiegare i due fattori della creazione del problema dei profughi palestinesi: uno associato alla società palestinese e uno che ha contribuito a questo problema.” Secondo Goldberg, dell’università di Haifa, simili parole “invitano ad una discussione molto ridotta.”

Tuttavia, secondo le risposte pubblicate lo scorso anno dal ministero dell’Istruzione, i fattori che portarono al problema dei rifugiati non solo include il “gravissimo shock” della partenza delle famiglie palestinesi benestanti che “lasciarono il Paese” (cioè, fu colpa dei palestinesi). Le risposte hanno incluso anche il fatto che “dopo l’invasione da parte delle armate arabe ci furono casi in cui le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] allontanarono o espulsero la popolazione araba e ne distrussero i villaggi.” E ci furono altri fattori: “Il rifiuto dei Paesi arabi, tranne la Giordania, di accettare i rifugiati,” insieme al “(rifiuto) dello Stato di Israele di consentire ai profughi di tornare nel suo territorio.”

In uno studio di qualche anno fa Goldberg scoprì che circa il 5% degli studenti che hanno sostenuto l’esame aveva scelto di rispondere alle domande relative al problema dei rifugiati. “Questo dato potrebbe indicare quanto i docenti si impegnino nell’insegnare questa complicata questione, o il numero di docenti che scelgono di insegnarlo,” afferma. “Verosimilmente gli studenti si devono sentire preparati per rispondere” a queste domande.

In un altro studio i docenti hanno riportato che il timore di insegnare questioni storiche sensibili proviene meno da preoccupazioni riguardo la censura dall’alto e più dall’autocensura, soprattutto “dalla confusione che può scatenare in classe.” Un’altra spiegazione è che l’argomento è insegnato in genere alla fine dell’anno scolastico, quando la pressione per completare tutto il programma prima dei test e degli esami di maturità non consente una trattazione approfondita.

Domande simili compaiono occasionalmente anche negli esami di maturità di storia nelle scuole religiose statali. Secondo Roy Weintraub, studente di dottorato all’università di Tel Aviv che studia l’argomento, le scuole religiose statali “non vogliono occultare le ingiustizie che gli ebrei commisero nella Guerra di Indipendenza. Dalla nostra prospettiva imparare le sofferenze dei palestinesi durante la fondazione dello Stato ci aiuta a sostenere che non ci sono differenze tra l’insediamento degli ebrei sulle terre conquistate nel 1948 e su quelle conquistate nel 1967. Ciò è parte della narrazione che i coloni presentano in quanto successori dei pionieri [i primi colonizzatori sionisti, ndtr.].”

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele non può essere accusato di niente

Israele non può essere accusato di niente, grazie alla narrazione della cultura dell’hasbara della vittimizzazione ebraica.

L’etnocentrismo ha devastato la cultura politica ebraica.

Yakov Hirsch

20 settembre 2021 – Mondoweiss

 

Il mio lavoro si concentra sulla cultura dell’hasbara: la costruzione sociale di una realtà alternativa che si centra sulla vittimizzazione del popolo ebraico che ha poco a che vedere con il mondo reale. Ma, nonostante le idee della cultura dell’hasbara siano a-storiche, i suoi concetti e discorsi sull’odio contro gli ebrei sono ora un’opinione diffusa nella cultura politica ebraica e americana. E ciò ha avuto parecchie conseguenze disastrose per il mondo in cui viviamo.

Hasbara è la parola israeliana per propaganda, e la cultura dell’hasbara sostiene che l’antisemitismo è un odio unico che va collocato in una categoria differente dalle altre forme di odio. E i guardiani della narrazione della vittimizzazione fanno tutto il necessario per continuare a mantenere questa prospettiva. In un editoriale del 2009 sul NYT riguardo ai “timori di Israele” Jeffrey Goldberg ha espresso perfettamente la prospettiva della cultura dell’hasbara riguardo all’antisemitismo “eterno”:

“L’antisemitismo è un odio sui generis che è mutevole, impermeabile alla logica ed eterno.”

È impossibile comprendere il mondo attuale senza prima capire la grande lotta della cultura dell’hasbara contro questo “odio sui generis”. I proseliti della cultura dell’hasbara sottolineano eventi della storia ebraica per trasmettere la convinzione che tutto il mondo sia ossessionato, e sempre lo sia stato, dall’eliminazione degli ebrei, arrivando fino ad oggi con l’esistenza dello Stato ebraico.

La prospettiva vittimistica di Yair Rosenberg non riflette il mondo reale. Come ho dimostrato nel mio ultimo articolo, la nuova serie di video di Rosenberg “per spiegare l’antisemitismo” ascrive agli eventi uno scorretto “significato” più ampio. Gli esseri umani, i loro pensieri e motivi individuali non sono come i sostenitori della cultura dell’hasbara di solito interpretano il mondo. I sostenitori della cultura dell’hasbara sono alla continua ricerca di quel “significato più ampio”.

Nel suo video “Al di là di sinistra e destra” Yair Rosenberg sostiene che l’antisemitismo continua a prosperare oggi perché persone di destra come di sinistra tendono a vigilare contro il fanatismo antiebraico solo quando proviene dai loro nemici politici. La voce narrante afferma che si capisce perché ciò avvenga.

“È molto più difficile parlarne quando l’intolleranza viene dai tuoi amici e alleati.” Con chi riesci a provocare dei cambiamenti, chiede: con i tuoi amici o con i tuoi nemici? Nella tua comunità o in quella di qualcun altro? Quindi, mentre la destra denuncia l’antisemitismo nella sinistra e la sinistra denuncia quello di destra, esse non condannano gli intolleranti della propria parte politica.

Nell’immaginario della cultura dell’hasbara quello che gli storici chiamano “essere antisemita” è un’incessante persecuzione degli ebrei. E di conseguenza gli ebrei devono essere protetti. Questo è il ruolo e il dovere che si sono assunti i giornalisti della cultura dell’hasbara. E, dato che secondo la cultura dell’hasbara il popolo ebraico e ora Israele sono eternamente vittime, diventano anche eternamente innocenti.

Il risultato di questa innocenza “fuori dalla storia” è che ora diventa “comprensibile” qualunque odio e razzismo che provenga dalla comunità ebraica.

Prendete in considerazione l’opinione di Yair Rosenberg sull’ ‘imbarazzante’ politica israeliana Miri Regev, ex-ministra della Cultura di Benjamin Netanyahu. Secondo Rosenberg l’estremismo di destra di Regev è comprensibile a causa dei tweet antisemiti che egli ha trovato su Twitter.

“Miri Regev è una dei ministri di Israele più di destra, demagogica e imbarazzante, ma menzogne inquietanti come queste sul potere malvagio di Israele aiutano la gente come lei ad essere eletta.”

E non si tratta solo di Rosenberg. Tutta una generazione di giornalisti della cultura dell’hasbara ha imposto a forza al mondo reale la sua prospettiva vittimistica: l’antisemitismo eterno rende comprensibile qualunque cosa Israele e i suoi sostenitori dicano. Prendete in considerazione la reazione di Jeffrey Goldberg [giornalista USA, ndtr.] all’accoglienza estasiata che l’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] ha riservato a Donald Trump nel 2016:

“Quanti di voi sono sorpresi che un pubblico filo-israeliano abbia apprezzato un discorso filo-israeliano di Donald Trump dovrebbero smettere di essere sorpresi.”

Quello a cui dovrebbe rispondere Jeffrey Goldberg se gli venisse chiesto è: “Perché la gente dovrebbe smettere di manifestare sorpresa riguardo all’entusiasmo delirante del pubblico dell’AIPAC per Donald Trump? Quello che Goldberg dovrebbe dire è la differenza tra il pubblico dell’AIPAC e la solita folla seguace di Trump che Goldberg ha passato anni a condannare incessantemente. Perché Goldberg sta concedendo un’approvazione a un’organizzazione ebrea filo-israeliana che non attribuirebbe a un’altra aggregazione favorevole a Trump? Dov’è finito il suo usuale moralismo?” La sua risposta a questa domanda spiegherebbe parecchio.

Tutto ciò che deve avvenire per dare un senso al mondo è che Jeffrey Goldberg risponda a questa domanda.

Si noti che Peter Beinart [noto intellettuale e commentatore ebreo americano, ndtr.] non ha nessun problema a condannare quello stesso evento. Come ho già sostenuto, l’importanza culturale di Peter Beinart è che egli è il giornalista ebreo più influente senza che abbia una prospettiva vittimistica.

Il discorso della politica estera è pieno di esempi di come la prospettiva vittimistica modelli il mondo. Come Bret Stephens ha spiegato ai lettori del New York Times perché sembrava che Israele stesse per annettere i territori? Ha detto che la mano di Netanyahu era stata forzata dalle critiche globali contro Israele.

Naturalmente, secondo la prospettiva vittimistica di Stephens, annettere i territori è “comprensibile”.

Questa prospettiva vittimistica rende legittima qualunque cosa abbia fatto Netanyahu. Ho già denunciato ad alta voce quanti collaborano con Netanyahu per fuggire dal luogo del loro delitto culturale.

Si veda questo tweet di David Frum. Frum è stato dalla parte di Netanyahu contro il giornale [israeliano] progressista Haaretz. Dopo che Chemi Shalev di Haaretz ha twittato un editoriale del New York Times in cui si sosteneva che “Benjamin Netanyahu sta schiacciando la stampa libera di Israele,” Frum ha risposto:

“Il malefico piano di Netanyahu per schiacciare la stampa? Consentire l’esistenza di un giornale che non piace alla sinistra israeliana. Proprio così.”

Il lungo regno di Netanyahu non può essere compreso senza prendere in considerazione la protezione culturale garantita da questi giornalisti ebrei. Non era Jeffrey Goldberg l’esperto numero 1 al mondo su Israele e Netanyahu quando Obama e Kerry erano apparentemente così anti-israeliani? Dov’è andato? Chi meglio di Goldberg per spiegare come sia possibile che il corrotto uomo forte sacro della cultura dell’hasbara sia arrivato in un attimo a diventare dittatore degli ebrei? Ma, come previsto, una volta diventato capo-redattore dell’Atlantic [rivista USA progressista di cultura e politica estera, ndtr.]  sotto Trump, Goldberg ha perso ogni interesse in Israele e nelle questioni ebraiche che gli hanno fatto fare carriera.

Vediamo qualche altra azione “comprensibile” degli israeliani. Secondo la cultura dell’hasbara è comprensibile che gli ebrei israeliani lincino arabi. Leggete solo l’articolo di Jeffrey Goldberg del 2012 “Un quasi linciaggio a Gerusalemme”, in cui ha richiamato all’ordine la giornalista del NYT Isabel Kershner per aver definito “linciaggio” un’imboscata di ebrei contro un arabo. Ancora una volta, in base alla cultura dell’hasbara l’attacco contro arabi innocenti è comprensibile.

“Questo tipo di cose non sono realmente una novità. Avendo scritto un articolo sul corteo funebre di Meir Kahane, il rabbino razzista assassinato a New York più di 20 anni fa, posso testimoniare il fatto che teppisti ebrei, molti dei quali provenienti dai quartieri più poveri di Gerusalemme (e molti che sono discendenti di ebrei fuggiti o espulsi da Paesi arabi), si sono periodicamente scagliati contro arabi innocenti. Lo hanno fatto durante il funerale e in incidenti successivi.”

Notate il sottotesto: dopotutto questi ebrei provenivano da quartieri poveri e molti di loro erano discendenti di ebrei che fuggirono, o furono espulsi, da Paesi arabi. Quindi la loro vendetta è naturale.

Sono questo offuscamento e oscurantismo che DEVONO portare ai pogrom contro gli arabi che da allora sono diventati eventi quasi settimanali.

Il punto di vista della cultura dell’hasbara sull’innocenza di Israele di fronte all’eterno antisemitismo è la ragione per cui l’onesto Rosenberg e altri combattenti contro l’odio sono rimasti in silenzio mentre l’epoca dell’odio da anni ’30 si ripeteva di fronte a tutto il mondo. Il loro discorso vittimistico porta alla totale impunità e immunità di Benjamin Netanyahu. Si legga questo tweet di Eli Lake:

“Fantastico articolo di @LahavHarkov [giornalista israeliana del Jerusalem Post, ndtr.] su Tablet riguardo alla disponibilità di Israele nei confronti dei regimi autoritari e alla complicata posizione in cui mette lo Stato ebraico. Lo consiglio caldamente.”

C’è da meravigliarsi che Netanyahu sia andato in giro per il mondo a distribuire programmi di spionaggio informatico a regimi reazionari? I giornalisti della cultura dell’hasbara gli coprono le spalle. Secondo la prospettiva vittimistica Netanyahu è in una “posizione difficile” e cerca di proteggere Israele. Qualunque cosa Netanyahu abbia fatto è diventata “comprensibile” e nessuno lo sa più di Netanyahu. Come ho sostenuto, questo è stato il segreto del suo successo.

E dalla prospettiva della vittimizzazione ebraica Israele non può essere accusato di niente. Perché? Perché essere troppo duri con Israele “rafforzerà” gli antisemiti e provocherà il rischio della distruzione di Israele. Si veda questo tweet di Rosenberg per capire come la cultura dell’hasbara risponda alle accuse di apartheid contro Israele. Secondo la dottrina della cultura dell’hasbara, “la progressione dei tweet affatto sorprendente” è il passaggio da “Israele è colpevole di apartheid” all’idea che “l’Olocausto non ci sia mai stato”.

È proprio così? Quelli di noi che vivono nel mondo reale sanno che sono stati i soldi e la cultura dell’hasbara di Sheldon Adelson [miliardario ebreo statunitense, ndtr.] che hanno dettato la politica di Trump riguardo a Israele, per non parlare della costante pressione di suo [di Trump] genero a favore di Israele. Questo è un altro esempio del fatto che Israele e il popolo ebraico sono stati tolti dalla storia, come ho scritto nel mio ultimo articolo.

Quindi perché la cultura dell’hasbara pensa che così tanti ce l’abbiano e sempre ce l’avranno con il popolo ebraico? O, come dice Bari Weiss [giornalista del Wall Street Journal, del NYT e di Die Welt, ndtr.], perché “tutti odiano gli ebrei”?

La risposta della cultura dell’hasbara è che il popolo ebraico è migliore di qualunque altro popolo. Yair Rosenberg descrive quanto sia eccezionale il popolo ebraico.

“Nessuno che conosca gli ebrei rimarrà sorpreso che Israele abbia definito la protesta come un diritto fondamentale che è consentito persino durante un lockdown d’emergenza.”

È così che due anni fa Bari Weiss ha detto a Jake Tapper [noto giornalista televisivo USA, ndtr.] nel [centro culturale ebraico, ndtr.] 92d Street Y:

“La nostra unicità è ciò che continua a far impazzire la gente.”

L’etnocentrismo che si nota in questo articolo ha devastato la cultura politica ebraica. E non c’è una lotta ebraica più importante che smentire questa sacra prospettiva vittimista della cultura dell’hasbara.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Israele cattura gli ultimi due palestinesi fuggiti

Israele cattura gli ultimi due palestinesi fuggiti

Tamara Nassar

20 settembre 2021-The Electronic Intifada

 

Nella notte di domenica, le forze di occupazione israeliane hanno catturato i due palestinesi ancora in fuga dall’inizio di questo mese da una delle prigioni più fortificate del paese.

Ayham Kamamji e Munadel Infiat sono stati arrestati nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, l’agenzia di spionaggio e tortura nazionale israeliana Shin Bet ha ricevuto informazioni sulla posizione dei due uomini poche ore prima dell’arresto.

La polizia e i soldati israeliani hanno circondato la casa in cui alloggiavano.

Gli israeliani sapevano, secondo quanto da loro affermato, che i due erano a Jenin da diversi giorni. Il capo della polizia Kobi Shabtai ha detto che Israele stava preparando una “operazione complessa” per catturare gli uomini.

Ma entrambi gli uomini, disarmati, si sono arresi senza opporre resistenza.

In un’intervista con i media locali, il padre di Kamamji ha detto che suo figlio lo ha chiamato nelle prime ore di domenica e ha spiegato che aveva deciso di costituirsi per proteggere i residenti dell’edificio.

Ciò è credibile, dato che Israele ha regolarmente utilizzato la cosiddetta “procedura della pentola a pressione” per costringere i palestinesi ricercati ad arrendersi uscendo da un edificio in cui si nascondono, oppure a essere uccisi in una esecuzione extragiudiziale.

Le forze israeliane usano macchine edili come armi, insieme ad armi da fuoco ed esplosivi, per distruggere gradualmente l’edificio sopra quelli che si nascondono all’interno se si rifiutano di arrendersi.

Altri si sono chiesti perché i due uomini non siano andati al campo profughi di Jenin, che è vicino alla città e un’area che Israele evita a causa della forte resistenza.

Tuttavia, la loro capacità di evitare la cattura per quasi due settimane, pur entrando nella Cisgiordania occupata nel mezzo di una massiccia caccia all’uomo, è stata un grande imbarazzo e umiliazione per Israele.

Nonostante la loro cattura, la fuga dei sei uomini è vista come una vittoria che solleva il morale dei palestinesi di tutto il mondo, che vedono la loro impresa come un colpo devastante per il cosiddetto apparato di sicurezza di Israele.

Non è chiaro se l’Autorità Nazionale Palestinese o altri informatori abbiano avuto un ruolo nella cattura degli uomini, dato il cosiddetto coordinamento della sicurezza – collaborazione – dell’A.N.P. con Israele.

I sei uomini erano fuggiti dalla prigione di Gilboa nel nord di Israele il 6 settembre attraverso un tunnel sotterraneo dal bagno della loro cella.

Il tunnel sbucava appena fuori le mura della prigione direttamente sotto una torre di guardia.

Mahmoud Arda e Yacoub Qadri sono stati catturati nella città di Nazareth, nel nord di Israele, il 10 settembre, mentre Muhammad Arda e Zakaria Zubeidi sono stati arrestati all’inizio del giorno successivo a Shibli Umm al-Ghanam, una città palestinese nel nord di Israele.

L’intelligence israeliana e le autorità carcerarie hanno interrogato i quattro uomini che devono affrontare nuove accuse relative alla loro fuga.

 

(Traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

 

 

È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

Un recente sondaggio rivela che persino gli esperti occidentali e israeliani sanno che due Stati in Palestina sono impossibili.

Haidar Eid*

19 settembre 2021 – Al Jazeera

 

Lo scorso agosto l’autorevole rivista USA Foreign Affairs ha condotto un sondaggio sulla soluzione dei due Stati in Palestina fra “autorità con conoscenze specialistiche e i maggiori generalisti del campo”. I 64 esperti dovevano rispondere alla domanda “la soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile?” e spiegare la propria posizione con un breve commento.

La metà ha risposto che la soluzione dei due Stati non è morta, sette non si sono espressi e 25 hanno risposto di sì – quella soluzione è morta.

Tra chi ha risposto di no, qualcuno ha tuttora oppure ha avuto in precedenza a che fare con istituti di ricerca sionisti, quali il Washington Institute for Near East Policy. Uno di loro è Martin Indyk, ex ambasciatore USA allo Stato segregazionista di Israele, che prima di iniziare la carriera diplomatica ha prestato servizio come vicedirettore per la ricerca dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, considerata la più potente lobby negli USA, che sostiene lo Stato di Israele, ndtr].

L’elenco comprende anche Dennis Ross e altri fortemente impegnati nel cosiddetto “processo di pace”, una storia infinita il cui obiettivo è salvaguardare lo Stato segregazionista di Israele e liquidare del tutto i diritti basilari dei palestinesi.

Ovviamente chi ha avuto parte nel “processo di pace” continua a restare attaccato all’illusione che sia possibile instaurare un bantustan [territori del Sudafrica riservati alle popolazioni native dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid, ndtr.] palestinese.

Chi ha difeso la soluzione dei due Stati ha ammesso che alcune “barriere” ne ostacolano la realizzazione; fra queste la più citata è stata “la mancanza di volontà politica” da “entrambe le parti”. Qualcuno ha persino suggerito che la responsabilità sia esclusivamente della dirigenza palestinese, in quanto Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese non hanno il sostegno del popolo palestinese necessario per fare i sacrifici richiesti ed accettare l’apartheid e le politiche di insediamento coloniale di Israele.

È curioso che alcuni di quelli che non si sono espressi abbiano preferito adottare una posizione relativista post-moderna su un tema di libertà, uguaglianza e giustizia – perché ciò altro non è. Altri ancora hanno adottato un approccio alla questione palestinese incentrato sui diritti umani, rifiutandosi di assumere una posizione politica.

Sta a ciascuno giudicare che cosa significhi restare “neutrali” su un’evidente questione di giustizia. Solo pochi decenni fa chi avrebbe osato essere “neutrale” sulla fine dell’apartheid in Sudafrica?

In generale gran parte dei sostenitori della soluzione dei due Stati nel mondo accademico, nei circoli di politica estera e così via sono israeliani, americani o europei che non trovano nulla da ridire su un progetto di insediamento coloniale. I pochi palestinesi che sono a favore di questo approccio razzista alla questione palestinese non riconoscono i fatti compiuti: il sistema fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è in realtà quello di un unico Stato, uno Stato di apartheid dove una comunità gode di tutti i privilegi di cittadinanza, mentre l’altra è privata dei suoi diritti umani fondamentali.

È piuttosto difficile non notare il razzismo e l’ingiustizia connaturati alla realtà segregazionista in Palestina, dove a soffrire non sono soltanto i palestinesi che vivono nei territori occupati dal 1967, come lascia intendere la domanda di Foreign Affairs.

Da parte mia, ho partecipato al sondaggio credendo che fosse importante far sentire la mia voce di palestinese. Ecco ciò che ho scritto nel limitato spazio a disposizione:

“Oltre al fatto che Israele ha intrapreso passi irreversibili che hanno reso impossibile questa soluzione – ossia l’espansione delle colonie ebraiche; l’annessione di altra terra in Cisgiordania oltre che a Gerusalemme; la costruzione del muro dell’apartheid che separa i palestinesi da altri palestinesi; il blocco della Striscia di Gaza; l’approvazione da parte della Knesset della razzista Nation-State Law [Legge sullo Stato-Nazione: questa legge, approvata dal parlamento israeliano nel 2018, restringe ai cittadini ebrei il diritto di autodeterminazione, legittimando così la discriminazione dei cittadini non ebrei, ndtr] – in linea di principio la soluzione dei due Stati non garantisce al popolo palestinese i diritti fondamentali previsti dal diritto internazionale (l’uguaglianza e il diritto al ritorno). Una soluzione di tipo bantustan è una soluzione razzista per antonomasia.”

Che una pubblicazione USA così autorevole sollevi questa domanda sulla realtà dei due Stati in Palestina e si assicuri che ci siano voci palestinesi fra gli intervistati è sicuro indizio della capacità dei palestinesi di fare sentire la propria voce nel cuore dell’impero. È anche rivelatrice del fatto che lentamente ma inesorabilmente il dibattito internazionale sulla Palestina si sta allontanando dagli argomenti del “processo di pace” o della “intransigenza” della dirigenza palestinese.

Se un intervistato ha espresso totale sconcerto per la semplice decisione da parte di Foreign Affairs di fare una simile domanda, ciò dà evidentemente fastidio ai sionisti USA e israeliani. Il tono difensivo adottato in molte delle risposte negative alla domanda indica che persino i più accaniti sostenitori di Israele sono consapevoli che la soluzione dei due Stati non può risolvere la questione palestinese e che essa è già morta a causa delle politiche israeliane di apartheid in Palestina.

L’alternativa è evidente: uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica, senza distinzione di razza, etnia e religione; uno Stato simile al Sudafrica post-apartheid, che non sia basato sulla oppressione di una comunità da parte di un’altra. Non si può arrivare ad una vera soluzione della questione palestinese se si parte da idee razziste sulla separazione dei popoli. Soltanto il recupero dell’identità multiculturale della Palestina, che sia davvero inclusiva, laica e democratica, può portare ad una pace duratura non solo fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ma anche oltre.

*Haidar Eid è professore associato all’Università Al-Aqsa di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




Nel cuore di Tel Aviv un quartiere operaio abitato da mizrahi combatte contro il trasferimento forzato

 

Nel cuore di Tel Aviv un quartiere operaio abitato da mizrahi combatte contro il trasferimento forzato

Le autorità israeliane e i magnati dell’immobiliare per decenni hanno trasferito gli abitanti di Givat Amal che vi erano stati mandati negli anni ‘50 per impedire ai rifugiati palestinesi di far ritorno alle proprie terre. Ora gli ultimi ancora rimasti lottano per la sola casa che abbiano mai avuto.

Oren Ziv

19 settembre 2021 – +972 magazine

 

Per gran parte degli ultimi dieci anni gli abitanti di Givat Amal, un piccolo quartiere operaio nella zona benestante di Tel Aviv nord abitato da mizrahi [ebrei di Paesi arabi o musulmani che vivono in Israele, ndtr.], sono vissuti nell’ansia per il proprio destino. Nel 2014, la polizia aveva sfrattato con violenza 80 famiglie di Givat Ama per far posto a lussuosi condomini sparsi su 20 lotti. Oggi 45 delle famiglie rimaste nel rione non sanno quando le autorità li verranno a cacciare.

Nel 2020 il tribunale distrettuale di Tel Aviv Court aveva emesso altri ordini di sfratto, ordinando a tutti gli abitanti di Givat Amal di lasciare le proprie case in cambio di risarcimenti per un totale di 42 milioni di (nuovi) shekel (circa 11 milioni €) provenienti dalla El-Ad Group, una società immobiliare americana con sede in Israele (separata dal gruppo di coloni che opera a Gerusalemme Est).

Ma il 9 agosto, appena 24 ore prima che 20 di quegli ordini diventassero operativi, gli abitanti hanno ricevuto comunicazione da parte delle autorità israeliane che gli sfratti erano stati rimandati a data da destinarsi. Il rinvio è arrivato dopo settimane di una fortissima opposizione da parte di attivisti e una diffusa protesta che ha bloccato le principali strade della città in aggiunta alle pressioni esercitate da membri della Knesset e ministri.

Sembrava che la sospensione volesse dire che gli abitanti avrebbero finalmente potuto tirare un sospiro di sollievo. Ma il mese scorso le autorità hanno emesso un’altra serie di ordini di sfratto per novembre quando, è opinione diffusa, la polizia cercherà di sfrattare gli ultimi abitanti di Givat Amal.

Punire gli ‘invasori’ mizrahi

La storia di Givat Amal racchiude la storia dello Stato di Israele: la fuga dei palestinesi dai loro villaggi e la loro trasformazione in eterni rifugiati, il razzismo e la discriminazione strutturale subita dagli immigrati mizrahi e la svolta di Israele verso una forma di ipercapitalismo che privilegia il profitto dei miliardari rispetto alle vite del ceto medio e della classe operaia.

Oggi, Givat Amal è un quartiere ebraico situato vicino a Bavli, una zona agiata a Tel Aviv nord. Era sorto sulle rovine del villaggio palestinese di al-Jammasin al-Gharbi, i cui abitanti musulmani vi avevano abitato almeno fino dal diciottesimo secolo; nel 1948 aveva una popolazione di 1.250 persone sparsa su circa 136 ettari di terreno. I bambini del villaggio studiavano nella vicina scuola di Sheikh Muwannis e gli abitanti si guadagnavano da vivere con i bufali (che danno il nome al villaggio) e coltivando agrumi, banane e cereali. Metà della terra del villaggio era già stata acquistata dagli ebrei prima della fondazione dello Stato di Israele.

Nel marzo 1948, mentre vigeva ancora il mandato britannico, tutti gli abitanti di al-Jammasin al-Gharbi fuggirono. Come a quasi tutti i palestinesi che furono espulsi o fuggirono durante la guerra del 1948, agli abitanti del villaggio fu impedito dalle nuove autorità israeliane insediatesi dopo la fondazione dello Stato di ritornare alle proprie case.

Negli anni immediatamente successivi, 130 famiglie, quasi tutte mizrahi, furono spostate ad al-Jammasin al-Gharbi per rimpiazzare i palestinesi. Sono vissute qui fino a ora. Le autorità promisero agli abitanti che avrebbero potuto risiedere in ogni edificio che sarebbe sorto in futuro sui terreni, ma lo Stato non fornì mai al quartiere nessuna infrastruttura basilare.

Fin dall’inizio i mizrahi che abitavano ad al-Jammasin al-Gharbi, ora Givat Amal, furono visti come invasori dall’élite ashkenazita, il gruppo etnico europeo che aveva fondato lo Stato di Israele e che ne ha dominato il gotha politico, culturale ed economico per quasi tutta la sua storia. Il primo a etichettarli così fu nel 1953 Chaim Levanon, sindaco di Tel Aviv, quando il Comune condusse il primo di vari tentativi falliti di espellere con la forza gli abitanti dal quartiere.

Nel 1960 il vicesindaco Yehoshua Rabinowitz disse che gli abitanti di Givat Amal erano fatti “di un materiale umano diverso” da quelli che vivevano a Nordia, un tempo un quartiere nel centro di Tel Aviv abitato prevalentemente dal ceto medio ashkenazita. Documenti storici hanno rivelato che, fin dal primo momento in cui i nuovi residenti misero piede nel rione, il Comune li considerò una seccatura perché abbassavano il valore dei terreni.

Quindi, mentre agli ebrei ashkenaziti che vivevano nei villaggi vicini a Givat Amal fu data la possibilità di risolvere le loro dispute sulle terre o di comprare le proprietà a un prezzo simbolico, queste stesse opportunità non furono estese a quelli di Givat Amal e ad altri nuovi quartieri mizrahi. Lo Stato trascurò questi quartieri, almeno fino a quando il valore degli immobili non ha cominciato a salire nel resto del Paese e particolarmente a Tel Aviv nord, dove l’area stava diventando uno dei posti ideali per la speculazione edilizia.

Negli anni ‘60, i terreni di Givat Amal furono venduti dallo Stato a privati. I diritti dei terreni passarono di mano fra i tycoon magnati dell’immobiliare, fino a quando non sono stati divisi tra il Comune di Tel Aviv e due investitori privati: la famiglia Kozahinof e Yitzhak Tshuva, miliardario israeliano e magnate dell’immobiliare, che progettavano di costruirci grattacieli di lusso. Tshuva acquistò i diritti nel 1987 a condizione che gli abitanti fossero risarciti per aver dovuto abbandonare le proprie case. Da allora Tshuva ha sostenuto che i termini dell’accordo dovrebbero essere cambiati, dato che gli abitanti non sono mai stati i proprietari legali della terra.

Durante gli sfratti di massa del 2014 la squadra antisommossa fece irruzione nelle case di Givat Amal e allontanò con la forza abitanti e attivisti che si erano barricati dentro, lasciando molti di loro traumatizzati. Ad alcuni abitanti furono dati risarcimenti ridotti o addirittura niente, costringendoli ad andare ad abitare presso familiari o ad affittare appartamenti lontani dal posto dove erano vissuti tutta la loro vita. In seguito agli sfratti la El-Ad Group, la società di Tshuva, iniziò la costruzione di grattacieli di lusso sulle rovine delle case.

Nel 2016, Tshuva presentò al tribunale una richiesta di sfratto, sostenendo che il resto degli abitanti occupava abusivamente la sua terra. Chiese anche 2,5 milioni di shekel (circa 667.000 euro) d’affitto per il lotto. L’anno scorso il tribunale distrettuale di Tel Aviv ha deliberato che gli abitanti non dovevano essere costretti a pagare l’affitto e che tutti avevano diritto ai terreni. Il tribunale ha inoltre deciso che gli immobiliaristi avevano violato il loro accordo con lo Stato e non avevano tenuto fede alla loro responsabilità riguardo allo sfratto come all’accordo di rimborsare gli abitanti di Givat Amal nel corso degli anni.

Nonostante la sentenza, il problema dello sfratto non è scomparso. Il tribunale ha deciso che ogni lotto di terra, su cui insiste una media di tre famiglie, i figli e i nipoti degli abitanti originari che furono portati a vivere a Givat Amal negli anni 1950, avrebbe avuto diritto a un indennizzo di circa 3 milioni di shekel (801.000 euro circa). Questa cifra non basta alle famiglie per trovare alloggi alternativi e certamente non per tre famiglie che sono costrette a dividersi l’ammontare.

Gli abitanti hanno quindi fatto ricorso alla Corte Suprema per cercare di bloccare gli sfratti. La Corte ha respinto l’istanza nel 2020.

Nel corso degli anni, membri della Knesset, sia di sinistra che di destra, dai deputati Ofer Cassif e Dov Khenin di Hadash [partito israeliano di sinistra, ndtr.], all’estrema destra di Ayelet Shaked [della Nuova Destra, ultranazionalista, ndtr.], che al momento è ministra degli Interni, hanno espresso il loro forte sostegno agli abitanti di Givat Amal. Nel 2018, la Knesset ha approvato in prima lettura la “Legge di Givat Amal”, secondo la quale gli abitanti del quartiere che non erano mai stati risarciti avrebbero ricevuto alloggi alternativi. Ma a causa della crisi politica che allora affliggeva Israele, quattro elezioni in due anni, la procedura legislativa non si è mai conclusa e la legge non è mai stata approvata.

 ‘Dove possiamo andare?’

Gli abitanti di Givat Amal non vedono il rinvio come una vittoria o la fine della loro lotta. Sono determinati a continuare la battaglia fino a quando le loro richieste non saranno accolte: una casa in cambio di una casa o indennizzi per i 70 anni durante i quali sono vissuti nel quartiere nel quale le autorità li avevano trasferiti agli inizi degli anni ‘50.

“C’è felicità velata dalla tristezza perché lo sfratto non è stato annullato, ma solo rimandato,” dice Yossi Cohen, 67 anni, nato a Givat Amal, dove è vissuto fino a oggi. Nei primi tempi dello Stato di Israele le autorità avevano trasferito la famiglia Cohen a Givat Amal da Neve Tzedek, un quartiere di mizrahi, uno slum che col tempo è diventato una delle zone più ricche di Tel Aviv. Suo padre è di origini siriane ed è stato uno dei primi ebrei ad  arrivare a Givat Amal. “Faceva parte dell’Haganah [una delle forze paramilitari sioniste pre-Stato ebraico] e lui e circa altri 15 uomini furono portati qui a guardia del villaggio. Mia madre arrivò solo alcuni mesi dopo perché le condizioni erano dure. Quando arrivarono, andarono ad abitare nelle case dei palestinesi.”

Cohen dice che gli sfratti che avrebbero dovuto aver luogo due settimane fa sono stati rinviati dopo l’ispezione delle autorità nel quartiere in preparazione per il trasferimento forzato. “Sono arrivati e si sono accorti che lo sfratto sarebbe stato pericoloso e che per il momento non erano pronti a eseguirlo,” spiega. “Se c’è lo sfratto, potrebbe costare vite umane. Ne hanno tenuto conto, ma, prima o poi, la polizia dovrà eseguirlo. Ci hanno dato del tempo sperando in una soluzione a causa della pressione da parte della polizia e dei membri della Knesset che ci sostengono. Gli imprenditori hanno i soldi e non avrebbero problemi a indennizzarci, una casa in cambio di una casa.”

Cohen non vede altra scelta se non continuare a lottare contro gli sfratti. “Il Comune di Tel Aviv e lo Stato sono responsabili della situazione in cui siamo oggi,” dice. “Hanno venduto la terra a condizione che ci avrebbero dato alloggio negli edifici che sarebbero stati costruiti su questi terreni. Dato che ciò non è stato concesso, possono riprendersi le terre degli imprenditori.”

“Prima devono risarcirci e poi possono fare tutto quello che vogliono con i terreni,” dice Levana Ratzabi, 75 anni, che è vissuta nel quartiere da quando aveva due anni. La sua famiglia fu sfrattata da Neve Tzedek prima di arrivare a Givat Amal. “Portarono qui mia mamma con la forza e ora vogliono buttarci fuori. Dove dovremmo andare?”

Ratzabi e gli altri abitanti dicono che furono portati nel quartiere per impedire ai palestinesi di al-Jammasin al-Gharbi di farvi ritorno. “Siamo vissuti nelle case dei palestinesi, senza servizi, acqua o luce. Questa è la terra che Ben-Gurion (primo premier di Israele) e il Comune di Tel Aviv hanno dato a noi invece che ai palestinesi,” spiega Ratzabi.

“In tutti questi anni non hanno piantato un fiore o [messo] una panchina, neppure un lampione o una strada, niente,” dice Cohen. “Noi abbiamo pagato le tasse comunali proprio come in tutti gli altri quartieri di Tel Aviv nord, eppure qui non c’è neppure la rete fognaria.”

“Nel corso degli anni non hanno offerto alle famiglie l’opzione di comprare i terreni,” dice Ronit Aldouby che abita a Givat Amal ed è uno degli organizzatori della lotta contro gli sfratti.

“Negli anni ’50 il governo emise un’ordinanza che permetteva agli abitanti del posto di comprare la terra su cui vivevano prima che fosse venduta ad altri, ma lo Stato non informò la gente di qui che chiese di comprare i terreni, ma questi non gli sono mai stati venduti.”

Secondo Aldouby questa decisione contro gli ebrei mizrahi fu implementata in diversi quartieri e villaggi nel Paese. “Volevano espropriare dei diritti gli abitanti mizrahi, molte proprietà [palestinesi] abbandonate furono vendute a membri dell’establishment, ma non solo a loro. [Gli accordi] erano basati sul razzismo e le proprietà furono vendute principalmente a ebrei ashkenaziti che ottennero le chiavi di ville vuote. Ma negli slum e nei posti dove erano stati collocati gli ebrei mizrahi nessuno si preoccupò di mettere in regola le terre.”

Aldouby aggiunge che negli anni ’50, agli ebrei ashkenaziti che vivevano appena oltre la strada da Givat Amal, in maggioranza impiegati governativi o comunali, fu dato alloggio nel quartiere di Shikun Tzameret, anche là su terreni che appartenevano ad al-Jammasin al-Gharbiand anch’essi considerati “proprietà di assenti.” (Secondo una legge israeliana del 1950 le proprietà i cui i proprietari se ne erano andati dopo il 29 novembre 1947 potevano essere requisite dallo Stato, ma in effetti si applica esclusivamente a proprietà palestinesi.) Oggi Shikun Tzameret è considerato uno dei quartieri più ricchi di tutto il Paese.

Tracce dei villaggi palestinesi erano ancora visibili fino agli sfratti del 2014. Oggi si possono trovare strutture palestinesi adibite a sinagoga, alcune case palestinesi ristrutturate e un cimitero musulmano.

Le famiglie che sono rimaste nel quartiere ora vivono in mezzo a un vasto cantiere edilizio, circondate da recinzioni, blocchi stradali, rumori industriali e polvere. Uno degli edifici a 50 piani dove gli appartamenti si vendono a 6 -8 milioni di shekel (1.600.000-2.130.000 euro), è finito mentre altri due sono in costruzione. Quando gli edifici saranno terminati, l’El-Ad Group e la famiglia Kozahinof avranno eretto sette grattacieli per un totale di oltre 1.400 appartamenti.

Secondo Cohen, i tribunali e le autorità stanno resistendo a raggiungere un accordo di risarcimento per paura di creare un precedente: lotte simili sono in atto in altri quartieri di Tel Aviv, come Kfar Shalem e Abu Kabir, entrambi villaggi palestinesi dove ebrei mizrahi furono collocati negli anni che seguirono la fondazione di Israele e stanno lottando contro i tentativi di sfratto. “Ostacolano la giustizia per paura delle conseguenze legali in altri casi, in modo che neanche in altri luoghi ottengano ciò a cui hanno diritto,” dice Cohen che spera che un possibile successo a Givat Amal abbia un effetto positivo sulle lotte in altri quartieri.

‘Questo è un vero inferno’

Ho incontrato alcuni degli abitanti di Givat Amal ad agosto davanti alla casa della famiglia Alfasy-Fihamin all’ingresso del quartiere. La nonna, Amalia Fihamin, di origini iraniane, è mancata questo mese all’età di 82 anni. Quattro giorni prima che se ne andasse, le autorità israeliane sono arrivate a casa e hanno consegnato ai membri della famiglia un ordine di sfratto mentre Fihamin era sul letto di morte.

Le proteste agli inizi di agosto si sono svolte durante la shiva per Fihamin, la settimana di lutto nell’ebraismo. I manifestanti si sono radunati vicino alla tenda della shiva che era stata montata vicino alla casa da dove si irradiava il blocco delle strade nella zona e da cui è partita la marcia.

Questo è un vero inferno,” dice Mali Alfasy-Fihamin, figlia di Amalia, mentre impacchetta le cose della mamma. “Non ho provato nulla durante la shiva. Ho ricevuto telefonate tutto il giorno e ho dovuto trattare con la polizia, ma non avevo nessun posto dove andare. In tutta onestà, dopo la morte della mamma mi sono arresa. Ho detto a tutti: non voglio niente, ma alcuni attivisti che ci hanno supportato per molti anni sono venuti e mi hanno detto: ‘Siamo con te.’ Mi rende più forte, non posso fare tutto da sola, ma con il loro sostegno questo sfratto non filerà liscio.”

Nell’aprile 2021, il Comune di Tel Aviv ha venduto i restanti diritti di 120 appartamenti in due grattacieli di lusso a tre imprese immobiliari per 365 milioni di shekel (oltre 97 milioni di euro). Nonostante il cambio di proprietà, gli accordi firmati nel 2014 tra gli abitanti e la città obbligano l’El-Ad Group ad attuare gli sfratti.

Quello stesso mese, il tribunale distrettuale di Tel Aviv ha deciso con un’altra sentenza che lo Stato è venuto meno alle proprie responsabilità verso gli abitanti di Givat Amal. Nella sentenza, la giudice Michal Agmon-Gonen ha scritto che il risarcimento offerto agli abitanti era insufficiente, disorganizzato e concesso solo in casi in cui gli investitori avessero presentato denuncia contro le famiglie che chiedevano di restare nelle proprie case. “Gli abitanti, i loro genitori e nonni hanno sempre avuto ragione nel sostenere di essere stati portati nel quartiere dalle autorità del nascente Stato di Israele e che le promesse che avevano ricevuto non erano state adempiute” ha scritto Agmon-Gonen nella sua sentenza.

“I nostri genitori sono morti e noi abbiamo un piede nella tomba,” dice Cohen. “La gente che vive qui ha 70 o 80 anni.  Quando lo Stato ci darà i nostri risarcimenti?”

 

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [gruppo di fotoreporter israeliani, palestinesi e internazionali impegnati contro oppressione, razzismo e discriminazione, ndtr.] e giornalista della redazione di Local Call [sito internet di informazione in lingua ebraica che fa capo alla redazione di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, sugli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socioeconomiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie animaliste.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Proteste a Gaza contro l’assedio

 

25 Agosto 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane sparano proiettili veri e lacrimogeni mentre centinaia di palestinesi chiedono a Israele di allentare il blocco soffocante di Gaza.

Centinaia di palestinesi hanno manifestato a ridosso della recinzione israeliana nella Striscia di Gaza assediata chiedendo a Israele di allentare il blocco soffocante dopo pochi giorni che un’analoga manifestazione tenuta il fine settimana ha dato seguito a degli scontri letali con l’esercito israeliano.

I militari israeliani, che prima della manifestazione di mercoledì avevano potenziato le loro forze, hanno dichiarato di aver fatto uso di lacrimogeni e proiettili veri per disperdere la folla nella parte meridionale di Gaza. I medici palestinesi hanno riferito che sono rimaste ferite almeno nove persone.

La rete televisiva Al Aqsa TV, gestita da Hamas, il gruppo palestinese che governa Gaza, ha mostrato una massa di persone avvicinarsi alla recinzione per poi fuggire all’arrivo di un veicolo militare israeliano. Si poteva vedere il gas lacrimogeno fluttuare nel vento.

L’esercito ha affermato di aver utilizzato proiettili calibro 22, un tipo di arma che dovrebbe essere meno letale delle armi da fuoco più potenti, ma che può essere mortale.

Youmna El Sayed di Al Jazeera, nel riferire sulle proteste a Gaza, ha affermato che nella città meridionale di Khan Younis, nella Striscia di Gaza, sono state sparate decine di lacrimogeni contro i manifestanti.

“Oggi già tre palestinesi sono stati feriti da proiettili veri e decine sono rimasti soffocati dai lacrimogeni sparati contro di loro”, dice El Sayed.

Sabato hanno manifestato centinaia di palestinesi dando origine a violenti scontri.

Il ministero della Salute ha comunicato che durante le manifestazioni di sabato sono stati feriti dal fuoco israeliano più di 40 palestinesi, tra cui un ragazzo di 13 anni colpito alla testa.

Uno dei feriti, Osama Dueji, 32 anni, è morto mercoledì in seguito ad una ferita da proiettile a una gamba.

Hamas lo ha identificato come un componente del suo gruppo armato e lo ha pianto come un “eroico martire”.

Mercoledì un soldato israeliano, rimasto gravemente ferito quando un palestinese gli ha sparato alla testa a distanza ravvicinata attraverso un buco nel muro, è stato trasportato in ospedale.

Dopo la sparatoria, nelle prime ore di domenica, l’esercito israeliano ha bombardato i depositi di armi di Hamas nella Striscia di Gaza.

Hamas ha organizzato le proteste nel tentativo di fare pressione su Israele perché allenti il blocco di Gaza.

Israele ed Egitto hanno mantenuto il blocco da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni palestinesi.

Il blocco ha devastato l’economia di Gaza e ha alimentato un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 50%. Israele ha affermato che il blocco, che limita fortemente il movimento di merci e persone dentro e fuori Gaza, ha lo scopo di impedire ad Hamas di rafforzare le sue capacità militari.

Dal 2007 Israele e Hamas hanno combattuto quattro guerre e numerose schermaglie e, più recentemente, a maggio, un’escalation di violenza di 11 giorni che ha ucciso 260 palestinesi e 13 persone in Israele.

Hamas ha accusato Israele di aver violato, inasprendo il blocco, il cessate il fuoco che ha posto fine ai combattimenti. In particolare ha limitato l’ingresso dei materiali necessari per la ricostruzione.

Israele ha chiesto la restituzione delle spoglie di due soldati uccisi nella guerra del 2014, così come la riconsegna di due civili israeliani che si ritiene siano prigionieri di Hamas.

La scorsa settimana Israele ha raggiunto un accordo con il Qatar che consente al Paese del Golfo di riprendere il versamento degli aiuti a migliaia di famiglie povere di Gaza.

Con il nuovo metodo, i pagamenti saranno consegnati dalle Nazioni Unite direttamente alle famiglie, dopo che queste siano state passate al vaglio da Israele. In passato, gli aiuti venivano consegnati in contanti direttamente ad Hamas.

I pagamenti dovrebbero iniziare nelle prossime settimane, fornendo un po’ di sollievo a Gaza.

Ma la tensione resta alta. Oltre alle manifestazioni, Hamas ha lasciato che i suoi sostenitori lanciassero palloni incendiari oltre il confine, provocando diversi incendi nel sud di Israele. Israele ha lanciato una serie di raid aerei sugli obiettivi di Hamas a Gaza.

L’Egitto, che fa da mediatore tra Israele e Hamas, si è impegnato per a negoziare una tregua a lungo termine tra gli acerrimi nemici.

Questa settimana l’Egitto, in segno di insofferenza nei confronti di Hamas, ha chiuso il suo valico di frontiera con Gaza, il principale punto di uscita a disposizione delle persone del territorio per viaggiare all’estero.

 

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cisgiordania: le forze israeliane uccidono un adolescente palestinese durante una retata in un campo profughi

 Imad Khaled Salah Hashash è stato colpito alla testa dalle forze israeliane durante una retata nel campo profughi di Balata vicino a Nablus

Redazione di MEE

24 agosto 2021 –  Middle East Eye

Martedì un soldato israeliano ha sparato e ucciso un adolescente palestinese con proiettili veri dopo un’irruzione delle forze di sicurezza in un campo profughi nella Cisgiordania occupata.

Il ministero della Salute palestinese ha confermato che il sedicenne Imad Khaled Salah Hashash è morto dopo essere stato colpito alla testa dalle forze israeliane nel campo profughi di Balata, vicino a Nablus.

Secondo l’agenzia Wafa News il ministero ha riferito che Hashash è stato portato d’urgenza all’ospedale chirurgico Rafidia dove è stato dichiarato morto.

Le immagini pubblicate in rete mostrano la famiglia di Hashash che regge il suo cadavere dopo averlo avvolto in un sudario funebre blu.

L’esercito israeliano ha affermato che Hashash è stato colpito da un colpo di arma da fuoco quando i soldati hanno visto un abitante lanciare un “oggetto di grandi dimensioni” durante una retata nel campo profughi.

“Uno dei soldati ha risposto aprendo il fuoco ed è stato verificato che qualcuno è stato colpito”, ha affermato una dichiarazione dell’esercito israeliano, senza entrare nello specifico della morte dell’adolescente.

All’inizio di questo mese durante una protesta a Nablus le truppe israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese ferendone altri.

Secondo il ministero della Salute palestinese il deceduto era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale di Nablus per poi morire in seguito alle ferite riportate.

Il servizio di ambulanze della Mezzaluna Rossa Palestinese ha aggiunto che altri 21 palestinesi sono stati colpiti dalle truppe israeliane, la maggior parte con proiettili di gomma.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)