‘Sola e ammanettata’: una madre palestinese ha paura di partorire all’interno della prigione israeliana

Shatha Hammad

Kufr Nimah, Cisgiordania occupata

27 agosto 2021 – Middle East Eye

Incinta e affetta da complicanze, Anhar al-Deek afferma che sarebbe più sicuro se suo figlio potesse rimanere nel suo grembo

***Il 3 settembre Anhar al-Deek è stata liberata su cauzione di 40.000 shekel pari a 10.500 euro e posta agli arresti domiciliari. Leggi la notizia dopo questo articolo.

Anhar al-Deek, 25 anni, si sta avvicinando alla data del parto, ma a differenza della maggior parte delle madri, Anhar teme la nascita di suo figlio. Sente che è più sicuro che lui rimanga nel suo grembo che dietro le sbarre della prigione israeliana in cui è detenuta, dove non prova altro che paura e ansia.

L’esercito israeliano ha arrestato Anhar l’8 marzo nel villaggio di Kufr Nima, a ovest della città di Ramallah, mentre si trovava nei terreni agricoli della sua famiglia.

Gli agenti l’hanno accusata di un tentato accoltellamento. I tribunali israeliani non hanno emesso una sentenza in risposta all’appello della sua famiglia per il rilascio, ignorando il fatto che è incinta e soffre di complicanze.

Anhar è riuscita a far uscire una lettera rivolta alla sua famiglia attraverso un’altra detenuta recentemente rilasciata. Esprimendo la sua paura di affrontare le fasi del parto lontano dalla sua famiglia, ha scritto: “Cosa devo fare se sono nata lontano da voi e sono stata ammanettata mentre stavo per partorire?

“Sapete quanto è [difficile] un parto cesareo… Immaginatelo in prigione, sola e in manette”.

La madre di Anhar, Aisha di 57 anni, trascorre intanto il suo tempo a prendersi cura di sua nipote di un anno e mezzo, Julia.

“Si sveglia di notte chiamando sua madre e non la trova vicino a lei”, ha detto Aisha.

“Ciò che mi addolora di più è che a volte mi chiama ‘mamma’, o chiama ‘mamma’ qualsiasi donna della famiglia”.

Picchiata durante la gravidanza

In occasione dell’arresto di Anhar Aisha ha riferito a MEE che sua figlia era uscita per una passeggiata nel terreno di famiglia sulla collina Raysan e che soffriva di depressione a causa della gravidanza.

Un gruppo di soldati israeliani l’ha aggredita e l’ha accusata di aver tentato di accoltellarli.

“Anhar ci ha detto che durante l’arresto l’hanno picchiata duramente, nonostante gridasse che era incinta, ma a loro non importava”, continua Aisha.

Immediatamente dopo il suo arresto Anhar è stata portata nella prigione di HaSharon, dove per un mese è stata sottoposta ad interrogatori e messa in isolamento.

Anhar ha detto ai suoi avvocati di essere stata tenuta in condizioni durissime e sottoposta a lunghe ore di interrogatorio, senza alcuna considerazione per il suo stato fisico e psicologico.

“Anhar è stata sottoposta per un mese a pesanti torture, dopodiché è stata trasferita nella prigione di Damon, dove le prigioniere vivono in condizioni difficili”, sostiene Aisha, aggiungendo che Anhar non può dormire a causa della mancanza di un materasso decente.

Dice che sua figlia soffre di forti dolori al bacino e ai piedi, oltre che di stanchezza generale.

Isolamento

Durante la sua prima gravidanza – con Julia – Aisha non aveva mai lasciato sola la figlia Anhar, soprattutto nel corso dell’ultimo mese. Le era rimasta accanto durante il parto e si è occupata di lei costantemente.

Questa volta, tuttavia, Aisha vive nella paura e nell’ansia per il fatto di non poter fare nulla per sua figlia.

Nella sua lettera Anhar ci ha comunicato che non sapeva come si sarebbe svegliata dopo il parto senza al proprio fianco sua madre e suo marito”, continua Aisha.

“Pensa anche molto a come sarà incatenata al letto”.

L’amministrazione carceraria israeliana ha informato Anhar che dopo il parto lei e il suo bambino saranno posti in isolamento come precauzione contro la trasmissione del coronavirus ad altri dopo il ritorno dall’ospedale.

Mi preoccupa molto che le altre prigioniere non potranno occuparsi di Anhar. Lei e suo figlio staranno soli in cella,” afferma Aisha.

Un modello”

Nel 1972, la prigioniera palestinese Zakiya Shammout ha dato per prima alla luce un figlio in una prigione israeliana.

Anhar chiamerà suo figlio “Alaa”. Sarà il nono bambino palestinese a subire la stessa sorte.

In un breve servizio l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa ha documentato le esperienze di sette detenute che hanno partorito in carcere, scoprendo che tutte avevano sofferto, in particolare perché durante il travaglio e il parto le braccia e le gambe erano incatenate al letto.

La sorella di Anhar, Amna, ha detto a MEE che il massimo che ha potuto fare per sua sorella è stato organizzare campagne sui social media e contattare le organizzazioni per i diritti umani e gli organi di informazione per attirare l’attenzione sul caso di sua sorella.

“Oggi ci poniamo molte domande sul ruolo delle organizzazioni di donne e dei difensori dei diritti umani nel sostenere le donne palestinesi di fronte agli attacchi israeliani, alle persecuzioni e alle grandi ingiustizie a cui sono soggette”, dice Amna.

“Anhar è oggi un modello non della sofferenza delle prigioniere, ma della sofferenza delle donne palestinesi”.

Amna afferma che la sua più grande paura per Anhar deriva dagli attacchi di depressione di cui soffre e dalla probabilità che subisca ulteriori traumi dopo il parto, una situazione che verrebbe esasperata dalle condizioni carcerarie.

Messaggi vocali

Dal momento del suo arresto ad Anhar è stata concessa solo una visita dei familiari, del marito, mentre sua madre e sua sorella non hanno potuto vederla per quasi sei mesi, da quando è stata arrestata.

Le viene anche impedito di parlare con la sua famiglia al telefono. La madre di Anhar afferma che l’esercito israeliano ha anche ritirato al marito di Anhar il permesso di lavoro per l’accesso alle aree occupate dal 1948 [cioè in Israele, ndtr.], come ulteriore punizione per la famiglia.

“Fino ad ora non ho potuto vederla e ho sentito la sua voce solo una volta, ma le inviamo dei messaggi vocali sulla sua bambina Julia attraverso una delle stazioni radio locali che lei può ascoltare”, aggiunge Aisha.

Anhar ci ha detto di smettere di lasciare che Julia si rivolga a lei alla radio; non riesce a capire che sua figlia sta crescendo, lontana da lei”.

Secondo il Palestine Prisoners Club [ONG che monitora e sostiene i prigionieri politici palestinesi, ndtr.] Anhar è una delle 11 madri palestinesi imprigionate nelle carceri israeliane, su un totale di 40 detenute. La maggioranza si trova nella prigione di Damon in condizioni durissime e vergognose.

In un comunicato l‘organizzazione ha dichiarato che quando l’amministrazione carceraria israeliana consente ai bambini di andarle a trovare viene loro impedito di abbracciare le loro madri, una situazione che è peggiorata con la diffusione del Covid-19 e la mancanza di visite regolari da parte dei familiari.

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Prigioniera incinta trasferita agli arresti domiciliari con un’ammenda di 40.000 shekel

3 settembre 2021 – IMEMC News

Secondo quanto riportato da Quds News Network [Rete di notizie Quds; la QNN è una delle principali agenzie d’informazione nei territori palestinesi occupati, ndtr.] giovedì il tribunale militare israeliano di Ofer ha deciso di rilasciare Anhar ad-Deek, 25 anni, la donna palestinese al nono mese di gestazione, dopo una permanenza di sei mesi in una prigione israeliana.

Giovedì la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti ed ex detenuti [organo operativo del ministero per gli affari dei detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ha annunciato che le autorità di occupazione hanno rilasciato ad-Deek assegnandole gli arresti domiciliari e una ammenda di 40.000 shekel (10.500 euro).

Ad-Deek, sposata e madre di un bambino, della città di Kafr Ni’ma, all’interno del governatorato di Ramallah nella Cisgiordania centrale occupata, è stata arrestata dalle forze israeliane l’8 marzo, Giornata internazionale della donna, a seguito di quello che le autorità hanno affermato essere un presunto tentativo di accoltellamento.

Organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno organizzato campagne per chiedere alle autorità di occupazione di rilasciare immediatamente la detenuta incinta.

Sulla base di notizie correlate le autorità carcerarie hanno rilasciato anche un’altra donna palestinese, Ayat Mahfouth, dopo averla tenuta in prigione per cinque anni.

Secondo Addameer [ONG palestinese che monitorizza il trattamento dei prigionieri palestinesi e fornisce assistenza legale, ndtr.] Le donne palestinesi incinte non sono sfuggite agli arresti di massa di civili palestinesi sotto il regime di occupazione israeliano illegale. Tra il 2003 e il 2008 Addameer ha documentato quattro casi di detenute palestinesi costrette a partorire mentre si trovavano nelle carceri israeliane; tutte loro hanno ricevuto cure prenatali e postnatali molto scarse o inesistenti.

Poiché l’incarcerazione di donne incinte comporta un rischio elevato non solo per la donna stessa ma anche per gli esiti del parto e per la successiva crescita e sviluppo del neonato, i loro casi sono estremamente preoccupanti. Le donne incinte nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani non godono di alcun trattamento preferenziale in termini di dieta, spazio vitale o trasferimenti negli ospedali”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Obiettrice di coscienza: “Non voglio indossare un’uniforme che simboleggia violenza e dolore”

Oren Ziv

1 settembre 2021 – +972 MAGAZINE

Shahar Perets, che è stata condannata al carcere per essersi rifiutata di arruolarsi nell’esercito israeliano, per la prima volta parla dell’incontro con i palestinesi, delle sue visite in Cisgiordania e di come la società israeliana reprime chi si trova sotto occupazione.

Martedì mattina, dopo aver comunicato il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano a causa delle sue politiche nei confronti dei palestinesi, l’obiettrice di coscienza israeliana Shahar Perets è stata condannata a 10 giorni di carcere militare.

Perets, 18 anni, della cittadina di Kfar Yona, è una dei 60 adolescenti che a gennaio hanno firmato la Lettera degli Shministim(iniziativa denominata con l’appellativo ebraico dato agli studenti delle superiori) in cui hanno dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nell’esercito in segno di protesta contro le politiche di occupazione e apartheid. Nel giugno 2020, è stata una dei 400 adolescenti israeliani che hanno firmato una lettera alla leadership israeliana chiedendo di porre fine ai suoi precedenti programmi di annettere parti della Cisgiordania occupata come parte del cosiddetto piano di pace di Trump.

Martedì mattina decine di sostenitori, tra cui il deputato della Lista Unita [formata da quattro diversi partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ofer Cassif, hanno accompagnato sia Perets che l’obiettore di coscienza Eran Aviv – che andrà per la quarta volta dietro le sbarre – presso il nucleo di reclutamento di Tel Hashomer nel centro di Israele, dove entrambi hanno detto all’esercito che non avrebbero prestato il servizio di leva. Aviv ha trascorso un totale di 54 giorni nel carcere militare per essersi rifiutato di prestare servizio nell’esercito. Perets e Aviv sono stati condannati ciascuno a 10 giorni dietro le sbarre. Dopo essere stati rilasciati dovranno tornare al centro di reclutamento e ripetere la procedura fino a quando l’esercito non deciderà di congedarli.

Il servizio di leva è obbligatorio per la maggior parte degli ebrei israeliani

Anche il padre di Shahar, Shlomo Perets, che è stato in prigione quattro volte per essersi rifiutato di prestare servizio militare in Libano e nei territori occupati, era lì per sostenere sua figlia. Queste sono le sue scelte, fa quello che ha deciso con coscienza, scrupolo e voglia di cambiamento. La sostengo e spero che riesca a non fare le cose che vanno contro i suoi principi e rifiuti di essere ciò che non è”.

Nei giorni precedenti alla sua condanna ho parlato con Perets delle ragioni del suo rifiuto, delle sue visite nei territori occupati e di cosa intenda portare con sé in prigione.

“Ho deciso di rifiutare [il servizio di leva] dopo aver partecipato in terza media a un incontro tra palestinesi e israeliani in un campo estivo”, mi ha detto Perets. Ho fatto la conoscenza di amici palestinesi, ho capito che non voglio ferirli, non voglio incontrarli da soldatessa e diventare il loro nemico. Non voglio prendere parte a un sistema che li opprime quotidianamente».

Che esperienze hai fatto in seguito a quel primo incontro con dei palestinesi?

Ho preso coscienza di ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Ho iniziato a conoscere meglio le realtà della vita palestinese e ho preso la decisione di non arruolarmi e di farlo pubblicamente”.

Le tue visite in Cisgiordania ti hanno aiutata a prendere la decisione sul rifiuto?

Sono stata in giro e ho anche partecipato a tutti i tipi di attività, tra cui il volontariato e l’aiuto agli agricoltori [palestinesi] nelle colline del sud di Hebron e la raccolta delle olive nella Cisgiordania settentrionale.

E’ un’esperienza difficile, ritorno sempre stravolta. Sta succedendo qualcosa di brutto e deve finire. Passare dall’osservazione di foto o dall’ascolto di testimonianze alla valutazione in loco è sconvolgente. Vedere gli insediamenti coloniali dove i bambini vengono attaccati mentre vanno a scuola. Vedere i luoghi che i palestinesi non possono raggiungere, ad esempio nelle colline a sud di Hebron nell’area C [sotto il pieno dominio militare israeliano].

Ho preso la decisione ben prima di trovarmi in Cisgiordania, ma è chiaro che vedere i soldati e i coloni in piedi davanti ai palestinesi mi ha chiarito che non voglio essere uno di quei soldati, non voglio indossare questa uniforme, che simboleggia la violenza e il dolore dell’esperienza dei palestinesi”.

Nell’ultimo anno hai parlato con molti adolescenti mentre ti preparavi a pubblicare la Lettera Shministim. Che tipo di reazioni hai avuto?

La risposta iniziale è sempre un po’ di timore, dal momento che nella maggior parte dei circoli di ragazzi e ragazze, nei movimenti giovanili e nelle scuole non c’è una discussione critica sull’esercito, sul reclutamento e sull’occupazione .

Sia i miei amici più intimi che la cerchia dei conoscenti sono rimasti sorpresi. La gente non sapeva che c’era un’opzione per non arruolarsi. Allo stesso tempo molti adolescenti, ragazzi e ragazze, potrebbero improvvisamente ritrovarsi su qualcosa, firmare la lettera. Voglio credere che questi incontri siano efficaci. Che diano [alle persone] molta forza e una vera alternativa.

Speri che il tuo rifiuto permetta agli adolescenti di vedere un’altra opzione?

Gli adolescenti incontrano i palestinesi per la prima volta da soldati, quando indossano uniformi e imbracciano armi. È chiaro che se ci fossero stati degli incontri con palestinesi a scuola o conversazioni sulla narrativa palestinese, le cose sarebbero andate diversamente.

Ovviamente questo fa parte della politica del sistema, dello stesso desiderio di dividere, di creare una realtà di ‘nemici’ e ‘terroristi’, invece di guardare tutti coloro che vivono qui – palestinesi e israeliani – e dire viviamo e creiamo sicurezza per tutti. Non facciamoci del male, smettiamo di uccidere e di essere uccisi».

Come ha reagito la tua famiglia?

Nel complesso sia i miei amici che la mia famiglia mi stanno davvero a fianco. Ovviamente non tutti sono contenti che io vada in prigione. È strano rispondere alla domanda “Qual è la prossima cosa che farai?” Tra una settimana andrò in prigione. Penso che chi mi è più vicino sia stato in grado di comprendere il mio rifiuto.

C’è il desiderio di trasmettere un messaggio anche ai palestinesi?

[Il messaggio è che] sebbene il movimento del rifiuto sia in minoranza, esiste e ha un’influenza. Alcune persone non sono disposte a contribuire a ciò che sta accadendo, resistono e agiscono in modo che gli altri sappiano [cosa sta accadendo].

Negli ultimi 50 anni gli adolescenti hanno pubblicato numerose lettere in cui hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare al servizio militare sia nei territori occupati che in generale. La prima lettera Shministim è stata pubblicata nel 1970 nel bel mezzo della guerra di logoramento tra Israele ed Egitto. La lettera Shministim pubblicata quest’anno è stata firmata da adolescenti che ci si aspetta finiscano dietro le sbarre o che altrimenti vengano esentati.

Peretz inizialmente ha intrapreso la procedura di arruolamento, ma si è fermata a metà e ha scelto di non richiedere un esonero dall’esercito.

“Ho deciso di non andare davanti al comitato per gli obiettori di coscienza, a una commissione medica o all’ufficiale dell’esercito per la salute mentale”, afferma Perets, “perché è importante per me rispettare i miei principi e non creare l’impressione che sia io il problema e che dovrei essere esentata [dal servizio]. Ho scelto di andare in prigione e partecipare a una campagna perché spero che raggiunga il maggior numero di persone. Spero che attraverso il mio rifiuto le persone riflettano sulla loro posizione in questa realtà”.

Pensi che oggi le persone, soprattutto adolescenti, non sappiano cosa sta succedendo nei territori occupati? Oppure lo sanno e scelgono di rimuoverlo?

Esiste una dimensione molto ampia della rimozione; la gente non sa o sa e non lo vuole riconoscere. La rimozione non sempre è un nostro difetto, è del ministero dell’Istruzione, del governo, di tutti i tipi di altre organizzazioni che non ne parlano [dell’occupazione]. Le lezioni di storia non parlano della narrazione palestinese. Ovviamente questo scoraggia le persone. Le persone si mettono fortemente sulla difensiva quando dico loro che non ho intenzione di arruolarmi. Lo prendono sul personale e si arrabbiano. Ciò proviene chiaramente da una qualche riluttanza a confrontarsi.

Come ti stai preparando per il carcere?

Negli ultimi tre anni ho fatto parte di una rete di donne che si rifiutano di prestare il servizio militare. Ho potuto discutere e riflettere su ciò che sta accadendo in prigione. Prima della mia prigionia, ho parlato con obiettori di coscienza che sono stati in carcere. Mi hanno aiutato a mettere insieme le liste delle cose da portare. Porterò molti libri, sudoku e album da colorare. Ho iniziato a studiare l’arabo, quindi porterò qualche quaderno per continuare a esercitarmi, se me lo permetteranno”.

Come funziona in pratica la procedura di rifiuto? Cosa succede il giorno del reclutamento?

Arriverò al centro di reclutamento delle IDF [forze di difesa israeliane: l’esercito israeliano, ndtr.] e rifiuterò di passare attraverso il percorso di arruolamento. Questo è il primo confronto con il sistema. Da lì sarò inviata a tutte le categorie di ufficiali per ogni sorta di conversazioni e tentativi di persuasione finché non capiranno [la mia posizione]. Ci sarà un processo nello stesso centro, dove decideranno la mia condanna [di solito tra 10 giorni e due settimane]. Dopo il processo sarò trattenuta in stato di detenzione fino a quando non sarò trasferita in carcere.

Dopo il mio rilascio rifiuterò di nuovo e subirò quindi un altro processo e sarò rispedita in prigione. So che è quello che farò nei prossimi mesi. Festeggerò il mio 19esimo compleanno in carcere”.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [gruppo di fotoreporter israeliani, palestinesi e internazionali impegnati contro oppressione, razzismo e discriminazione, ndtr.] e giornalista della redazione di Local Call [sito internet di informazione in lingua ebraica che fa capo alla redazione di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, sugli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Beita è un modello di resistenza palestinese contro Israele

Shatha Hammad

31 agosto 2021- Middle East Eye

Questa cittadina, situata in posizione strategica in Cisgiordania, da molto tempo fa gola ai coloni israeliani, ma i suoi abitanti si rifiutano fermamente di rinunciare alle proprie terre, nonostante le ripetute tragedie patite.

Alaa Dweikat è cresciuta giocando a nascondino con il papà, Imad, e quattro tra fratelli e sorelle. La piccola palestinese di nove anni non si sarebbe mai aspettata che il gioco diventasse realtà.

Imad, 38 anni, adesso è scomparso per sempre dalle loro vite, ucciso dall’ esercito israeliano a Beita, nella Cisgiordania occupata. Il 6 agosto, mentre la famiglia aspettava che arrivasse a casa per pranzo, è invece squillato il telefono. Imad era stato ucciso dai soldati israeliani in uno scontro con gli abitanti di Beita che protestavano a Jabal Sbeih, a sud di Nablus.

Lui è uno dei sette palestinesi, fra cui due adolescenti, uccisi da maggio, quando è stata lanciata una campagna di proteste contro una colonia israeliana illegale alla periferia della cittadina. Tre erano padri di famiglia e lasciano circa quindici figli.

I palestinesi di Beita protestano in modo pacifico contro l’espansione israeliana. Sono stati accolti da pallottole vere e gas lacrimogeni che hanno causato decine di feriti, molti colpiti alle gambe.

Arresti di massa hanno portato oltre 30 palestinesi della cittadina ad essere rinchiusi in carceri israeliane.

Quello che una volta era un tranquillo villaggio cisgiordano è diventato l’epicentro della resistenza palestinese.

Accolto da pallottole

Alaa, la figlia maggiore di Imad, dice che sogna di lavorare su un’ambulanza, così potrà evitare la morte delle persone, come è capitato a suo papà.

Ogni giorno penso di chiedere alla mamma quando nostro padre tornerà a casa dal lavoro, ma poi mi ricordo che è morto e che non tornerà mai più,” dice Alaa a Middle East Eye. “È molto dura. Mi manca ogni giorno.” 

Imad, come molti dei giovani di Beita, andava a Jabal Sbeih ogni venerdì per partecipare alle popolari attività pacifiche per difendere la loro terra dall’occupazione dei coloni. 

È stato colpito da “una pallottola in pieno petto ed è morto sul colpo”, dice a MEE suo fratello Bilal. “Imad stava partecipando come gli altri ad attività pacifiche e non a una guerra. Non c’è nessun motivo per cui i cecchini israeliani sparino pallottole vere.”

Dalla sua uccisione, Fathiya, la mamma di Imad, 77 anni, non riesce più a dormire. Qualche volta riesce ad assopirsi per qualche ora, ma poi si sveglia di botto e si siede sulla soglia in attesa dell’impossibile ritorno di Imad. 

Lo vedo dappertutto. Non riesco a smettere di attendere il suo ritorno, anche se gli ho detto addio e so che è morto. Viviamo con un dolore che durerà per sempre,” dice a MEE, cullando il figlio di Imad di tre mesi. 

Famiglie che vivono lo stesso dolore  

Said Dweikat siede davanti a casa sua affacciata su Beita e beve un caffè. Stormi di uccelli volteggiano in cielo.

La città sembra calma, ma i suoi abitanti hanno subito violenze quotidiane. Ogni casa è legata con qualcuno che è stato ucciso durante le manifestazioni. Inoltre molti abitanti sono ancora curati per le ferite riportate e molte case hanno subito raid frequenti e arresti.

Qui ogni giorno c’è una famiglia che si aspetta che uno dei suoi figli sia ucciso, ferito o arrestato dall’esercito israeliano. Ciascuno di noi dice: ‘Adesso tocca a me’,” racconta Said a MEE. 

Di solito Said prendeva il caffè con il fratello, Shadi. Ma Shadi è stato ammazzato il 27 luglio, non mentre protestava, ma mentre lavorava come volontario per il comune di Beita e apriva le pompe dell’acqua all’ingresso della città. Gli israeliani sostengono che fosse armato con una barra di metallo, in realtà erano i suoi attrezzi da idraulico.

Lascia cinque figli.

“I suoi bambini ci chiedono dov’è il loro papà; noi diciamo che è in paradiso. E loro rispondono: ‘Non vogliamo il paradiso, vogliamo un padre’. Non riesco più a rispondere alle loro domande, è molto doloroso,” dice Said, con le lacrime che gli scorrono sulle guance. 

L’intera cittadina è sconvolta dall’uccisione di Shadi, dice Said. Dato che era un idraulico era andato praticamente in tutte le case di Beita.

E come se la sua morte non fosse già abbastanza tragica, l’esercito israeliano, dopo averlo ammazzato, ha trattenuto il suo corpo per due settimane, aggiungendo altro dolore e rabbia al dolore che già provavano.

“Ogni ora penso a come farò a passare l’ora successiva senza Shadi, come vivrò la mia vita senza di lui,” dice Said. 

Rubare Jabal Sbeih 

Per Beita la storia recente, fatta di violenza e resistenza, è cominciata il 2 maggio, quando gli abitanti hanno notato delle lucine in cima a Jabal Sbeih.

Dei coloni, accompagnati dall’esercito, stavano costruendo un avamposto illegale senza che ci fosse stata prima alcuna comunicazione di confisca della terra.

Non è la prima volta che Israele cerca di prendere il controllo della collina. Nel 1978, con l’apertura dell’autostrada 60 per le colonie, l’esercito israeliano ci aveva costruito un avamposto militare, costringendo i proprietari palestinesi a rivolgersi ai tribunali israeliani per recuperare le proprie terre, cosa che erano riusciti a fare nel 1994.

L’avamposto militare è stato smantellato, poi ricostruito durante la Seconda Intifada del 2000-2005 e poi di nuovo smantellato. 

Huthayfa Budair, che possiede delle terre sulla collina, dice che quattro anni fa gli abitanti hanno cominciato a notare l’avanzata dei coloni nella zona, attirati dalla sua posizione strategica.

C’è stata un’insurrezione popolare con la partecipazione di tutti gli abitanti e siamo riusciti a cacciare i coloni dalla zona,” dice Huthayfa. 

Nonostante ciò quest’anno i coloni sono ritornati a Beita. In soli sei giorni hanno installato 40 roulotte e asfaltato una strada che porta alla collina, battezzando l’avamposto “Givat Eviatar”.

Il 9 giugno l’esercito israeliano ha cominciato a smantellare l’avamposto, sostenendo che era stato costruito durante una situazione tesa a livello di sicurezza e senza previa regolarizzazione. Comunque, poco dopo l’esercito si è appropriato dell’avamposto e ha dichiarato Jabal Sbeih zona militare, impedendo ai palestinesi di ritornare alle proprie terre.

È emerso che i coloni hanno stretto un accordo con il governo in base al quale lascerebbero le loro roulotte sulla collina in modo che l’esercito se ne prenda cura fino a quando la terra non sarà dichiarata proprietà dello Stato di Israele e a quel punto potranno ritornare.

Huthayfa ha i documenti che certificano la sua proprietà di cinque dunam [0,5 ettari, N.d.T.] a Jabal Sbeih. Altre cinque famiglie di Beita sono riuscite a fornire i documenti di proprietà, come anche alcune famiglie dei vicini villaggi di Qabalan e Yatma.

Nonostante ciò, il 15 agosto la Corte Suprema israeliana si è rifiutata di accettare un ricorso contro l’avamposto presentato dai proprietari, una decisione condannata come prematura dal Jerusalem Center for Legal Aid and Human Rights [Centro per l’Assistenza Legale e i Diritti Umani di Gerusalemme] (JLAC), che l’aveva presentato a nome dei palestinesi.

La Corte Suprema ha rinviato la sentenza sulla legalità dell’avamposto e sull’accordo dei coloni con il governo fino a quando la zona non sarà ispezionata e si prenderà una decisione finale che la dichiari “terra statale”. Essa sostiene che i proprietari hanno il diritto di presentare immediatamente appello se la zona sarà dichiarata “terra statale”, ma secondo lo JLAC la petizione non verrà esaminata fino a quando non si prenderà una decisione sullo status giuridico del territorio.

Anzi, lo JLAC sostiene che la Corte Suprema ha già deciso sugli appelli con “totale negligenza”, e ignorato “abusi lampanti commessi dai coloni sulle terre su cui non hanno alcun diritto, il che indica che i tribunali non hanno alcun problema legale ad aggirare le leggi”.

Resistenza creativa

Negli ultimi mesi i giovani di Beita hanno sviluppato modi creativi per resistere ai coloni e alle pallottole dell’esercito israeliano, tramite una campagna che chiamano “stato di confusione”.

È una combinazione di metodi tradizionali di resistenza, come lanciare pietre e bruciare pneumatici, e tattiche nuove come l’uso di laser, altoparlanti e rumori che sembrano esplosioni.

I manifestanti e quanti partecipano alla protezione delle terre dall’espansione dei coloni si sono organizzati in gruppi che a turno agiscono giorno e notte, ognuno con una missione specifica. La zona è costantemente monitorata e gli abitanti di Beita vi si recano regolarmente. 

Ogni venerdì noi giovani ci portiamo le fionde mentre gli anziani hanno le bandiere palestinesi. Usiamo anche pneumatici incendiati, fuochi d’artificio e palloni,” ha detto a MEE un venticinquenne parlando in condizioni di anonimato.

Noi monitoriamo i giornali israeliani sulle reti sociali e osserviamo le reazioni dei coloni. Abbiamo scoperto che siamo riusciti a metterli sotto pressione e a costringerli a lasciare la colonia – neppure loro si sentono al sicuro, circondati da un costante rifiuto popolare alla loro presenza.” 

Noi vogliamo conservare Beita e le sue terre. Siamo riusciti a cacciarli dalla montagna parecchie volte. Questa sarà l’ultima, non ritorneranno più,” aggiunge. 

Una volta che le famiglie recupereranno le loro terre, dice, l’intera cittadina festeggerà. “Sarà come un matrimonio nazionale.” 

Un altro attivista, anche lui parlando a condizione di anonimato per paura di rappresaglie israeliane, dice a MEE: “Siamo qui tutto il tempo per salvaguardare l’approccio dei nostri antenati alla conservazione delle nostre terre e per prevenire attacchi o confische ad ogni costo, anche della nostra vita e libertà.”

Beita è nota per la sua resistenza e, nel corso degli anni, è stata costretta ad affrontare parecchie volte l’esercito israeliano a causa della sua posizione geografica affacciata sulla strada fra Nablus e Gerico. 

Beita ha sempre combattuto a sostegno di Gaza e dei prigionieri (palestinesi) ed è contraria a ogni azione intrapresa da Israele in Cisgiordania. Noi sacrifichiamo martiri, feriti e prigionieri e ciò non ci spaventa né ci impedisce di continuare,” dice l’attivista.

Beita non conosce la calma. È sempre in fiamme e se l’esercito israeliano evita di compiere dei raid è perché sa che li pagherebbe a caro prezzo.”

Anche se i coloni se ne sono andati da Jabal Sbeih, il confronto continua, seppure in tono minore.

Gli abitanti hanno giurato di non ritirarsi fino a quando non saranno rientrati in possesso dell’intera collina.

“Anche se l’avamposto sarà smantellato e noi saremo ritornati a Jabal Sbeih, Beita non smetterà la sua lotta finché non si sarà riottenuta tutta la Palestina,” dice l’attivista. “Noi speriamo che l’esperienza di Beita si diffonda in tutti i villaggi palestinesi che quotidianamente fronteggiano la costruzione di colonie.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tareq Zubeidi, rapito e torturato da una banda di coloni

Gideon Levy

30 agosto 2021 – Chronique de Palestine

La settimana scorsa nella colonia di Homesh, destinata ad essere evacuata, un adolescente palestinese è stato portato via da coloni e sottoposto a violenze fisiche per più di due ore. Si tratta di una prassi consueta in questo luogo, di cui da tempo il tribunale ha ordinato l’apertura ai palestinesi.

Tareq Zubeidi è disteso sul suo letto di ferro in un angolo della stanza debolmente illuminata, coperto fino al collo e con gli occhi fissi al soffitto. Questo ragazzo pallido di 15 anni, senza barba, ha un sorriso dolce e parla con un sussurro.

Se inavvertitamente gli si toccano le gambe, soprattutto le ginocchia, si solleva di scatto come morso da un serpente e il suo viso si sbianca dal dolore.

Sulla pianta dei piedi ha due grosse cicatrici rotonde, il che spiega perché non gli sia possibile stare in piedi. Quando i coloni gli hanno inflitto queste ferite aveva il viso coperto, ma è convinto che una di esse sia stata provocata da una bruciatura, probabilmente con un accendino tenuto sotto un piede fino a che la carne si è strinata, mentre sull’altro piede lo colpivano con una sbarra di ferro.

Tareq è costretto a letto da quel mattino di orrore ed è ancora traumatizzato da quell’evento.

Il villaggio di Silat al-Daher si trova sulla strada tra Nablus e Jenin, nel nord della Cisgiordania. E’sovrastato dall’alto di una collina dai resti della colonia di Homesh, destinata ad essere evacuata, che Israele ha smantellato in teoria nel quadro del processo detto di disimpegno del 2005.

Nel contempo l’Alta Corte di Giustizia ha ordinato allo Stato di annullare le ordinanze militari di sequestro e di chiusura che avevano vietato ai palestinesi di accedere al sito, ma tutto ciò non ha niente a che fare con la realtà.

Un gruppo chiamato “Homesh First” [Prima Homesh] ha creato una yeshiva (scuola religiosa ebraica) sul sito poco dopo le evacuazioni; i suoi studenti sono tra i coloni più violenti. Chiunque abbia provato ad avvicinarsi a Homesh sa di che cosa – e soprattutto di chi – si tratta.

La decisione dell’Alta Corte qui è stata da molto tempo calpestata e nessuno se ne preoccupa. Da marzo 2020 l’organizzazione israeliana di difesa dei diritti umani B’Tselem ha registrato non meno di sette aggressioni violente contro palestinesi da parte dei coloni della yeshiva di Homesh.

In un’occasione hanno aggredito un gruppo di donne e un neonato, in un’altra hanno picchiato un contadino con bastoni e pietre, in una terza hanno rotto una gamba ad un pastore con delle pietre, e per due volte hanno attaccato case e veicoli nella periferia del villaggio.

Malgrado ciò, la scorsa settimana, il 17 agosto, un gruppo di giovani di Silat al-Daher ha deciso di organizzare un picnic e una grigliata vicino a Homesh, nel boschetto che costituisce il polmone verde del villaggio.

Secondo quanto ci ha raccontato Tareq – aveva già raccontato i fatti a Abdulkarim Sadi, ricercatore sul campo di B’Tselem, che lo ha incontrato il giorno dopo l’incidente ed è rimasto sconvolto dal trauma subito dal ragazzo – quel giorno il tutto è cominciato verso le 9, quando i giovani si sono incontrati davanti al liceo locale, dove il nuovo anno scolastico era iniziato un giorno prima.

Dei sei adolescenti, alcuni avevano lasciato la scuola ed altri avevano deciso di saltare un giorno di lezione a inizio anno. Tareq ha lasciato la scuola al settimo anno, quando aveva 13 anni, ed è andato a lavorare in una panetteria del villaggio di proprietà di suo zio.

Dopo aver comprato della carne di tacchino, sono saliti sulla collina a piedi. La strada per le auto è bloccata a causa dei coloni di Homesh che non lasciano avvicinarsi nessun palestinese.

Poco dopo essere arrivati al sito, dove si sono seduti sotto un albero a chiacchierare, il gruppo ha sentito d’improvviso delle voci in ebraico. Tareq si ricorda che lui e i suoi amici hanno subito avuto paura. A qualche decina di metri da loro è comparsa una macchina grigia argentata, con dentro quattro coloni, seguiti da due altri a piedi.

Solo qualche centinaio di metri separava il luogo del picnic da ciò che era Homesh, con la sua grande cisterna – suo segno di riconoscimento – che non era stata demolita al momento dell’evacuazione nel 2005.

I ragazzi si sono immediatamente alzati e si sono messi a correre per salvarsi la vita. Ogni idea di picnic era svanita. Ma durante la salita Tarek si era ferito ad una gamba e non poteva muoversi rapidamente.

La macchina lo ha seguito a tutta velocità, poi lo ha urtato e fatto cadere. I quattro coloni sono usciti dalla vettura e hanno cominciato a picchiarlo su tutto il corpo insultandolo. Avevano in testa grandi kippa [zucchetto rituale ebraico tipico dei coloni, ndtr.] e lunghi riccioli, racconta.

Uno di loro è tornato alla macchina per prendere una corda con la quale poi gli hanno legato le mani dietro la schiena ed anche le gambe. Tarek gridava di paura e di dolore. I coloni gli hanno dato dei calci, dice, mentre era steso a terra immobile.

Poi lo hanno sollevato e messo sul cofano della macchina, legandolo al veicolo con una catena di ferro perché non cadesse. La macchina ha viaggiato per qualche minuto finché ha raggiunto lo stagno di Homesh.

Il guidatore ha frenato bruscamente e Tarek è caduto, perché lungo il percorso i coloni avevano sganciato la catena. Due autobus di coloni sono arrivati al sito, ricorda Tarek, ma non è sicuro che abbiano preso parte alle violenze.

Qualcuno gli ha spruzzato sul viso dello spray urticante, un altro gli ha dato ancora dei calci. Steso al suolo, era sicuro che stesse per essere ucciso. Altri coloni si sono messi a prenderlo a calci, poi gli hanno bendato gli occhi con un fazzoletto. Tarek ha sentito che gli sputavano addosso e una raffica di insulti e di oscenità.

È stata un’esperienza orribile e terrificante”, dice, aggiungendo che pensa di essere rimasto steso così per circa un’ora e mezza.

Poi i coloni lo hanno trascinato fino a un albero e l’hanno appeso per le mani, in modo che le gambe rimanessero sospese. Con un’altra corda hanno legato il suo corpo al tronco dell’albero. Pensa di essere rimasto in quella posizione per circa cinque minuti. “Proprio in quel momento ho sentito che un colono mi picchiava la pianta di un piede con una sbarra di ferro ed un altro teneva qualcosa che bruciava sotto l’altro piede.”

Le cicatrici nei piedi di Tareq dovute alla tortura subita. Foto Alex Novac

Tareq ci mostra le ferite alle piante dei piedi. Dice di aver pianto e gridato per tutto il tempo e che i coloni non hanno mai smesso di insultarlo. Quando lo hanno staccato dall’albero, uno degli aggressori lo ha colpito alla testa con una mazza. Uno di loro gli gridava: “Sono pazzo, sono pazzo.” Tarek ha perso conoscenza.

Quando è rinvenuto si è ritrovato su una jeep dell’esercito israeliano. Un soldato gli ha dato il suo telefono cellulare perché potesse parlare con qualcuno in arabo, forse un agente dei servizi di sicurezza dello Shin Bet [servizi interni israeliani, ndtr.], che lo ha minacciato di fare arrestare i ragazzi se ci fossero stati lanci di pietre nel villaggio.

I soldati hanno chiesto la carta di identità di Tarek – lui ha risposto che era ancora troppo giovane per averne una.

Questa settimana l’unità del portavoce delle forze israeliane ha pubblicato su Haaretz il seguente comunicato riguardo all’incidente: “Martedì 17 agosto abbiamo ricevuto un rapporto relativo a palestinesi che hanno lanciato pietre contro dei coloni vicino alla colonia evacuata di Homesh, che si trova nel settore della brigata territoriale di Shomron (Samaria). Dopo aver ricevuto il rapporto, dei soldati dell’IDF (esercito israeliano, ndtr.) hanno raggiunto il sito ed hanno trovato dei coloni che tormentavano un giovane palestinese. Il comandante della forza si è occupato dell’accaduto ed ha riportato il giovane palestinese alla sua famiglia.”

Immediatamente dopo l’inizio dell’incidente, i cinque amici di Tarek hanno raggiunto Silat al-Daher ed hanno detto alla sua famiglia che lui era rimasto indietro. Suo fratello maggiore Hisham e suo zio Murwah si sono precipitati all’incrocio che si trova all’entrata di Homesh, ma hanno avuto paura di avventurarsi in macchina sulla strada che porta alla colonia.

Dopo un po’ di tempo hanno visto un ufficiale dell’IDF, lo hanno chiamato e gli hanno raccontato che cosa era successo. Poco dopo, una jeep dell’IDF gli ha riportato Tarek ferito. Un’ambulanza palestinese che passava sull’autostrada con un paziente uscito dall’ospedale di Nablus si è fermata e il paziente, che stava bene, ha proposto che l’ambulanza caricasse Tarek al suo posto. Tarek, con suo fratello e suo zio, è stato portato all’ospedale pubblico Khalil Suleiman di Jenin.

Secondo la cartella clinica dell’ospedale vi è arrivato alle 13,03, è stato sottoposto ad una serie di esami ed è stato riportato a casa il giorno successivo. Le ferite fisiche erano meno gravi di quanto sembrasse inizialmente, ma la ferita psicologica era chiaramente più grave.

Tarek racconta che dopo quel giorno non ha potuto dormire e che si sente molto angosciato, soprattutto al buio. Suo fratello e suo zio dormono nella stanza con lui.

Se resto solo al buio comincio a pensare a quell’incubo con i coloni. Ho l’impressione di sudare in tutto il corpo. Ho la sensazione che il mio cuore batta all’impazzata.”

Da allora Tarek non può camminare senza aiuto – lo accompagnano al bagno i suoi familiari. La pianta dei piedi è ferita e le sue ginocchia sono ancora gonfie.

Gideon Levy, nato nel 1955 a Tel Aviv, è un giornalista israeliano e membro della direzione del quotidiano Haaretz. Vive nei territori palestinesi sotto occupazione. Ha ricevuto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele nel 1996. Ha scritto il libro The Punishment of Gaza [‘La punizione di Gaza’], che è stato tradotto in francese con il titolo Gaza, articoli per Haaretz, 2006-2009 [Gaza, articoli per Haaretz, 2006-2009], La Fabrique, 2009.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’Autorità Nazionale Palestinese sta perdendo il controllo sulla Cisgiordania

Lubna Masarwa, Dania Akkad

30 agosto 2021 – Middle East Eye

Mesi di crescente repressione e di arresti portano a interrogarsi sul suo imminente collasso persino i sostenitori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il 23 agosto, vedendo che le forze di sicurezza arrestavano circa una trentina di manifestanti che esigevano risposte riguardo alla morte di Nizar Banat, un oppositore di Mahmoud Abbas deceduto dopo un’irruzione di agenti della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in casa sua, un membro dell’ANP si è ricordato di quello che era avvenuto in Egitto quarant’anni fa.

“Ciò mi ricorda gli ultimi giorni di (Anwar) Sadat,” ha confidato a Middle East Eye, a condizione di rimanere anonimo per una questione di sicurezza personale. Nelle settimane che nel 1981 precedettero l’assassinio del presidente egiziano, Sadat aveva fatto arrestare 1.600 egiziani di ogni orientamento politico. “Avevano cominciato ad arrestare tutti quanti, come giornalisti e scrittori, e chiunque si ribellasse a Sadat.”

I suoi membri e alcuni osservatori affermano che la fragilità dell’ANP è al centro dell’attenzione da mesi. Ciò è iniziato in aprile, quando il presidente Mahmoud Abbas ha rinviato le elezioni politiche. In maggio l’ANP è rimasta ai margini quando Israele ha bombardato Gaza.

Durante l’estate l’ANP ha reagito con l’arresto di decine di attivisti alle manifestazioni che criticavano le sue iniziative, e persino quelle in solidarietà con i palestinesi di Gaza, rimanendo nel contempo in silenzio mentre le forze di sicurezza israeliane uccidevano una quarantina di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Per gli attivisti e il membro dell’ANP gli arresti dello scorso fine settimana sono l’ultimo segnale in ordine di tempo dell’indebolimento dell’ANP, il che li porta a chiedersi se non stia per perdere il controllo della Cisgiordania.

Sul piano politico sono finiti”

Qualche ora dopo le dimostrazioni, cui hanno partecipato studenti universitari, registi e poeti, durante una veglia di protesta contro gli arresti le forze dell’ordine dell’ANP hanno arrestato un altro manifestante, Khader Adnan, celebre per i suoi scioperi della fame senza uguali durante le sue varie incarcerazioni in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane.

Fadi Quran, difensore dei diritti umani ed esperto di diritto internazionale che era tra gli arrestati, ha detto di essere stato interrogato sulla ragione per la quale ha distribuito bandiere palestinesi e, durante un’udienza, ha chiesto al giudice di condannarlo per essere il primo palestinese sanzionato per il possesso della bandiera nazionale.

L’assurdità della situazione e l’inasprimento dell’ANP di fronte alle critiche portano molti a chiedersi se si tratti di un ultimo attacco disperato: “Ci sono tutti gli elementi per un collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese,” afferma Jamal Juma’a, direttore della campagna Stop the Wall [Stop al muro, ndtr.], con sede a Ramallah.

“Sul piano politico sono finiti. Come progetto nazionale, sono finiti. Aggiungi a questo la corruzione generalizzata e ci sono tutte le condizioni per un crollo dell’ANP.” Da parte sua il membro dell’ANP afferma: “Non posso dire se l’Autorità Nazionale Palestinese collasserà a breve, ma sicuramente attraversa una crisi profonda e non sono sicuro di sapere dove questo porterà.”

Jenin è un buon punto di partenza per vedere a cosa potrebbe assomigliare un’ANP che perde il controllo della Cisgiordania.

Negli ultimi due mesi ci sono state parecchie sparatorie nel campo profughi di Jenin tra giovani abitanti armati e le forze di sicurezza israeliane che fanno regolarmente irruzione nel campo.

Dopo due incidenti a luglio e agosto, durante i quali le forze di sicurezza israeliane hanno ferito due palestinesi a Jenin, la scorsa settimana hanno ucciso quattro palestinesi quando un’irruzione nel campo si è trasformata in uno scontro a fuoco.

In risposta il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh ha criticato le forze israeliane e chiesto all’ONU e alle organizzazioni internazionali di fornire una protezione al popolo palestinese.

Ma Shatha Hamaysha, giornalista freelance di Jenin che collabora con MEE, racconta che la sparatoria della scorsa settimana era stata scatenata dai maldestri tentativi dell’ANP di cercare di controllare la situazione a Jenin.

Secondo lei l’ANP ha proposto di fare da intermediaria tra gli israeliani e i giovani combattenti armati e poco prima dello scontro a fuoco ha arrestato parecchi abitanti che avevano rifiutato di adeguarsi a questo piano.

Quelli che hanno combattuto respingono l’ingerenza dell’ANP, soprattutto alcuni giovani che recentemente si sono uniti ai combattenti a causa della frustrazione provocata dall’ANP.

Precisa che l’ANP ha cercato di risolvere la situazione a Jenin “a modo suo”, diffondendo l’immagine secondo cui controlla la situazione, ma la realtà in città è molto diversa. “A Jenin l’Autorità ha perso la sua presenza sociale e tenta in vari modi di controllare la sicurezza, di imporre l’ordine e di ripristinare la calma,” afferma Hamaysha.

Un’opinione pubblica che non ha più paura

Precisa comunque che si continua a gettare benzina sul fuoco. La settimana scorsa le forze israeliane hanno messo in atto esercitazioni militari nei posti di controllo che circondano Jenin “per inviare un velato messaggio a Jenin e ai suoi giovani.”

A livello locale queste esercitazioni sono considerate come vane dimostrazioni di forza. Per il membro dell’ANP l’incapacità delle forze di sicurezza a proteggere gli abitanti dagli israeliani o di controllare i gruppi armati nel campo profughi è un chiaro segnale. “L’ANP è sempre molto debole. Non può entrare in un luogo come Jenin,” sostiene. Quello che succede a Jenin si estenderà? È la domanda che molti si pongono in Cisgiordania.

MEE ha chiesto all’ANP se ha fatto da intermediaria tra i giovani armati e gli israeliani; se ha arrestato persone ricercate dagli israeliani; se ha svolto attività prima della sparatoria della settimana scorsa e se ha perso il controllo di Jenin. Al momento della pubblicazione [di questo articolo] l’ANP non aveva ancora risposto.

Altro segnale che indica che all’ANP sfugge il controllo sono le persone che sono state arrestate. Non si tratta di sostenitori di Hamas, bersaglio abituale dell’ANP, ma di attivisti laici, persino di alcuni che fino a poco tempo fa sostenevano l’ANP.

Mazin Qumsiyya, docente di biologia alle università di Betlemme e Bir Zeit e attivista politico, era tra i manifestanti di Ramallah. Durante le proteste sono stati arrestati 17 suoi amici, racconta.

Secondo lui questi arresti riflettono un’ANP che non sa cosa deve fare, perché le sue solite strategie sono inefficaci con un’opinione pubblica che non ha più paura.

“Pensavano che quella di Nizar Banat sarebbe diventata una storia vecchia, ma non è stato così. Si sta allargando,” sostiene. “La gente non sta zitta e reagisce sempre di più.”

“Penso che ci si avvii verso il collasso dell’ANP, in particolare riguardo alla sicurezza. Le persone non hanno più paura dell’ANP. Nemmeno quelli che vengono arrestati hanno paura. Quando si supera l’ostacolo della paura tutto è possibile.”

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat (Centro Palestinese di Ricerche Politiche e di Studi Strategici) a Ramallah, afferma che il recente comportamento dell’ANP è il riflesso di un’istituzione che reprime perché non sa che altro fare dopo aver perso il sostegno popolare.

“L’Autorità Nazionale Palestinese si è trovata impreparata dopo aver perso le fonti di legittimità interne: legittimità rivoluzionaria, legittimità della resistenza e del consenso nazionale, legittimità delle urne e legittimità dei risultati raggiunti,” elenca.

“Non le restano che le fonti di legittimità esterne: legittimità del potere e della sicurezza. Dopo il fallimento del suo progetto politico, non ne ha adottato uno nuovo.”

Continua: “Ha abbandonato la direzione del suo popolo in tutte le manifestazioni dell’Intifada di Gerusalemme ed ha l’impressione che gli avvenimenti l’abbiano sopraffatta. Ha voluto prendere l’iniziativa arrestando più di 120 persone dal maggio scorso, per inviare un messaggio forte: nessuno, qualunque sia la sua età, può sfuggire agli arresti.”

Un peso per il popolo palestinese

Un sondaggio dei primi di giugno del Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca] e della fondazione Konrad-Adenauer appena dopo il rinvio delle elezioni da parte di Abbas mostra che più del 56% dei palestinesi ritiene che l’ANP sia un peso per il popolo palestinese.

Secondo il membro dell’ANP non è nell’interesse degli Stati Uniti o degli israeliani lasciare che l’ANP collassi. Ma dice di prevedere un periodo molto confuso per l’organizzazione, divorata da lotte intestine.

“La sostituzione di Abu Mazen (Mahmoud Abbas) è fonte di conflitti, ma ci sono anche diatribe riguardanti gli incarichi ministeriali,” afferma questa fonte. “Oggi Fatah [principale organizzazione dell’ANP, ndtr.] è disunito. Ci sono divisioni e molti non sono d’accordo con quello che succede sul terreno, in particolare con gli arresti.”

Nel frattempo, avverte, in Cisgiordania circolano dappertutto armi sulle quali l’ANP non ha alcun controllo.

Come Qumsiyya, Juma’a è convinto che i palestinesi abbiano bisogno di un’alternativa politica forte per sostituire l’ANP, di alternative prima di metterla seriamente in discussione.

“Succede di tutto e l’ANP arresta dei palestinesi. Ma dove sono le fazioni politiche? Cosa fanno per porvi termine?” si interroga Juma’a.

“L’Olp deve agire e intervenire. Le fazioni politiche nell’ANP devono dare le dimissioni [dagli incarichi governativi, ndtr.] invece di servire da copertura.”

Secondo Qumsiyya il problema è che i palestinesi pensano di non avere che due possibilità davanti a sé: Hamas o Abbas.

“Ma non è vero. Abbiamo numerose scelte. Molti gruppi si presentavano alle elezioni e in uno di essi c’era lo stesso Nizar Banat. Non faceva parte né di Fatah né di Hamas,” continua.

“La gente vuole un cambiamento profondo, non solo superficiale. Vuole che Abu Mazen e tutto il suo sistema spariscano.”

Tra i manifestanti arrestati il 23 agosto si preparano già piani per nuove dimostrazioni.

Dopo essere stato liberato, sulla sua pagina Facebook il regista Mohammed Alatar ha ringraziato le persone che hanno inviato messaggi di solidarietà al momento del suo arresto.

“Di fatto mi vergogno, perché in Palestina eravamo soliti festeggiare quando eravamo (liberati) dalle prigioni dell’occupazione. Ormai festeggiamo l’uscita dalle nostre stesse prigioni,” scrive.

“Spero che presto tutto questo caos finisca e che ci concentriamo di nuovo sulla nostra fondamentale missione, che consiste nel sbarazzarci dall’occupazione ed essere liberi.”

Poi invita le persone a tornare in piazza Manara a Ramallah, teatro degli arresti di sabato, per una nuova manifestazione.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Gaza: disabili o morte, molte giovani vittime degli attacchi israeliani non ritorneranno a scuola

Maha Hussaini

28 agosto 2021 – Middle East Eye

Fra le centinaia di minori palestinesi feriti durante la campagna israeliana contro Gaza a maggio, molti hanno ora davanti a sé una vita senza istruzione e poche prospettive.

Mohammed Shaaban, otto anni, siede in classe nel primo banco e ascolta attentamente l’insegnante cercando di seguire la lezione il meglio che può.

Con i suoi compagni frequenta la seconda in una scuola a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, ma solo temporaneamente. Ha perso la vista durante l’intensa campagna di bombardamenti israeliani sulla Striscia e ora l’amministrazione scolastica rifiuta di permettergli di continuare gli studi se [la scuola] non può adeguarsi ad alunni con la sua disabilità.

In quella fatale giornata di maggio, Mohammed aveva appena finito di fare la spesa con la mamma e la cugina per la festa di Eid al-Fitr [che celebra la fine del Ramadan, N.d.T.] quando un razzo è caduto sul mercato, lanciando schegge ovunque, alcune delle quali l’hanno colpito in volto.

Tre settimane dopo è stato trasferito in un ospedale in Egitto per ricevere un trattamento per la ferita. I dottori hanno detto al padre che il caso di Mohammed era “senza speranza”.

Uno degli occhi è stato distrutto dalla scheggia, quindi non c’è assolutamente alcuna speranza di salvarlo,” ha detto suo padre, Hani Shaaban, a Middle East Eye (MEE).

L’altro è stato gravemente danneggiato e i medici ci hanno detto che non riuscirà mai più a vedere.”

La tragedia di Mohammed è tutt’altro che unica. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, (OHCHR), ci sono stati 66 minori e 40 donne fra i 256 palestinesi uccisi durante gli attacchi durati 11 giorni del territorio soggetto a blocco. Fra i minori uccisi, 51 erano in età scolare. Circa 470 altri minori sono stati feriti negli attacchi.

Oltre 50 strutture scolastiche sono state danneggiate nei bombardamenti, incluse scuole, asili e l’Università islamica di Gaza.

Inoltre il team dell’Explosive Ordnance Disposal (EOD) [preposto alla rilevazione, messa in sicurezza, rimozione ed eliminazione di ordigni esplosivi, N.d.T.] del ministero dell’Interno a Gaza ha detto di aver localizzato quattro bombe israeliane inesplose ancora sepolte nel perimetro delle scuole gestite dall’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Vivere in un ‘incubo orrendo ‘

Altrove a Beit Lahia, Mohammed al-Attar, con quattro figli, racconta il giorno in cui ha iscritto la figlioletta Amira alla prima elementare.

Il preside della scuola le ha chiesto di contare fino a 10 e dire l’alfabeto in arabo. Lei l’ha fatto ed erano tutti molto colpiti dalla sua intelligenza. L’hanno ammessa ed era super contenta,” afferma il padre a MEE.

Amira non vedeva l’ora di raccontarlo alla mamma appena tornata a casa, e il fratello maggiore Islam, di 8 anni, aveva già cominciato a programmare il loro primo giorno di scuola insieme.

Islam ha detto ad Amira che l’avrebbe accompagnata a scuola al mattino prima di andare alla sua scuola e poi nel pomeriggio l’avrebbe portata a casa con lui.”

La figlia era entusiasta di andare a fare shopping di materiale scolastico ed era inflessibile sul colore della cartella: doveva essere rosa, dice Attar, che loda Islam perché è un bravo fratello e studente.

Era arrivato primo della classe e noi eravamo così felici. L’abbiamo sempre incoraggiato e volevamo comprargli un regalo per il suo successo.”

Ma non hanno mai potuto andare a scuola insieme. “Il bombardamento è arrivato molto prima,” dice il padre.

Il 14 maggio cinque attacchi israeliani hanno colpito senza preavviso il quartiere di Attar, distruggendo completamente l’edificio che ospitava sei appartamenti.

Al momento dell’attacco la moglie di Attar e i bambini erano a casa seduti tutti insieme, mentre lui era con il fratello in un’altra stanza. La moglie e tre figli sono stati uccisi, mentre lui ha subito solo lievi ferite.

Appena due settimane dopo essersi iscritta a scuola, Amira ha perso la vita, come la mamma, Lamia, 27 anni, e i due fratellini, Islam e Zein, che aveva 5 mesi.

Avevamo progetti per il mese in cui i bambini avrebbero cominciato la scuola. Ma eccomi qui, seduto da solo con l’unico figlio che mi è rimasto a casa di mia madre,” ha detto Attar a MEE. “Tutto è successo così rapidamente che mi sembrava di sognare, adesso non ho nessuno eccetto un bimbo che ha solo cinque anni.

Onestamente non so ancora cosa fare e tutto sembra un incubo orrendo. Non riesco a credere di averli persi tutti e quattro in un solo giorno.”

Bambini traumatizzati

In un’inchiesta su 530 minori in tutta la Striscia di Gaza, un istituto di ricerca per i diritti umani con sede a Ginevra ha rilevato che 9 bambini su10 oggetto dello studio hanno sofferto di una qualche forma di sindrome da stress post-traumatico dovuta a un conflitto (PTSD).

Dopo l’attacco, Mohammed, il ragazzo che ha perso la vista, è cambiato e ora evita interazioni sociali e preferisce stare da solo, afferma il padre a MEE.

Il suo umore cambia ogni 15 minuti, talvolta comincia a piangere e urlare, qualche volta trova qualcosa che lo rallegra, ma è quasi sempre introverso e non parla con nessuno eccetto i familiari,” dice Shaaban.

Ogni mattina quando i fratelli e sorelle si preparano per andare a scuola comincia a piangere e chiede di andare con loro, ma non può più andare alla sua vecchia scuola.”

Shaaban ci ha detto che ha parlato con la scuola per far continuare a studiare il figlio, cieco da poco.

(L’amministrazione) ci ha detto che non può più frequentare scuole normali e che dobbiamo spostarlo in una speciale per ciechi,” dice.

Per accontentare il ragazzino disperato, la scuola permette a Mohammed di stare con i suoi compagni e lo incoraggia a partecipare alle lezioni. “Sta meglio, ma ora vuole andare ogni giorno [alla sua vecchia scuola],” afferma Shaaban. 

Shaaban non ha ancora trovato il coraggio di dire al figlio appassionato di matematica che non potrà mai più leggere o studiare.

Mi chiede sempre quando potrà vedere di nuovo e se potrà andare per strada e a scuola da solo … Non è più uno studente normale.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 10 – 23- agosto 2021

In Cisgiordania, durante operazioni di ricerca-arresto, cinque palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane

[seguono dettagli]. Il 15 agosto, nel Campo profughi di Jenin, durante un’operazione notturna, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo quattro palestinesi di età compresa tra i 19 e i 21 anni. Un quinto palestinese ha riportato gravi ferite. Durante l’operazione c’è stato uno scontro armato tra palestinesi e una unità israeliana sotto copertura che era entrata nel Campo per arrestare un palestinese, secondo quanto riferito, affiliato ad Hamas. Un altro palestinese, di 25 anni, è morto l’11 agosto per le ferite riportate durante un’altra operazione di ricerca-arresto svolta nella città di Jenin, il 3 agosto. Dall’inizio dell’anno, in Cisgiordania, sono stati uccisi dalle forze israeliane cinquantacinque (55) palestinesi; tutti colpiti da proiettili di arma da fuoco.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno ferito 221 palestinesi [seguono dettagli]. Dei 221 feriti, 152 sono stati colpiti durante le perduranti proteste contro l’attività di insediamento [colonico] vicino a Beita, 19 a Beit Dajan (entrambi a Nablus) e dieci a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Altri trentadue sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane sviluppatisi a Battir (Betlemme), nel corso di una demolizione (vedi sotto). Due scolari sono rimasti feriti durante scontri con forze israeliane nei pressi di una scuola nella Comunità di Tayasir (Tubas); i rimanenti feriti si sono avuti in altre località della Cisgiordania. Dei feriti palestinesi, tre sono stati colpiti con proiettili veri, 28 con proiettili di gomma; i restanti sono stati curati principalmente per inalazione di gas lacrimogeni o perché aggrediti fisicamente. Oltre ai 221 palestinesi feriti direttamente da forze israeliane, 23 sono rimasti feriti a Beita mentre scappavano dalle forze israeliane o in circostanze che non hanno potuto essere verificate.

In Cisgiordania, forze israeliane hanno effettuato 92 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 104 palestinesi. La maggior parte delle operazioni si è svolta nei governatorati di Gerusalemme e di Hebron. Dal 23 agosto, le forze israeliane hanno chiuso l’ingresso principale del villaggio [palestinese] di Sinjil a Ramallah con cumuli di terra (oltre ad aver chiuso una strada vicina), costringendo i residenti a fare lunghe deviazioni, rendendo difficoltoso il loro accesso ai servizi ed ai luoghi di lavoro. Circa 7.000 residenti palestinesi sono stati colpiti dalla chiusura.

Il 16 agosto, gruppi armati palestinesi hanno lanciato due razzi da Gaza verso il sud di Israele; si tratta del primo lancio dalla fine di maggio. Uno dei razzi è stato intercettato dal sistema di difesa israeliano “Iron Dome” e l’altro è caduto all’interno di Gaza. Non si registrano feriti o danni a cose. Il 23 agosto, gruppi armati palestinesi hanno lanciato da Gaza una serie di palloni incendiari che hanno causato diversi incendi in Israele. Jet militari israeliani hanno effettuato una serie di attacchi contro postazioni militari di Gaza, fronteggiati, a quanto riferito, da raffiche di mitragliatrice pesante sparate da gruppi armati palestinesi. A seguito del mitragliamento, le forze aeree israeliane hanno effettuato ulteriori attacchi aerei. Non si registrano feriti o danni.

Il 21 agosto, centinaia di persone hanno tenuto una manifestazione di massa sul lato palestinese della recinzione perimetrale israeliana che racchiude la Striscia di Gaza. Durante la protesta, i palestinesi hanno lanciato pietre e altri oggetti contro le forze israeliane che hanno risposto sparando proiettili veri e lacrimogeni. Il Ministero della Salute di Gaza ha documentato 53 feriti palestinesi (25 minorenni) di cui 46 feriti da proiettili di arma da fuoco. Un soldato israeliano è stato ferito gravemente da un colpo di pistola sparato da un manifestante palestinese. Successivamente, le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei su postazioni appartenenti a gruppi armati palestinesi di Gaza. Non sono stati segnalati feriti.

Ancora in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, in almeno 11 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, presumibilmente per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso. Bulldozer militari israeliani hanno condotto una operazione di spianatura del terreno all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, ad est del Campo profughi di Al Maghazi, nell’Area Centrale della Striscia. In un altro caso, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco contro imbarcazioni palestinesi al largo di Rafah, ferendo un pescatore. A Gaza City, in due distinti episodi, cinque minori sono rimasti feriti dall’esplosione di residuati bellici che stavano maneggiando. Il 23 agosto, l’Egitto ha chiuso il valico di frontiera di Rafah, in entrambe le direzioni, fino a nuovo avviso. Il motivo di questa chiusura imprevista non è stato reso noto.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari a demolire un totale di 31 strutture di proprietà palestinese, sfollando 32 persone, tra cui 14 minori, e colpendo i mezzi di sussistenza di circa altre 680 persone. Anche a Gerusalemme Est, nel quartiere di Shu’fat, è stato demolito dai proprietari un edificio ad un piano, sfollando quattro famiglie (15 persone). Ciò ha fatto seguito a una risoluzione definitiva della Corte Suprema israeliana che ha stabilito che il terreno su cui erano state costruite le abitazioni apparteneva ai coloni; alle famiglie palestinesi sono stati concessi 20 giorni per sgomberare le loro case. Il provvedimento è contestato dai proprietari palestinesi che affermano di aver acquistato il terreno nel 1952. Inoltre, il 10 agosto, nel villaggio di Battir (Betlemme), le autorità israeliane hanno spianato e reso inagibile una strada rurale, compromettendo l’accesso alla terra a circa 100 famiglie (500 persone). Inoltre, nel quartiere di Beit Safafa, a Gerusalemme Est, circa 100 bambini sono stati penalizzati dalla demolizione di un ampliamento di un edificio destinato ad essere utilizzato come asilo. Il 22 agosto, nell’area di Ibziq (Tubas), almeno otto famiglie sono state costrette ad allontanarsi dalla loro residenza per un periodo di dieci giorni per consentire le esercitazioni militari israeliane. Per gli stessi motivi, altri quattro episodi di allontanamento temporaneo sono stati registrati in altre due comunità di Tubas.

In Cisgiordania, coloni israeliani hanno ferito almeno sei palestinesi, compreso un ragazzo di 15 anni [seguono dettagli]. In un episodio del 17 agosto, vicino al villaggio di Silat adh Dhahr (Jenin), coloni hanno investito con il loro veicolo un ragazzo; lo hanno condotto nell’insediamento israeliano di Homesh precedentemente evacuato, lo hanno legato a un albero e lo hanno picchiato fino a fargli perdere conoscenza. Due ore dopo, l’equipaggio di una jeep militare israeliana ha trovato il ragazzo e lo ha consegnato ad un’ambulanza. Il ragazzo è stato portato in ospedale dove è stato curato per contusioni e ustioni. Altri cinque palestinesi sono stati colpiti con pietre o aggrediti fisicamente: una donna nella zona H2 della città di Hebron controllata da Israele, un autista nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est e tre contadini a ‘Urif (Nablus). Inoltre, persone note o ritenute coloni israeliani hanno vandalizzato o rubato almeno 30 ulivi e alberelli di proprietà palestinese. In un raid ad ‘Asira al Qibliya a Nablus, coloni hanno lanciato pietre contro abitazioni e dato fuoco a terreni agricoli, causando danni. A Khirbet Zanuta (Hebron) sono stati registrati episodi che hanno avuto per protagonisti coloni e palestinesi locali; in un caso un contadino palestinese è stato arrestato dalle forze di sicurezza israeliane.

Persone note o ritenute palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani in transito sulle strade della Cisgiordania, ferendo tre coloni. Inoltre, secondo fonti israeliane, il lancio di pietre ha danneggiato almeno 22 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 24 agosto, durante un’operazione di ricerca-arresto israeliana, nel Campo profughi di Balata (Nablus), un ragazzo palestinese di 15 anni è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane. [vedi  Zeitun ]

Il 25 agosto, un palestinese di 32 anni è deceduto per le ferite riportate il 21 agosto, durante una manifestazione tenutasi ad est della città di Gaza, dove era stato colpito da forze israeliane con arma da fuoco.




Israele sabota l’agricoltura palestinese con prodotti a basso costo

Amany Mahmoud

23 agosto 2021 – Al Monitor

Israele inonda i mercati palestinesi con grandi quantità di prodotti agricoli a basso costo per rovinare l’agricoltura palestinese.

I palestinesi denunciano che Israele distrugge e brucia i raccolti ed erode con prodotti a buon mercato il settore agricolo da cui gli agricoltori dipendono.

Alcuni dei principali raccolti durante i quali Israele infligge deliberatamente perdite agli agricoltori sono quelli delle olive e dell’uva: inonda i mercati palestinesi in Cisgiordania con grandi quantità di questi prodotti a prezzi inferiori, ostacolando la produzione dei palestinesi e incoraggiando la loro dipendenza economica da Israele.

In particolare la stagione della vendemmia, che inizia in agosto, è minacciata dalla concorrenza israeliana. Israele coltiva terreni agricoli nelle colonie che si trovano nei pressi delle città palestinesi e invia migliaia di tonnellate di uva nei mercati palestinesi. Israele utilizza fertilizzanti e altri prodotti chimici nella coltivazione dell’uva per fare in modo che il prodotto maturi in fretta.

In Cisgiordania i palestinesi coltivano circa 64 milioni di m2 di vigne, in cui sono impegnati circa 10.000 agricoltori palestinesi. Secondo il Consiglio Palestinese di Frutta e Uva, i palestinesi producono annualmente circa 50 milioni di kg di uva, di cui circa 27 milioni nel governatorato di Hebron, 6 milioni in quello di Betlemme e altri 6 milioni in quello di Jenin. In Cisgiordania l’uva rappresenta circa il 12% della produzione agricola totale della Palestina.

I palestinesi esportano in Israele grandi quantità di vari prodotti agricoli, per un valore annuo di 300 milioni di dollari. I palestinesi della Cisgiordania esportano quotidianamente verso Israele circa 280.000 kg di prodotti agricoli. Nel contempo, le importazioni agricole annuali palestinesi da Israele raggiungono circa il miliardo di dollari.

Per proteggere i prodotti palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) vieta l’importazione di uva coltivata nelle colonie e considera ogni transazione commerciale con Israele un delitto. A dispetto di questo divieto, il mercato palestinese è inondato da prodotti israeliani proibiti e con marchio israeliano, importati illegalmente dai principali commercianti palestinesi nel cuore della notte per evitare i posti di blocco palestinesi.

Mahmoud Abou Merhi, agricoltore palestinese e attivista contro le colonie ebraiche, proprietario di un vigneto di circa 2 ettari, dice ad Al-Monitor che la vendemmia è uno dei raccolti agricoli più importanti in Palestina, e le famiglie palestinesi la festeggiano con canti tradizionali nelle vigne perché porta abbondanza e prosperità ai coltivatori.

“Tuttavia ora abbiamo timore della stagione della vendemmia: ogni anno i coloni ebrei distruggono deliberatamente le nostre vigne e sabotano il raccolto, cospargendo pesticidi tossici sui campi che lo distruggono o cacciando gli agricoltori e le loro famiglie dai terreni agricoli,” afferma.

Abou Merhi teme che la vendemmia di quest’anno vada persa, dato che il mercato locale è invaso da una grande quantità di uva israeliana a buon mercato. “Grandi quantità di uva palestinese rischiano di andare a male a causa delle temperature elevate e delle eccedenze di prodotti israeliani sul mercato palestinese.”

L’agricoltore palestinese Atef Abou Walid dice ad Al Monitor che Israele sta cercando di espellere i coltivatori palestinesi dalle loro terre e li spinge ad abbandonare questa professione, ereditata di generazione in generazione, in modo da insediare avamposti coloniali ed espanderli sulle terre dei cittadini che si trovano presso le colonie.

“Quando i palestinesi vanno al mercato vedono grandi quantità di frutta e verdura israeliane a prezzi che fanno concorrenza ai prodotti locali. A volte i prodotti israeliani costano meno di quelli palestinesi. Persino se la qualità è inferiore, spesso i cittadini finiscono con il comprare i prodotti israeliani a buon mercato,” nota.

Abu Wadi aggiunge: “Nonostante le gravi perdite che subiamo, i nostri agricoltori continueranno a coltivare le nostre terre per impedire che Israele raggiunga il suo obiettivo di confiscarle.” Egli accusa Israele di imporre restrizioni supplementari ai coltivatori palestinesi, in quanto di recente ha iniziato a chiudere le strade agricole che portano ai vigneti di Hebron, nel sud della Cisgiordania, isolando circa 2.000 ettari di terreni, molti dei quali sono vigneti.

Le attrezzature israeliane avanzate, i prodotti chimici, i fertilizzanti e i moderni sistemi di irrigazione aiutano gli agricoltori israeliani a offrire i loro prodotti agricoli, e in particolare l’uva, circa un mese prima che la produzione palestinese arrivi sul mercato. Israele vieta di fornire ai coltivatori palestinesi queste tecnologie e materiali, in particolare pesticidi e fertilizzanti chimici, che permettono l’allungamento della durata della vita della loro uva e ne migliorano sapore e qualità.

Fathi Abou Ayashn, direttore del Consiglio di Frutta e Uva, dichiara ad Al Monitor che i mercati palestinesi sono stati invasi da circa 27.000 tonnellate di uva sempre matura, il che attira l’attenzione dei consumatori.

“I mercati palestinesi non sono protetti, quindi i prodotti israeliani li possono inondare,” prosegue. Ciò è dovuto all’assenza di controlli efficaci dei prodotti israeliani sul mercato palestinese. I mercati palestinesi e israeliani sono strettamente interconnessi, il che permette a molti commercianti di importare in modo massiccio i prodotti e i beni israeliani.”

Abou Ayyash spiega che le autorità competenti che controllano il mercato non hanno risorse finanziarie, cosa che indebolisce la capacità dei palestinesi di controllare molti beni e merci. “Non abbiamo neppure standard tecnici vincolanti per tutti i beni commercializzati in Palestina e pochissimi procedimenti giudiziari sono stati avviati contro i trasgressori.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La nostra arte si occupa di ingiustizie reali, alcune in Palestina: non sorprende abbia incontrato ostilità

Forensic Architecture

20 agosto 2021 – The Guardian

La nostra lotta per ripristinare un’affermazione nella mostra a Manchester in realtà riguarda cosa si può o non può dire negli spazi culturali

A Manchester mercoledì 18 manifestanti si sono ripresi una delle principali istituzioni culturali della città. Nonostante la pioggia, attivisti filo-palestinesi si sono radunati davanti al portone chiuso della galleria d’arte Whitworth, parte dell’università di Manchester. È stato grazie alla loro azione insistente e a 13.000 lettere inviate alla galleria, che è stata ripristinata una parte della nostra mostra, la dichiarazione scritta intitolata: “Forensic Architecture [Architettura forense] sta dalla parte della Palestina”. La mostra che dietro nostre insistenze era stata chiusa dopo la rimozione unilaterale dell’enunciato, è ora riaperta.

Sabato 15 agosto un post sul blog del sito web dell’organizzazione UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLFI) aveva annunciato che, in seguito al loro intervento, la frase era stata rimossa dalla nostra mostra, “Cloud Studies” [Studi di Nubi]. Quando l’abbiamo appreso non ci siamo poi molto sorpresi. Lo stesso gruppo aveva già criticato una dichiarazione di solidarietà con i palestinesi pubblicata a giugno sul sito della Whitworth ed era riuscito a convincere l’università a toglierla. E questo non era per niente il primo attacco da parte di UKLFI contro di noi come organizzazione. Nel 2018, quando siamo stati nominati per il Turner Prize [prestigioso premio britannico di arte contemporanea, ndtr.], l’UKLFI aveva sollecitato la Tate [noto complesso museale britannico, ndtr.] a non consegnarci il premio adducendo il motivo ridicolo che i documenti che avevamo pubblicato sulla Palestina equivalevano a “una moderna ‘accusa del sangue’ [accusa antisemita diffusa dall’XI secolo secondo cui alcuni ebrei berrebbero sangue infantile per compiere riti di magia nera, ndtr.] che avrebbe potuto promuovere antisemitismo e attacchi contro gli ebrei”.

Forensic Architecture non è esattamente un collettivo di artisti come qualcuno ci descrive. Siamo piuttosto un gruppo universitario di ricerca che opera in tutto il mondo con comunità in prima linea nei conflitti. Noi sviluppiamo tecniche e strumenti architettonici per raccogliere prove delle violazioni dei diritti umani da usare nelle aule di tribunali nazionali e internazionali, in inchieste parlamentari, tribunali per i diritti dei cittadini, forum di comunità, istituzioni accademiche e media. Noi esponiamo i risultati delle nostre ricerche anche in gallerie e musei quando altri siti affidabili sono inaccessibili.

Perciò, seppure sorpresi dalla nomina del Turner Prize, abbiamo scelto di usare la piattaforma per rivelare le affermazioni ufficiali israeliane sull’uccisione del beduino palestinese Yaakub Abu al-Qi’an per mano di poliziotti israeliani il 18 gennaio 2017. Abbiamo collaborato con gli abitanti del villaggio palestinese Umm al-Hirane e con attivisti per redigere un’inchiesta che collettivamente smentisce l’affermazione dei poliziotti israeliani secondo cui al-Qi’an era un “terrorista” e al contrario svela l’uccisione efferata e il rozzo tentativo di occultarla. Era difficile contestare le conclusioni dell’inchiesta e persino l’allora primo ministro di estrema destra, Benjamin Netanyahu, è stato alla fine costretto a scusarsi per l’omicidio.

Il nostro lavoro rivela l’avvento di un nuovo tipo di arte politica, meno interessata a commentare che a intervenire in contesti politici. È con questo spirito che abbiamo esposto Cloud Studies alla Whitworth. Il titolo si riferisce alla comparsa della meteorologia nel diciannovesimo secolo con il lavoro combinato di scienziati e artisti, ma, invece di occuparsi del tempo, la mostra mappa le odierne nubi tossiche: dai gas lacrimogeni negli USA, in Palestina e in Cile, agli attacchi chimici in Siria, a quelli prodotti dalle industrie estrattive in Argentina, alle nuvole di CO2 create dagli incendi nelle foreste in Indonesia.

Un elemento chiave della mostra è il nostro studio sul razzismo ambientale in Louisiana, nello specifico sul “corridoio petrolchimico” intensamente industrializzato lungo il fiume Mississippi, fra Baton Rouge e New Orleans. Gli abitanti delle comunità, a maggioranza nera, che vivono nei pressi di questi impianti respirano una delle arie più tossiche del Paese e registrano i numeri più elevati di casi di tumore.

A maggio, mentre stavamo lavorando alla mostra, è cominciata la serie più recente di attacchi israeliani contro Gaza. Abbiamo seguito da vicino collaboratori, amici ed ex dipendenti a Gaza e altrove in Palestine che ci mandavano in tempo reale immagini orribili delle distruzioni che le forze armate israeliane stavano arrecando alle loro case e aziende. Mentre assistevamo al sorgere di nubi tossiche sopra gli stabilimenti chimici bombardati di Beit Lahia ci sembrava di vedere una rappresentazione dal vivo dei nostri ‘Studi di nubi’.

Gli attacchi si sono estesi anche a istituzioni artistiche: l’artista Emily Jacir, nostra cara amica palestinese, ci ha mandato video del raid dell’esercito israeliano contro Dar Jacir, uno spazio indipendente e vitale gestito da artisti a Betlemme.

La nostra dichiarazione, la cui inclusione nella mostra era stata approvata in fase di progettazione dai curatori della Whitworth, è stata scritta mentre si svolgevano questi attacchi. Abbiamo usato termini come “pulizia etnica” e “apartheid” per descrivere le politiche del governo israeliano in Palestina perché descrivono la realtà della vita palestinese, sono in linea con il linguaggio delle principali organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani e sono naturalmente state usate in Palestina per decenni. Analogamente il termine “colonialismo di insediamento” è stato usato estensivamente dagli studiosi per descrivere le politiche israeliane in Palestina. Se tali termini sono offensivi, essi sono ancora più offensivi per quelli che sperimentano quotidianamente l’impatto di tali politiche. Le università devono essere luoghi dove tali categorie possono essere presentate, sviluppate e discusse e la nostra battaglia per ripristinare la dichiarazione riguardava in realtà quello che si può dire in un contesto accademico e culturale.

Compiacere gruppi come UKLFI, un’organizzazione che ha ospitato un evento pubblico a cui era presente Regavim, l’organizzazione israeliana di coloni di estrema destra che sostiene la demolizione delle case dei palestinesi, non è solo una violazione del principio della libertà di espressione, ma mostra anche un’assenza di integrità morale. Il nostro è solo un caso, e non uno degli esempi più significativi, della campagna di diffamazione e di attacchi giuridici contro artisti e intellettuali palestinesi, molti dei quali subiscono la repressione per mano delle autorità di occupazione israeliane, e censura e restrizioni della loro libertà di espressione a livello internazionale. Secondo noi la campagna di UKLFI per screditare Forensic Architecture fa parte di questi tentativi di far tacere e intimidire. Il fatto che uno sforzo concertato sia riuscito a ribaltare la posizione dell’Università di Manchester dimostra che a tali azioni si può opporre una resistenza a livello collettivo.

Questa lotta alla Whitworth ha anche qualcosa da dire ai responsabili delle politiche culturali: mentre le gallerie si orientano sempre di più ad ospitare arte politica, allo stesso modo istituzioni e l’opinione pubblica non dovrebbero essere sorpresi quando l’arte politica è, appunto, politica.

Forensic Architecture è un’organizzazione di ricerca che indaga violazioni di diritti umani, inclusa la violenza commessa da Stati, forze di polizia, militari e corporazioni.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)