Libri per illuminare la vita dei giovani palestinesi

John Cassel

Maggio 2021 – Washington Report on Middle East Affairs 

Libri per illuminare la vita dei giovani palestinesi

John Cassel

Maggio 2021 – Washington Report on Middle East Affairs 

Estephan Salameh se ne era andato da Gerusalemme con in tasca una borsa di studio per frequentare la scuola di specializzazione all’Università di North Park a Chicago e soldi sufficienti per pagare metà dell’affitto di un mese. Per far fronte alle spese, Salameh ha insegnato arabo agli studenti di North Park e ad altri nella comunità. Una di loro, Laurie Millner, che stava studiando per conseguire un master in managerialità non profit, è diventata sua moglie nel 2004.

I Salameh volevano migliorare la situazione in Palestina, dove circa 5 milioni di palestinesi vivono vite pesantemente condizionate dall’occupazione israeliana. Il loro amore condiviso per i libri faceva sì che la conversazione della coppia ritornasse spesso alla necessità di biblioteche sia per i bambini che per le loro famiglie. Nel 2005 hanno lanciato il Seraj Library Project [progetto Seraj per le biblioteche] per portare informazioni e instaurare un legame con il mondo nei villaggi isolati e nei campi profughi in Palestina. A simbolo del progetto è stata scelta la parola Seraj, che in arabo sta per lampada ad olio o luce. 

Le biblioteche sono la soluzione ideale per la Palestina, dove la cultura è incentrata sulla famiglia e l’istruzione è grandemente valutata. Secondo Factbook, la pubblicazione annuale della CIA [che riporta dati statistici fondamentali e informazioni sintetiche riguardanti tutti i Paesi del mondo], più della metà degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza ha meno di 25 anni e più del 97% oltre i 15 anni sa leggere e scrivere. I palestinesi sono un popolo affamato di conoscenza. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, purtroppo solo il 3% dei nuclei famigliari indica di aver accesso a una biblioteca o a Internet dopo l’orario scolastico. 

In Cisgiordania, ci sono ora 10 biblioteche comunitarie, a cominciare dalla biblioteca a Jifna, lanciata dalla Seraj in collaborazione con la Jifna Women Charitable Society. La Seraj US, un’organizzazione di volontari, ha contribuito con circa 900.000 dollari a creare queste 10 biblioteche, oltre a una rete di programmi culturali per i bambini e le loro famiglie. 

Le biblioteche sono sempre sviluppate grazie a collaborazioni tra la Seraj e un’organizzazione locale. Di solito la comunità offre lo spazio, i volontari e la direzione, mentre la Seraj fornisce libri, arredamento, computer ed esperienza. 

Quest’anno, la Seraj Palestine, ora un’ONG formalmente riconosciuta in Palestina con un proprio consiglio di amministrazione, sta per lanciare due grandi progetti, uno a Kufor Aqab, vicino a Gerusalemme, e un altro a Birzeit, vicino a Ramallah. Essi rappresentano una novità importante per l’organizzazione e un notevole contributo alla vita culturale della Palestina.

Raccontare storie è sempre stato particolarmente importante per la Seraj. Infatti tutto il suo lavoro e tutte le attività nascono dalle storie, riscoprendo narrazioni perdute e conservando sia quelle significative che quelle che apparentemente sembrano insignificanti per riportarle in vita nelle comunità palestinesi tramite l’interpretazione di vari tipi di artisti. 

Le storie ci dicono da dove siamo arrivati e possono guidarci nel percorso che abbiamo intrapreso. Dicono la verità sul nostro passato in modo tale che, una volta risanati, si possa affrontare il futuro. Ci connettono con chi è venuto prima di noi, con chi ci circonda e con coloro che devono ancora arrivare.

Ecco perché il National Storytelling Center [Centro Nazionale per lo Storytelling] della Seraj, il primo del genere in Palestina, è così entusiasmante. Cosa eccezionale, la Seraj è stata invitata a partecipare a un progetto del Riwaq Center for Architectural Conservation [centro per la conservazione del patrimonio architettonico con sede a Ramallah; il riwaq è un porticato, ndtr.] per ristrutturare due case di 150 anni a Kufor Aqab. Riwaq ha completato magnificamente la ristrutturazione e ha consegnato le chiavi alla Seraj per iniziare il lavoro di arredo degli interni. Queste due case ospiteranno una biblioteca, un centro studi con un caffè, un piccolo ufficio per la Seraj e, cosa più importante, il nuovo Centro della Narrazione. 

Anche il comune di Birzeit in Cisgiordania progetta di rivitalizzare la Città Vecchia, “attivando” l’area tramite l’aggregazione di organizzazioni culturali, piccole attività interessanti ed istituzioni educative. Il municipio crede che avere una biblioteca e un centro culturale attirerà la gente nella parte storica della cittadina. Così il Comune ha contattato la Seraj per aprire una biblioteca e un centro culturale. 

Naturalmente il punto centrale sono le biblioteche. Ci sarà abbastanza spazio per una biblioteca per i bambini e una per gli studenti universitari. A Birzeit al momento non ce n’è una, eccetto quella universitaria, e non c’è un posto dove gli studenti possano andare dopo la chiusura dell’università alle 16.30. Inoltre la Seraj progetta di aprire una biblioteca musicale e artistica per ospitare oggetti d’arte e per tenere eventi musicali creati da altre organizzazioni palestinesi. Quello che nel corso degli ultimi 15 anni la Seraj ha sempre fatto bene è il partenariato con le organizzazioni comunitarie per cooperare su obiettivi condivisi. La filosofia della Seraj si basa non sulla competizione con il lavoro di altre organizzazioni, ma sull’accompagnarle per creare qualcosa di diverso e valido.

Dato che la collaborazione è essenziale in tutto quello che la Seraj fa, il lavoro con organizzazioni locali, famiglie, artisti, musicisti e narratori è alla base dei progetti di Kufor Aqab e Birzeit. Ma la partnership fondamentale è fra gli USA e la Palestina. I volontari in America raccolgono fondi dopo aver descritto a una rete di donatori il lavoro e i bisogni. I fondi sono trasformati da volontari e alcuni stipendiati in Palestina in biblioteche e programmi. La direttrice, Laurie Salameh, e il coordinatore della biblioteca, Fida’a Ataya (un maestro in storytelling), durante anni in biblioteche comunitarie e programmi di sviluppo hanno conseguito un tesoro di esperienze.

Mentre espande il proprio cerchio di sostenitori, il Seraj Library Project continua a collegarsi con persone e organizzazioni interessate che vogliono far parte di questo importante lavoro. E naturalmente i visitatori sono sempre i benvenuti nelle varie biblioteche sparse in Cisgiordania. 

John Cassel, funzionario della Seraj, ha compilato questo articolo attingendo a varie fonti della Seraj. Estephan Salameh, che è ritornato a Gerusalemme con un dottorato in urbanistica e politiche pubbliche, insegna presso l’Università di Birzeit e lavora come consulente del Primo Ministro Palestinese per la Pianificazione e il Coordinamento degli aiuti. Laurie Salameh siede nel consiglio di amministrazione di World Vision Gerusalemme- Cisgiordania- Gaza. [WV è una grande ONG statunitense con sedi in 97 Paesi che si occupa principalmente di adozione a distanza di orfani di guerra, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nel 2020 Israele ha censurato circa quattro articoli al giorno – la media più bassa nell’arco di un decennio.

Haggai Matar

7 aprile 2021 +972 magazine

Secondo stime ufficiali, il 2020 ha visto la censura militare israeliana vietare la pubblicazione integrale di 116 articoli e censurarne in parte altri 1403.

Il 2020 è stato un anno tranquillo per la censura militare israeliana. Di fatto, con una media di un solo articolo totalmente censurato ogni tre giorni, è stato per la censura l’anno più fiacco nell’arco di un decennio. Nel corso dell’anno la censura dell’esercito ha impedito che venissero pubblicati 116 articoli e ne ha censurati parzialmente altri 1403, secondo le cifre fornite dalla censura su richiesta di +972 Magazine [rivista on line indipendente gestita da giornalisti israeliani e palestinesi contrari all’Occupazione, ndtr.] e del Movimento per la Libertà di Informazione [Movement for the Freedom of Information], ONG israeliana che opera per ottenere trasparenza da parte del governo.

Questo calo di attività censoria nell’arco dell’ultimo decennio si riflette anche nel numero di servizi inviati al vaglio della censura da parte degli organi di stampa (6.421) e nella percentuale di pezzi totalmente esclusi dalla pubblicazione (1,81%). Per fare un confronto, nel 2014 – l’anno dell’ultima campagna militare su larga scala lanciata da Israele – gli organi di stampa israeliani avevano sottoposto alla censura un totale di 14.274 articoli. Quell’anno ci furono 3.122 servizi parzialmente censurati e 597 non videro la stampa (oltre il 4% di tutti gli articoli esaminati).

Tutti gli organi di stampa in Israele, così come gli autori e gli editori, sono tenuti a inoltrare gli articoli che hanno a che fare con la sicurezza e gli affari esteri alla censura militare, la quale li esamina prima della pubblicazione. La censura deriva la propria autorità dal “regime di emergenza” varato alla fondazione di Israele, che rimane in vigore ancora oggi.

Queste norme permettono al censore di respingere o censurare parzialmente un articolo sottoposto al suo vaglio – o anche uno già pubblicato senza la sua revisione, vietando al contempo agli organi di stampa di segnalare in alcun modo se il pezzo in questione è stato censurato. Tuttavia, mentre i criteri legali che definiscono la sfera di autorità della censura militare sono al tempo stesso stringenti e ampi, la decisione su quali servizi siano da sottoporre al vaglio della censura rimane nelle mani dei direttori degli organi di stampa.

Poiché la censura militare non fornisce né informazioni sulla natura dei servizi che decide di censurare, né una ripartizione mensile per organo di stampa, è difficile dedurre da che cosa dipenda il calo del numero di articoli censurati. Si può presumere che si siano verificati meno casi legati alla difesa o giudicati particolarmente sensibili durante un anno colpito dalla pandemia globale, oppure che i giornalisti abbiano riservato un’attenzione decisamente minore a ciò che non era legato al COVID. In alcuni casi i corrispondenti per la sicurezza sono stati riassegnati a seguire la pandemia, con un conseguente calo delle critiche all’apparato della sicurezza.

Persino in un anno di fiacca, un numero di intromissioni militari sui mezzi di informazione in ragione di quattro al giorno è estremamente alto, specialmente considerando che Israele è l’unico Paese al mondo che, pur definendosi una democrazia liberale occidentale, obbliga per legge i giornalisti a sottoporre al vaglio della censura gli articoli che hanno a che fare con le forze armate prima di pubblicarli.

Un’altra parte del lavoro della censura riguarda la gestione degli archivi nazionali di Israele, Siccome gli archivi sono totalmente on line e non hanno una biblioteca cartacea aperta al pubblico, il censore sta rivedendo tutto il materiale desecretato, e in alcuni casi documenti già resi pubblici sono stati nuovamente secretati.

Nel 2016, quando è iniziata la digitalizzazione, i responsabili degli archivi hanno sottoposto al vaglio della censura circa 7.800 documenti. Nel 2020 il numero è sceso a 2.940. A differenza degli articoli, il censore si è rifiutato di fornire le cifre relative al materiale di archivio censurato, rispondendo solo che “la grande maggioranza dei documenti ha ottenuto il visto alla pubblicazione senza modifiche.” Questo indicherebbe che alcuni documenti sono stati invece censurati, nonostante avessero già superato la censura interna agli archivi.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act [Legge sulla Libertà di Informazione, che garantisce il diritto di cittadini e di gruppi ad ottenere informazioni detenute da pubbliche autorità, ndtr], e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. “Esaminare l’attività della censura rendendo pubblici questi dati è estremamente importante per la tutela della libertà di stampa,” afferma Atty Or Sadan del Movimento per la Libertà di Informazione.

Nel 2006, nelle prime risposte alle nostre richieste, il censore ha dichiarato il numero dei documenti di archivio censurati, nonché quello dei casi in cui aveva richiesto agli organi di stampa di eliminare informazioni pubblicate senza previa autorizzazione (una media di 250 casi l’anno). Nonostante le nostre ripetute richieste, in questi anni non ci sono più stati forniti numeri. (Si possono trovare maggiori informazioni sulla politica di +972 nei confronti della censura a questo link).

“Le informazioni comunicate dal censore ci consentono di esaminare le tendenze delle sue operazioni e perlomeno a far sì che le sue interferenze non crescano eccessivamente. Riteniamo che la semplice pubblicazione di questa rassegna annuale crei un effetto dissuasivo [sul censore militare] e contribuisca a garantire che la decisione di censurare un articolo venga presa con cautela, senza mai dimenticare che la censura sottrae al pubblico informazioni ritenute rilevanti dal giornalista,” continua Sadan.

Il censore è totalmente esonerato dall’adempiere all’Israel’s Freedom of Information Act, e sebbene in anni recenti abbia volontariamente acconsentito a rispondere alle domande di +972, le sue risposte si sono progressivamente ridotte. Col passare del tempo, +972 non ha più ricevuto dati sul numero dei libri inviati al vaglio della censura, né dei documenti di archivio censurati, né dei casi in cui il censore ha chiesto ad organi di stampa e ad individui sui social di eliminare pezzi già pubblicati.

“Come mai le informazioni censurate rimangono nascoste al pubblico talvolta anche dopo avere cessato di essere potenzialmente pericolose?” chiede Sadan. “Il censore dovrebbe consentire la pubblicazione retroattiva di servizi censurati una volta che vengano ritenuti sicuri, per permettere al pubblico di esaminare quali siano i suoi [del censore] metodi ed il livello di restrizioni frapposti alla libertà di stampa.” Non dare risposta a queste questioni permette al censore militare di avvolgere in un alone di mistero le sue attività antidemocratiche, sottraendole al controllo del pubblico.

Nel corso dell’ultimo anno la dirigenza dell’IDF [Israel Defence Forces, le forze armate di Israele, ndtr] ha visto notevoli cambiamenti. Il generale di brigata Ariella Ben Avraham, a capo della censura dal 2015, ha lasciato il posto nel 2020 per entrare, pare, nel gruppo NSO, l’estremamente controversa compagnia israeliana specializzata in sicurezza informatica che vende programmi di hacking ai governi di mezzo mondo ed è stata più volte accusata di complicità in intercettazioni abusive. Ben Avraham è stato sostituito dal colonnello (riservista) Eyal Samuelov come capo agli interim per sei mesi, e a questi è poi subentrato Doron Ben Barak, l’attuale censore capo delle Forze Armate. Purtroppo sembra che Ben Barak abbia scelto di perseguire la stessa politica di chi lo ha preceduto: limitare la diffusione al pubblico di informazioni sulla censura militare.

Haggai Matar, attivista politico e giornalista pluripremiato, è stato anche direttore generale di “972 – Advancement of Citizen Journalism,” la onlus che pubblica +972 Magazine.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Il ruolo del Quartetto è di minare la democrazia palestinese

Motasem A. Dalloul*

13 aprile 2021 – Monitor de Oriente

Il 23 marzo ho ricevuto una mail da Murad Bakri, responsabile della comunicazione strategica e dell’informazione pubblica dell’Ufficio del Coordinatore Speciale ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente. Bakri voleva farci sapere che il “Quartetto per il Medio Oriente” continua ad esistere ed è disposto a riprendere la sua mediazione per la pace tra Israele e i palestinesi.

Gli inviati del Quartetto per il Medio Oriente dell’Unione Europea, della Federazione Russa, degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite si sono riuniti da remoto per discutere il ritorno a negoziati significativi che portino a una soluzione dei due Stati, compresi passi concreti per migliorare la libertà, la sicurezza e la prosperità di palestinesi e israeliani, cosa che di per sé è importante,” afferma il comunicato ufficiale.

Ricordo le riunioni infinite tra il Quartetto e i funzionari israeliani e palestinesi dal 2002, quando venne creato, al 2014, quando i colloqui di pace fallirono. Durante quel periodo il Quartetto si sforzò in apparenza di raggiungere una soluzione, che significava fondamentalmente la creazione di uno Stato palestinese disarmato e con frontiere permanenti accanto a Israele.

In realtà non si ottenne niente, e il Quartetto rilasciò la sua ultima dichiarazione il 22 luglio 2017. Un anno prima, il 7 luglio 2016, aveva pubblicato un rapporto che affrontava le minacce al processo di pace e formulava raccomandazioni per progredire nella soluzione a due Stati. Il rapporto accusava i palestinesi di continuare con la violenza rappresentata dalla messa in pratica di “atti di terrorismo contro gli israeliani e istigazione alla violenza.”

Il rapporto non citava le migliaia di palestinesi assassinati dagli israeliani dalla formazione del Quartetto (e, di fatto, dalla creazione di Israele stesso) né l’uso di forza letale da parte di Israele contro i civili palestinesi. Non citava neppure le migliaia di palestinesi, tra cui minorenni, che subivano dure condizioni nelle carceri israeliane né le centinaia di palestinesi che sono detenuti per mesi e anni senza accuse né processo. Prima della lunga ibernazione, il Quartetto disse che Israele doveva fermare l’espansione delle colonie e togliere le restrizioni imposte alla Striscia di Gaza assediata. Accusò anche Israele del mancato sviluppo adeguato nei territori occupati.

Benché il Quartetto abbia segnalato il COVID-19 per giustificare la propria resurrezione, credo che la vera ragione sia agire in nome di Israele e degli Stati Uniti per sabotare la democrazia palestinese, il suo principale obiettivo da quando esiste. Nathalie Tocci, politologa italiana esperta in relazioni internazionali specializzata nel ruolo dell’Unione Europea nelle questioni internazionali e nel mantenimento della pace, ha detto in uno studio pubblicato nel 2011: “Tutte le iniziative del Quartetto… sono state risposte a stimoli provenienti da USA e Israele.”

Il Quartetto venne creato quando la Seconda Intifada palestinese – rivolta popolare contro l’occupazione israeliana – era diventata più feroce. Il gruppo spacciò la “roadmap verso la pace” degli Stati Uniti nel tentativo di coinvolgere i palestinesi nelle conversazioni di pace e far loro cambiare idea riguardo al loro diritto alla resistenza, legittimato dalle leggi e convenzioni internazionali. Era chiaro che il Quartetto non era altro che uno strumento di Washington al servizio di Israele, un sofisticato randello con cui colpire i nemici di Israele.

“Disgraziatamente le attività (del Quartetto) hanno rispecchiato i tentativi infruttuosi dell’UE di inquadrare le iniziative statunitensi in un contesto multilaterale oppure i tentativi fruttuosi degli Stati Uniti di dare una copertura multilaterale alle azioni unilaterali,” spiega Tocci. Ciò chiarisce il ruolo del Quartetto.

Possiamo dire con convinzione che le posizioni degli Stati Uniti sulla Palestina in genere riflettono quelle di Israele. Prendiamo per esempio la posizione di Washington su Hamas, la principale fazione palestinese. Nel suo rapporto aggiornato al mese scorso il Servizio Ricerche del Congresso [USA] dice: “Storicamente gli Stati Uniti hanno cercato di rafforzare il presidente dell’OLP e dell’ANP Mahmoud Abbas contro Hamas.” Il rapporto afferma che, in seguito alle elezioni parlamentari del 2006 vinte da Hamas, “Israele, gli Stati Uniti e altri membri della comunità internazionale hanno cercato di neutralizzare o marginalizzare Hamas.” In base alle conclusioni di Tocci, il Quartetto deve aver adottato questo punto di vista, e in effetti è ciò che è accaduto.

Hugh Lovatt, del Consiglio Europeo degli Affari Esteri, il mese scorso ha affermato che L’UE e gli Stati Uniti furono all’inizio strenui difensori della democrazia palestinese, e furono una forza che promosse le ultime elezioni parlamentari palestinesi che si tennero nel 2006, incitando Hamas e Al Fatah a partecipare in modo costruttivo al processo elettorale. “L’UE e gli Stati Uniti si mostrarono meno a loro agio quando, in seguito alla vittoria di Hamas, il risultato democratico fu contrario ai loro interessi,” aggiunge.

“Secondo tutti gli indicatori le elezioni del 2006 furono libere e giuste,” afferma Lovatt, e la UE definì il voto “una pietra miliare nella costruzione delle istituzioni democratiche.” La UE disse anche: “Queste elezioni hanno visto l’impressionante partecipazione degli elettori in un processo elettorale aperto e corretto che è stato organizzato efficacemente da una Commissione Elettorale Centrale Palestinese professionale e indipendente.”

Tuttavia Lovatt evidenzia: “Essendosi aspettati che le elezioni dessero più potere ad Abbas e ad Al Fatah, gli Stati Uniti risposero alla vittoria elettorale di Hamas in modo avventato, spingendo rapidamente per l’isolamento internazionale e la pressione sul governo di Haniyeh [Hamas]”. Gli Stati Uniti hanno portato avanti la loro politica attraverso le condizioni imposte ai palestinesi dal Quartetto.”

Secondo Tocci “immediatamente dopo la schiacciante vittoria elettorale di Hamas, il 30 gennaio, il Quartetto ribadì la sua posizione.” Una dichiarazione rilasciata in seguito alla vittoria del movimento nel 2006 diceva che “il Quartetto considera che tutti i membri di un futuro governo palestinese dovranno impegnarsi alla nonviolenza, al riconoscimento di Israele e all’accettazione degli accordi e obblighi precedenti.”

Queste sono in realtà le condizioni degli Stati Uniti per una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese. Queste condizioni alimentarono il conflitto interno palestinese, che nel 2007 provocò una divisione interna che continua tuttora. Lovatt descrive quanto avvenuto: “Le forze di Hamas cacciarono dalla Striscia di Gaza le forze di sicurezza dell’ANP controllate da Fatah anticipando lo stesso piano di Al Fatah, appoggiato dagli Stati Uniti, per spodestare Hamas.” In altre parole, un colpo di Stato sostenuto dagli Stati Uniti.

Con i palestinesi impegnati in elezioni politiche che si dovrebbero tenere il prossimo mese, gli Stati Uniti e Israele hanno risuscitato il Quartetto perché si opponga a una possibile vittoria di Hamas. “È probabile che il ricordo storico della sorprendente vittoria di Hamas nelle ultime elezioni dell’ANP che si sono celebrate – quelle del 2006 – influisca nei calcoli dei diversi partiti… Alla luce delle conseguenze delle elezioni del 2006 l’amministrazione [USA] sta procedendo con cautela riguardo alle elezioni dell’ANP,” ha evidenziato nel suo rapporto il Servizio Ricerche del Congresso degli Stati Uniti.

Il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken e il suo omologo israeliano Gabi Ashkenazi hanno condiviso chiaramente la loro preoccupazione per la possibile vittoria di Hamas nelle prossime elezioni palestinesi. Il Dipartimento di Stato ha reiterato le condizioni del Quartetto secondo cui chi partecipa a qualunque elezione palestinese “deve rinunciare alla violenza, riconoscere Israele e rispettare gli accordi precedenti.”

Quindi è abbastanza ovvio che l’affermazione del Quartetto per il Medio Oriente secondo cui si sta preparando a tornare a “negoziati significativi” è semplicemente una premessa alla ripetizione dello stesso gioco giocato dopo le elezioni palestinesi del 2006. Minò la democrazia palestinese e l’opzione elettorale del popolo allora e si prepara a fare altrettanto adesso.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

* [Motasem A. Dalloul è un giornalista palestinese che vive a Gaza, ndtr.].

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




In Canada una mozione del NDP ottiene una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e della democrazia di base

Yves Engler

13 aprile 2021 – Palestine Chronicle

Sabato in Canada i membri del Nuovo Partito Democratico [NDP, di ispirazione socialdemocratica, uno dei quattro partiti presenti nel parlamento canadese, ndtr.] hanno ottenuto una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e hanno inferto un duro colpo alla lobby israeliana.

Oltre l’80% dei delegati del congresso [del NDP, ndtr.] ha votato a favore di una risoluzione che chiede “la cessazione di ogni cooperazione commerciale ed economica con le colonie illegali in Israele-Palestina” e “la sospensione del commercio bilaterale con lo Stato di Israele di tutte le armi e dei materiali connessi fino a quando non saranno rispettati i diritti dei palestinesi.”

Poche ore dopo il voto il notiziario della rete CBC News ha riferito che i membri dell’NDP “hanno votato a favore di sanzioni nei confronti di Israele contro la colonizzazione” e un video successivo sul loro sito era intitolato “Singh [Jagmeet Singh Jimmy Dhaliwal, segretario del NDP, ndtr.] adotterà la risoluzione dei delegati riguardante le sanzioni contro Israele come posizione [ufficiale] dell’NDP?” Numerosi organi di stampa hanno anche ripreso il rapporto della Canadian Press [agenzia di stampa nazionale canadese, ndtr.] secondo cui “è stata approvata con l’80% dei voti una risoluzione che chiede al Canada di sospendere il commercio di armamenti con Israele e di porre fine al commercio con le colonie israeliane”.

In risposta il Centre for Israel and Jewish Affairs [agenzia delle federazioni ebraiche del Canada, ndtr.] (CIJA) ha pubblicato un rozzo comunicato col titolo “La risoluzione dell’NDP evidenzia una persistente morbosa ossessione su Israele”.

Se qualcuno non avesse colto il messaggio dal titolo, il comunicato condanna “la morbosa ossessione su Israele”, la “preoccupazione patologica nei confronti di Israele” e la “preoccupazione ossessiva per Israele” del partito, che [il CIJA, ndtr.] etichetta come “vergognose”. Su Twitter il rabbino David Mivasair [rabbino canadese impegnato in politica come democratico progressista, ndtr.] ha irriso la dichiarazione del CIJA definendola un perfetto esempio di ipocrisia”, aggiungendo che “la lobby israeliana in Canada, la cui unica ragion d’essere è imporci Israele, afferma che l’NDP è “ossessionato da Israele””.

Il comunicato del CIJA successivo alla risoluzione e la reazione al congresso dell’NDP evidenziano nel modo più chiaro come Israele abbia perso i progressisti e come la sua lobby sia sempre più propensa ad intimidire coloro che sostengono i diritti dei palestinesi definendoli antisemiti. Più di un mese prima del congresso dell’NDP, il CIJA ha iniziato a fare pressioni pubblicamente sulla dirigenza del partito per impedire una risoluzione critica verso la definizione anti-palestinese di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).

La feroce campagna rivolta a soffocare la possibilità che i membri dell’NDP discutessero un documento progettato per impedire il dibattito sui diritti dei palestinesi ha raggiunto lo scopo di intimorire il leader dell’NDP inducendolo a sopprimere la discussione sulla persistente oppressione dei palestinesi (la risoluzione dell’IHRA non è mai stata discussa).

Una settimana fa Jagmeet Singh è stato intervistato a The House [rubrica radiofonica settimanale di attualità politica, ndtr.] dalla CBC sulle risoluzioni presentate all’assemblea dell’NDP riguardo “le relazioni del Canada con Israele e il territorio palestinese”. Egli invece di rispondere alla domanda ha menzionato quattro volte l’“antisemitismo”. All’ulteriore domanda sulle “risoluzioni che in qualche modo condannano il modo in cui Israele tratta i palestinesi” Singh ancora una volta non ha menzionato la Palestina o i palestinesi. Ha invece parlato di “aumento dei crimini d’odio anche contro persone di fede ebraica”.

La disastrosa intervista ha generato un’ondata di critiche riguardo all’atteggiamento anti-palestinese della dirigenza del partito e ha dato slancio, in vista del congresso, agli schieramenti filo-palestinesi all’interno del partito. Con una significativa inversione di tendenza, la mattina dopo il voto dell’assemblea Singh ha difeso la risoluzione che la principale corrispondente politica della CBC, Rosemary Barton, ha descritto in questo modo: “Il tuo partito ha votato in modo schiacciante a favore di una imposizione di sanzioni nei confronti delle colonie e del divieto della vendita di armi a Israele”. Rimarcando la legittimità delle “organizzazioni per i diritti umani”, Singh ha affermato che è importante “fare pressione su Israele affinché rispetti i diritti dei palestinesi”. Pur restando un po’ ambiguo riguardo al pieno sostegno alla risoluzione sulla Palestina, Singh ha ribadito per tre volte l’importanza di applicare “pressioni” su Israele.

Una foglia al vento su questo tema, Singh va ovunque venga spinto. Questa è la situazione della maggior parte delle assemblee dell’NDP. Due giorni prima del convegno il deputato Charlie Angus ha twittato: “Continuo a essere citato da alcuni di quelli che vogliono che l’NDP si opponga alla definizione internazionale di antisemitismo. Questa non è la strada da percorrere. Sostengo le mozioni che chiedono giustizia per il popolo palestinese. Ma resto anche profondamente preoccupato per la crescente minaccia dell’antisemitismo “.

Per quel che ne so, nessuno ha detto che Angus abbia sostenuto la risoluzione contraria alla definizione dell’IHRA. Piuttosto è stato rimarcato che a gennaio un membro conservatore del parlamento dell’Ontario e un alto diplomatico israeliano hanno entrambi fatto uso della definizione dell’IHRA per attaccare Angus per aver condiviso un articolo del Guardian che critica il fatto che Israele non abbia vaccinato i palestinesi contro il Covid 19. Il nome di Angus è stato presentato come un esempio concreto di come la definizione dell’IHRA calpesti i diritti dei palestinesi. Ma Angus ha vigliaccamente gettato sotto il tritasassi della lobby israeliana quanti lo difendevano dalle diffamazioni.

Tuttavia, vale la pena riflettere sull’impostazione di Angus. Dal momento che il grosso della contro-reazione si è concentrata sulla risoluzione contraria alla definizione dell’IHRA, la dichiarazione sulla Palestina è apparsa accettabile. Le campagne su più fronti possono essere efficaci.

Ci sono voluti sforzi immensi da parte di un’ampia schiera di attivisti per arrivare alla partecipazione di più di 30 (Risoluzione sulla Palestina) e 40 (Risoluzione sull’IHRA) sezioni distrettuali del partito, oltre che di numerose altre organizzazioni, al fine di approvare queste risoluzioni, ma ne è valsa la pena. L’assemblea dell’NDP conferma che esiste un significativo sostegno popolare ai diritti dei palestinesi. I sondaggi hanno dimostrato che i canadesi sono ampiamente favorevoli a esercitare pressioni su Israele riguardo la sua politica di colonizzazione. Scommetto che la maggior parte del 15% dei delegati dell’NDP che ha votato contro la risoluzione sulla Palestina lo ha fatto in quanto preoccupata delle reazioni, non della sostanza della risoluzione.

Se da un lato la risoluzione sulla Palestina è stata una vittoria a favore dei diritti dei palestinesi e un duro colpo per la lobby israeliana, è stata anche una piccola vittoria per la democrazia di base e la prova che le persone si possono mobilitare sulla base di una richiesta di giustizia in politica estera.

  • Yves Engler è l’autore di Canada and Israel: Building Apartheid [Canada e Israele: la costruzione dell’apartheid, ndtr.] e numerosi altri libri. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“The Present” mette totalmente a nudo la realtà palestinese

William Parry

12 aprile 2021 – The Electronic Intifada

La regista anglo-palestinese Farah Nabulsi ha vissuto un paio di settimane straordinarie.

Il mese scorso il suo cortometraggio, The Present (Il Regalo) – il suo debutto come regista – è stato il primo selezionato per un premio dell’Accademia Britannica delle Arti Cinematografiche e Televisive (BAFTA), prima di ottenere, alcuni giorni dopo, la nomination per un premio oscar, che verrà assegnato a fine aprile.

Poi è giunta la notizia che Netflix stava trasmettendo in streaming il film.

Infine il 10 aprile il corto di 24 minuti ha vinto il BAFTA, aggiungendosi ai numerosi premi e riconoscimenti ricevuti dalla sua uscita lo scorso anno.

Che cosa significa tutto ciò per Nabulsi?

Per me la priorità era che il film fosse visto. È da questo che traggo veramente la mia soddisfazione. Quindi tutto questo significa una maggiore visibilità, che è già stata ampia – e per un cortometraggio, sotto molti aspetti senza precedenti nella nostra storia. In questo senso sono molto, molto soddisfatta”, ha detto a Electronic Intifada in videocollegamento.

Nabulsi si inserisce in un elenco di registi il cui lavoro è ineluttabilmente legato all’identità palestinese. La piccola storia di Nabulsi mostra, con dettagli che spezzano il cuore, il controllo fisico brutale ed umiliante che Israele esercita quotidianamente su milioni di palestinesi, e la fatica fisica, emotiva e mentale che deriva dal suo essere implacabile.

Tuttavia, curiosamente, mentre i suoi film sono inestricabilmente legati alle realtà palestinesi, Nabulsi dice che le sue influenze culturali hanno poco a che fare con la cultura palestinese ed araba.

Cresciuta a Londra e avendo frequentato una “scuola veramente inglese”, Nabulsi dice di non avere conosciuto molto l’arte o la musica araba. Pur amando gli scritti di Edward Said e la poesia di Mahmoud Darwish, dice di aver letto le loro opere “attraverso la lente di chi non legge molto bene l’arabo, ed ha quindi fatto ricorso alle traduzioni.”

Prima di diventare regista, le piacevano i film di Annemarie Jacir e Hany Abu-Assad [due registi palestinesi, ndtr.], ma ammette ridendo che William Shakespeare e altri artisti occidentali sono stati importanti e in vari modi più formativi nella sua crescita culturale.

Il modo in cui affronto il mio lavoro è leggermente diverso”, dice Nabulsi. “Che mi piaccia o no, mantengo un piede in occidente, sempre. Quindi quando scrivo e creo le mie storie e le dirigo, penso di subire una certa influenza dalla mia educazione e anche dalle mie influenze occidentali, forse più che da quelle palestinesi, se devo essere onesta. Non intendo far finta che non sia così.”

I tempi stanno cambiando?

Con un cortometraggio che mostra senza veli la brutale realtà dell’apartheid israeliano sulla vita quotidiana dei palestinesi ottenendo attenzione internazionale – e con una nuova amministrazione USA guidata da Joe Biden e la promessa di tenere quest’estate le elezioni palestinesi a lungo rimandate – Nabulsi trova motivi di ottimismo?

Non vedo reali differenze tra Biden e Trump”, dice Nabulsi. “Sono teste dello stesso serpente, solo che uno indossa una maschera e l’altro no.”

Tuttavia ritiene che i quattro anni di presidenza di Donald Trump abbiano rivelato chiare prese di posizione politiche che quelli che mantengono una posizione neutrale non possono più negare, inclusi alcuni sionisti progressisti.

È diventato molto chiaro che quando si pensa a Trump, a Netanyahu in Israele, a Orban in Ungheria, a Bolsonaro in Brasile, a Modi in India, subito si pensa ‘fascisti!’ e si vede chiaramente chi siano questi compari e che cosa stiano facendo.”

Di conseguenza, sostiene Nabulsi, “questa trasversalità tra altri movimenti per i diritti e antirazzisti è venuta sempre più allo scoperto e questa fratellanza e sorellanza sono state di aiuto. Perciò sono molto contenta dei tempi che stiamo vivendo, ma non di Biden.”

Riguardo alle elezioni palestinesi previste in estate, Nabulsi ammette che “le piace l’idea” di Marwan Barghouti candidato alla presidenza dalla sua cella di un carcere israeliano.

Certo,” dice. “Dà davvero una lieve sensazione alla (Nelson) Mandela, ma non mi faccio illusioni che ciò non possa concludersi del tutto o non vada invece a finire in niente.”

Dice che se l’attuale leadership avesse sinceramente a cuore gli interessi dei palestinesi, “dovrebbe entrare nel XXI secolo e stare al gioco.” Aggiunge che non riesce a capire perché non abbiano buttato la palla direttamente nel campo di Israele molto tempo fa.”

Perché non hanno dichiarato collettivamente: “Sapete che c’è? Ecco: un solo Stato. Prendetevi cura di noi, riprendetevi l’occupazione, riprendetevi tutto questo. Oslo? [gli Accordi di Oslo del 1993 da cui è nata l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] Lo avete ucciso, è defunto ed eccone tutti i motivi: le colonie, questo, quello e quell’altro: fatto. Quindi è tutto inutile.”

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese è vuota. I leader palestinesi adesso devono chiedere agli israeliani di “vivere con voi. Devono farlo con molta sincerità e dire seriamente: ‘Ecco ciò che vogliamo!’ e mettere Israele di fronte a una scelta.”

Così devono decidere: ‘Oh no! No, no, no! Ecco il vostro Stato!’, oppure devono fare i conti con un’inequivocabile apartheid.”

I due Stati, dice, “erano una buona idea quando era praticabile, ma adesso chiaramente non lo è. Ma il peccato originale ideologico di Israele è il colonialismo di insediamento, quindi, a meno che non lo abbandonino, loro non vogliono i due Stati. Non è mai stata la loro intenzione.”

Primi germogli

Nonostante gli scenari politici che influenzano l’attuale situazione, Nabulsi scorge guadagnare terreno segni autentici di progresso – che alla fine incominceranno ad influenzare, dal basso verso l’alto, quegli stessi scenari politici.

Cita alcuni esempi recenti, compresi il rapporto “Questo è apartheid” dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, la recente decisione della Corte Penale Internazionale di indagare sui crimini di guerra israeliani e negli ultimi anni il cambiamento di ex sionisti progressisti come il giornalista americano Peter Beinart [noto editorialista ebreo americano che nel 2020 ha affermato di non credere più in uno Stato ebraico, ndtr.].

Sono una di quelle persone che credono che si tratti veramente di tutte le gocce dell’oceano che si uniscono. Non è un solo movimento o un individuo o un rapporto – certo, ci sono momenti di svolta e ci sono individui chiave, ma alla fine si tratta di una miscela di tutte queste cose.”

Senza questo ottimismo, dice, fare film sarebbe inutile.

William Parry è un giornalista e fotografo freelance che vive nel Regno Unito. È autore di ‘Against the wall: the art of resistance in Palestine’ [Contro il muro: l’arte della resistenza in Palestina] e coautore del documentario breve ‘Breaking the generations: palestinian prisoners and medical rights’ [Spezzare le generazioni: i prigionieri palestinesi e il diritto a cure mediche].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 30 marzo 12 aprile 2021

Il 6 aprile, a Bir Nabala (Gerusalemme), ad un posto di blocco istituito per un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno sparato contro un’auto, uccidendo il guidatore palestinese 45enne e ferendo la moglie.

Secondo le autorità israeliane, dopo l’alt, l’auto avrebbe accelerato improvvisamente in un apparente tentativo di travolgere i soldati. Secondo la donna ferita, suo marito, nel procedere, stava seguendo le istruzioni del soldato.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno ferito cinquantadue palestinesi [seguono dettagli]. Ventitré sono rimasti feriti nel corso di quattro operazioni di ricerca-arresto condotte a Silwan (Gerusalemme Est), nei Campi profughi di Al ‘Arrub (Hebron) e Aqbat Jaber (Gerico) e nella città di Nablus. Ventidue sono rimasti feriti nei villaggi di Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Beit Dajan (Nablus), in due proteste settimanali contro l’attività di insediamento colonico. Due 13enni sono rimasti feriti nella città di Hebron, in due distinti episodi; uno di loro ha perso un occhio, colpito da un proiettile di gomma durante scontri in cui non era coinvolto. Due palestinesi sono rimasti feriti a Sabastiya (Nablus), in scontri seguiti ad una visita di israeliani a siti archeologici locali e un altro a Nablus, durante una visita di israeliani alla Tomba di Giuseppe. Un anziano è rimasto ferito nel villaggio di Bani Na’im (Hebron), durante scontri scoppiati nel corso della confisca di una tenda da parte delle forze israeliane. Un altro palestinese è rimasto ferito nell’area di Gerusalemme mentre tentava di attraversare una breccia nella Barriera. Del totale dei feriti, 29 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, 12 sono stati colpiti da proiettili di gomma, cinque sono stati colpiti con proiettili veri e sei sono stati aggrediti fisicamente o spruzzati con sostanze irritanti.

Le forze di polizia israeliane hanno aggredito fisicamente nove attivisti (fra loro anche un membro del parlamento israeliano) che stavano manifestando contro lo sfratto di famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est. Il capo della polizia del distretto di Gerusalemme ha ordinato la chiamata a rapporto degli agenti coinvolti, mentre, a quanto riportato, il parlamentare ferito ha presentato una denuncia al Ministero della Giustizia.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 154 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 167 palestinesi. Il governatorato di Ramallah ha registrato il maggior numero di operazioni (43), seguito da quello di Gerusalemme (27) e di Hebron (23).

In aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 14 occasioni, a quanto riferito, per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]: non sono stati segnalati feriti.

In Area C ed a Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi edilizi, sono state demolite o sequestrate 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando 13 persone e incidendo sui mezzi di sussistenza di altre 90 [seguono dettagli]. Dieci strutture sono state demolite in otto Comunità dell’Area C; in un caso, nell’area Dhahrat an Nada di Betlemme, sono state sfollate sette persone. A Susiya (Hebron), le autorità israeliane hanno sequestrato una tenda fornita come assistenza umanitaria. A Gerusalemme Est, nel quartiere di Jabal al Mukkabir, una famiglia di sei persone è stata costretta a demolire la propria casa mentre, ad Al ‘Isawiya, sono state demolite sei strutture di sussistenza. Le autorità israeliane hanno inoltre emesso sei ordini di arresto dei lavori contro almeno 32 strutture palestinesi (residenziali e agricole) e contro una strada a Khirbet ar Ras al Ahmar (Tubas).

Coloni israeliani, noti o ritenuti tali, hanno ferito sette palestinesi, di cui due ragazzi, ed hanno danneggiato alberi di proprietà palestinese [seguono dettagli]. I ragazzi sono stati aggrediti fisicamente in due episodi separati accaduti nell’area H2 di Hebron. Gli altri cinque sono stati colpiti con pietre o aggrediti fisicamente mentre lavoravano la loro terra: quattro [dei 5] ad An Nabi Salih (Ramallah) e uno a Jalud (Nablus). Palestinesi hanno riferito che a Qusra (Nablus) sono stati sradicati circa 100 alberelli di olivo. Nella zona H2 di Hebron una casa è stata danneggiata da una bottiglia incendiaria e a Kifl Haris (Salfit) sono stati danneggiati contatori dell’acqua. A Qaryut (Nablus) e Al Bqai’a (Hebron) coloni hanno devastato con bulldozer terreni privati palestinesi. A Deir Jarir (Ramallah), coloni hanno aggredito fisicamente e ferito un attivista israeliano che stava fornendo presenza protettiva a pastori palestinesi.

Palestinesi, noti o ritenuti tali, hanno aggredito fisicamente e ferito due israeliani; inoltre, lanciando pietre e altri oggetti, hanno danneggiato otto veicoli israeliani, che transitavano su strade della Cisgiordania. Gli episodi sono stati riferiti da fonti israeliane.

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L’ingegnosità di Gaza arriva su Marte

Ahmad Abu Shammalh, Gaza

11 aprile 2021 – wearenotnumbers

Il 18 febbraio 2021 ho ricevuto con gioia la conferma che il mio nome era atterrato su Marte. Era stato inciso col laser su un chip delle dimensioni di un’unghia inserito nel rover chiamato Perseverance, che aveva completato con successo il suo viaggio verso il Pianeta Rosso. (Due anni prima, la NASA aveva lanciato una campagna “Manda il tuo nome su Marte”, e io insieme ad altri da tutto il mondo avevamo fatto domanda.)

Quel giorno ho continuato a leggere avidamente tutto ciò che potevo trovare in Internet su Perseverance e su come si stava comportando nel nuovo ambiente. Oltre alla mia gioia per questo risultato scientifico è arrivata un’altra incredibile sorpresa. La mia pagina Facebook è stata inondata da immagini di un individuo in particolare, un palestinese di Beit Hanoun, una città di Gaza al confine settentrionale, il responsabile dell’elettronica e dell’energia per l’elicottero che Perseverence ha trasportato su Marte. Ho controllato altre piattaforme di social media e ci ho trovato lo stesso individuo anche lì. Loay Elbasyouni era molto popolare in Palestina!

Onestamente ho problemi a fidarmi dei media, quindi ho voluto verificare di persona. Ho cercato il suo nome e ho trovato il suo account Instagram. Così gli ho mandato un messaggio e lui mi ha risposto. Mi è sembrato molto modesto e ha incoraggiato il mio interesse per l’industria spaziale. Ecco la sua storia.

Imparare da solo

Loay Elbasyouni è nato in Germania da due palestinesi di Beit Hanoun. Suo padre era uno studente di medicina e nessuno dei suoi genitori aveva la cittadinanza tedesca. Quando Loay aveva quasi sei anni, la sua famiglia tornò a Gaza per una visita, ma Israele requisì i documenti del padre e la famiglia rimase bloccata nella Striscia di Gaza.

Loay ha dovuto adattarsi a quel nuovo ambiente, imparare a scappare dalle jeep militari israeliane e sperimentare rumori e scene di occupazione che i bambini della sua età in altre parti del globo non devono sopportare.

Quando era in quarta elementare scoppiò la Prima Intifada e la sua scuola dell’UNWRA [agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi, ndtr.] chiuse, così iniziò a studiare in casa. Quando suo padre tornava a casa dai lunghi turni come chirurgo, Loay cercava di porgli quante più domande possibile. Ma soprattutto doveva imparare da solo. Si innamorò dell’elettronica e imparò costruendo circuiti e riparando apparecchi rotti.

Perseverance: la perseveranza fa di Loay un ingegnere elettronico

Quando Loay si diplomò al tawjihi (liceo), suo padre voleva che diventasse chirurgo come lui, ma il figlio rispose: “Non voglio vivere negli ospedali”. A quel tempo, l’accordo di Oslo aveva reso più facile viaggiare di quanto sia adesso, quindi nel 1998 andò nella Terra dei Sogni per conseguire una laurea in ingegneria elettronica presso l’Università del Kentucky.

Ma nella vita reale gli Stati Uniti non erano così da sogno; Loay dovette abbandonare l’università tra il 2001 e il 2002 per lavorare fino a 100 ore alla settimana e guadagnare denaro per tornare a scuola. Andò all’Università di Louisvillle per conseguire la laurea e il master in informatica e ingegneria elettronica. Tornò a Gaza solo una volta, nel 2000.

Loay faceva gli straordinari in almeno cinque lavori diversi per riprendere gli studi e pagare le bollette. “È stata un’esperienza difficile”, dice, “ma mi ha insegnato molto”, e così ha perseverato – dopotutto, è un palestinese!

Dopo la laurea, Loay iniziò a lavorare per start-up e aziende private specializzate in auto elettriche ed energie rinnovabili. Allora non c’era la Tesla [azienda statunitense specializzata nella produzione di auto elettrichepannelli fotovoltaici e sistemi di stoccaggio energetico, ndtr.], e queste auto erano un progetto da fantascienza, quindi la maggior parte di queste aziende fallirono, ma non Loay! Entrò a far parte di una società aerospaziale pubblica che gli offrì l’opportunità di lavorare con la NASA su un progetto sperimentale per costruire il primo velivolo che atterrasse su Marte. L’elicottero di Perseverance si è sviluppato dalle idee, dai progetti e dagli effettivi sforzi di costruzione di Loay e dei suoi colleghi.

Costruire Ingenuity [ingegno] richiedeva ingegno

Loay è stato responsabile della parte elettrica ed elettronica di potenza di Ingenuity, inclusa la responsabilità del sistema di propulsione. Ciò ha comportato la progettazione del controller del motore, dell’invertitore, del servocontrollo, del motore stesso e del sistema di segnalazione.

Una grande sfida per il gruppo di lavoro è stata quella di progettare un sistema elettronico che potesse funzionare nell’ambiente molto freddo e ad alta radiazione di Marte. Un’altra sfida era capire come costruire un motore che potesse fornire all’elicottero una portanza sufficiente nell’atmosfera estremamente rarefatta del Pianeta Rosso. Il motore doveva essere il più leggero possibile e con la massima resistenza, generazione di energia ed efficienza.

Molti consideravano impossibile costruire un elicottero a due pale da 1,8 chilogrammi (4 libbre) in grado di sollevarsi su un pianeta con poca o nessuna atmosfera, ma Loay e il suo team hanno lavorato instancabilmente per realizzare il loro progetto. L’elicottero è stato chiamato Ingenuity ed è stato messo nella pancia di Perseverance all’ultimo momento. Ora è sulla superficie di Marte e sta per prendere il volo.

Ingenuity è ciò che la NASA chiama un prototipo: sta testando nuove capacità e quindi ha una missione limitata. Secondo la NASA, “Ingenuity è dotato di quattro pale in fibra di carbonio appositamente realizzate, disposte su due rotori che ruotano in direzioni opposte a circa 2.400 giri al minuto, molte volte più veloci di un elicottero passeggeri sulla Terra. Dispone inoltre di celle solari, batterie e altri componenti innovativi.

Loay mi ha parlato di alcuni dei “messaggi” nascosti dalla NASA all’interno di Ingenuity, come il codice binario stampato sul paracadute di Perseverance che elenca i nomi dei membri del team, e un pezzo del tessuto del velivolo originale dei fratelli Wright. Questo collega il primo aereo che ha volato sulla superficie della Terra al primo aereomobile a volare sulla superficie di Marte. Entrambi testimoniano la determinazione dell’umanità nel sogno di volare e nel realizzare quel sogno.

I palestinesi possono farcela

Ora Loay sta lavorando ad altri progetti tecnologici top-secret e innovativi. Trovo quella di Loay una storia di successo e un modello, e lo è anche per molti giovani palestinesi. Lui trova questo fantastico e nella nostra chat su Instagram mi ha augurato buona fortuna.

L’improvvisa fama di Loay tra i palestinesi è iniziata con la pubblicazione su Facebook e LinkedIn della sua foto con l’elicottero e la squadra. Poi i suoi cugini, la sua famiglia allargata, e poi tutto il mondo arabo e molte agenzie di stampa hanno raccontato i dettagli. È stato intervistato ovunque in Medio Oriente, e questo lo ha fatto sentire bene con se stesso, col suo lavoro e con la sua patria in Palestina e nel mondo arabo. A Beit Hanoun è stato appeso uno striscione che accoglieva i numerosi visitatori accorsi per congratularsi con la famiglia. L’amore che ha ricevuto dai palestinesi è stato un grande dono e mi ha detto che i suoi colleghi sono gelosi delle manifestazioni di sostegno che ha ricevuto.

Loay è convinto che i palestinesi possano fare tutto ciò che sognano. Le loro condizioni sono difficili, dice, ma la loro ingegnosità e perseveranza sono più forti. Possono raggiungere le stelle e catturarle. È in arrivo il primo astronauta palestinese e l’Agenzia Spaziale Palestinese non è solo un sogno. Possiamo farlo e lo faremo – e niente potrà mai cambiare questo.

La squadra di Beit Hanoun posa con un poster dedicato all’impresa di Loay

Nota del redattore: Ingenuity è programmato per prendere il volo il 14 aprile o intorno a quella data. L’evento storico si può seguire su NASA TV.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Università e Palestina: tre tipi di silenzio.

Nick Riemer,

8 Aprile 2021, ARENA

Il libro di Edward Said del 1979 sulla continua espropriazione del suo popolo era intitolato The Question of Palestine. Per Said, la Palestina poteva essere considerata una ‘questione’, un oggetto di controversia. In quanto tale, era qualcosa da cui ci si poteva aspettare una varietà di risposte. Da allora, nello stesso momento in cui ha privato i palestinesi della loro terra e delle loro vite, Israele ha altresì lavorato per derubarli anche di questa “questione”. Per Israele, non può esserci una vera “questione della Palestina” perché la Palestina non esiste, o non dovrebbe esistere. E se, nonostante tutti i suoi sforzi, una questione palestinese ostinata continua a essere posta, l’unica risposta possibile, per l’anti-palestinismo sionista, può essere il silenzio – il silenzio sui palestinesi, coltivato attraverso una rigorosa censura e guerra legale, e il silenzio da parte della stessa Palestina, imposto attraverso le varie strategie di Israele di pulizia etnica: le leggi dell’apartheid, il muro di separazione, il mostruoso blocco di Gaza, la soffocante occupazione.

Le università sono luoghi particolari in cui viene imposto il silenzio sulla Palestina. Nelle ultime settimane sono giunto a un nuovo apprezzamento della consistenza e della violenza di questo silenzio imposto. Il silenzio, come l’ho incontrato di recente, è di tre tipi: silenzio imposto, silenzio scelto e silenzio concesso. Insieme, questi silenzi sono tanto eloquenti sullo stato attuale della lotta per la Palestina nel campus quanto sulla natura della professionalità accademica nel 2021.

Il silenzio imposto era quello di un collega palestinese in un’università della Cisgiordania. Li avevo invitati – visto quanto segue, non specificherò nemmeno il loro genere – a una discussione online sulle difficoltà che i palestinesi devono affrontare nell’istruzione superiore sotto occupazione militare. La conversazione doveva essere ospitata dallo staff della Sydney University per BDS, un gruppo dello staff dell’Università di Sydney che sostiene l’appello palestinese per il boicottaggio accademico istituzionale di Israele. Ero felicissimo e anche un po’ sorpreso quando il mio collega ha accettato immediatamente ed entusiasta l’invito. Ma poi, in seguito, è arrivata l’email di scuse: dopotutto non potevano parlare, anche in condizioni di completo anonimato, anche con la fotocamera spenta. Israele aveva recentemente negato un altro ingresso di un accademico in Giordania a causa del suo attivismo digitale. Il mio collega semplicemente non poteva rischiare questa o qualsiasi altra possibile conseguenza che potesse mettere a repentaglio il suo lavoro o quello del suo dipartimento. Completamente comprensibile, avevano raggiunto la stessa decisione di molti altri accademici palestinesi: il silenzio era la loro unica opzione.

Il silenzio scelto era completamente diverso e richiede più tempo per descriverlo. A febbraio, la professoressa Alison Bashford, illustre storica della medicina e della salute dell’UNSW (University of New South Wales), è stata nominata una dei vincitori del premio annuale Dan David di Israele, che nel 2021 ha individuato contributi eccezionali alla medicina e alla sua più ampia comprensione da parte del pubblico. La Fondazione Dan David è strettamente legata all’establishment politico e accademico israeliano: ha sede e amministrazione presso l’Università di Tel Aviv, e il suo presidente è un ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti; Henry Kissinger siede nel consiglio che sovrintende al premio annuale. Il premio è stato naturalmente inteso come una celebrazione e plauso internazionale della risposta di Israele alla pandemia, un tema che figurava esplicitamente nella citazione di Alison Bashford. La quota del 2021 del premio David ha quindi contribuito all’immagine di Israele come leader nella sanità pubblica, distogliendo l’attenzione dal fatto che sta negando l’accesso ai vaccini ai cinque milioni e più di palestinesi sotto il suo controllo nei territori occupati.

Accettare il premio è stata una chiara violazione dell’appello rivolto agli accademici dalla società civile palestinese a tagliare i legami con le istituzioni israeliane fino a quando Israele non abbandonerà le sue politiche di apartheid. Quando i tentativi di avvicinarsi alla professoressa Bashford in privato sono falliti, è stata coordinata da me e da altri colleghi una lettera aperta, che ha chiarito le ragioni per rifiutare il premio, proprio come aveva fatto nel 2016 la professoressa Catherine Hall, storica dell’University College di Londra, dopo esortazione da parte degli attivisti del BDS. La lettera è stata ora firmata da oltre 340 accademici e studenti in tutto il mondo. I firmatari includono studiosi di spicco come Rashid Khalidi, Judith Butler, Nadia Abu El-Haj, Wael Hallaq, Ilan Pappe, John Keane e altri, così come molti altri colleghi di storia e discipline umanistiche correlate in Australia. Pochi giorni dopo l’inizio della lettera, con già oltre 220 firme, ho scritto alla professoressa Bashford avvertendola e sottolineando che le due principali organizzazioni australiane per i diritti dei palestinesi, l’Australia Palestine Advocacy Network e BDS Australia, avevano entrambe sostenuto l’invito a rifiutare il premio. La professoressa Bashford non ha risposto.

La lettera aperta ha riunito molti firmatari, ma non tutti quelli cui abbiamo chiesto di aggiungere il loro nome erano disposti a farlo. Alcuni ci hanno confidato che, sebbene fossero d’accordo, non erano disposti a dirlo pubblicamente perché erano “preoccupati per le conseguenze”. Questo è il terzo silenzio sulla Palestina – non imposto direttamente e chiaramente dalle circostanze, come il silenzio del mio collega palestinese, né scelto, come quello della professoressa Bashford. Questo silenzio è concesso, con diversi gradi di riluttanza, ai tabù predominanti della professione accademica, tra i quali l’antisionismo occupa un posto di rilievo.

I seguaci di questo terzo tipo di silenzio hanno raramente ben chiaro quali potrebbero essere le conseguenze che tanto temono, né perché il rischio di criticare Israele sia maggiore per loro che per altri. Le loro ansie emergono dalla penombra di apprensione, disagio ed evasione che i sionisti hanno attentamente alimentato ogni volta che si è trattato di criticare Israele. Questo non è il silenzio tattico del sostenitore determinato della Palestina, basato sulla necessità di scegliere le proprie battaglie in modo da difendere con più forza la causa in seguito. Le persone che lo osservano non stanno, in generale, prendendo tempo per poi schierarsi formalmente dalla parte dei diritti dei palestinesi in un momento più opportuno. Il sostegno esplicito alla Palestina semplicemente non è nella loro agenda.

Questo silenzio esprime le sue paure di una rappresaglia nel linguaggio della vulnerabilità. Ma sottilmente, e spesso senza dubbio sconsideratamente, mette in atto il contrario: rifiutandosi di esporre se stessi a causa di vaghe preoccupazioni sulle “conseguenze”, chi osserva il terzo silenzio isola ulteriormente coloro che scelgono di parlare, lasciandoli affrontare ogni possibile contraccolpo da soli. Questo tipo di silenzio è, ovviamente, del tutto umano, e pochi ne sono mai stati estranei, se non sulla Palestina, comunque su altre questioni. Tuttavia è una delle principali fonti del tacito ascendente che ha il sionismo nelle università.

Quando è stato annunciato il premio David, il successo della professoressa Bashford è apparso in breve sul Sydney Morning Herald e lei ha concesso un’intervista all’Australian Academy of the Humanities. Quando il suo premio è stato annunciato, non ha avuto riluttanza – comprensibilmente – a commentarlo pubblicamente. Da un punto di vista umano – a lungo negato ai palestinesi – è anche abbastanza comprensibile che abbia preferito ignorare i palestinesi e i loro sostenitori quando hanno criticato la sua accettazione del premio. Ma per qualsiasi studioso che evidenzi la rilevanza del proprio lavoro per i problemi attuali, tale mancanza di sensibilità è una sconfitta intellettuale e politica.

Come il silenzio degli altri partecipanti al Premio David, anch’essi invitati a rifiutare l’onorificenza, il silenzio della professoressa Bashford di fronte al razzismo di Israele contro i palestinesi è un caso da manuale dell’eccezione della Palestina nella politica progressista. Esso contrasta notevolmente con le posizioni mostrate nelle sue pubblicazioni, dove suggerisce un’opposizione inequivocabile a tutte le forme di razzismo, apartheid e oppressione politica, espressa in riferimenti alla “famigerata” politica dell’Australia Bianca, il “rozzo razzismo coloniale” della storia australiana, o il “gradito” annullamento delle leggi razziste sull’immigrazione.

A volte, questo antirazzismo è abbastanza esplicito, ad esempio, quando si discute dell’autorità sanitaria pubblica australiana RW Cilento, che si dice fornisca un esempio di una tendenza più ampia nella medicina tropicale australiana: “In una straordinaria mossa colonizzatrice”, scrive la professoressa Bashford, “le persone non bianche sono state rese assenti da questo spazio, le popolazioni indigene sono state minimizzate in modo digressivo e controllate come un problema di salute pubblica gestibile”. Eppure questa minimizzazione digressiva è esattamente ciò che attua il suo stesso silenzio sulla Palestina.

Questo tipo di silenzio è sintomatico di un’avversione ampiamente condivisa a una decisiva azione politica nella professione accademica. L’avversione è più lampante quando si tratta di resistere alla corruzione e al degrado inflitti alle università dalle pratiche di gestione neoliberale e dal ritiro del sostegno finanziario del governo. C’è molta opposizione, in astratto. Tuttavia quando si tratta di parlare quando conta di più, l’impressionante acume critico della professione, il più delle volte, si zittisce.

Che si tratti della Palestina o del degrado delle università, questi silenzi rafforzano la morale imposta per decenni dalla palla demolitrice neoliberista: la cultura umanistica non ha nulla da offrire al mondo reale. Non suggerisce nulla su come dovrebbero agire gli individui, o su come dovrebbero essere gestite la società o persino le università. Al di fuori della sfera accademica autoreferenziale e del suo tapis roulant di onori, distinzioni e ricompense, i suoi valori sono irrilevanti e privi di significato.

Se l’antirazzismo può essere attivato e disattivato come principio – ripetutamente affermato a stampa, ma bruscamente sospeso quando viene sollevata la questione della Palestina – allora le sue espressioni vengono degradate a mere rappresentazioni. Se non sono effettivamente promulgate, le dichiarazioni accademiche di antirazzismo funzionano principalmente come segni di distinzione, le insegne di un’élite intellettuale esentata dalla necessità di mettere in pratica i suoi principi.

Da quando è stata pubblicata la lettera aperta, la nuova Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo, nonostante i suoi difetti, ha rafforzato la mano dei sostenitori del boicottaggio riconoscendo il fatto, ovvio per quasi tutti tranne che per i fanatici della pulizia etnica e dell’apartheid, che il boicottaggio è una forma normale di protesta e non antisemita. Ulteriore sostegno viene dal semplice fatto che, come ho sostenuto altrove, i boicottaggi politici sono in realtà una pratica comune nel mondo accademico e non dovrebbero quindi essere esclusi nel caso di Israele.

Questo è ancora più vero quando, in realtà, un boicottaggio politico interno nella comunità sionista ha plasmato gli inizi dell’istruzione superiore ebraica in Palestina. Nel 1914, gli insegnanti sionisti boicottarono le scuole superiori gestite dall’Hilfsverein der deutschen Juden, l’Organizzazione di soccorso degli ebrei tedeschi, uno degli sponsor del Technion di Haifa (la prima università ebraica in Palestina). I sionisti boicottarono le scuole elementari dell’Hilfsverein per costringerlo a fare dell’ebraico (non del tedesco) la principale lingua di insegnamento. I genitori minacciarono anche di boicottare la scuola Hilfsverein a Jaffa allontanandone i figli a meno che l’ebraico non fosse usato per insegnare le scienze. Questo episodio è stato raramente citato nelle discussioni sul boicottaggio accademico, che hanno giustamente sottolineato la lunga storia palestinese dei boicottaggi, ma esso ha un significato reale: lungi dall’essere violazioni oltre il limite di presunte norme universali di libertà intellettuale, i boicottaggi politici come quello attualmente richiesto contro Israele sono stati determinanti nel plasmare la preistoria del sistema universitario israeliano.

È un segno di quanto lontana sia la giustizia per la Palestina nella cui lotta le università sono attualmente in prima linea. Affinché la lotta dei palestinesi contro l’apartheid israeliano prevalga nel campus e affinché gli accademici palestinesi siano liberati dal silenzio loro imposto, gli alleati dei palestinesi dovranno fare sentire la loro voce e dovranno essere rotti i silenzi scelti volontariamente o concessi a malincuore nelle università in posti come l’Australia.

Traduzione di Angelo Stefanini




I soldati israeliani uccidono un palestinese ad un posto di blocco improvvisato in Cisgiordania

Akram Al-Waara, Betlemme, Cisgiordania occupata

6 aprile 2021 – Middle East Eye

Osama Mansour, padre di cinque figli, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dopo che i soldati gli avevano detto di ripartire

Nelle prime ore di martedì mattina i soldati israeliani hanno sparato, uccidendolo, ad un uomo palestinese e hanno ferito sua moglie mentre i due stavano tornando a casa nel loro villaggio di Biddu, a nord-ovest di Gerusalemme, nella Cisgiordania occupata.

Osama Mansour, 42 anni, e sua moglie Sumayya, 35, stavano tornando a casa intorno alle 2 e 30 del mattino quando sono stati fermati a un posto di controllo improvvisato fuori dal vicino villaggio di al-Jib, dove i soldati israeliani stavano conducendo un’operazione di ricerca e cattura.

In un’intervista con il canale di notizie Palestine TV, Sumayya Mansour ha riferito che i soldati israeliani hanno fermato l’auto su cui viaggiavano lei e suo marito al posto di blocco e hanno detto loro di spegnere il motore, cosa che, afferma, hanno fatto.

“Poi ci hanno detto di riaccendere il motore dell’auto e andarcene, e così siamo partiti – e poi tutti quanti hanno iniziato a spararci addosso dei proiettili”, ha detto dal suo letto d’ospedale nella città di Ramallah in Cisgiordania.

Secondo le testimonianze dei membri della famiglia, prima di dire alla coppia di andarsene, i soldati hanno chiesto di controllare i loro documenti, che Osama Mansour ha di buon grado consegnato e hanno perquisito l’auto.

Imran Mansour, 57 anni, cugino vicino di casa di Osama ha riferito a Middle East Eye: “Dopo aver controllato i documenti di identità e i loro nomi sul computer e perquisito da cima a fondo l’auto, i soldati hanno ritenuto che non costituissero una minaccia e hanno detto loro di rimettere in moto l’auto e di passare”.

“Avevano percorso appena pochi metri quando i soldati hanno iniziato a sparare contro di loro da tutte le direzioni”, dice Imran Mansour, riferendo le testimonianze raccolte da Sumayya e da altri testimoni oculari.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha condannato il “crimine atroce”, definendolo “solo uno di una lunga e continua serie di esecuzioni extragiudiziarie” commesse dalle forze israeliane.

L’esercito israeliano ha dichiarato che il veicolo dei Mansour avrebbe accelerato [dirigendosi] verso un gruppo di soldati “tanto da mettere in pericolo le loro vite”, e che i soldati avrebbero risposto con colpi di arma da fuoco “per contrastare la minaccia”.

“Ciò è assolutamente ridicolo”, riferisce a MEE Imran Mansour. “Perché un padre di cinque figli, con la moglie in macchina, avrebbe tentato un’aggressione mentre stava tornando a casa dai figli?

“Se Osama avesse davvero cercato di attaccare i soldati non avrebbe eseguito tutti i loro ordini: fermare l’auto, spegnere il motore, dare ai soldati i loro nomi e documenti d’identità, lasciargli perquisire l’auto”, aggiunge il parente.

Secondo la Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese, dei testimoni oculari hanno affermato che i soldati israeliani avrebbero lanciato una granata assordante in direzione dell’auto, facendo sì che Osama Mansour, che era alla guida, accelerasse il veicolo.

Imran Mansour riferisce che, pur non essendo in grado di confermare se fosse stata la granata stordente ad indurre suo cugino ad accelerare l’auto, le persone che hanno assistito all’episodio gli hanno detto che nella zona erano in corso degli scontri a causa di un’operazione di arresto da parte dei soldati ad al-Jib e che in quell’area erano state sparate granate assordanti e lacrimogeni.

Nessuna assistenza medica

Secondo le testimonianze rese da Sumayya alla televisione palestinese, pochi istanti dopo gli spari dei soldati contro la sua auto, ha chiamato suo marito e lui le ha chiesto se fosse ferita. Pochi secondi dopo, ha detto, è crollato sul suo grembo e l’auto ha iniziato a sterzare.

“L’auto andava a destra e a sinistra, quindi ho preso la guida finché non ho trovato un gruppo di giovani davanti a me e mi sono fermata in modo che potessero aiutarci”, racconta.

Secondo Imran Mansour, i giovani hanno caricato la coppia nei loro veicoli e li hanno portati al locale ospedale di Biddu. La coppia è stata poi trasferita in un ospedale della città di Ramallah, dove Osama è stato dichiarato morto.

“Osama è stato colpito alla testa da due proiettili”, dice Imran Mansour, aggiungendo che Sumayya è stata ferita dai frammenti di un proiettile, ma si trovava in condizioni stabili e già il primo pomeriggio di martedì ha chiesto di essere dimessa dall’ospedale e tornare a casa.

Secondo Imran Mansour i soldati israeliani non hanno fornito nessun primo soccorso o assistenza medica alla coppia dopo che la loro auto si è fermata a breve distanza dal posto di blocco improvvisato.

“Sono rimasti lì a guardare mentre i giovani cercavano di soccorrere Osama e Sumayya”, afferma. “Non hanno fatto nulla per aiutarli.”

Ucciso a “sangue freddo”

La morte di Osama è stata uno shock per la famiglia Mansour, che è stata informata dell’incidente dall’ospedale locale di Biddu.

“In Palestina questo genere di cose accade quasi ogni giorno, ma speri che non debba mai accadere a te o alla tua famiglia”, ha dichiarato Imran a MEE.

Secondo lui, la morte di Osama e il fatto che i soldati che lo hanno ucciso sostengano che lui li abbia attaccati porta alla mente dei familiari ricordi penosi e un dolore conosciuto.

“Non è la prima volta che ciò accade alla nostra famiglia”, dice, aggiungendo che nel 2016 uno dei loro parenti, il diciannovenne Sawsan Mansour, è stato colpito a morte a un posto di blocco israeliano a nord di Gerusalemme.

“I soldati hanno affermato che stesse cercando di pugnalarli, ma nessuno dei soldati è stato ferito e gli hanno sparato a sangue freddo, proprio come hanno fatto oggi con Osama”, afferma, aggiungendo che in quell’occasione i testimoni oculari hanno affermato che Sawsan era stato lasciato sanguinare per ore, senza nessun soccorso medico.

Questi crimini accadono sempre contro il popolo palestinese, quando usciamo con le nostre auto o superiamo i posti di blocco. Come palestinese sei sempre spaventato e vivi solo nel terrore che una tale tragedia capiti alla tua famiglia”, afferma Imran.

Imran racconta a MEE che suo cugino Osama era “un uomo semplice”, che ha vissuto la sua vita facendo tutto il possibile per provvedere alla moglie e ai cinque figli, le più giovani dei quali sono due gemelle di sette anni.

“È stato ucciso a sangue freddo, e i soldati che lo hanno ucciso non saranno mai ritenuti responsabili”, ha detto, criticando i tribunali israeliani che “proteggono a tutti i costi i loro soldati”.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno sempre dichiarato che i soldati e gli agenti di polizia vengono raramente ritenuti responsabili dell’uccisione di palestinesi dal sistema giudiziario israeliano, promuovendo quella che alcuni hanno definito una cultura dell’impunità.

“Se un palestinese viene ucciso senza motivo, tutto ciò che un soldato deve fare è invocare l’autodifesa, e viene rilasciato senza nemmeno una tirata d’orecchi”, dice Imran. “E questo è quello che stanno cercando di fare ora con Osama.

“Osama non è il primo, né sarà l’ultimo palestinese che viene ucciso a sangue freddo, senza nessun motivo, dagli israeliani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il francese Libération censura l’autrice Sarah Schulman su Gaza?

Ali Abunimah  

6 aprile 2021 – Electronic Intifada

Il quotidiano francese Libération è stato co-fondato da Jean-Paul Sartre sulla scia delle proteste radicali del maggio 1968. Pubblicato dal 1973, è ancora orgoglioso di “schierarsi dalla parte dei cittadini e dei loro diritti contro tutte le forme di ingiustizia e discriminazione, individuali e collettive.”

Tuttavia, come per molte istituzioni progressiste, la volontà di sfidare i potenti a favore degli oppressi sembra passare in secondo piano quando si si tratta della Palestina.

Almeno questo è ciò che la pluripremiata autrice americana Sarah Schulman ha scoperto dopo essere stata intervistata per Libération all’inizio di marzo, in occasione della pubblicazione dell’edizione francese del suo libro del 2016 Conflict is not Abuse [Conflitto non significa sopraffazione] .

L’intervista è stata eliminata da Libération, e a Schulman è stato detto che era in parte a causa delle sue critiche agli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflict is not Abuse è per circa un terzo sulla Palestina e in particolare sulla guerra a Gaza del 2014″, ha detto Schulman a The Electronic Intifada. “Sarebbe impossibile discutere del libro senza parlare dell’efferatezza israeliana e del sostegno degli Stati Uniti a quelle gravi ingiustizie”.

The Electronic Intifada ha visto le due versioni del testo dell’intervista: una prima bozza e una versione finale. La guida etica di Libération prescrive ai giornalisti di inviare il testo delle interviste agli intervistati prima della pubblicazione per verificarne l’accuratezza.

Gli aggressori si proclamano vittime

Nell’intervista per Libération con il giornalista freelance Cyril Lecerf Maulpoix, Schulman illustra i temi centrali del suo libro, in particolare la sua analisi di metodi riparatori, inclusivi e meno punitivi per risolvere i conflitti e ottenere giustizia.

Sostiene che il conflitto è una lotta per il potere senza la quale le ingiustizie non possono essere superate, anche se le parti hanno un livello diseguale di potere e responsabilità in una data situazione. In un conflitto, tuttavia, le parti hanno ancora la capacità di agire e interagire, anche evitando il ricorso alla violenza.

La sopraffazione, al contrario, è l’esercizio del potere dall’alto. Può essere sperimentato nella sfera personale o familiare, ma esiste anche a un livello più ampio: il razzismo, l’islamofobia o l’antisemitismo sono sopraffazioni sistemiche che nessun individuo può eliminare.

Schulman osserva che gli aggressori spesso cercano di evitare responsabilità invertendo i ruoli: si considerano vittime dipingendo le loro vittime prive di potere come una pericolosa minaccia.

I suoi esempi includono Michael Brown ed Eric Garner, la cui uccisione da parte della polizia americana nel 2014 ha suscitato il movimento Black Lives Matter, e la violenza di Israele contro i palestinesi.

“Volevo dimostrare che dalla scala più privata alla relazione geopolitica tra uno Stato e una popolazione si può vedere lo stesso paradigma, in cui nel contesto di un conflitto l’aggressore si presenta come se fosse stato attaccato semplicemente perché qualcuno gli resiste”, sono le parole di Schulman citate nella bozza finale di Lecerf Maulpoix.

Oltre a parlare delle giustificazioni israeliane alla propria violenza contro i palestinesi, Schulman estende questo quadro alla Francia, dove il presidente Emmanuel Macron sta attualmente conducendo una guerra contro la vessata minoranza musulmana del Paese all’insegna della difesa della laicité – laicismo – contro lo spettro di un islamo-gauchisme – “islamo-sinistra” – e di un presunto separatismo musulmano.

“Stiamo vivendo in un periodo molto repressivo, in cui i fascisti si stanno espandendo ovunque e gli aggressori affermano di essere vittime perché è in corso un cambiamento”, afferma Schulman nella prima bozza.

“Possiamo vederlo anche in Francia, col panico dell’islamo-sinistra”, aggiunge, sottolineando con evidente ironia “Suppongo di essere un’ebrea di islamo-sinistra”.

Tutto questo era evidentemente troppo per Libération.

Troppo radicale”

Una settimana fa, circa tre settimane dopo l’intervista, Schulman ha ricevuto un messaggio di scuse da Lecerf Maulpoix.

“Dopo l’invio di due diverse versioni, alla fine il redattore della rubrica Idées [Idee] ha deciso di non pubblicare l’intervista per ragioni che trovo ancora difficili da capire”, scriveva Lecerf Maulpoix.

“Alcune sono quelle che ho catalogato come politiche (su aspetti che trovano troppo radicali, il ruolo della polizia, Israele e Gaza)”, ha aggiunto.

Il giornalista ha scritto a Schulman della sua frustrazione per essere stato incapace di accogliere le richieste degli editori, nonostante “alcune riscritture per adeguare l’intervista alle loro opinioni”.

Entrambe le bozze viste da The Electronic Intifada, in francese, sono ben scritte e trasmettono le idee di Schulman in modo chiaro e conciso.

La versione finale menziona ancora Israele e Gaza, anche se nel complesso è probabilmente più moderata – forse un riflesso degli sforzi infruttuosi del giornalista per accontentare il giornale.

Cécile Daumas, redattrice della sezione Idee di Libération, non ha risposto alle richieste di The Electronic Intifada di un commento.

In assenza di una spiegazione dal giornale, Schulman si è trovata a trarre le proprie conclusioni.

“So che ci sono sforzi internazionali per equiparare falsamente le critiche a Israele e il sostegno ai diritti dei palestinesi con l’antisemitismo, e presumo che Libération sia caduta in quella palude”, ha detto a The Electronic Intifada.

“Ogni giorno sentiamo parlare di persone palestinesi o che stanno con la Palestina che vengono messe a tacere, e questa repressione è in aumento”.

Ali Abunimah è co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], ora uscito per i tipi di Haymarket Books.

Ha scritto anche One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Una Nazione: una proposta audace per porre fine all’impasse israelo-palestinese].

Le opinioni espresse sono solo dell’autore.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)