Minori palestinesi uccisi da Israele a Gaza

Due adolescenti palestinesi colpiti a morte dall’esercito israeliano

Fonti ufficiali affermano che durante le proteste a cui hanno partecipato più di 5.000 persone sono anche state ferite dall’esercito israeliano 76 persone.

di Ali Younes

6 settembre 2019 – Al Jazeera

 

Nel corso di una protesta lungo la barriera di confine tra Israele e Gaza due palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano.

Le autorità sanitarie di Gaza hanno detto che venerdì Ali al-Ashqar, di 17 anni, e Khaled al-Ribie, di 14, sono stati colpiti al petto dalla polizia israeliana, mentre migliaia di palestinesi manifestavano in diversi punti della barriera.

Ashraf al-Qidra, un portavoce del Ministero palestinese della Sanità a Gaza, ha detto ad Al Jazeera che sono state ferite dal fuoco israeliano anche 76 persone, 45 delle quali sono state colpite deliberatamente.

“La maggior parte delle vittime ha riportato ferite alla parte superiore del corpo, il che indica l’intenzione di uccidere”, ha detto.

Secondo i partecipanti, oltre 5.000 palestinesi hanno preso parte alla marcia di venerdì.

L’esercito israeliano ha stimato un numero maggiore di partecipanti, affermando che 6.200 persone si sono radunate in diversi punti lungo il confine con Israele.

Le proteste settimanali sono state organizzate a partire dal marzo 2018 dalla ‘Commissione per la Marcia per il Diritto al Ritorno’, una coalizione di organizzazioni della società civile.

Ghazi Hamad, un importante dirigente di Hamas a Gaza, ha detto ad Al Jazeera che Israele ha adottato la prassi di prendere di mira i manifestanti palestinesi, ma il livello della sua azione contro di loro spesso è dipeso dalla situazione politica tra Israele e Hamas.

Hamad ha sottolineato che le uccisioni e l’alto numero di feriti di venerdì sono indicative della mancanza di “un’intesa politica” tra Israele e Hamas.

“Quando non ci sono accordi o un’intesa politica tra Hamas e Israele, come accade adesso, la tensione alle frontiere sale e spesso Israele inasprisce la sua reazione letale”, ha detto.

Assenza di speranza

Un palestinese che partecipa regolarmente alle marce ha detto da Gaza ad Al Jazeera che la maggior parte della gente partecipa perché loro e le loro famiglie stanno pagando un alto costo a causa del blocco economico e anche della chiusura del valico di confine tra Gaza ed Egitto.

“La gente ha perso la speranza. Intorno a loro ci sono solo disperazione e miseria”, ha detto il palestinese, che ha chiesto di restare anonimo.

Negli ultimi mesi le marce sono diventate meno partecipate, dopo che a inizio anno dei mediatori hanno ottenuto un cessate il fuoco non ufficiale. Secondo l’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.], dal 2018 durante queste marce sono stati uccisi più di 200 palestinesi e un soldato israeliano

Circa il 70% dei due milioni di palestinesi di Gaza sono rifugiati ufficialmente riconosciuti, che sono stati originariamente espulsi dalle loro case da quelle che all’epoca erano milizie armate sioniste, prima della fondazione di Israele nel 1948.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Rapporto ONU su crisi economica in Palestina

L’Onu segnala il gravissimo collasso dell’economia palestinese

11 settembre 2019 – Middle East Monitor

 

Ieri la conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) ha avvertito riguardo al gravissimo collasso dell’economia palestinese a causa delle misure distruttive dell’occupazione israeliana.

In un rapporto l’UNCTAD afferma che le prestazioni dell’economia palestinese e le condizioni umanitarie hanno raggiunto nel 2018 e all’inizio del 2019 il livello minimo da sempre.  Aggiunge: “Nel territorio palestinese occupato, nel 2018 il livello di crisi dovuto al tasso di disoccupazione ha continuato ad aumentare, arrivando al 31%: al 52% a Gaza e al 18% in Cisgiordania.”

Afferma anche: “Il salario reale e la produttività del lavoro sono diminuiti. Nel 2017 il salario reale e la produttività per singolo lavoratore sono stati rispettivamente inferiori del 7% e del 9% rispetto ai livelli del 1995.”

Il reddito pro capite si è ridotto, la disoccupazione di massa è aumentata, la povertà si è accentuata e sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania è aumentato il degrado ambientale causato dall’occupazione.

In conseguenza delle misure dell’occupazione israeliana, “l’economia di Gaza ha subito una contrazione del 7% ed è aumentata la povertà, gli investimenti sono praticamente scomparsi, scendendo al 3% del PIL, di cui l’88% è stato destinato alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte durante varie pesanti operazioni militari negli ultimi 10 anni.”

Secondo la UNCTAD il rallentamento dell’economia in Cisgiordania “si spiega con la diminuzione dell’appoggio da parte dei donatori, la contrazione del settore pubblico e il deterioramento generale della sicurezza, il che ha scoraggiato le attività del settore privato.”

“La partecipazione complessiva della produzione nel valore aggiunto totale si è ridotta dal 20% all’11% del PIL tra il 1994 e il 2018, mentre la partecipazione dell’agricoltura e della pesca è diminuita da più del 12% a meno del 3%.”

“Al popolo palestinese viene negato il diritto di sfruttare le risorse di petrolio e gas naturale e pertanto lo si priva di migliaia di milioni di dollari di entrate”, aggiunge.

La UNCTAD ha ancora aggiunto: “La comunità internazionale deve aiutare il popolo palestinese a garantire il proprio diritto al petrolio e al gas nel territorio palestinese occupato e stabilire la sua legittima partecipazione alle risorse naturali, che sono proprietà collettiva di diversi Stati vicini nella regione.”

Nel contempo l’organizzazione sostiene: “Nel marzo 2019 il governo di Israele ha iniziato a ridurre di 11,5 milioni di dollari al mese le entrate di liquidità palestinese [si riferisce alle tasse che Israele riscuote e che dovrebbe poi girare all’ANP, ndtr.] … Questo impatto fiscale è aggravato dalla diminuzione dell’appoggio dei donatori.”

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA 20 agosto- 2 settembre 2019

Il 31 agosto, un palestinese è morto per ferita d’arma da fuoco: era stato colpito dalle forze israeliane nel corso di una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR) tenutasi il giorno precedente [nella Striscia di Gaza], vicino alla recinzione che separa Israele dalla Striscia. Durante il periodo in esame, nel corso di proteste connesse alla GMR, sono stati feriti dalle forze israeliane 483 palestinesi; 236 (tra cui 96 minori) sono stati ricoverati in ospedale; 99 erano stati colpiti con armi da fuoco. Fonti israeliane hanno riferito che contro le forze israeliane sono state lanciate bottiglie incendiarie e ordigni esplosivi. Un soldato israeliano è rimasto ferito.

 

Il 23 agosto, vicino all’insediamento israeliano di Dolev (Ramallah), una ragazza israeliana di 17 anni è stata uccisa e suo padre e suo fratello sono stati gravemente feriti da un ordigno artigianale esploso nei pressi di un fontanile. In conseguenza di tale avvenimento le forze israeliane hanno effettuato vaste operazioni di ricerca nei villaggi vicini, in particolare a Deir Ibzi’, hanno istituito checkpoint volanti nell’area ed hanno arrestato numerosi palestinesi.

 

Gruppi armati palestinesi hanno lanciato dieci missili e proiettili di mortaio dalla Striscia di Gaza verso Israele. Fonti israeliane hanno riferito che nella città di Sderot, nel sud di Israele, una casa in costruzione è stata danneggiata e due persone sono rimaste ferite. L’aeronautica israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, contro aree aperte e siti militari, senza provocare vittime. Inoltre, sempre in risposta al lancio di razzi, Israele ha dimezzato la quantità di carburante che Gaza può importare per il funzionamento della sua Centrale Elettrica [nota: Israele ha il controllo sulle merci in entrata/uscita da Gaza]; la normale fornitura di carburante è stata ripristinata il 1° settembre.

 

In almeno 23 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [alle aree della Striscia a loro interdette], le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nelle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale ed al largo della costa; è stato segnalato un ferito. Sempre vicino alla recinzione, le forze israeliane hanno fatto due incursioni all’interno della Striscia e compiuto operazioni di spianatura del terreno; hanno anche arrestato quattro palestinesi che, secondo quanto riferito, tentavano di forzare la recinzione.

 

Il 27 agosto, nella città di Gaza, a seguito di esplosioni verificatesi presso due posti di blocco della polizia, tre poliziotti palestinesi sono morti ed altre nove persone, tra cui due minori ed una donna, sono rimasti feriti. Secondo i media, le esplosioni sarebbero da attribuire ad attentatori suicidi; tuttavia, nessuna organizzazione ne ha rivendicato la responsabilità e sull’accaduto è in corso un’indagine della polizia.

 

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, nel corso di numerosi scontri, le forze israeliane hanno ferito 146 palestinesi. Quasi il 90% dei feriti sono stati trattati per inalazione di gas lacrimogeni; i rimanenti erano stati colpiti da proiettili di gomma o erano stati aggrediti fisicamente. La maggior parte dei feriti (120) sono stati registrati nell’area H2 della città di Hebron, controllata da Israele. In tale area, in due occasioni, in risposta al lancio di pietre da parte di palestinesi, le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni contro case palestinesi. Altri 11 [dei 146] palestinesi sono rimasti feriti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Al ‘Eizariya (governatorato di Gerusalemme), nel quartiere di Al’ Isawiya (Gerusalemme Est), nel Campo Profughi di Tulkarm e nel villaggio di Anabta (gli ultimi due si trovano in Tulkarm). I restanti ferimenti [15] si sono avuti nel corso di due proteste; una a Kafr Qaddum (Qalqiliya) contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti, e l’altra ad Abu Dis (Gerusalemme) a sostegno dei prigionieri [palestinesi nelle carceri israeliane].

 

Nei villaggi e nelle città della Cisgiordania, le forze israeliane hanno svolto 166 operazioni di ricerca-arresto, la maggior parte delle quali si sono svolte a Ramallah (46), Gerusalemme (33) ed Hebron (31). Durante tali operazioni sono stati arrestati circa 150 palestinesi.

 

Nel contesto di aggressioni compiute da coloni israeliani, o individui ritenuti tali, un palestinese è stato ferito e sono stati causati rilevanti danni a proprietà palestinesi. Il 30 agosto, un agricoltore palestinese, mentre stava lavorando la sua terra, è stato aggredito fisicamente e ferito da una guardia di sicurezza del vicino insediamento colonico di El’azar (Betlemme). In un altro caso, coloni dell’insediamento di Efrata (Betlemme) hanno abbattuto 70 viti appartenenti al villaggio palestinese di Khallet Sakariya. In seguito all’uccisione di una ragazza israeliana (vedi sopra), decine di coloni si sono radunati all’incrocio di Huwwara (Nablus) e hanno lanciato pietre contro auto palestinesi, danneggiandone almeno 20. In altri quattro episodi, 14 auto sono state vandalizzate nei villaggi di Rafat e Haris (Salfit ), Al Lubban ash Sharqiya e Sinjil (Ramallah). Sempre ad Haris, coloni sono stati ripresi da telecamere mentre spruzzavano scritte sui muri della sede del Consiglio del villaggio, della clinica sanitaria e di una moschea. Nella zona H2 della città di Hebron, coloni hanno rioccupato una casa palestinese, dalla quale, per ordine del tribunale [israeliano], erano stati sfollati lo scorso anno.

 

In Area C e Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi rilasciati da Israele, sono state demolite otto strutture di proprietà palestinese. Di conseguenza, 19 persone sono state sfollate, metà delle quali a causa della demolizione di un edificio residenziale del quartiere Beit Hanina di Gerusalemme Est. In Tubas, quasi 700 palestinesi sono stati colpiti dalla demolizione di un bacino idrico che riforniva cinque Comunità beduine palestinesi, una moschea ed una residenza in costruzione vicino alla città di Hebron.

 

In due occasioni, secondo fonti israeliane, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiano su strade della Cisgiordania vicino a Gerusalemme, causando danni a un’auto e un autobus.

 

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

ð  sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:  https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2:  Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

 

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

 

 




Negazionismo e Nakba

Quando scoppia la bolla del negazionismo: un kibbutz israeliano di fronte alla Nakba

Salman Abu Sitta

5 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Cosa succede quando un popolo è rinchiuso in una bolla in cui la “verità” ha un solo libro da leggere, da seguire e a cui ubbidire, e poi improvvisamente la bolla scoppia e il sole risplende su una verità completamente nuova, verificabile, chiara e corretta?

Ciò è quello che succede ai kibbutz [comunità agricole sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] di Nirim, Nir Oz, Magen e Ein Hashloshla. Questi quattro kibbutz vennero fondati dopo la Nakba del 1948 sulla mia terra, Al Ma’in (65,000 dunum – 6.500 ettari). Al Ma’in è stato ed è da secoli il luogo d’origine della mia famiglia, Abu Sitta, ora rifugiata nella Striscia di Gaza e altrove.

Eitan Bronstein Aparicio, fondatore di “De-Colonizer” [De- Colonizzatore] (fondatore in precedenza di “Zochrot”, un gruppo israelo-palestinese che insegna la Nakba agli israeliani), ha fatto scoppiare la bolla. Eitan ha allestito una mostra piccola e semplice. Ha raccolto mappe, libri, video e una foto aerea della RAF [aviazione militare britannica, ndtr.] di Al Ma’in nel 1945, che mostra campi e l’aspetto principale del villaggio e le ha collocate in due stanze e un cortile. La mostra si è tenuta il 25 luglio 2019 nella “Casa Bianca”, l’unico edificio palestinese sopravvissuto alla demolizione del villaggio da parte degli israeliani nel 1948 e trasformata da Haim Peri, un artista di Nir Oz, in una galleria d’arte.

Eitan ha invitato i coloni di Al Ma’in e della zona circostante ad andare a vedere la mostra. Il suo messaggio era semplice. Quella era la gente che viveva qui e che ora è rifugiata a due chilometri di distanza dietro il filo spinato nella Striscia di Gaza. La presentazione lasciava intendere che Israele aveva preso la loro proprietà ed ora ci vivete voi.

Nonostante il fatto che il numero dei visitatori è stato modesto, probabilmente tra quaranta e cinquanta, le reazioni sono state indicative di gente a cui è stata negata la verità, le vittime del fatto di aver messo a tacere la Nakba.

Le considerazioni, e persino le minacce, più irate sono venute da un vecchio abitante di un kibbutz, di più di 80 anni, che aveva assistito e partecipato all’attacco contro Al Ma’in. La milizia Haganah [principale gruppo armato sionista prima della nascita di Israele, ndtr.] attaccò Al Ma’in il 14 maggio 1948 con 24 veicoli blindati, distrusse e bruciò case, demolì la scuola costruita nel 1920, fece saltare in aria il pozzo e il mulino a motore. Ad essa resistettero coraggiosamente per alcune ore 15 difensori palestinesi armati di vecchi fucili. Da bambino vidi le rovine fumanti del mio villaggio mentre ero ammassato insieme ad altri bambini e donne in una forra lì vicino. Non avevo mai visto un ebreo prima di allora e non sapevo chi fossero gli aggressori o perché fossero venuti a distruggere le nostre vite.

Il 14 maggio 1948 diventai un rifugiato.

Quel giorno sulle rovine del mio Paese, la Palestina, Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele.

In seguito all’attacco e all’occupazione, nel periodo tra il 1949 e il 1955 sulla terra di Al Ma’in vennero costruiti i quattro kibbutz. La famiglia Abu Sitta, che era allora composta da circa 1.000 persone ed ora da circa 10.000, diventò rifugiata, per lo più nella Striscia di Gaza.

I coloni anziani, che erano presenti nel 1948, hanno accusato Eitan di eversione e gli hanno consigliato di trovare un altro Paese in cui emigrare. Hanno minacciato di dire alle autorità di negare l’ingresso a visitatori stranieri che potrebbero andare proprio per vedere la mostra. Ironicamente questi anziani sono stati i primi a visitare la mostra, probabilmente per trovare il modo di spiegare la loro storia negazionista.

Ovviamente la loro storia non merita neppure una replica. Hanno detto che lì non c’era nessuno: “Siamo arrivati dove c’era un deserto vuoto.” Come spiegare i campi coltivati nelle foto aeree? Chi li aveva seminati? La casa in cui è stata sistemata la mostra, il pozzo e il mulino a motore, le rovine che si trovano ancora lì, come li possono spiegare?

Il colono più anziano di Nirim, Solo (cioè Chaim Shilo o Solo Weicheck), 94 anni, un tedesco di origini russe, era indignato quando un giornalista britannico gli ha chiesto ripetutamente: “Perché non permettete alla famiglia Abu Sitta di tornare a casa?”

I coloni anziani hanno detto che quelle case erano state costruite dagli inglesi. Si tratta di una strana affermazione, in quanto chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa della storia palestinese sa che abbiamo combattuto contro i britannici fin dalla [dichiarazione] Balfour. In particolare, il mio fratello maggiore Abdullah era il leader della rivolta del 1936-1939 nel distretto meridionale. Lui e i suoi compagni espulsero i britannici dal distretto di Beer Sheba per un anno, dall’ottobre 1938 al novembre 1939.

I coloni anziani sostengono di aver comprato le terre. Ma nessuno potrebbe fornire una prova di essere proprietario, legalmente o in altro modo, di un solo appezzamento di terreno per miglia e miglia.

La risposta più comune di giovani e anziani è stata: “Abbiamo vinto la guerra. Quando mai il vincitore ha restituito quello che ha vinto?”

Affermare che essere forti nella vittoria contro una controparte debole sia una giustificazione per un crimine solleverebbe la Germania nazista dai suoi crimini perché avrebbe potuto commettere e commise quei crimini. In base alla stessa argomentazione, i britannici sarebbero assolti da ogni colpa per il massacro di Amritsar  del 1919 [le truppe inglesi spararono contro la folla che assisteva ad un comizio nella città indiana, uccidendo più di 300 persone, ndtr.], i russi per aver giustiziato ufficiali polacchi nella foresta di Katyn nel 1940 [truppe sovietiche sterminarono più di 20.000 tra ufficiali e prigionieri polacchi, ndtr.] e i francesi per aver gettato in mare centinaia di prigionieri algerini da voli della morte con elicotteri nel 1957 [durante la “battaglia di Algeri” combattuta dal movimento di liberazione algerino, ndtr.].

I coloni hanno ripetuto il solito vecchio ritornello: “Noi abbiamo accettato il piano di spartizione [della Palestina tra arabi ed ebrei, approvato dall’ONU nel 1947, ndtr.], voi no. Sarebbe possibile che la Francia concedesse più di metà del Paese agli immigrati africani?”

Se i coloni fossero stati informati, avrebbero saputo che il piano di spartizione era una semplice raccomandazione, senza alcun valore giuridico vincolante. L’ONU non aveva l’autorità di dividere Paesi e lo disse. Oltretutto l’ONU, e sorprendentemente gli USA, lasciarono cadere il piano di spartizione a favore dell’amministrazione fiduciaria sulla Palestina da parte dell’ONU.

Nessuna fonte israeliana lo cita. I poveri coloni sarebbero gli ultimi a saperlo.

I coloni hanno sostenuto che “se non ci aveste fatto una guerra, tra di noi ci sarebbe stata la pace.” Ciò è molto strano. Non ricordo che la mia famiglia o qualunque altro gruppo di palestinesi abbia schierato un esercito ed abbia marciato verso la Polonia e la Russia per attaccarvi gli ebrei. É vero il contrario. Allora, chi ha scatenato la guerra? Non sanno rispondere.

Ciò che sicuramente non sanno è che l’abbandono del piano di spartizione a metà del marzo 1948 innescò un fondamentale avvenimento nella storia della Nakba. Ben Gurion [leader sionista e primo capo del governo israeliano, ndtr.] decise di conquistare la Palestina e ordinò di mettere in pratica immediatamente il piano Dalet [che prevedeva l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina, ndtr.].

Di conseguenza iniziò l’invasione sionista della Palestina. In sei settimane, dal primo di aprile al 14 maggio 1948, l’Haganah conquistò località cruciali in Palestina e fondò sul terreno Israele, dopo che Herbert Samuel [politico ebreo sionista inglese nominato alto commissario del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.] (1920-1925) [periodo in cui Samuel fu alto commissario in Palestina, ndtr.] aveva definito le sue fondamenta giuridiche 28 anni prima.

In quelle sei settimane 220 villaggi, comprese molte cittadine, vennero attaccati e spopolati, quasi metà di tutti i rifugiati palestinesi vennero espulsi e vennero commessi 22 degli oltre 50 massacri avvenuti nel corso della Nakba. Durante quelle stesse sei settimane vennero condotte 17 operazioni militari da nove brigate. In ogni attacco ci fu una superiorità numerica di 10 a 1 contro i difensori. In totale Israele organizzò 31 operazioni militari per occupare parecchie regioni della Palestina, incrementando così il proprio controllo dal 6% della Palestina alla fine del Mandato [britannico] al 78% a metà del 1949. Vennero occupate nuove terre per formare una solida spina dorsale dalla pianura della costa centrale fino a Merj bin Amer e alle rive occidentali del fiume Giordano da Beisan a Metulla.

Quella fu la vera invasione della Palestina. Fu un’invasione sionista.

Ecco Adele Raemer, una nuova colona di Nirim. Arrivò dal Bronx [quartiere di New York, ndtr.] nel 1975 per insediarsi sulla mia terra. Scrive un blog sulla sofferenza dei kibbutz nell’‘enclave di Gaza’ e si lamenta degli aquiloni palestinesi che incendiano i ‘suoi’ campi di grano. Ho risposto dicendo che quelli sono i miei campi di grano. Le ho detto che ricordo che da bambino mi veniva permesso di sedermi sulla nostra mietitrebbia.

Ha voluto sapere: “Da quanto tempo la famiglia Abu Sitta ha vissuto ad Al Ma’in?”

Mi sono rifiutato di rispondere. Avrei potuto replicare che il nome Abu Sitta era sulle mappe di Allenby [generale britannico che sconfisse i turchi in Medio Oriente, ndtr.] quando conquistò Beer Sheba nel 1917, che il mio trisnonno fu citato per nome in un documento ottomano del 1845 riprodotto al Cairo e a Gerusalemme. Avrei potuto dirle che il nome Abu Sitta (Padre di Sei) venne coniato verso il 1720 in considerazione del fatto che il mio progenitore era un ben noto cavaliere accompagnato dalla scorta di sei compagni.

Mi sono rifiutato di rispondere perché non devo provare la mia discendenza a una colona i cui parenti sono arrivati di nascosto su una nave da uno shtetl [villaggio ebraico dell’Europa dell’est, ndtr.] sulle spiagge della Palestina nel cuore della notte.

Le sue lamentele sulla dura vita a Nirim sono state riprese da suo cugino, Gil Troy, un docente di storia all’università McGill [università canadese con sede a Montreal, ndtr.]. La formazione accademica non lo salva dai limiti della bolla della negazione. In risposta al devastante attacco israeliano contro Gaza dell’agosto 2014 [l’operazione “Margine protettivo”, ndtr.] ha scritto che Nirim venne fondato nel 1946, cioè prima della Nakba. Falso. Venne fondato sulla mia terra nella primavera del 1949, dopo che fummo attaccati ed espulsi. Egli ammira la “vera comunità di coltivatori”, ma omette di menzionare che venne fondata su una proprietà rubata e che i proprietari la vedono da dietro il filo spinato a due chilometri di distanza. Egli loda i coloni in quanto “agricoltori che persino sotto il continuo fuoco tendono la mano ai loro vicini gazawi, sconcertano il mondo con la loro straordinaria generosità ebraica, sionista e democratica.”

La bolla negazionista ha impedito al dotto professore di notare che la popolazione di 247 villaggi spopolati è stata ammassata nella stretta Striscia di Gaza con una densità di 7.000 persone per km2, mentre i coloni vagano sulla loro terra con una densità di 7 persone per km2.

Lo stesso Nirim ha 173 membri e le loro famiglie sfruttano 20.000 dunam (2.000 ettari) della mia terra, mentre la mia famiglia estesa, Abu Sitta, è composta da 10.000 rifugiati che vivono a due chilometri di distanza.

Il dotto professore parla del “confine” di Israele. Dovrebbe sapere che Israele non ha mai avuto un confine né per sua stessa ammissione né per le leggi internazionali. Probabilmente si riferiva alla linea dell’accordo di armistizio del 24 febbraio 1949. Ma il secondo articolo di questo accordo stabilisce che esso non concede diritti a Israele, né riguardo alla sua sovranità né alla proprietà di terre occupate.

Senza dubbio il dotto professore non sa che il confine di cui parla è solo una linea temporanea di ‘modus vivendi’ concordata nel febbraio 1950. La vera linea di armistizio è tre chilometri all’interno della terra occupata da Israele nel 1948, il che fa sì che Nirim, Ein Hashlosha e Nir Oz si trovino nella Palestina non occupata, nota ora come Striscia di Gaza.

Questo solo pensiero terrorizzerebbe i coloni e trasformerebbe la mostra di Eitan in una bomba di fatti che minerebbe tutte le loro rivendicazioni. Ma ciò non è stato citato.

È stranamente assente da ogni discussione l’orrendo stupro e l’uccisione di una ragazzina araba di 12 anni catturata da un plotone di Nirim nell’agosto 1949. I soldati di un plotone l’hanno violentata a turno, poi le hanno sparato e l’hanno sepolta. L’unico segno fu la sua mano che spuntava dalla fossa poco profonda. Ben Gurion citò brevemente questo fatto nel suo diario di guerra. Nessuno fa riferimento a questo crimine, neppure i coloni più anziani, come Solo, che all’epoca erano lì.

Ma c’è un raggio di speranza, un raggio così tenue da mettere in evidenza la dimensione della negazione. È una risposta di Efran Katz, un colono di Nir Oz. Vale la pena di citarlo integralmente:

Quello che oggi ho visto qui è stato molto toccante e persino doloroso. Nonostante abbia vissuto qui per più di 35 anni, sento la necessità e la speranza di tornare alla terra e riviverla con le emozioni passate, di riviverla con la cultura e i costumi vostri, degli abitanti.

Una terra non è un mattone. Una terra è un valore, è radici, è l’amore per un luogo. Non c’è posto per la deportazione. Il mio cuore è con voi.

Ai coloni può sembrare che la bolla della negazione sia un luogo sicuro in cui nascondersi. La logica è chiara. Se un crimine viene rivelato, chi lo ha commesso sarebbe un criminale meritevole di una punizione e obbligato a un risarcimento. La mostra di Eitan è un chiaro promemoria.

Ma ora non è rimasto molto spazio per nascondersi nella bolla della negazione. Quando tutto il mondo saprà del crimine, la giustizia li raggiungerà e il risarcimento sarà un prezzo molto pesante da pagare.

 

Salman Abu Sitta è fondatore e presidente della “Palestine Land Society” [Società Palestinese della Terra], di Londra, che si dedica alla documentazione sulla terra e il popolo palestinesi. É l’autore di sei libri sulla Palestina, compresi il compendio “Atlante della Palestina 1917-1966”, edizione in inglese e in arabo, l’“Atlante del viaggio di ritorno” e oltre 300 documenti e articoli sui rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno, la storia della Nakba e i diritti umani. Gli viene attribuita una vasta documentazione e cartografia della terra e del popolo palestinesi di oltre 40 anni. La sua acclamata autobiografia “Mappare il mio ritorno” descrive la sua vita in Palestina e la sua lunga lotta in quanto rifugiato per tornare in patria.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




In Austria censura contro film sul calcio palestinese

Un cinema di Vienna censura un film palestinese sul calcio

 

Ali Abunimah

5 settembre 2019 – Electronic Intifada

 

 

Gli attivisti manifestano la loro indignazione perché un cinema a Vienna ha cancellato la prima visione austriaca di un film sul calcio palestinese.

Intanto, in Canada, gli attivisti protestano contro la decisione del partito liberale al governo di escludere un candidato al parlamento sulla base di false accuse di antisemitismo.

BDS Austria, gruppo che sostiene la campagna per boicottare Israele a causa delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi, afferma che la cancellazione della proiezione di ¡Yallah! ¡Yallah! rappresenta un caso di censura.

Diretto da Cristian Pirovano e Fernando Romanazzo, il film del 2017 è una coproduzione argentino-palestinese e racconta la storia di sette palestinesi attraverso il loro legame con il calcio.

La proiezione avrebbe dovuto avvenire martedì al cinema Artis International, seguita da una discussione con Pirovano, che è in tournée in Europa. Il film è già stato proiettato in dozzine di città in tutto il mondo.

Il co-direttore Pirovano ha condannato la censura.

BDS Austria ha dichiarato: “La cancellazione all’ultimo minuto della proiezione del film al cinema Artis, che appartiene al più grande operatore cinematografico austriaco, Cineplexx Ltd., è illegale e inaccettabile.”

Secondo il gruppo [BDS], il cinema avrebbe dichiarato: “Negli ultimi giorni abbiamo ricevuto sempre più informazioni e messaggi che sottolineavano la posizione politicamente controversa non tanto del film in quanto tale, quanto del movimento sostenuto dal BDS”.

BDS è acronimo di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, una campagna avviata dai palestinesi sul modello del movimento di solidarietà globale che ha contribuito a mettere fine all’apartheid in Sudafrica.

L’obiettivo del BDS è di fare pressione su Israele affinché rispetti il diritto internazionale ponendo fine all’occupazione militare in terra palestinese, abolendo ogni forma di discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele e rispettando il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare in patria.

Ma nel 2018 il consiglio comunale di Vienna ha adottato una risoluzione di non collaborazione con il movimento BDS accusandolo ingiustamente di essere antisemita.

BDS Austria afferma che Artis ha citato questa risoluzione come pretesto per vietare la proiezione.

Il BDS accusa il Comune di mettere in atto “restrizioni irragionevoli e sproporzionate alle libertà di espressione e di riunione pacifica” e di “razzismo organizzato e istituzionalizzato”.

Gli attivisti hanno protestato fuori dal cinema Artis per la cancellazione di ¡Yallah! ¡Yallah !.

 

Censura draconiana

Questo incidente conferma il timore che l’adozione delle definizioni altamente politicizzate di antisemitismo volute da Israele e dalla sua lobby incoraggino una censura draconiana.

Israele e i suoi alleati stanno premendo per l’adozione istituzionale della cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa per la conservazione della memoria dell’Olocausto, ndtr.], che equipara le critiche alle politiche e alle pratiche razziste di Israele al fanatismo antiebraico.

L’Austria, membro di un’Unione Europea che pretende di difendere la libertà di parola come diritto fondamentale, è un posto sempre più ostile alla libera espressione.

A marzo a Vienna persino la Conferenza Rosa Luxemburg, di sinistra, ha condannato il BDS Austria.

Lo stesso mese, il Volkskundemuseum [Museo del Folklore, ndtr.] di Vienna, su pressione dei gruppi della lobby israeliana, ha annullato un evento sui diritti dei palestinesi in cui era previsto un intervento di Ronnie Kasrils.

Kasrils è un veterano anti-apartheid ed ex ministro del governo di Nelson Mandela.

L’anno scorso, l’Università di Vienna si è piegata alle pressioni della lobby israeliana in Austria e ha vietato una conferenza pubblica di un autorevole attivista nero americano.

E nel 2017 a Vienna un hotel ha annullato la conferenza di un avvocato che si occupa  di diritti umani dopo le intimidazioni di attivisti anti-palestinesi.

 

Candidato canadese diffamato come antisemita

La scorsa settimana, il partito liberale canadese ha tolto Hassan Guillet dalla lista dei candidati alle elezioni politiche di ottobre in un collegio elettorale del Quebec.

Questo dopo che il gruppo della lobby filo-israeliana B’nai Brith Canada ha accusato Guillet di aver postato in rete dichiarazioni antisemite e anti-israeliane.

Ma Independent Jewish Voices [Voci Ebraiche Indipendenti, gruppo di ebrei contrari alle politiche israeliane, ndtr.] Canada si è indignato per la decisione.

“Dopo aver esaminato i fatti, per noi è evidente che Guillet è tutt’altro che un antisemita”, ha detto Corey Balsam, coordinatore nazionale di IJV.  “Ciò che è assolutamente chiaro è che Guillet è stato preso di mira a causa delle sue esplicite critiche a Israele e alle sue politiche”.

B’nai Brith Canada ha accusato Guillet di essersi congratulato con Raed Salah [palestinese con cittadinanza israeliana leader del Movimento Islamico in Israele, ndtr.] per la sua liberazione da una “prigione della Palestina occupata” e di aver auspicato la liberazione di “tutta la Palestina”.

Salah è un leader di spicco tra i cittadini palestinesi di Israele. Ha subito ripetutamente la prigione in Israele per la sua attività politica.

Nel 2011, le autorità del Regno Unito hanno ordinato la deportazione di Salah sulla base di false accuse di antisemitismo da parte di un gruppo britannico della lobby israeliana.

Dopo 10 mesi di battaglia legale, Salah è stato completamente scagionato da un tribunale che ha accettato “da ogni punto di vista” il suo appello contro la deportazione.

Nel maggio 2018, il giorno dopo il massacro da parte di Israele di dozzine di manifestanti disarmati a Gaza, B’nai Brith Canada ha diffuso una calunnia razzista secondo cui i palestinesi manderebbero deliberatamente i propri figli a morire per il solo scopo di scattare foto propagandistiche che mettano in imbarazzo Israele.  Eppure il gruppo pretende di combattere il fanatismo.

In Canada Independent Jewish Voices ha fortemente criticato B’nai Brith per aver citato la definizione IHRA di antisemitismo recentemente adottata dal governo liberale del Primo Ministro Justin Trudeau.  “Ovviamente la preoccupazione globale per i diritti umani dei palestinesi sta provocando serie preoccupazioni a Israele e ai suoi sostenitori”, ha detto Balsam.  “Quindi, invece di cercare di difendere le azioni di Israele – il che è praticamente impossibile – hanno optato semplicemente per etichettare chi le critica come antisemita. Come società dobbiamo andare oltre l’apparenza.”

Grazie agli sforzi di Independent Jewish Voices Canada, che ha lavorato a fianco di gruppi per i diritti dei palestinesi e di attivisti per le libertà civili, a luglio il consiglio comunale di Vancouver ha deciso di non adottare la definizione IHRA.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Discriminazione politica dei palestinesi di Israele

Eletti ma sotto attacco: come in Israele si sta riducendo lo spazio per i deputati palestinesi

Un nuovo rapporto di Amnesty International evidenzia la discriminazione radicata all’interno della Knesset israeliana

 

Ben White

4 settembre 2019 – Middle East Eye

 

 

Mentre Israele si prepara alle seconde elezioni in un anno, Amnesty International ha pubblicato un nuovo rapporto che evidenzia quelle che descrive come “crescenti minacce” alla “libertà di espressione” dei membri palestinesi della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.].

[Il rapporto] “Eletti ma condizionati: spazio che si sta riducendo per i parlamentari palestinesi nella Knesset israeliana” è stato reso pubblico due settimane prima che gli israeliani vadano a votare il 17 settembre, e costituisce una cruda sintesi di quello che Amnesty descrive come uno “spazio ridotto” per le critiche e una discriminazione “radicata”.

Al centro delle preoccupazioni di Amnesty c’è l’uso “discriminatorio” dei regolamenti e delle leggi che compromette la possibilità dei palestinesi eletti alla Knesset di rappresentare i propri elettori.

 

Rifiuto del dissenso politico

Un esempio degli esempi citati è una modifica legislativa del 2016 che consente alla Knesset di “espellere i deputati eletti attraverso un voto a maggioranza dei loro colleghi parlamentari,” dando facoltà “alla maggioranza politica di far dimettere un deputato eletto” per aver manifestato opinioni politiche ritenute inaccettabili, persino quando queste dichiarazioni “non sono state sottoposte ad alcun procedimento penale o di altro genere.”

Nel contempo “i regolamenti della Knesset, che si presume siano in vigore per imporre comportamenti etici ai parlamentari, sono stati utilizzati per limitare il diritto di parola, colpendo i parlamentari palestinesi in modo discriminatorio,” afferma Amnesty, evidenziando una loro modifica nel 2018 “per non concedere a un deputato della Knesset il permesso di viaggiare all’estero se il viaggio viene finanziato da ‘un ente che chiede il boicottaggio dello Stato di Israele’.”

Preso nel suo complesso, il rapporto di Amnesty mina seriamente le ricorrenti argomentazioni del governo israeliano, compresa la spesso ripetuta affermazione che la semplice presenza di parlamentari “arabi israeliani” sia la prova di quella che sarebbe una democrazia vitale.

“Importanti dirigenti del governo israeliano” hanno rivolto “dichiarazioni incendiarie” contro i deputati palestinesi, afferma Amnesty, “intese a delegittimare loro e il loro lavoro”. Per aver osato criticare le politiche del governo, questi parlamentari hanno dovuto affrontare la richiesta che venissero “messi fuori legge” o processati per “tradimento”.

 

Mancanza di democrazia

Oltre a questi discorsi, leggi presentate da parlamentari palestinesi sono state bocciate su basi politiche. Secondo Amnesty, dal 2011 “la Knesset ha bocciato quattro leggi riguardanti diritti o rivendicazioni politiche dei palestinesi.”

Tra queste una legge proposta nel 2018 da deputati palestinesi in cui si dava una definizione di Israele come “un Paese per tutti i suoi cittadini”, a cui è stato impedito di “arrivare alla discussione parlamentare” sulla base del fatto che “avrebbe negato la definizione di Israele come Stato ebraico”.

“A giudizio di Amnesty International,” sostiene il rapporto, “la decisione ha discriminato i parlamentari palestinesi, a quanto pare sulla base della loro origine nazionale o etnica.”

In vista delle elezioni di questo mese, questo nuovo documento è un importante promemoria delle difficoltà che incontrano i deputati palestinesi – limitazioni che per alcuni cittadini palestinesi sono sufficientemente pesanti da rendere di per sé inutile o controproducente la partecipazione al sistema parlamentare.

Il nuovo rapporto è anche un’opportunità per una riflessione critica più generale sulle presunte credenziali democratiche di Israele. Oltre ai condizionamenti che i cittadini palestinesi devono affrontare nella Knesset, ci sono tre fattori chiave che indicano il deficit democratico di Israele.

 

Discorso divisivo

Il primo luogo c’è la discriminazione istituzionalizzata presente dal 1948. Come nota anche Amnesty, i cittadini palestinesi di Israele rappresentano circa il 20% della popolazione totale “e, come per ogni altro cittadino israeliano, i loro diritti alla partecipazione politica e ad essere rappresentati sono riconosciuti dalle leggi israeliane.”

Tuttavia, “le leggi israeliane consentono discriminazioni dirette o indirette contro i palestinesi ed altri cittadini non ebrei in molti ambiti, comprese la cittadinanza, la terra e la pianificazione territoriale, la casa, l’educazione e la salute.” Non certo la solida democrazia liberale che rivendicano gli apologeti di Israele.

Questa discriminazione, durata decenni, si è inasprita negli ultimi anni, in quanto le autorità israeliane hanno “incrementato i discorsi divisivi contro le minoranze e le comunità emarginate,” e “minacciato e calunniato i difensori palestinesi ed israeliani dei diritti umani.”

In secondo luogo, c’è il problema di chi è escluso dal voto. Mentre Israele esalta il fatto che i suoi cittadini palestinesi possono votare, nel corso di questo mese molti più palestinesi non saranno in grado di votare benché le loro vite siano controllate dallo Stato israeliano e dalle decisioni prese dalla Knesset.

Gli esclusi dal voto includono la grande maggioranza dei più di 300.000 palestinesi con residenza permanente, senza la cittadinanza, che vivono a Gerusalemme est, occupata ed illegalmente annessa.

Tuttavia questo numero è oscurato dai quasi cinque milioni di palestinesi che vivono nei territori palestinesi occupati, sottoposti negli ultimi 50 anni a un regime militare. In Cisgiordania i coloni israeliani che vivono nelle colonie illegali voteranno; i palestinesi nelle comunità limitrofe non lo potranno fare.

 

Disumanizzazione dei palestinesi

È importante ricordare anche i milioni di palestinesi al di fuori della Palestina storica, espulsi dalle proprie case dalle autorità israeliane nel 1948, e i loro discendenti. Le leggi israeliane li hanno privati della nazionalità, impedendo loro di tornare, e quindi hanno creato la maggioranza ebraica tra i cittadini israeliani.

In terzo e ultimo luogo, la mancanza di democrazia in Israele è evidenziata anche dal diffuso appoggio alla disumanizzazione dei palestinesi e dalla negazione dei loro diritti nelle tendenze politiche principali di Israele.

Indipendentemente dai risultati delle elezioni, il prossimo governo israeliano, come tutti quelli che l’hanno preceduto, non terrà in alcun conto le leggi internazionali, compresa la perpetrazione di crimini di guerra, e continuerà a violare i diritti fondamentali dei palestinesi.

È un consenso criminale condiviso sia dal Likud che dall’alleanza di opposizione “Blu e Bianco”.

Mettendo insieme tutto questo, con la discriminazione istituzionalizzata e il fatto che milioni di palestinesi non possano votare per il governo che controlla le loro vite, viene alla mente la citazione del deputato Ahmed Tibi, secondo cui Israele è “democratico verso gli ebrei, ed ebreo verso gli arabi.”

E per quanti sono impegnati a favore del principio di uguaglianza, ovviamente non la si può affatto definire una democrazia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Visita di Netanyahu a Hebron

La visita senza precedenti di Netanyahu a Hebron scatena la rabbia tra i palestinesi e richieste di annessione da parte di ministri israeliani

 

Yumna Patel

4 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Mercoledì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto una visita senza precedenti alla città di Hebron nella Cisgiordania occupata, provocando irate reazioni da parte di dirigenti e cittadini palestinesi, che l’hanno definita una “pericolosa escalation”.

Per la prima volta un primo ministro israeliano ha pronunciato un discorso nella turbolenta città: Netanyahu ha partecipato a una cerimonia di commemorazione dei disordini del 1929 che provocarono la morte di 67 ebrei.

Durante il suo discorso il primo ministro ha definito i palestinesi “terroristi assetati di sangue” che “perpetrarono questo orribile massacro 90 anni fa,” ribadendo la narrazione israeliana secondo cui i disordini che provocarono morti furono motivati dall’odio palestinese per gli ebrei.

“Erano sicuri che con ciò ci avrebbero sradicati da questo luogo per sempre. Si sbagliavano,” ha detto Netanyahu, aggiungendo: “Siamo tornati a Hebron”, lodando l’espansione delle colonie nella città, in particolare la notoriamente violenta colonia di Kiryat Arba.

La cerimonia si è svolta nella piazza antistante la moschea di Ibrahim, o tomba dei Patriarchi, un sito santo sia per musulmani che per ebrei, e luogo in cui nel 1994si svolse il massacro di 29 fedeli palestinesi da parte di un colono americano israeliano.

“Nel novantesimo anniversario dei disordini dico: non siamo stranieri a Hebron, vi rimarremo per sempre,” ha detto il primo ministro, aggiungendo che “il popolo di Israele è profondamente radicato a Hebron. Fin dalle nostre origini il nostro posto è qui.”

Ricordate dai palestinesi come la “rivolta di Buraq” del 1929, in tutta la Palestina storica scoppiarono massicce proteste dopo che un gruppo di immigrati ebrei andò ad “al-Buraq”, noto come il “Muro del Pianto”, portando bandiere e gridando slogan sionisti.

I palestinesi videro l’iniziativa, in coincidenza con l’anniversario della nascita del profeta Maometto, come la manifestazione di una crescente presenza sionista in Palestina che minacciava di impossessarsi della loro terra e dei luoghi santi.

A Gerusalemme l’avvenimento portò in città a violenti scontri tra palestinesi ed ebrei, che poi si diffusero in diverse città in tutta la Palestina, compresa Hebron, iniziando la rivolta di “al Buraq”.

Si ritiene che 133 ebrei e 116 palestinesi vennero uccisi durante la rivolta, per lo più per mano delle forze coloniali britanniche, mentre altri furono uccisi durante attacchi di ebrei contro comunità arabe.

La commissione Shaw, un’indagine britannica sulla rivolta, stabilì che “non c’erano dubbi” che la ragione fondamentale della ribellione fosse la sensazione di ostilità tra i palestinesi “in conseguenza della delusione delle loro aspirazioni politiche e nazionali e del timore per il loro futuro economico.”

Sfatando il mito secondo cui i palestinesi avrebbero ucciso gli ebrei semplicemente per la loro religione, la commissione mise in evidenza il fatto che nei 10 anni precedenti la rivolta di “al Buraq” c’erano stati solo tre incidenti rilevati di attacchi arabi contro ebrei, e negli 80 anni precedenti ad essa “non c’erano stati casi registrati di alcun incidente simile.”

Nonostante le testimonianze storiche, il presidente israeliano Reuven Rivlin si è unito a Netanyahu nel ribadire la convinzione che, come ha affermato, “i disordini del 1929 furono diretti contro ogni ebreo di qualunque etnia e opinione, semplicemente in quanto ebrei.”

Rivlin ha persino trattato di affermazioni da parte di storici, secondo cui i moti erano diretti contro il sionismo, affermando che “esse sono totalmente infondate.”

Durante la cerimonia, che è stata vista innanzitutto come un tentativo di Netanyahu di ingraziarsi la base di destra in vista delle elezioni di questo mese, alcuni ministri del partito Likud di Netanyahu hanno invitato il premier ad estendere la sovranità israeliana a tutta Hebron.

Secondo il “Times of Israel” [giornale israeliano indipendente in inglese, ndtr.] il presidente della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] Yuli Edelstein ha chiesto che Hebron diventi “una città israeliana a pieno titolo,” affermando che “è venuto il tempo che la colonia ebraica di Hebron cresca di migliaia di abitanti.”

Durante il suo discorso nel corso della cerimonia la ministra della cultura Miri Regev ha chiesto direttamente al primo ministro di adempiere alla sua promessa di estendere la sovranità israeliana a tutta la Cisgiordania, affermando che “non c’è posto migliore di Hebron per iniziare a portare a compimento l’impegno.”

“Se non c’è Hebron non c’è Tel Aviv,” ha detto Regev.

Yishai Fleisher, portavoce della comunità dei coloni di Hebron, ha condiviso su Twitter la maggior parte degli eventi del giorno, elogiando Regev e Netanyahu per le loro affermazioni e congratulandosi per gli avvenimenti del giorno.

I dirigenti palestinesi hanno condannato la cerimonia di mercoledì, che ha coinciso con un crescente dispiegamento di truppe israeliane nella zona e forti limitazioni agli spostamenti dei palestinesi in città.

Secondo l’agenzia palestinese di notizie WAFA le forze israeliane “hanno imposto il coprifuoco sui quartieri palestinesi”, mentre negozi e scuole palestinesi sono stati obbligati a chiudere in anticipo.

Hanan Ashrawi [nota dirigente palestinese, ndtr.] ha definito la visita di Netanyahu e Rivlin “un tentativo irresponsabile e offensivo di compiacere gli elementi più estremisti e razzisti del movimento dei coloni.”

“L’intollerabile situazione di segregazione, discriminazione razziale, vessazioni quotidiane e oppressione imposte sulla popolazione palestinese ad Hebron è guidata dalle politiche razziste e illegali che il signor Netanyahu vuole perpetuare e promuovere contro il popolo palestinese nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme,” ha detto Ashrawi.

Il portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas Nabil Abu Rudeineh ha condannato la visita come tentativo di provocare i musulmani della regione, affermando che “lanciamo un monito contro le pericolose ripercussioni dell’iniziativa di Netanyahu, che viene messa in atto per conquistare i voti dell’estrema destra (israeliana).”

Sia Ashrawi che Abu Rudeineh hanno sottolineato lo status di patrimonio dell’umanità dell’UNESCO del centro storico di Hebron e della moschea di Ibrahim ed hanno chiesto alla comunità internazionale di impedire ulteriori “aggressioni” contro i luoghi.

“La comunità internazionale ha l’ulteriore responsabilità di proteggere questa città da nuove spoliazioni e devastazioni, di obbligare Israele a porre fine alle sue misure draconiane contro la popolazione palestinese di Hebron e a ripristinare vita e libertà nei quartieri assediati, che sono stati svuotati a forza di vita e speranza dall’occupazione israeliana,” ha detto Ashrawi.

Nel centro storico di Hebron circa 800 coloni estremisti israeliani vivono sotto la protezione di migliaia di soldati israeliani, che garantiscono l’accesso dei coloni alla maggior parte della zona.

Nel contempo più di 30.000 palestinesi originari della città sono sottoposti al sistema israeliano di permessi e devono affrontare quotidianamente la violenza dei coloni e i più di venti posti di controllo militari che limitano ogni loro movimento.

 

 

Yumna Patel

Yumna Patel è l’inviata di Mondoweiss in Palestina.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




La morte di una neonata beduina

Caccia mortale: famiglia palestinese piange una bambina uccisa mentre scappava da un’incursione dell’esercito israeliano

Come a molti beduini che vivono nella valle del Giordano, i soldati israeliani hanno dato la caccia per anni ai Kaabnahs. Questa volta l’inseguimento è finito in tragedia

Di Shatha Hammad

a Gerico, Cisgiordania occupata

2 settembre 2019 – Middle East Eye

 

Nelle prime ore del mattino del 5 agosto la ventiquattrenne Sara Kaabnah si è svegliata per allattare al seno sua figlia di tre mesi, Hanaa. Ma non si trattava solo di occuparsi di lei.

Sara e tutta la sua famiglia di 16 membri hanno dovuto prendere in gran fretta le proprie cose, compresa la tenda collettiva in cui vivono, e poi mettersi in cammino.

La famiglia beduina, che vive nel villaggio di al-Hadidiya, nel nord della valle del Giordano di Gerico, aveva progettato di spostarsi temporaneamente verso una comunità vicina nota come Jiftlik,  a 40 minuti di distanza.

Trasferendosi, la famiglia sperava di prevenire l’arrivo dell’esercito israeliano per confiscare il loro unico serbatoio d’acqua. I soldati erano andati da loro il giorno prima, avevano fatto fotografie della cisterna per l’acqua e minacciato che sarebbero tornati a sequestrarlo.

Come per altre famiglie beduine che dipendono dall’allevamento come principale fonte di sostentamento, l’acqua per le pecore è indispensabile. Trovare il modo per sfuggire all’esercito israeliano è parte della sopravvivenza della famiglia.

Sara ha preso la piccola Hanaa  tra le braccia ed è partita con la sua famiglia su un trattore, il loro unico mezzo di trasporto. Una parte del gruppo ha guidato le pecore a piedi e un altro ha aspettato fino a quando il trattore fosse tornato a prenderlo.

Ma le cose non sono andate come previsto. Sara ed Hanaa non sono mai arrivate a Jiftlik.

Dato che la famiglia viaggiava nel buio quasi assoluto, due veicoli israeliani hanno urtato il trattore nei pressi di un posto di controllo militare. Il trattore si è rovesciato, Hanaa è caduta dalle braccia di sua madre ed è morta. Sara è rimasta sotto il pesante veicolo.

L’equipe dell’ambulanza israeliana ha subito informato la famiglia che Hanaa era rimasta uccisa nell’incidente. Sua madre è rimasta in coma, inconsapevole che non rivedrà né avrà mai più tra le braccia la sua unica figlia.

“Siamo scappati per paura che ci venisse confiscato il nostro serbatoio, per paura della sete,” ha detto a Middle East Eye  Odeh Kaabnah. “Nostra figlia è morta a causa del fatto che l’esercito israeliano ci insegue in continuazione, ed ora potrei perdere anche mia moglie.”

Con voce tremante e lacrime agli occhi, Odeh spiega che la coppia aveva chiamato la neonata Hanaa, che significa ‘felicità’ in arabo, dal nome di sua madre. È un’ironia della sorte, dice il ventiquatrenne, che Hanaa non abbia avuto l’opportunità di provare e comprendere il sentimento espresso dal suo nome.

Quando Hanaa aveva 10 giorni l’esercito israeliano ha demolito la casa della famiglia. Prima che arrivasse ai due mesi, l’esercito ha di nuovo demolito la loro casa ed ha espulso la famiglia. E quando aveva tre mesi è morta mentre la sua famiglia cercava di scappare dall’ultima operazione dell’esercito contro la loro casa.

“L’esercito israeliano ha demolito le nostre cinque tende e baracche, in cui viviamo o che utilizziamo per ricoverare le pecore,” dice Odeh. L’hanno fatto due volte in un mese, spiega, la prima il 30 giugno e poi il 20 luglio.

 

Beduini nella valle del Giordano

I Kaabnahs riempiono quotidianamente la loro cisterna con l’acqua di una sorgente di una zona vicina. Poi devono riportarla ad al-Hadidiya per uso personale e per far bere le pecore. Questa attività fondamentale richiede almeno un’ora al giorno.

“Se loro (l’esercito israeliano) ci confiscano il serbatoio per l’acqua perderemo le nostre pecore e non potremo più vivere qui. La nostra cisterna per l’acqua e il trattore sono le uniche due cose di cui siamo proprietari e che ci consentono di vivere una vita molto semplice,” dice Odeh.

Al-Hadidiya e molte altre comunità beduine tradizionalmente nomadi nella valle del Giordano sono state bersaglio di politiche israeliane intese a creare condizioni coercitive per spingere le comunità ad andarsene. Queste politiche si sono presentate sotto forma di demolizioni quasi quotidiane, de-sviluppo intenzionale e ostacoli ad ogni tentativo di costruire infrastrutture come servizi idrici o elettrici.

L’espulsione forzata, diretta o indiretta, di una popolazione civile occupata è considerata dalle leggi internazionali un crimine di guerra.

La maggioranza delle comunità beduine della Cisgiordania si trova a vivere in quella che è stata denominata Area C, che copre il 60% della Cisgiordania occupata, come parte degli accordi di Oslo del 1993 firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Da quando gli accordi sono stati firmati l’area è stata sotto totale controllo dell’amministrazione civile e del sistema di sicurezza israeliani. È stata delimitata così per includere le colonie israeliane che ospitano più di 600.000 coloni in Cisgiordania, che per il diritto internazionale sono tutte illegali.

Mentre le colonie israeliane continuano a prosperare, l’esercito israeliano impedisce alla comunità palestinesi dell’Area C di espandersi o persino di rimanere sulla terra in cui vivono attualmente. L’esercito richiede permessi di costruzione per qualunque cosa, dai recinti per gli animali alle case, e nel contempo si rifiuta di concederli. Poi procede a demolizioni punitive delle strutture per la sopravvivenza delle comunità.

 

Politiche dell’acqua

Muayyad Bisharat, il coordinatore della zona nord della valle del Giordano per l’Unione delle Commissioni per il Lavoro Agricolo (UAWC), un’associazione no profit che aiuta contadini e pastori palestinesi, afferma che l’esperienza della famiglia Kaabnah è comune nella valle del Giordano.

In base agli accordi di Oslo circa l’87% delle risorse idriche in Cisgiordania ricade sotto il controllo israeliano. Con le politiche discriminatorie israeliane i palestinesi hanno gravissimi problemi di accesso all’acqua.

Bisharat spiega che la maggioranza dei pozzi sotterranei è stata scavata tra il 1948 e il 1967 durante il governo giordano in Cisgiordania e raggiungono solo la profondità di circa 70 metri. Con il passar del tempo in alcuni dei pozzi l’acqua è diventata salata ed altri si sono asciugati a causa delle politiche israeliane che hanno impedito ai palestinesi di risistemarli ed ampliarli.

Nel contempo le autorità israeliane consentono ai coloni di scavare i loro pozzi a una profondità di 500 metri, pompando grandi quantità di acqua per le colonie agricole e le basi militari.

“Le tubature idriche passano sotto comunità beduine e villaggi palestinesi, ma ai palestinesi è vietato utilizzare quest’acqua. La grande maggioranza è obbligata a comprarla e a trasportarla da lunga distanza, al costo di circa 50 dollari per un serbatoio d’acqua,” dice Bisharat.

In varie occasioni la dirigenza israeliana ha manifestato l’intenzione di conservare il totale controllo della valle del Giordano, che contiene la maggior parte delle ricche risorse naturali della Cisgiordania ed è ritenuta da Israele indispensabile.

“L’esercito ci dà la caccia, le guardie dei coloni ci danno la caccia, l’amministrazione civile israeliana ci dà la caccia e tutti i giorni fa irruzione nelle nostre case. Ci aggrediscono davanti alle nostre famiglie senza ragione,” dice Odeh, aggiungendo di credere che gli attacchi non siano solo fisici ma anche psicologici, intesi a instillare paura nelle famiglie.

In base alle tradizioni beduine Odeh e Sara si sono sposati molto giovani nel 2016. Lui immaginava che la sua vita sarebbe stata molto più stabile, dice.

“Ho costruito una stanza in cemento con un tetto di zinco perché ci andassimo a vivere. Pochi mesi dopo il nostro matrimonio l’esercito israeliano ha demolito la stanza,” dice.

“Da quando ci siamo sposati ed abbiamo formato una famiglia abbiamo sofferto a causa dell’ esercito israeliano e delle sue persecuzioni. La mia vita si è trasformata in paura ed ansia, e in spostamenti da un posto all’altro.”

 

Continue sofferenze

Odeh è riuscito ad andare a trovare sua moglie Sara in ospedale solo una volta, e solo per pochi minuti. Sta aspettando un altro permesso israeliano, di cui ha bisogno per entrare a Gerusalemme, dove lei è in cura nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Hadassah.

“Dall’incidente Sara è in coma. È stata colpita alla testa, ha fratture al cranio e al volto ed emorragie interne nei polmoni,” dice Odeh.

Da una parte teme di perderla. Dall’altra ha paura del momento in cui dovrà dirle della morte della loro figlioletta. Come farà a dirglielo nel momento in cui lei chiederà di Hanaa? Cosa le dirà? si chiede.

Esita prima di riuscire a descrivere com’era ridotta Sara quando è andato a trovarla.

“Era come un cadavere. Niente si muoveva, tranne il suo petto quando respirava. Ho molta paura che muoia.

“Tutto quello che spero in questo momento è che Sara viva, che torni con noi. Abbiamo sofferto troppo, vogliamo solo vivere.”

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Pretesti della polizia contro attivista palestinese

Per la polizia di Gerusalemme anche dirigere il traffico è una forma di terrorismo

Uno dei più importanti attivisti politici di Gerusalemme est è stato arrestato per appoggio al terrorismo mentre stava cercando di risolvere un ingorgo stradale nel suo quartiere

Oren Ziv

29 agosto 2019  +972

All’inizio di questa settimana la polizia israeliana ha arrestato a Gerusalemme est un noto attivista palestinese con l’accusa di aver incoraggiato gli automobilisti ad investire dei poliziotti israeliani, mentre dirigeva il traffico nel suo quartiere.

Muhammad Abu Hummus, uno dei più importanti attivisti a Issawiya, che ha documentato le quotidiane incursioni della polizia nel quartiere negli ultimi mesi, è stato arrestato domenica dopo aver messo in rete un video che riprendeva se stesso mentre dava indicazioni di guida a un’automobilista palestinese in mezzo a un ingorgo stradale.

Lunedì Abu Hummus è stato portato dinnanzi alla pretura di Gerusalemme, dove rappresentanti della polizia hanno detto al giudice che lui aveva incoraggiato l’automobilista ad investirli. Nel video si può sentire Abu Hummus che aiuta a dirigere il traffico nel centro di Issawiya, mentre i poliziotti stanno a guardare. Quando si avvicina un’automobilista palestinese esitante, si sente Abu Hummus che le dice ‘id’asi’, che in arabo significa ‘vai avanti’. Tuttavia, per la maggioranza degli ebrei israeliani, suona simile al termine ebraico ‘tidresi’, che significa ‘travolgere’. Abu Hummus è stato arrestato quattro giorni dopo che il video è stato postato su Facebook.

La pretura ha rilasciato Abu Hummus un giorno dopo il suo arresto. La polizia è ricorsa in appello presso la Corte distrettuale di Gerusalemme, che ha prorogato la sua custodia cautelare fino a martedì pomeriggio e gli ha ordinato di stare lontano dal quartiere per 15 giorni. Da allora Abu Hummus ha dormito in una stazione di servizio all’entrata di Issawiya.

A dispetto delle accuse della polizia, il video mostra che i poliziotti presenti non erano in pericolo, non hanno risposto direttamente ad Abu Hummus quando lui ha parlato in arabo all’automobilista e non lo hanno arrestato sul posto. I verbali delle sue audizioni rivelano che la polizia aveva altre motivazioni per l’arresto.

“Lui si presenta in occasione di ogni disordine o tutte le volte che arrivano poliziotti a Issawiya. Sobilla e si prende gioco dei poliziotti. Tutti i poliziotti lo conoscono”, ha detto il rappresentante della polizia Haitham Trody lunedì al giudice della Corte distrettuale. “Lo abbiamo arrestato perché non è un elemento positivo a Issawiya”, ha detto un altro rappresentante della polizia.

Michal Peleg, un’attivista dell’associazione [di israeliani e palestinesi, ndtr.] contro l’occupazione “Ta’ayush”, che era presente quando è stato girato il video, ha detto che è stata una  giornata come le altre a Issawiya. “Verso le 18,30 dei giovani poliziotti di frontiera hanno iniziato a marciare per il quartiere. Li abbiamo seguiti insieme a Abu Hummus ed abbiamo scattato fotografie. Mentre eravamo sulla strada principale uno dei poliziotti si è improvvisamente voltato e senza alcun motivo ha sparato verso di noi una granata stordente, che ha infranto il parabrezza di un’auto.”

Dice che i veicoli della polizia che tutti i giorni entrano nel quartiere bloccano le strette vie di Issawiya, provocando grossi ingorghi stradali e creando caos.

“Abu Hummus stava cercando di risolvere un ingorgo creato dalla polizia. L’automobilista era vicino a noi e lui le ha indicato di andare avanti per non bloccare il traffico”, ha aggiunto.

Peleg non ha dubbi che la polizia stia cercando tutti i modi per fermare Abu Hummus. “Cercano qualunque pretesto per arrestarlo, quindi a qualcuno è venuta l’idea che il video sarebbe stato utile. Hanno interesse a toglierlo di mezzo perché lui è una fonte di ispirazione per la resistenza civile nonviolenta e documenta ciò che loro fanno nel quartiere.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Netanyahu e il fattore religioso

Come Netanyahu sta utilizzando la religione per modellare le elezioni israeliane

Fomentare controversie religiose fa sì che l’opposizione faccia quello che vuole il primo ministro

Shir Hever

2 settembre 2019 – Middle East Eye

 

Benché in Israele questioni relative all’imposizione alla popolazione nel suo complesso di leggi religiose siano sempre state parte del discorso politico, le elezioni del 17 settembre saranno le prime in cui esse figureranno al primo posto.

Come mai gli altri problemi – prima di tutto l’occupazione della Palestina – sono stati messi in secondo piano?

Avigdor Lieberman, una volta alleato di estrema destra di Benjamin Netanyahu, ha sparato il colpo d’inizio dopo le elezioni del 9 aprile, quando ha rifiutato di arrivare a un compromesso con i partiti ultraortodossi ed ha impedito a Netanyahu di formare un governo di coalizione. Lieberman ha lanciato una bomba evidenziando che l’alleanza decennale tra la destra religiosa e quella laica in Israele potrebbe essere arrivata al termine.

 

Grande clamore

Non sempre i partiti ultraortodossi sono stati alleati della destra, ma gli alloggi a buon mercato nelle colonie illegali in Cisgiordania li hanno attirati sempre più in quella direzione. La loro linea invalicabile, tuttavia, rimane l’insistenza sul fatto che gli studenti delle Yeshiva [scuole religiose, ndtr.] siano esentati dal servizio militare.

Nei mesi successivi alle ultime elezioni una serie di dichiarazioni di rabbini molto noti ha provocato clamore tra l’opinione pubblica laica. La città di Afula ha organizzato un evento con il pubblico separato per genere di cui si è dibattuto dal punto di vista giudiziario in vari tribunali. L’importante personaggio di destra e ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich ha chiesto l’imposizione della legge religiosa ebraica e il ministro dell’Educazione Rafi Peretz ha manifestato il suo sostegno per la “terapia della conversione” [che pretende di far diventare eterosessuali le persone LGBT, ndtr.].

Recentemente il giornalista Meron Rapoport ha scritto un interessante articolo in cui ha esaminato la prevalenza del dibattito religioso nell’attuale ciclo di elezioni. Egli ha notato che, poiché molti israeliani sentono che la questione palestinese non è più importante a causa della ridotta resistenza armata palestinese, si stanno interessando ad altre questioni controverse, e questo spostamento potrebbe implicare la caduta di Netanyahu, che non può più trarre vantaggio dalle sue credenziali relative alla sicurezza, ma deve tentare di ricostruire l’alleanza tra la destra religiosa e quella laica se avrà l’opportunità di vincere le elezioni.

Non sono d’accordo con questa affermazione. In primo luogo penso che gli israeliani siano più minacciati da proteste non violente che da quelle violente, e che le idee dell’opinione pubblica israeliana siano tutt’altro che pacate e accondiscendenti quando si tratta della resistenza dei palestinesi all’occupazione.

Le prime pagine dei giornali bombardano l’opinione pubblica con infiniti presagi di un disastro se dovesse scoppiare un’altra guerra con Gaza, o se il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) dovesse crescere con maggiore forza, o se l’Autorità Nazionale Palestinese dovesse collassare. Gli israeliani sono fin troppo consapevoli che non c’è più una maggioranza ebraica nelle zone sotto controllo israeliano.

Estendere l’occupazione

Tuttavia, tra Lieberman a destra e l’Unione Democratica a sinistra, nessun partito offre una soluzione pratica a queste minacce. I partiti di sinistra tendono a parlare della soluzione dei due Stati, ma borbottano sottovoce che alcune parti della Cisgiordania, e soprattutto Gerusalemme est, sarebbero annesse, precludendo quindi un accordo con i palestinesi. I partiti religiosi attendono un miracolo divino che garantisca la docilità dei palestinesi, e i partiti della destra laica nei loro progetti per estendere indefinitamente l’occupazione israeliana sostituiscono dio con il presidente USA Donald Trump.

In più, l’idea che Netanyahu rischi di perdere a causa del spostamento del dibattito sottostima il suo controllo sul sistema politico israeliano. Le elezioni di aprile hanno diviso i partiti israeliani sulla questione della corruzione. Può Netanyahu ricoprire la carica di primo ministro essendo accusato di corruzione? I partiti di opposizione non ne parlano più tanto, concentrandosi invece sulle libertà religiose.

Da più di un secolo nella classe media progressista e laica israeliana si è coltivato un forte sentimento antireligioso. I politici di opposizione hanno fatto definito “parassiti” gli ultra-ortodossi ed hanno evocato luoghi comuni antisemiti. Eppure queste opinioni sono sempre contraddittorie, in quanto è impossibile tracciare una linea tra essere contro la religione e l’antiebraismo, e non si può essere antiebraici e al contempo appoggiare uno Stato ebraico nel nome del sionismo.

Netanyahu sa che, aizzando gli animi sulla controversia religiosa, sta dettando l’agenda dell’ opposizione. Quando rabbini ortodossi fanno dichiarazioni di odio, come il rabbino Eli Sadan, che recentemente ha detto che “il laicismo è un coltello nella schiena della Nazione”, essi suscitano risposte provocatorie da parte dell’opposizione, obbligando i partiti ortodossi a stare nel campo di Netanyahu.

 

Mostrare un volto diverso

Nel contempo Netanyahu ha nominato un ministro della Giustizia apertamente gay, Amir Ohana, per dimostrare che il Likud non è uguale ai partiti religiosi della sua coalizione. Mentre il Likud sta mostrando un volto diverso, tenendo insieme misoginia e tolleranza, ortodossia e neoliberismo, i partiti di opposizione formano un tutt’uno con un ridotto gruppo di progressisti laici di classe media, per lo più ebrei ashkenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.], che sono favorevoli alla pace, ma al contempo molto militaristi.

Questo campo è diviso in tre gruppi politici: l’alleanza “Blu e Bianco”, il partito Laburista e l’ “Unione Democratica”. “Blu e Bianco”, come il Likud, concorda con la decisione di escludere la “Lista Unitaria”, che rappresenta gli elettori palestinesi.

Netanyahu sa che quasi sempre gli israeliani tendono a votare in base a modelli tribali. Gli ebrei ortodossi votano per partiti ortodossi, gli ashkenaziti di classe media di Tel Aviv votano per la sinistra, eccetera.

Sa anche che non c’è mai stata veramente una tribù “laica” in Israele. C’è una piccola tribù antireligiosa, ed anche molti che non si ostinerebbero a favore di una separazione tra Stato e chiesa, ma vorrebbero comunque poter andare a un concerto senza che la famiglia sia divisa per genere o usare il trasporto pubblico nei fine settimana. Questa distribuzione dei votanti garantisce in pratica che i laici di centro-sinistra non saranno in grado di formare un governo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

 

(traduzione di Amedeo Rossi)