La vendetta contro i palestinesi è giustificabile, afferma un giudice israeliano nell’assolvere i due agenti di sicurezza che hanno assalito un uomo innocente

Jonathan Ofir

21 luglio 2020 – Mondoweiss

Ieri un incredibile verdetto è stato pronunciato dal tribunale distrettuale di Beersheba in Israele.

Due agenti di sicurezza israeliani sono stati assolti in una causa relativa al linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo, nonostante fossero stati ripresi mentre lo picchiavano e lo colpivano ripetutamente alla testa con una panca. Il giudice ha addotto il “ragionevole dubbio”.

Il linciaggio dell’ottobre 2015 da parte di una folla assetata di sangue è stato parte di una serie di episodi di “errore di identificazione” in Israele. In effetti in precedenza si era verificato un attacco terroristico alla stazione centrale degli autobus di Beersheba; un uomo non identificato di un villaggio beduino del Negev aveva aperto il fuoco, uccidendo un soldato e ferendo altre 11 persone.

Zarhum passava di lì ed è stato scambiato da un agente di sicurezza per l’assalitore perché aveva la pelle scura. Un portavoce della polizia ha dichiarato dopo l’accaduto: “Non è chiaro se [Zarhum] sia coinvolto nell’episodio o se gli abbiano sparato a causa del suo aspetto esteriore”.

Gli hanno sparato 8 colpi. Sebbene Zarhum fosse stato reso inoffensivo, la folla ha continuato a picchiarlo duramente, gridando “Terrorista!”, “Uccidetelo!”, “Rompetegli la testa, figlio di puttana!”. I due ufficiali si trovavano tra la folla. Il Times of Israel osserva:

L’accusa afferma che nelle fasi successive all’assalto [il soldato Yaakov] Shimba ha sferrato con forza un calcio a Zarhum alla testa e alla parte superiore del corpo. Pare che [l’ufficiale dei servizi penitenziali Ronen] Cohen gli abbia scagliato addosso una panca, e dopo che un altro uomo l’ha rimossa, l’avrebbe riafferrata per scagliarla nuovamente sull’uomo inerte.”

L’accusa afferma che, sebbene Zarhum risultasse tra i feriti più gravi nei tafferugl, sia stato condotto in ospedale solo dopo che tutti gli altri feriti erano stati evacuati (secondo Haaretz).

Gli autori del linciaggio hanno esultato per l’assassinio in diretta televisiva, quando ancora credevano che Zarhum fosse quello che aveva sparato.

È importante evidenziare che l’autopsia ha concluso che Zarhum è morto a causa delle ferite da arma da fuoco, non delle percosse, ma che le percosse erano gravi. L’accusa ha affermato che “gli imputati hanno commesso gravi atti di violenza nei confronti del defunto cittadino Haftom Zarhum, a cui avevano già sparato, che era ferito e perdeva molto sangue, per motivi di vendetta e al fine di scaricare la propria rabbia e non, come gli imputati hanno dichiarato, per auto-difesa”.

In origine in questo processo erano sotto accusa quattro persone, tra cui due civili. I civili nel 2018 hanno sottoscritto un patteggiamento che ha declassato l’accusa da “procurate lesioni con grave dolo” (che comporta un potenziale carcere di 20 anni) ad “abuso su incapace”. Uno di loro è stato condannato a quattro mesi di prigione e l’altro ha ricevuto 100 giorni di servizio comunitario e otto mesi di libertà vigilata e gli è stato ordinato di pagare un risarcimento di 2000 shekel [circa 470 euro] alla famiglia di Zarhum.

Ma gli agenti di sicurezza non hanno richiesto un patteggiamento, si sono dichiarati non colpevoli e hanno ottenuto l’assoluzione dal giudice.

Il giudice Aharon Mishnayot ha una lunga esperienza come consulente legale e giudice militare (dal 1990, giudice dal 1998), e ha trascorso l’ultima fase della sua carriera militare dal 2007 al 2013 come primo giudice dei tribunali militari nella Cisgiordania occupata.

Il giudice ha dichiarato che, dopo aver visto le prove era “certo che gli imputati fossero convinti che il defunto fosse uno dei tanti terroristi”, che gli attacchi (soprattutto da parte di lupi solitari) all’epoca avevano “creato tra la gente un’atmosfera di paura e panico” e che non poteva “ignorare il collegamento di quanto accaduto ai frequenti eventi terroristici succedutisi in quei giorni nello Stato prima del fatto in questione e le implicazioni che tutto ciò poteva avere sullo stato di sensibilità delle persone coinvolte”.

Ma gli imputati non stavano rispondendo a una minaccia alla sicurezza in quanto tale. Stavano agendo per vendetta. Il giudice suggerisce quindi che la mera vendetta nei confronti degli attacchi palestinesi sia una circostanza attenuante.

Di fronte all’affermazione dell’accusa secondo cui gli imputati erano in grado di distinguere tra “neutralizzare un terrorista, o tale in apparenza, e aggredire una persona innocente”, il giudice ha aggiunto di avere “paura che tale valutazione sia giusta nel contesto di una condizione utopica, in cui si possa facilmente distinguere tra bene e male e tra amico e nemico, ma sia in contrasto con la realtà effettiva e con il mondo reale e non rifletta correttamente le complesse circostanze della difficile situazione in cui sfortunatamente le persone nella stazione centrale, compresi gli imputati, si sono trovate la sera dell’assalto.

Quindi gli autori del linciaggio, e in particolare gli agenti di sicurezza, sarebbero semplicemente stati, secondo il giudice, essi stessi delle vittime, vittime di una “sfortunata circostanza”.

Ma che dire di Zarhum? Non è stato forse lui la vittima e in maniera più agghiacciante di questa “sfortunata congiuntura”? E gli autori del linciaggio non sono stati particolarmente determinanti perché questa congiuntura letale si verificasse? Dopotutto era solo un passante, ucciso per il colore della sua pelle.

E cosa accadrebbe se dei palestinesi, ad esempio, si comportassero come hanno fatto gli imputati?

Alma Bilbash [esponente dell’organizzazione Human Rights Defenders Fund, ndtr.] ha citato un caso paragonabile sulla sua pagina Facebook: nel 2005 un soldato israeliano, Eden Nathan Zada, ha aperto il fuoco su un autobus nel villaggio palestinese-israeliano di Shefa-Amr, uccidendo quattro [viaggiatori] e ferendone dodici. Dopo essere stato catturato e ammanettato, è stato picchiato a morte dalla folla. Quindi qui abbiamo a che fare con un vero e proprio attacco terroristico, con conseguente linciaggio del terrorista.

Mettiamo da parte la struttura asimmetrica del potere dei palestinesi in Israele nel confronto con lo Stato ebraico. Alla fine, sei palestinesi con cittadinanza israeliana sono stati condannati, quattro per tentato omicidio colposo, due per percosse aggravate. Tre di loro sono stati condannati a due anni di prigione, gli altri a 20, 18 e 11 mesi di prigione.

Orly Noy [redattrice di Local Call, sito israeliano di notizie politiche, e attivista dell’Ong B’Tselem, ndtr.] cita nel suo post di Facebook un altro parallelo, il caso del 2015 di Shlomo Haim Pinto, un ebreo israeliano che, in seguito ad una “chiamata spirituale” ha preso la decisione di pugnalare un palestinese in un supermercato, ma ha scambiato Uri Razkan, ebreo mizrahi [cioè originario di un Paese arabo o musulmano, ndtr,], per un palestinese, lo ha pugnalato e gli ha causato ferite leggere. Pinto è stato condannato a 11 mesi di carcere.

Noy chiarisce che Pinto è andato in prigione solo perché la sua vittima era ebrea. Se Razkan non fosse stato ebreo, è possibile presumere che il giudice Mishnayot del caso Zarhum avrebbe assolto Pinto a causa di “ragionevoli dubbi”. Lei riassume così la “piramide della razza dominante”:

Se sei un uomo dalla pelle scura, ti trovi, per definizione, in un gruppo a rischio. Il colore della tua pelle ti segnala come bersaglio. Se sei ebreo e il tuo assassino è in uniforme, otterrai una copertura mediatica, ma dimenticati la giustizia o una condanna. Se non sei ebreo e il tuo assassino indossa l’uniforme, ringrazia se non verrai dichiarato terrorista post mortem. Se sei ebreo e il tuo aggressore non è un ebreo in uniforme, c’è la possibilità che paghi per le sue azioni. Se non sei ebreo e il tuo assalitore è un ebreo non in uniforme, la tua famiglia otterrà 2000 shekel [505 euro, ndtr.] per il tuo funerale. Se sei palestinese, indipendentemente dal fatto che il tuo assassino indossi l’uniforme o meno, stai sicuro che verrai dichiarato terrorista dopo la tua morte”.

Nel commentare il verdetto di ieri, l’avvocato di Ronen Cohen, Zion Amir, ha affermato che Cohen è un eroe:

Non c’è dubbio che questo è un grande giorno per un ufficiale che ha agito eroicamente durante l’accaduto, e invece di un premio ha ottenuto un atto d’accusa. Sono contento che il tribunale lo abbia assolto dopo una battaglia legale di quasi cinque anni “.

Cohen non sarebbe l’unico eroe nell’uccisione di Hafton Zarhum. Il soldato e compagno imputato Yaakov Shimba, secondo il generale israeliano (riservista) Gershon Hacohen, avrebbe meritato per il suo comportamento una medaglia d’onore. Hacohen ha testimoniato nel processo due anni fa e pur ammettendo di non aver nemmeno letto le accuse ha affermato che processare il soldato fosse “immorale” e che il soldato fosse “degno di rispetto” poiché “non ha sparato un proiettile”. (nemmeno l’assassino di George Floyd, Derek Chauvin, osserva Edith Breslauer su Facebook.)

Un altro generale che ha testimoniato nel 2018, Dan Biton, ha affermato che il soldato avrebbe agito “con calma” anche quando ha maledetto Zarhum.

“Proveniva dalla Golani (brigata di fanteria), quindi non ho bisogno di aggiungere altro. Se fosse appartenuto all’Armeria non sarebbe stato così. È la calma (nel maledire) che è tipica di quelli della Golani. Chi proviene dalla Golani maledice istintivamente. Alla fine, dopo aver verificato lo svolgersi dettagliato dei fatti, ha agito con calma”.

Immaginate come sarebbe andata se Shimba avesse avuto una brutta giornata. Per il generale Biton è stata una buona giornata, dopo tutto.

Non c’è alcun dubbio che Haftom Zarhum sia stato linciato. Non vi è certamente alcun dubbio che i due imputati abbiano svolto un ruolo decisivo nel suo linciaggio. Ma poiché sospettavano che Zarhum fosse un terrorista, sebbene non lo avessero visto ammazzare neanche una mosca né rappresentare alcun tipo di pericolo per loro, in realtà era innocuo, la loro sanguinaria vendetta era “ragionevole”. Ecco cos’è il “ragionevole dubbio”, nella neolingua israeliana.

Un particolare ringraziamento a Ofer Neiman [impegnato attivista israeliano a favore dei diritti civili dei palestinesi, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Povertà estrema’: durante la pandemia i beduini in Israele lottano per sopravvivere

Suha Arraf 

21 luglio 2020 – +972

Dopo anni di incuria governativa, la crisi del coronavirus ha peggiorato la situazione dei beduini del Naqab, facendo precipitare nella più profonda miseria una comunità una volta autosufficiente.

Ci sono stati giorni in cui non avevo niente da mangiare per i miei sei bambini,” dice A., che abita a Rahat, cittadina beduina nel sud di Israele. “Preparavo per loro tè e pane dicendo che era tutto quello che avevamo. Sono dei bravi bambini che si accontentano di poco.”

La crisi del COVID-19 ha colpito tutti in Israele e Palestina, ma i beduini del deserto del Naqab (Negev) cittadini di Israele, molti dei quali ben prima della pandemia vivevano in povertà, afflitti da un elevato livello di disoccupazione sono probabilmente nella situazione peggiore.

Kheir Al-Bazz, un assistente sociale e presidente di AJEEC-NISPED, un’ONG di Be’er Sheva impegnata in cambiamenti sociali e nella promozione della collaborazione tra arabi ed ebrei, dice che la disoccupazione nel Naqab è fra le più elevate in Israele. “Anche prima del coronavirus era del 30% tra gli uomini e dell’80% tra le donne. Non abbiamo ancora delle statistiche accurate, ma secondo le mie stime questi numeri sono raddoppiati.”

Stando alle cifre fornite dall’Istituto nazionale per la previdenza sociale israeliano, dal 2018 una famiglia su due nel Negev vive sotto la soglia di povertà. La situazione non è aggiornata e probabilmente vedremo i risultati fra pochi mesi. La gente ha usato i pochi soldi rimasti e oggi sta raschiando il fondo del barile. 

Suliman Al-Qarini che per 20 anni ha fatto l’assistente sociale e oggi è il vicepresidente dell’ufficio del welfare nel Negev dice che “prima della crisi due terzi delle famiglie arabe nel Negev viveva sotto la soglia di povertà. Oggi è probabile che siano l’85%.”

Di anno in anno mi contattano sempre più persone,” continua Al-Qarini. “Noi ci consultiamo con loro su come garantire i loro diritti presso l’Istituto nazionale per la previdenza sociale e il Centro per l’impiego israeliano e per far sì che completino gli studi superiori e seguano dei corsi. Nella sola città di Rahat, su 70.000 abitanti abbiamo 5.500 casi di famiglie seguite dai servizi sociali.”

In questi tempi di coronavirus abbiamo aperto un numero verde,” dice Al-Qarini. “Nella prima settimana abbiamo ricevuto centinaia di chiamate, famiglie di cui non conoscevamo l’esistenza, autisti di autobus, operai di fabbriche che hanno chiuso… Tutti implorano aiuto.”

Capisco benissimo le loro necessità. Sono cresciuto come loro. Nel Naqab, con 5.000 shekel [circa 1.200 € ] al mese vivono in 10. La gente non può comprarsi i vestiti. Non hanno auto, vacanze, pasti caldi o Internet. So di molte famiglie che non possono permettersi di mangiare carne, solo nelle festività qualcuno regala loro un pezzettino di carne.

Al-Qarini è cresciuto, con 15 fratelli, in una famiglia povera. Suo padre era un manovale a malapena in grado di mantenere la famiglia. Al-Qarini e i fratelli sono convinti che il loro passaporto per uscire dalla povertà sia stato l’istruzione superiore: 11 si sono laureati e due sono diventati medici.

Siamo andati a trovare una famiglia che vive in un appartamento senza la porta d’ingresso né mobilio. In un altro caso non avevano neppure i soldi per portare i figli dal barbiere. Ci sono centinaia di famiglie che vivono stabilmente così. Immaginatevi cosa sta succedendo durante il coronavirus.”

Tragica’ situatione nei villaggi non riconosciuti

Al-Bazz di AJEEC-NISPED dice che, senza donazioni, molti soffriranno la fame. “C’erano molte donazioni e pacchi di cibo che la gente riceveva tramite il Movimento Islamico [organizzazione politica e assistenziale dei palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] e altre organizzazioni. Dato che siamo un ente no-profit, abbiamo formato un comitato di emergenza con cui molte organizzazioni possono collaborare per distribuire donazioni e aiuti.

Abbiamo persino ricevuto dei fondi dal Comando del fronte interno delle Forze di difesa israeliane,” continua al-Bazz. “L’ufficio del welfare ha distribuito alle famiglie bisognose dei buoni spesa e a chi ha perso temporaneamente il lavoro per la pandemia sono stati dati gli assegni sociali.

Ci appoggiamo e ci sosteniamo l’un l’altro, ma questa non è la soluzione,” aggiunge. “Negli ultimi sei mesi i nostri figli non hanno studiato perché nella maggior parte delle case non ci sono internet, elettricità o computer. Ne pagheremo le conseguenze per molti anni.”

Al-Bazz fa inoltre notare che il governo, nel bel mezzo di una crisi economica, ha sospeso i fondi dei progetti destinati allo sviluppo del Naqab. “Adesso lo Stato ha la scusa per interrompere gli investimenti per cui abbiamo lottato per anni,” dice.

Le decisioni del governo su tali progetti dovevano essere messe in atto entro la fine del 2021 e includevano investimenti nei comuni e nei villaggi riconosciuti, continua al-Bazz. Ora, comunque, c’è il pericolo che nel Naqab la maggior parte di queste iniziative non sia avviata.

La condizione dei villaggi non riconosciuti del Naqab, dove sta quasi la metà della popolazione beduina, è molto peggiore. Oltre a vedersi negare servizi essenziali come acqua, elettricità e strade decenti, questi villaggi vivono sotto minaccia costante di essere demoliti e sgomberati dallo Stato.

Alcuni abitanti dei villaggi non riconosciuti hanno perso il lavoro e non hanno alcun reddito, dice al-Bazz e, fino a quando i villaggi non sono riconosciuti, il loro futuro resterà preoccupante. Negare dei servizi pubblici come il trasporto significa anche che gli abitanti non hanno modo di recarsi al lavoro se non hanno un’auto o altri mezzi di locomozione.

La situazione dei villaggi non riconosciuti è tragica,” dice al-Qarini. “Le persone più colpite sono minori e donne, quelle che non ricevono aiuti dallo Stato, come pensioni di anzianità e invalidità, indennità di disoccupazione o contributi di previdenza sociale.”

Povertà estrema’

A., che ha sei bambini e un marito disoccupato, una volta lavorava come collaboratrice in un asilo si guadagnava un piccolo salario. Ora dice che tutta la famiglia vive in “povertà assoluta.”

Mi arrangio con farina, olio e pomodori,” dice. “Sforno 35 pita [tipico pane arabo, ndtr.] ogni due giorni e preparo lo shakshuka, un piatto semplice di uova e pomodori. Mangiamo raramente carne, solo nelle feste o poche volte l’anno. I miei figli non sanno cosa sia la frutta.”

La pandemia ha peggiorato la situazione, dice A., e l’ha costretta a chiedere soldi in prestito per comprare da mangiare per i bambini che adesso sono a casa tutto il giorno. Dall’ufficio del welfare riceve piccoli pacchi di cibo e buoni acquisto. “Se la situazione continua così sarà il suicidio. Non ho idea di cosa farò.”

Muhammad abita ad Abu Tlul e fino allo scoppio della pandemia lavorava nei trasporti. Sua moglie non lavora, ma i loro otto figli sopravvivevano con il suo salario. Tuttavia non guadagnava abbastanza da poter risparmiare e non può chiedere l’indennità di disoccupazione perché non aveva un lavoro regolare.

Muhammad e la sua famiglia ricevono ogni mese pacchi di cibo dal Movimento Islamico, ma dice che non bastano per tutti. “Mi vergogno a chiedere,” continua Muhammad. “Non sono un mendicante. Non mi sono registrato con il comitato per l’emergenza, ma qualcuno ha detto loro della nostra situazione e ci hanno mandato pacchi di viveri. Mi sarei sotterrato dalla vergogna, ma avevo bisogno di aiuto.

Non ho idea di cosa succederà se la situazione continua,” aggiunge. “Pensavo di vendere la mia Ford, ma è parecchio vecchia e non prenderei molto. E come potrò lavorare dopo il coronavirus se non ho la macchina? Ho paura e non riesco a dormire.”

Dall’autosufficienza alla dipendenza

La comunità araba del Naqab è una delle più povere del Paese,” dice al-Bazz. Dall’essere storicamente un gruppo autosufficiente che viveva del cibo che produceva, in vent’anni dall’istituzione dello Stato di Israele, i beduini palestinesi nel Naqab “hanno subito un drastico cambiamento — da una società produttiva a una bisognosa e persino dipendente da altri,” spiega. 

Il cambiamento è dovuto alle politiche israeliane del territorio, che considerano proprietà statali le terre beduine nel Naqab “che devono essere liberate dagli arabi,” dice al-Bazz. “Sono stati costruiti villaggi e città per concentrare la gente in zone residenziali.” Con il risultato, aggiunge, che un’intera comunità ha subito trasformazioni economiche e lavorative per cui non era preparata.

I palestinesi del Naqab hanno poi perso tutte le loro risorse senza che fossero dati loro degli strumenti per uno stile di vita completamente diverso. “La gente è diventata dipendente dall’assistenza sociale e dai sussidi e c’è molta disoccupazione. E il cambiamento dello stile di vita ha fatto salire le spese per la casa, improvvisamente ci sono tasse sulle abitazioni, bollette di acqua e luce. Bisogna comprare cibo, abiti, telefonini, spendere nei trasporti, ecc.”

Al-Bazz sottolinea che questi cambiamenti sono stati imposti alla popolazione, e quello che normalmente si sarebbe sviluppato nel corso di secoli è stato forzatamente compresso in 20 anni.   

Noi siamo arrivati a Rahat da al-Razuq nel 1978,” dice Suliman al-Qarini. “Non c’era nessun tipo di formazione. Chi aveva allevato animali nel deserto non poteva farlo nei propri appartamenti e non aveva altre professioni. Non c’erano neppure fondi come quelli che ricevono le moshav [cooperative di agricoltori ebrei israeliani] nel Naqab. Hanno portato gente a Rahat senza alcuna infrastruttura, neppure i trasporti pubblici che sono arrivati solo nel 2005.” 

Anche al-Bazz sottolinea questo punto. “Il tributo psicologico ed economico pagato per questo cambiamento è stato profondo. Viviamo nel ciclo della povertà. Anche se guadagno 10.000 shekel [circa 2.400 €] al mese restò povero, perché vivo in una società povera.”

C’è ancora molto da fare ’

Il Naqab sta ufficialmente su uno dei livelli più bassi della scala socio-economica del Paese, dice Hanan Alkrenawi. Con una qualifica da assistente sociale, cinquantenne di Rahat, è ora la manager delle pubbliche relazioni di Rayan, il centro per l’impiego con sede nel Naqab, istituito nel 2008 per aiutare gli abitanti a riqualificarsi e trovare lavoro. Il centro offre corsi professionali e di ebraico, e valuta le necessità della formazione in base a quelle del mercato del lavoro. 

Dieci anni fa gli israeliani non erano entusiasti all’idea di assumere arabi del Naqab,” spiega. “Le sole alternative di impiego erano le scuole e gli uffici comunali. Non c’erano abbastanza insegnanti, né abbastanza attività commerciali e industrie, così molti si sono rivolti all’assistenza sociale e ricevevano un introito garantito. Le donne dipendevano finanziariamente dagli uomini.

C’è stata una specie di trasformazione nel 2010,” continua Alkrenawi. “Le donne hanno capito di essere oppresse dal punto di vista economico e a Rahat hanno cominciato a studiare ed entrare nel mondo del lavoro. Hanno cominciato come contoterziste e hanno assunto altre donne per lavorare come contadine. Lavoravano in nero e guadagnavano solo 100-120 shekel [da 25 a 30 €], così Rayan le ha aiutate a trovare posti di lavoro e il rispetto dei propri diritti.”

Alkrenawi aggiunge che negli ultimi anni Rayan si è concentrata specialmente nell’aiutare donne: “Se il Naqab sta in fondo alla scala, allora le donne stanno al fondo del fondo.”

Anche l’istruzione superiore è un fattore chiave nel migliorare l’accesso delle donne al lavoro, dice al-Bazz. “Solo il 10% dei nostri giovani continua gli studi e due terzi sono donne. Entrano nel mondo accademico perché per loro è un rifugio, permette di andarsene di casa e sfuggire alla loro attuale situazione.”

Al-Qarini aggiunge che le donne che vogliono entrare nella forza lavoro incontrano altri problemi. Sebbene i villaggi riconosciuti abbiano accesso al servizio di trasporto pubblico, se si perde quell’autobus non ci sono altri mezzi per andare al lavoro. I villaggi non riconosciuti invece non hanno trasporti pubblici, solo Rahat ha un servizio regolare di autobus.

Il Naqab è sempre stato trascurato e il coronavirus ha peggiorato la situazione,” dice Alkrenawi. “La disoccupazione ha raggiunto i laureati. Le donne che riescono a terminare i propri studi con successo devono poi camminare ore per andare al lavoro. Ci sono dottori e avvocati impiegati in agricoltura o nelle costruzioni. Per i giovani è deprimente. Nel corso degli anni abbiamo avuto molti successi, ma c’è ancora tanto lavoro da fare e tanta strada da percorrere.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Proteste contro Netanyahu: si sta preparando una rivoluzione?

Orly Noy

20 luglio 2020 – Middle East Eye

Le recenti manifestazioni in Israele mostrano il potenziale sostanziale della sinistra ebraica per imporre un cambiamento radicale

Le vaste proteste di piazza della scorsa settimana di fronte al complesso residenziale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme sono iniziate quasi come una festa: percussioni all’aperto, gente che ballava nelle strade attorno a piazza Paris – una specie di Hyde Park, dove oratori si sono spontaneamente alternati su un palco improvvisato per fare i loro discorsi.

Parecchie ore dopo, prima della conclusione definitiva, verso l’una, l’assembramento è degenerato in duri scontri tra i manifestanti e la polizia, con il blocco per un lungo periodo di tempo sia di una importante arteria che della metropolitana leggera di Gerusalemme. La polizia a cavallo ha caricato la folla, mentre altri usavano cannoni ad acqua per cercare di disperdere i dimostranti, decine dei quali sono stati arrestati.

La strenua resistenza dei manifestanti e la loro volontà di scontrarsi con la polizia hanno sorpreso molti. Alcuni commentatori hanno suggerito che in realtà ci siano state due diverse dimostrazioni: una protesta “perbene” contro la corruzione, seguita da disordini da parte di radicali, anarchici di sinistra che si sarebbero “impadroniti” della protesta originaria. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Sì, la prima parte della protesta è stata più calma e più “rispettabile”, ma solo un cieco e sordo potrebbe non aver individuato l’intensità della rabbia presente fin dall’inizio in quella piazza di fronte alla residenza di Netanyahu.

In quanto veterana manifestante di sinistra a Gerusalemme, non riesco a ricordare di aver mai visto in città un profilo tanto diverso di dimostranti: giovani e anziani, laici e religiosi, persino ultra-ortodossi. In un periodo in cui il timore del coronavirus fa sì che la gente ci pensi due volte prima di partecipare a riunioni di massa, questa ha attirato persone anziane con deambulatore e altri di gruppi molto radicali, tutti riuniti insieme.

I giovani che in seguito si sono scontrati con la polizia non erano separati dai manifestanti anziani che si sono riuniti lì all’inizio, ma erano piuttosto il loro servizio d’ordine.

Non c’erano palestinesi alla manifestazione, tranne un giovane che è salito sul palco ed ha parlato di apartheid e occupazione ed è stato molto applaudito dalla folla. Il giorno dopo, quando ho parlato con un’amica palestinese a questo proposito, mi ha detto: “Non è la nostra protesta.”

E naturalmente ha ragione: noi, l’opinione pubblica ebraica, siamo responsabili per aver introiettato le dimensioni dell’ingiustizia dell’attuale sistema; spetta a noi lavorare per sostituirlo con un sistema che offra uguale giustizia per tutti. La principale domanda oggi è se l’attuale movimento di protesta cerchi solo dei cambiamenti di facciata o se abbia un potenziale più radicale. Io penso di sì.

Corruzione di Stato

L’ultima manifestazione a Gerusalemme è avvenuta nove anni dopo le proteste sociali di massa del 2011. Quell’estate orde di giovani piazzarono tende lungo corso Rothschild nel centro di Tel Aviv per protestare contro la situazione, soprattutto l’alto costo della vita e i prezzi inaccessibili delle abitazioni. La delusione seguita a quell’ondata di proteste può facilmente suscitare dubbi sulle prospettive di quella attuale, ma ci sono fondamentali differenze.

Cosa più importante, a differenza delle proteste del 2011, che vennero a ragione viste come manifestazioni di giovani privilegiati di Tel Aviv che faticavano ad arrivare a fine mese nella città con gli affitti più elevati del Paese, dove era impossibile comprare anche uno yoghurt al cioccolato a un prezzo decente, l’attuale rivolta è significativamente più vasta in termini sia della sua base che del suo messaggio.

Non riguarda il prezzo del nostro yoghurt gelato preferito. Riguarda la corruzione nelle, e delle, regole generali. Non riguarda più neppure solo Netanyahu. Sì, la richiesta delle sue dimissioni è ancora centrale, ma ora Benny Gantz, il generale che era stato visto come l’alternativa più onesta a Netanayhu, si è unito al governo arrogante e corrotto di quest’ultimo.

Evidentemente ora più israeliani comprendono che il problema non è Netanyahu in sé, ma qualcosa di più profondo e marcio. Nell’emergere di questa consapevolezza c’è, credo, un grande potenziale di radicalizzazione.

Un’altra significativa differenza è che le proteste del 2011, come molte altre in Israele, evitarono accuratamente ogni etichettatura politica, cioè come qualcosa di sinistra, mentre i dirigenti dell’attuale movimento non sono caduti nella trappola della delegittimazione, riproposta dalla destra.

Niente scuse

Dopo i duri scontri con la polizia e i numerosi arresti di martedì, i mezzi di comunicazione e i politici di destra hanno cercato di definire la protesta come disordini di sinistra, anarchici. Come prova, notano tra le altre cose che alcuni degli arrestati quella notte erano rappresentati dalla nota avvocatessa per i diritti umani Leah Tsemel, che spesso difende i diritti dei palestinesi in Israele.

Gli organizzatori della protesta, evitando saggiamente di lasciarsi intrappolare in questo modo, non si sono scusati. Tra gli oratori invitati all’ultima manifestazione c’era Ofer Cassif, un ben noto membro ebraico della Lista Unita, a maggioranza araba, il quale ha parlato sul palco dei rapporti tra la corruzione politica e la corruzione morale dell’occupazione. Non solo il pubblico di Cassif non è rimasto scioccato, ma lo ha applaudito entusiasticamente.

Martedì a piazza Paris ho visto cartelli che chiedevano giustizia per Iyad al-Hallaq [palestinese affetto da autismo, ndtr.], ucciso da poco nella Gerusalemme est occupata, e la gente che li esponeva sembrava una componente assolutamente naturale di quest’ultima manifestazione.

C’è qualcos’altro che vale la pena di notare: con un’iniziativa astuta, invece di chiedere scusa, gli organizzatori dell’ultima dimostrazione sono riusciti a sfruttare la violenza poliziesca contro di loro per portare più persone alla protesta. I gruppi di giovani arrestati includevano più di qualche ben noto attivista di sinistra.

È da notare in modo particolare che sono stati fermati dalla polizia non durante una manifestazione contro l’occupazione a Bilin [villaggio della Cisgiordania occupata noto per le proteste settimanali, ndtr.], ma durante una protesta contro la corruzione nel cuore di Gerusalemme ovest. Il movimento di protesta contro la corruzione ha beneficiato della notevole esperienza nello scontro con le autorità. Ha portato il suo programma di sinistra su un palco davanti a una folla diversa in via Balfour, dove le loro prospettive di essere ascoltati sarebbero state altrimenti molto ridotte. Anche questo ha un notevole potenziale.

Massimo vantaggio

È vero che, rispetto alle manifestazioni dei palestinesi da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori occupati, ndtr.], la risposta della polizia contro i dimostranti di via Balfour è stata molto moderata. Il punto è che noi eravamo manifestanti ebrei in un Paese fondato sulla supremazia ebraica.

Alcuni poliziotti a cavallo si sono lanciati in mezzo alla folla, una tattica minacciosa che indubbiamente ha provocato timore, ma non ci hanno sparato né proiettili veri né ricoperti di gomma. Ci hanno sparato contro con cannoni ad acqua, ma era solo acqua, non il disgustoso liquido cosiddetto “puzzola” che usano contro i palestinesi. E la maggior parte degli arrestati è stata rilasciata dopo poche ore.

Senza dubbio una manifestazione palestinese sarebbe finita in modo ben diverso. Ma vedere questa dimostrazione solo e nient’altro che come un ennesimo esempio dei privilegi degli ebrei vorrebbe dire non vedere il potenziale di radicalità dell’attuale momento. Esso è sicuramente presente. La domanda in gioco riguardo a questa protesta è molto semplice: se il nostro obiettivo politico è cacciare Netanyahu per le accuse di corruzione oppure no. La risposta è sì. Non solo perché una società che si rivolta contro la corruzione è una società più sana, ma anche perché praticamente ogni cambiamento per cui si batte la sinistra ebraica inizia dalla rimozione di Netanyahu dal potere.

Il modo in cui Netanyahu ha rafforzato il suo dominio come primo ministro, l’identificazione che ha creato tra se stesso e lo Stato e i suoi continui tentativi di incitare diversi settori della popolazione uno contro l’altro sono cose molto pericolose, e rendono la sua cacciata un compito necessario per ottenere un qualunque cambiamento. Ora è arrivato un momento interessante, in cui il regime stesso sta trasformando in dissidenti politici quelli che sono considerati il “sale della terra”, gli ebrei privilegiati e sionisti convinti.

La questione più impellente ora è se noi, la sinistra ebraica, saremo abbastanza saggi da approfittare al massimo di questo potenziale, spingendo in avanti verso il cambiamento più sostanziale che stiamo cercando di determinare.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Eyad Hallaq: il lutto impossibile

Gideon Levy

17 luglio 2020 – Chronique de Palestine

La madre di Eyad Hallaq dorme nel letto di suo figlio morto. Suo padre rifiuta di mangiare. Hanno un messaggio per la polizia israeliana….

Un mese dopo l’assassinio di Eyad Hallaq, un giovane palestinese autistico, la sua famiglia è ancora paralizzata dal dolore e prega perché l’agente della polizia di frontiera che lo ha ucciso paghi per il suo crimine.

L’erba verde nel piccolo cortile fuori dalla casa è ingiallita e secca. Anche le piante in vaso sono appassite, dopo essere rimaste senza acqua per un mese. Prima, Eyad le innaffiava tutti i giorni in estate, ma ora non c’è più nessuno che se ne occupi. Rana, la madre in lutto, non smette di guardare sul suo telefonino un piccolo filmato di suo figlio, in piedi in giardino con in mano un tubo di irrigazione, un leggero sorriso sulle labbra.

Il suo sorriso è più accentuato in un altro filmato, in cui lo si vede preparare il fatteh – un piatto di hummus con carne e pinoli – per i suoi genitori. Aveva imparato a cucinarlo nel centro per persone disabili Elwyn El Quds, che frequentava nella città vecchia di Gerusalemme, poco prima di venire ucciso.

Guardate che figlio ho avuto”, dice Rana guardando la sua foto.

Suo marito Khairy è cambiato in modo impressionante da quando lo abbiamo incontrato nella tenda del lutto il giorno dopo l’assassinio del figlio. È molto dimagrito, emaciato e pallido. Fuma due pacchetti di sigarette al giorno; Rana quasi tre. Quasi non mangia, Rana non cucina. La loro vita si è brutalmente fermata.

Era il 30 maggio poco dopo le 6,30 del mattino, quando la loro vita è stata irrimediabilmente distrutta. Due agenti della polizia di frontiera (israeliana) – un ufficiale e una nuova recluta – hanno sparato sul loro figlio mentre lui si trascinava a terra sul pavimento di un locale per i rifiuti vicino alla via Dolorosa nella città vecchia, con l’assistente che se ne occupava che accanto a lui gridava invano: “É un disabile, è un disabile!”.

Per Rana e Khairy Hallaq il figlio autistico di 32 anni era la pupilla dei loro occhi. Hanno anche due figlie, Joanna e Diana, entrambe insegnanti. Ma Eyad, il figlio disabile, era tutto per loro.

C’è un solo figlio maschio, non ne abbiamo altri”, ci dice Rana in ebraico. “È la mia seconda anima. Eyad ed io siamo da tempo una sola anima, da molti anni.”

Dopo la sua morte lei dorme nel letto di Eyad ed esce raramente dalla sua stanzetta; a volte indossa anche i suoi vestiti. Quando le abbiamo fatto visita in questa settimana ci ha ricevuti dicendo: “Non posso fare niente – riesco solo a stendermi sul suo letto e guardare le sue foto, i suoi vestiti e la sua stanza e ricordare la sua vita.”

Poi, con le mani tremanti, ci mostra nuovamente delle fotografie di lui; questa volta lo si vede mentre tiene due piante tra le braccia. Le aveva piantate durante l’isolamento dovuto al coronavirus, quando è stato costretto a rimanere a casa, nel quartiere di Wadi Joz a Gerusalemme est.

Ora, dice Rana, “le piante sono morte”.

I genitori vivono dolorosamente una presenza che è rimasta intatta. Un’atmosfera di profondo dolore senza lacrime scende sul salone della famiglia, i cui muri adesso sono tappezzati di foto del figlio e del fratello deceduto. Sul divano c’è una foto di Eyad accanto ad una di George Floyd [afroamericano ucciso la stessa settimana dalla polizia di Minneapolis, ndtr.].

George Floyd è stato ucciso perché era nero ed Eyad perché palestinese”, dice il padre. “Ma guardate la differenza tra la reazione negli Stati Uniti e in Israele,” aggiunge sua moglie.

Effettivamente enormi ondate di proteste hanno attraversato l’America dopo l’assassinio di Floyd a Minneapolis, mentre in Israele vi è stata la solita indifferenza, benché segnata da qualche accento di rammarico per lo sparo mortale, perché la vittima era autistica. Qui non vi è stata alcuna protesta e non si è riscontrata nessuna opinione in qualche modo diffusa, secondo cui l’uccisione di Eyad è stata il risultato di una politica deliberata, e non una “disgrazia”.

Poiché Eyad era scrupoloso riguardo all’ordine e alla pulizia, la famiglia non osa spostare niente nella sua stanza. Sul letto rimane da un mese lo stesso copriletto, le bottiglie del dopobarba e altri prodotti di toilette sono sullo scaffale accanto, i suoi vestiti sono piegati con cura nell’armadio e anche il barattolo di caramelle Smiley che gli piacevano è pieno. Un caricabatterie per il cellulare posato a caso su un tavolo attira l’attenzione del padre che lo rimette subito a posto. “Se lui lo avesse visto qui si sarebbe molto arrabbiato,” dice Khairy.

E di nuovo, un silenzio opprimente.

Tutto quel che vogliamo adesso è stare tranquilli”, dicono i genitori. Passano la maggior parte delle loro giornate stesi a letto con lo sguardo fisso, non vedono quasi nessuno e accendono la televisione solo quando vengono a trovarli i nipoti. Diana arriva con i quattro figli ogni pomeriggio per cercare di tirarli su di morale, ma presto ripiombano nel loro dolore.

Il poco cibo che mangiano viene ordinato in un ristorante. Rana non riesce ad entrare in cucina, dove Eyad si esercitava a preparare i piatti che aveva imparato nei corsi di cucina a Elwyn. Tutte le sere cucinava il piatto che aveva imparato nella giornata.

Il personale del centro era impressionato dalle sue capacità e progettava di farlo assumere come aiuto cuoco in un hotel o un ristorante della città.

Khairy da parte sua non lavora da anni, da quando è stato ferito in un incidente sul lavoro in una fabbrica di marmo. Ora fa fatica a salire le scale che conducono alla tomba appena costruita di suo figlio al cimitero di Bab al-Zahara, dietro all’ufficio postale di via Saladin a Gerusalemme est.

Rana dice che se potesse si trasferirebbe al cimitero. È andata quattro o cinque volte sulla tomba di Eyad, dove è già stata eretta una lapide.

Tuttavia la coppia non riesce a decidersi a visitare il luogo, appena all’interno della Porta dei Leoni, dove lui è stato ucciso. Khairy, che era solito andare ogni settimana a pregare alla moschea Al-Aqsa, non ci va più, perché il percorso passa dal luogo dell’omicidio. Anche Rana ha molto timore a recarvisi.

Come si può guardare il posto dove hanno ammazzato vostro figlio? Ho paura che laggiù la polizia mi uccida,” dice. “Hanno persino ucciso Eyad, che era un ragazzo tranquillo…”

Qualche giorno fa gli amici del centro Elwyn sono venuti a deporre delle foglie di palma in sua memoria nel luogo del suo assassinio, ma la polizia li ha subito cacciati ed ha tolto le foglie di palma. Eyad non avrà evidentemente alcuna commemorazione, neanche improvvisata.

La polizia ha restituito ai genitori il telefono portatile del ragazzo, dopo averne cancellato tutto il contenuto. Khairy e Rana dicono che Eyad amava filmare il suo tragitto tra la scuola e la casa per mostrare loro le immagini quando tornava. Ha forse filmato anche il suo ultimo percorso verso la scuola?

Martedì Nir Hasson e Josh Breiner, del quotidiano Haaretz, hanno riferito che l’unità investigativa del Ministero della Giustizia non aveva filmati dell’incidente di una telecamera di sicurezza, anche se ci sono almeno sette telecamere nei paraggi – di cui due nel locale della spazzatura dove è avvenuto l’assassinio.

Intanto il principale sospettato è stato liberato ed è stato interrogato dalla polizia una sola volta.

Khairy: “Non ci sono telecamere, non ci sono immagini. Perché? Che cosa posso dire? Avete visto che la settimana scorsa sono state pubblicate tutte le immagini del posto di controllo di Abu Dis nell’arco di un’ora?”, chiede, riferendosi al [presunto] tentativo di investire un’agente di polizia di frontiera ad un blocco militare all’esterno di Gerusalemme.

Lunedì scorso erano trenta giorni dalla tragedia incorsa agli Hallaq. La loro casa in via Yakut al-Hamwai, che durante i quattro giorni del lutto era invasa dai visitatori, era vuota quando siamo arrivati insieme ad Amer ‘Aruri, un ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Amer ‘Aruri aveva consegnato la testimonianza dell’assistente di Elwyn, Warda Abu Hadid, che si trovava accanto a Eyad quando la polizia lo ha ucciso.

Rana e Khairy ci hanno detto di essere stati molto toccati dalle manifestazioni di solidarietà e di dolore di migliaia di persone in tutto il mondo, tra cui le condoglianze da parte di numerosi israeliani. Sono stati profondamente emozionati dalla reazione di altri genitori di bambini autistici.

Sottolineano che non hanno niente a che fare con l’espulsione dalla tenda del lutto del militante del Monte del Tempio ed ex membro del Likud, deputato Yehuda Glick, ma hanno detto loro che stava per farsi dei selfie, il che era scioccante.

Centinaia di israeliani sono venuti a condividere il loro dolore, dicono. La sera in cui Glick, che era venuto a presentare le condoglianze, è stato espulso da un gruppo di giovani palestinesi, sono arrivate decine di poliziotti a perquisire la loro casa. Era la seconda perquisizione, quattro giorni dopo la prima, il giorno stesso dell’omicidio.

A parte questo, gli Hallaq non hanno ricevuto la minima informazione da parte della polizia riguardo all’uccisione del loro figlio.

Altre immagini: Eyad a scuola è chinato su una grande pentola di zuppa, mentre pela delle carote – uno dei rari momenti in cui si può scorgere un raggio di felicità passare sul suo viso. “Riposa in pace, angelo mio”, hanno scritto dei ragazzi disabili della città araba israeliana di Taibeh, che hanno portato ai genitori una sua foto ingrandita. L’illustratrice israeliana Einat Magal Smoly ha inviato loro un quadro di Eyad con il suo nome in arabo ed ebraico, insieme ad una lettera di condoglianze.

Rana e Khairy dicono di non essere interessati ad un risarcimento economico, ciò che vogliono è che i poliziotti responsabili vengano giudicati. Parecchi avvocati, tra cui l’avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani Michael Sfard, si sono offerti di aiutarli.

Questi avvocati sono otto, ma noi sappiamo che non accadrà niente anche se ce ne fossero cinque o sei in più,” dice Khairy. “Non credo che il poliziotto andrà in prigione. Se avesse pensato che sarebbe andato in prigione, non avrebbe fatto una cosa del genere. Credetemi.”

Gli chiediamo che cosa vorrebbe che succedesse. Ride amaramente. “Israele è un Paese che rispetta le leggi, no? Israele è una democrazia, no? Aspettiamo di vedere. Io aspetto di vedere la legge dello Stato di Israele. Che sia esattamente la stessa che se fosse accaduto il contrario: se Eyad fosse stato un ebreo ucciso da un arabo, ci sarebbe già stato un processo. Noi non chiediamo indennizzi. Tutto ciò che vogliamo è che questo non accada a nessun altro.”

Rana dice che vuole inviare un messaggio alla polizia e all’esercito israeliani: “Prendetevi tempo prima di usare le vostre armi…” Mostra nuovamente dei video, con Eyad che si lava i denti, che fa ginnastica, che si confonde nel contare da 1 a 15.

Un video realizzato dal ‘Monitoraggio euro-mediterraneo dei diritti umani’ mostra l’ultima ora della sua vita. Eccolo che cammina sulla via Dolorosa di Gesù, mascherina anti coronavirus sul viso, guanti sulle mani [il fatto che portasse i guanti secondo gli agenti che l’hanno ucciso lo rendevano sospetto, ndtr.]. Qui si vedono i poliziotti che lo inseguono e là sono sopra di lui nel locale della spazzatura, per ucciderlo.

Non ci sono parole…” gli diciamo.

Ce ne sono tantissime”, ci risponde Rana.

Gideon Levy, nato nel 1955 a Tel Aviv, è un giornalista israeliano e membro della direzione di Haaretz. Vive nei territori palestinesi occupati.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La crisi dovuta al coronavirus accentua lo scontro tra Netanyahu e Gantz

Mazal Mualem

16 luglio 2020 – Al Monitor

La crisi dovuta al coronavirus e le gravi difficoltà economiche non hanno fatto che approfondire la distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione, il primo ministro che lo dovrebbe sostituire e attuale ministro della Difesa Benny Gantz.

Il capo di Blu e Bianco, Benny Gantz, che è il primo ministro di riserva e il ministro della Difesa, sperava che la serie di interviste che ha rilasciato dalla casa in cui è in quarantena a Rosh HaAyin alle tre principali stazioni televisive del Paese il 15 luglio avrebbe mitigato, almeno parzialmente, le sue carenze nel campo delle pubbliche relazioni.

Le interviste sono state registrate e si pensava che sarebbero state messe in onda in prima serata, con l’obiettivo di suscitare attenzione. Gantz è arrivato preparato, con una pagina di messaggi al pubblico e due importanti notizie: una riguardo alla possibilità che Israele, alla luce dell’incremento giornaliero della diffusione del virus del COVID-19, rinnovi una chiusura totale del Paese; la seconda in merito all’insistenza di Gantz per un bilancio biennale, a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, che vorrebbe un bilancio annuale. Quest’ultima differenza di opinione potrebbe persino portare, in uno scenario improbabile, alle elezioni.

Ma mentre Gantz si stava preparando a queste importanti interviste, Netanyahu e il ministro delle Finanze Israel Katz erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi a un altro turbinoso piano economico da presentare durante una conferenza stampa. Quel giorno Netanyahu intendeva occupare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio mentre Gantz si stava preparando a fare altrettanto.

Negli ultimi giorni Netanyahu ha dovuto occuparsi di una crescente ondata di proteste e manifestazioni; aveva bisogno di una “soluzione” immediata per calmare le masse. La notte precedente, il 14 luglio, davanti alla casa di Netanyahu su via Balfour a Gerusalemme si era svolta una turbolenta manifestazione, terminata con decine di arresti e una sensazione di perdita di controllo. Alla stregua della decisione del presidente USA Donald Trump di distribuire soldi alla popolazione all’inizio della crisi di coronavirus, Netanyahu ha deciso un’immediata elargizione di fondi a tutti i cittadini del Paese.

Gantz è stato aggiornato da Netanyahu e da Katz riguardo alla loro intenzione di distribuire 6 miliardi di shekel (circa 1 miliardo e mezzo di euro) solo poche ore prima della conferenza stampa del 15 luglio.

Benché Gantz si fregi del titolo di primo ministro in alternanza, Netanyahu e la sua gente non lo hanno consultato né hanno preso in considerazione l’opposizione di principio di Gantz a distribuire denaro senza fare differenze tra chi ha realmente bisogno di aiuto e chi invece no. L’approccio di Gantz è quello consigliato dai più alti livelli del ministero delle Finanze, guidato dal governatore della Banca di Israele.

Netanyahu ha semplicemente annunciato la sua decisione al primo ministro che lo dovrebbe sostituire. È vero, il primo ministro ha suggerito che lo stesso Gantz partecipasse alla conferenza stampa, ma persino Gantz ha capito che ciò gli avrebbe provocato più danni che benefici, e si è rifiutato di essere presente.

Il risultato finale è stato che le interviste a Gantz sono state oscurate dalla grande discussione provocata dalla conferenza stampa in diretta, con centinaia di migliaia di cittadini incollati agli schermi televisivi. Ancora una volta Netanyahu ha preso il controllo dell’agenda pubblica e, dopo una serie di lunghe settimane di “ibernazione da COVID-19”, è tornato in prima linea. Come prevedibile, la proposta di Netanyahu e Katz è stata attaccata da ogni parte e deve ancora essere approvata dal governo.

Ma ha ottenuto il suo scopo: nelle strade si parla meno delle manifestazioni e, se Gantz si dovesse opporre all’iniziativa, Netanyahu apparirà ancora come la figura che cerca di assistere e aiutare la popolazione.

L’avvenimento qui descritto è un’ulteriore manifestazione della grave crisi di fiducia tra Netanyahu e Gantz, due persone che hanno promesso ai cittadini di risolvere la crisi del coronavirus. Ma non hanno avuto successo nel creare un meccanismo per lavorare insieme in armonia e collaborazione per risolvere una delle maggiori crisi vissute dallo Stato di Israele da sempre.

Quasi ogni cosa diventa argomento di discussioni e tensioni tra le due parti: il bilancio, la “guerra” di Netanyahu contro il sistema giudiziario, opposte visioni del mondo. A ciò si aggiungono “ego ipertrofici” e l’enorme numero di ministeri di ambo le parti che stanno lottando per ottenere “rilevanza” – a spese gli uni degli altri.

Gantz è certo che Netanyahu stia preparando il terreno per elezioni anticipate e non abbia intenzione di lasciare libero il posto di primo ministro tra un anno e mezzo, come stabilito nell’accordo di unità tra i partiti Likud e Blu e Bianco. Nel caso specifico non si tratta di paranoia, ma di una possibilità concreta. Netanyahu, da parte sua, detesta in ogni momento questo governo. Si è abituato a comandare con il pugno di ferro, praticamente da solo, senza una vera opposizione all’interno del governo. Ma ora, mentre gestisce la crisi e si scontra con degli ostacoli, deve prendere in considerazione le opinioni dei ministri di Blu e Bianco. Il 14 luglio ha cercato di richiudere le piscine e le palestre del Paese, ed è stato bloccato dai ministri; la questione è arrivata alla commissione COVID-19 della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], che ha annullato la sua decisione. Le piscine e le palestre non sono state chiuse, provocando la sensazione tra la popolazione che il modo in cui il Paese è governato non funzioni.

Netanyahu si sente come Gulliver nella terra di Lilliput. Nelle riunioni del governo ogni sorta di giovane ministro di Blu e Bianco gli fa la predica. Ne soffre e, secondo me, rimpiange di non aver convocato le elezioni quando era avanti nei sondaggi,” afferma ad Al-Monitor un ministro del Likud che vuole rimanere anonimo.

La sera del 14 luglio, sullo sfondo della pessima pubblicità riguardante la vastissima diffusione del coronavirus, un importante membro del Likud ha duramente criticato Gantz, e le sue parole sono state citate dai media. Il membro del Likud ha detto che il primo ministro è furioso con Gantz e il suo partito perché bloccano le iniziative necessarie a impedire la diffusione dell’infezione, e che Blu e Bianco lo fa per ragioni politiche. “Gantz e Blu e Bianco devono smetterla immediatamente con i giochetti politici riguardo al COVID-19; questo comportamento mette in pericolo le vite dei cittadini israeliani. Da quando il governo di unità ha stabilito che ogni decisione debba essere presa in accordo tra il Likud e Blu e Bianco, loro (Blu e Bianco) silurano ogni risoluzione non in linea con le loro valutazioni populiste,” ha affermato il referente, che ricopre un ruolo importante, gettando così benzina sul fuoco.

Gantz non ha nessun dubbio sul fatto che le parole del politico del Likud siano arrivate direttamente dall’ufficio di Netanyahu, ed ha reagito. Poco dopo un politico di Blu e Bianco ha accusato Netanyahu di cercare di dare la colpa a Gantz della sua fallimentare gestione della crisi del COVID-19, e che il primo ministro non consente a Gantz, in quanto ministro della Difesa, di condurre lui la lotta contro il COVID-19. “Questo non è tempo per la politica e scontri (interni), solo per battaglie per risanare l’economia, il sistema sanitario e la società… Ci sono quelli che affrontano questi problemi, e quelli che sfuggono alle proprie responsabilità a questo riguardo,” ha detto alla stampa, citato come fonte anonima, il politico di Blu e Bianco.

Fino a stamattina sono stati fatti tentativi da entrambe le parti di spegnere le fiamme del conflitto interno. Sono stati intervistati ministri di Blu e Bianco, compreso il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, che si è limitato a critiche moderate contro la munificenza di Netanyahu nei confronti della Nazione. È quello che succede quando due parti opposte sono imprigionate in un governo da incubo sull’orlo di una gravissima crisi e non hanno nessuna via di fuga.

Ma i segnali indicano un altro imminente scontro politico, che si prevede scoppierà molto presto. La prossima settimana Netanyahu deve far approvare dal governo il suo programma di distribuzione del denaro.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Buone notizie da Washington: l’AIPAC e Israele stanno perdendo consensi tra i democratici progressisti

Ramzy Baroud

14 luglio 2020 – Middle East Monitor

Mentre l’amministrazione USA del presidente Donald Trump rimane irremovibile nel suo appoggio ad Israele, la dirigenza democratica di sempre continua ad utilizzare un linguaggio subdolo, il tipo di “ambiguità strategica” che offre pieno sostegno ad Israele e nient’altro che vuote promesse per la Palestina e la pace.

Le politiche di Trump su Israele e Palestina sono state dannose, culminate con il vergognoso e iniquo “accordo del secolo”, e la sua amministrazione rimane largamente impegnata a favore della tendenza verso una crescente vicinanza tra il gruppo dirigente repubblicano e il campo di destra israeliano del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Le opinioni della leadership democratica, rappresentata dal probabile sfidante democratico nelle prossime elezioni di novembre, Joe Biden, sono ancora quelle di un’epoca di fanatismo, quando l’amore incondizionato dei democratici per Israele era pari a quello dei repubblicani. Si può affermare con sicurezza che quei giorni stanno volgendo al termine, in quanto successivi sondaggi di opinione stanno ribadendo un cambiamento di panorama politico a Washington.

Una volta l’élite politica americana, le cui politiche differivano su molte questioni, concordava senza riserve su un unico argomento di politica estera: l’amore e l’appoggio ciechi e incondizionati del loro Paese per Israele. In quei giorni l’influente gruppo lobbystico filo-israeliano, l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato per gli Affari Pubblici Americani e Israeliani] (AIPAC), faceva il bello e il cattivo tempo, regnando incontrastato sul Congresso USA e decidendo praticamente da solo il destino di parlamentari in base al fatto che appoggiassero o meno Israele.

Anche se è troppo presto per affermare che “quei tempi sono finiti”, a giudicare dal discorso politico su Palestina e Israele notevolmente mutato, i molti sondaggi di opinione e i successi elettorali di candidati contrari all’occupazione israeliana in elezioni nazionali e locali, si è obbligati a dire che la salda presa dell’AIPAC sulla politica estera USA si sta finalmente allentando.

Tale affermazione può sembrare prematura, considerando la parzialità senza precedenti dell’attuale amministrazione a favore di Israele – l’illegale spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, il rifiuto del “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi e il sostegno dell’amministrazione al progetto israeliano di annettere illegalmente parti della Cisgiordania, e via di seguito.

Tuttavia si deve fare una distinzione tra l’appoggio a Israele tra chi governa, la sempre più isolata cricca di politicanti, e il sentimento generale di un Paese che, nonostante le numerose violazioni della democrazia negli ultimi anni, è ancora in qualche modo democratico.

Il 25 giugno un incredibile numero di circa 200 parlamentari democratici, compresi alcuni dei più strenui sostenitori di Israele, ha chiesto in una lettera a Netanyahu e ad altri importanti politici israeliani di annullare il progetto di annettere illegalmente circa il 30% della Cisgiordania.

Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione riguardo all’intenzione dichiarata di procedere con una qualunque annessione unilaterale di territori della Cisgiordania, e invitiamo il vostro governo a riconsiderare il progetto di attuarla,” afferma fra l’altro la lettera.

Mentre il linguaggio della lettera è lungi dall’essere etichettabile come “minaccioso”, il fatto che sia stata firmata da fedelissimi alleati di Israele come i parlamentari della Florida Tedo Deutch e dell’Illinois Brad Schneider la dice lunga sul cambiamento di discorso su Israele tra i vertici centristi e persino conservatori del partito Democratico. Tra i firmatari ci sono anche figure importanti dell’establishment democratico, come la congressista Debbie Wasserman Schultz e il capo della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, Steny Hoyer.

Altrettanto importante è il fatto che l’influenza della generazione più giovane e progressista dei politici democratici continui a spostare i confini del discorso del partito su Israele, grazie al lavoro instancabile della parlamentare Alexandria Ocasio-Cortez e dei suoi colleghi. Insieme a decine di rappresentanti democratici, il 30 giugno Ocasio-Cortez ha inviato un’altra lettera, questa volta al segretario di Stato USA, Mike Pompeo.

A differenza della prima, la seconda lettera è decisa e molto audace: “Se il governo israeliano dovesse continuare lungo questo cammino (dell’annessione), lavoreremo per garantire il mancato riconoscimento dei territori annessi così come porteremo avanti leggi che condizionino i finanziamenti militari USA di 3.8 miliardi di dollari a Israele per assicurare che i contribuenti USA non stiano appoggiando in alcun modo l’annessione,” dice tra l’altro la lettera.

Si immagini se queste esatte parole fossero state utilizzate dai rappresentanti democratici nel luglio 1980, quando il parlamento israeliano annesse illegalmente Gerusalemme est con un atto che era – e rimane – contrario alle leggi internazionali. Il destino di quei politici sarebbe stato simile a quello di altri che osarono opporsi, col rischio di perdere il proprio seggio al Congresso, ossia di fatto tutta la loro carriera politica in una volta.

Ma i tempi sono cambiati. È veramente inconsueto, e consolante, vedere l’AIPAC affannarsi a spegnere i molti focolai accesi dalle nuove voci radicali tra i democratici.

La ragione per cui non è più facile per la lobby filo-israeliana conservare la sua pluridecennale egemonia sul Congresso è che quelli come Ocasio-Cortez sono anche loro risultato del cambiamento generazionale e probabilmente irreversibile che è avvenuto tra i democratici nel corso degli anni.

La tendenza alla polarizzazione dell’opinione pubblica americana riguardo a Israele risale a vent’anni fa, quando gli americani iniziarono a considerare il proprio supporto a Israele in base a linee di partito. Sondaggi più recenti suggeriscono che questa polarizzazione sia in aumento. Un sondaggio di opinione della Pew [gruppo di esperti statunitensi che si occupano di inchieste ed analisi socio-politiche, ndtr.] pubblicato nel 2016 ha mostrato che tra i repubblicani la simpatia per Israele era passato a un inaudito 74%, mentre tra i democratici era scesa al 33%.

Inoltre, per la prima volta nella storia, tra i democratici l’appoggio a Israele e ai palestinesi era praticamente diviso in parti uguali: rispettivamente il 33% e il 31%. Era il periodo in cui abbiamo iniziato a vedere inusuali prime pagine dei principali mezzi di informazione come “Perché i democratici stanno abbandonando Israele?”

Questo “abbandono” è continuato senza sosta, come hanno indicato sondaggi più recenti. Nel gennaio 2018 un’altra inchiesta di Pew ha dimostrato che l’appoggio dei democrati a Israele si è ridotto al 27%. Non solo la base democratica si sta allontanando da Israele in seguito alla crescente consapevolezza dei continui crimini israeliani e della violenta occupazione in Palestina: anche i giovani ebrei stanno facendo altrettanto.

Le mutate opinioni su Israele tra i giovani ebrei americani stanno finalmente dando frutti, fino al punto che nell’aprile 2019 i dati di Pew hanno concluso che nel loro complesso probabilmente gli ebrei americani sono ancor più (42%) dei cristiani ad affermare che il presidente Trump stia “favorendo troppo gli israeliani.”

Mentre molti democratici al Congresso sono sempre più in sintonia con le opinioni dei loro elettori, quelli che comandano, come Biden, rimangono caparbiamente legati a programmi che sono promossi dall’AIPAC e dal resto della vecchia guardia.

La buona notizia da Washington è che, nonostante l’attuale appoggio di Trump a Israele, un graduale ma durevole cambiamento strutturale continua ad avvenire tra i sostenitori del partito Democratico ovunque in tutto il Paese. Una ancor più sorprendente notizia è che la tradizionale roccaforte di Israele nelle comunità ebraiche del Paese sta vacillando, e molto rapidamente.

Mentre l’AIPAC probabilmente continuerà ad utilizzare e improvvisare vecchie tattiche per difendere gli interessi di Israele nel Congresso USA, la cosiddetta “potente lobby” probabilmente non riuscirà a riportare indietro il tempo. Anzi, l’epoca del totale dominio di Israele sul Congresso USA è probabilmente finita, e, si spera, questa volta per sempre.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Tribunale israeliano consente alla NSO di continuare a vendere tecnologia per lo spionaggio ai governi autoritari

13 lug 2020 – Al Jazeera

Amnesty afferma che il sistema di spionaggio tecnologico Pegasus viene utilizzato dai governi repressivi per colpire attivisti e giornalisti a favore dei diritti umani.

Un tribunale israeliano ha respinto la richiesta di togliere alla controversa società israeliana di tecnologia per lo spionaggio NSO Group la licenza di esportazione per sospetto uso della tecnologia dell’azienda ai danni di giornalisti e dissidenti in tutto il mondo.

L’istanza legale, presentata da Amnesty International a gennaio, richiedeva al tribunale di impedire a NSO di vendere la sua tecnologia all’estero, in particolare a governi repressivi.

Il tribunale del distretto di Tel Aviv ha stabilito che gli avvocati di Amnesty non hanno fornito prove sufficienti “per dimostrare l’affermazione che fosse stato fatto un tentativo di rintracciare un attivista per i diritti umani cercando di hackerare il suo cellulare” o che l’hackeraggio fosse stato effettuato da NSO.

“La concessione di una licenza viene effettuata dopo un’indagine estremamente rigorosa e anche dopo la concessione dell’autorizzazione le autorità conducono dei controlli e rigorose indagini, se necessario”, ha affermato il tribunale. In caso di violazione dei diritti umani, ha aggiunto, tale permesso può essere sospeso o annullato.

Il tribunale ha emesso la sentenza domenica, ma l’ha resa pubblica solo lunedì.

Gil Naveh, portavoce di Amnesty International Israel, ha dichiarato che l’organizzazione è rimasta delusa ma non sorpresa.

“È una tradizione di lunga data da parte dei tribunali israeliani avvallare burocraticamente le decisioni del Ministero della Difesa israeliano”, ha detto.

L’organizzazione non è a conoscenza delle prove fornite dalla NSO o dal Ministero della Difesa alla corte, perché le udienze si sono tenute a porte chiuse. “Anche se lo sapessimo, non potremmo parlarne”, ha detto.

Nel 2018 Amnesty ha denunciato che uno dei suoi dipendenti è stato preso di mira dal sistema di spionaggio di NSO, affermando che un hacker ha cercato di penetrare nello smartphone del membro dello staff usando come esca un messaggio su WhatsApp riguardante una protesta davanti all’ambasciata saudita a Washington.

NSO, una società israeliana di noleggio hacker, utilizza il suo sistema di spionaggio Pegasus per prendere il controllo di un telefono, delle sue videocamere e dei suoi microfoni e per ricavarne i dati personali dell’utente.

L’azienda è stata accusata di vendere il suo software di sorveglianza a governi repressivi che lo usano contro i dissidenti. La clientela non viene rivelata, ma si ritiene che includa Stati mediorientali e latinoamericani. La società ha dichiarato di vendere la propria tecnologia ai governi approvati da Israele per aiutarli a combattere criminalità e terrorismo.

NSO Group ha affermato in una dichiarazione che la società “continuerà a lavorare per fornire tecnologia agli Stati e alle organizzazioni di intelligence”, aggiungendo che il suo scopo è “salvare vite umane”.

In un rapporto pubblicato il mese scorso Amnesty International ha affermato che il telefono del giornalista marocchino Omar Radi è stato violato con l’uso della tecnologia dell’NSO nell’ambito degli sforzi del governo per reprimere il dissenso.

Un dissidente saudita ha accusato l’NSO di essere coinvolta nell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Dai da mangiare a un beduino”: video razzista israeliano suscita indignazione

Redazione di Palestine Chronicle

13 luglio 2020 – Palestine Chronicle

Riprese video diventate virali sulle reti sociali mostrano il conduttore di un popolare spettacolo televisivo israeliano per bambini che viaggia con la sua famiglia nel deserto del Naqab (Negev) e che dà da mangiare a due bambini palestinesi come se si tratti di animali da zoo.

Il video mostra Roy Oz (noto anche come Roy Boy) che apre il finestrino della sua macchina mentre tiene in mano un biscotto. Poi lui agita il biscotto davanti a due bambini palestinesi di una comunità beduina mentre chiede a suo figlio: “Ariel, vuoi dar da mangiare a un beduino?”

“Diamo da mangiare a un beduino. Non volete dare da mangiare a un beduino?” dice ripetutamente Oz ai suoi figli sui sedili posteriori.

Il video ha provocato un’immediata indignazione tra gli attivisti per i diritti umani, con molte critiche nei confronti del razzismo istituzionalizzato in Israele.

In un post su Facebook Oz ha affermato che il video era stato realizzato cinque anni fa durante un viaggio di famiglia. Non è chiaro come le immagini vergognose siano filtrate sulle reti sociali.

Atia al-Asem, capo del consiglio regionale dei villaggi palestinesi nel Naqab, ha manifestato indignazione riguardo al video, affermando che i beduini sono trattati dagli israeliani come se fossero “scimmie”

Il deputato arabo del parlamento israeliano (la Knesset) Ahmad Tibi ha descritto il comportamento di Oz come “il peggior comportamento umano, di una brutalità razzista e ignobile.”

Il giornalista e redattore palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha affermato: “Le migliaia di palestinesi che stanno ancora vivendo nel deserto del Naqab sono state sottoposte a una costante campagna israeliana di disumanizzazione, razzismo e pulizia etnica.”

“Il razzismo e la pulizia etnica delle comunità beduine palestinesi vanno di pari passo,” ha aggiunto Baroud. “Il video di Oz non può essere visto separatamente dai progetti del governo israeliano di rinchiudere i palestinesi nel Naqab in comunità isolate e povere per far posto allo sviluppo di zone residenziali per soli ebrei.”

“Perché questo sinistro scenario avesse successo i beduini palestinesi dovevano essere disumanizzati dal sistema politico e mediatico israeliano. Il video di Oz è una semplice manifestazione di questa indignante situazione.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 30 giugno – 13 luglio 2020

In Cisgiordania, il 9 luglio, nei pressi del villaggio di Kifl Haris (Salfit), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese di 33 anni e ferendone un altro.

Fonti ufficiali israeliane hanno riferito che i soldati hanno aperto il fuoco contro due palestinesi visti lanciare una bottiglia incendiaria contro una postazione militare; uno dei due è stato ferito, mentre l’altro è fuggito. Successivamente il ferito [forse già morto] è stato prelevato da un’ambulanza palestinese. Fonti palestinesi hanno affermato che l’uomo rimasto ucciso era un passante. Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine. Questo episodio porta a 17 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio del 2020. Un altro palestinese è stato colpito e ferito da forze israeliane durante scontri scoppiati dopo il funerale dell’uomo ucciso. Un cancello all’ingresso principale di Kifl Haris, che era stato chiuso il giorno prima dell’accaduto, è rimasto chiuso fino al 12 luglio, ostacolando gli spostamenti degli oltre 4.300 residenti [palestinesi].

Sempre in Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 72 palestinesi [segue dettaglio]. Quaranta di questi feriti si sono avuti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Abu Dis (Gerusalemme), nel quartiere di Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Complessivamente, in tutta la Cisgiordania, ci sono state 150 operazioni di questo tipo, il 30% delle quali compiute a Gerusalemme Est e dintorni. Altri 30 feriti sono stati segnalati durante varie proteste contro attività riferibili a coloni: ad ‘Asira ash Shamaliya (Nablus), contro la creazione di un nuovo avamposto colonico in prossimità del villaggio; a Biddya (Salfit) per protestare contro i continui attacchi ad agricoltori (vedi sotto); a Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro le restrizioni di accesso di lunga data e contro l’espansione degli insediamenti colonici nell’area. Nella città di Hebron, un palestinese è rimasto ferito durante una protesta contro il Piano di annessione previsto da Israele, e un altro è stato ferito nel governatorato di Tulkarm, ad un checkpoint della Barriera. Tre dei ferimenti sono stati provocati da proiettili di arma da fuoco; i rimanenti sono da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Durante il periodo di riferimento, quasi ogni giorno e per diverse ore, uno dei principali checkpoint che controllano l’accesso all’Area riservata della città di Hebron è rimasto chiuso, ostacolando l’accesso dei residenti palestinesi ai servizi di base dislocati in altre parti della Città. Le chiusure sono state attuate durante e dopo le quasi quotidiane proteste anti-annessione e successivi scontri avvenuti vicino al checkpoint (al di fuori dell’Area riservata). Queste restrizioni hanno esacerbato il contesto coercitivo imposto agli oltre 1.000 palestinesi che vivono in questa area della città di Hebron, dove sono stati costituiti insediamenti israeliani dedicati.

Il 5 luglio, un gruppo armato palestinese ha lanciato tre missili contro la regione meridionale di Israele; a seguito del lancio, forze [aeree] israeliane hanno attaccato la postazione di un gruppo armato e diverse aree aperte di Gaza. Non ci sono state vittime da ambo le parti; tre case ed una fattoria palestinesi sono state danneggiate dai raid aerei israeliani.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso sia ad aree [interne alla Striscia, ma] prossime alla recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 18 occasioni. Non sono stati registrati feriti, ma, in un caso, le forze navali israeliane hanno arrestato quattro pescatori e confiscato due barche; successivamente i pescatori sono stati liberati. Inoltre, in due casi, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi che stavano tentando di entrare in Israele: uno attraverso la recinzione e l’altro dal mare. In tre casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione.

Per mancanza di permessi di costruzione israeliani, sono state demolite o sequestrate trentuno strutture di proprietà palestinese, sfollando 13 persone e intaccando il sostentamento di oltre 100 altre [segue dettaglio]. Nella valle del Giordano, nella Comunità beduina palestinese di Fasayil, le autorità israeliane hanno demolito 12 abitazioni e strutture di sostentamento ad utilizzo stagionale. Quattro delle strutture colpite erano situate in quattro Comunità beduine, interne o attigue ad un’area destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (Piano E1). Due strutture della Comunità di At Taybeh (Hebron), anch’esse in Area C, sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che prevede la rimozione accelerata di strutture prive di licenza, in quanto ritenute “nuove”. Nove strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui due nel quartiere di Al ‘Isawiya; qui, il 19 febbraio 2020, il Comune di Gerusalemme aveva annunciato un arresto semestrale delle demolizioni.

In due località situate nell’Area C del governatorato di Hebron, le forze israeliane hanno spianato con bulldozer terreni agricoli, con la motivazione che l’area è designata [da Israele] come “terra di Stato” [segue dettaglio]. Ad Al Baq’a, vicino alla città di Hebron, 0,4 ettari di colture stagionali e un muro di sostegno sono stati distrutti con bulldozer, mentre vicino alla città di Sair sono stati sradicati 70 ulivi.

Cinque palestinesi sono stati feriti e decine di alberi e veicoli sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Tutti i ferimenti si sono verificati in due episodi accaduti nel villaggio di Biddya (Salfit), quando coloni hanno attaccato agricoltori al lavoro sulla propria terra: tre sono stati colpiti con armi da fuoco, uno è stato aggredito fisicamente e un altro è stato morso da un cane sguinzagliato da coloni. Nel villaggio di Burin (Nablus) sono stati incendiati decine di ulivi, mentre alcuni altri sono stati sradicati nella Comunità di As Seefer (Hebron), situata in un’area chiusa, dietro la Barriera. Coloni israeliani hanno anche fatto irruzione nel villaggio Al Lubban ash Sharqiya (Nablus) dove hanno vandalizzato 12 veicoli.

Secondo una ONG israeliana, quattro israeliani, incluso un minore, che viaggiavano su varie strade della Cisgiordania, sono stati colpiti e feriti con pietre; un totale di 19 veicoli israeliani avrebbero subito danni a causa del lancio di pietre ed uno a causa del lancio di una bottiglia incendiaria da parte di palestinesi.

277

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’occupante israeliano teme una possibile riconciliazione palestinese

Adnan Abu Amer

11 luglio 2020 – Chronique de Palestine

I recenti incontri tra i rappresentanti di Fatah e di Hamas hanno ricevuto ampia copertura da parte dei media israeliani.

Queste riunioni sono fonte di grande inquietudine se servono a garantire al movimento Hamas una copertura politica e relativa alla sicurezza nella Cisgiordania occupata, consentendogli di riprendere le azioni di resistenza contro Israele. Soprattutto se l’Autorità palestinese pone fine alla persecuzione del movimento di resistenza islamica…

L’ultimo incontro a distanza si è svolto tra Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah ed ex capo della Forza di Sicurezza preventiva (dell’Autorità Nazionale Palestinese, o ANP), e Saleh Al-Arouri, vice-responsabile dell’ufficio politico di Hamas, che Israele presenta come “l’ideatore degli attacchi armati in Cisgiordania”.

Gli israeliani ritengono che questa riunione abbia dato semaforo verde ad Hamas per agire in Cisgiordania, anche se Mahmoud Abbas [presidente dell’ANP, ndtr.] non auspica il ritorno della resistenza armata.

Quello tra Rajoub- Al-Arouri è stato seguito da un altro incontro, tra Ahmed Helles, responsabile di Fatah per le questioni di Gaza, e Husam Badran, responsabile delle relazioni nazionali di Hamas. L’occupante israeliano teme che ciò sia il segnale della fine della situazione relativamente sotto controllo sul terreno.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a parecchi incontri tra Fatah e Hamas e a tanti abbracci, sorrisi e strette di mano. In quasi tutte queste occasioni – troppo numerose per contarle – si è sentito affermare da Gaza, dal Cairo, da Beirut, da Doha e da Mosca, come da altri luoghi mantenuti segreti, che si è aperta una nuova pagina nelle loro relazioni. Tuttavia il punto comune di tutti questi annunci è che non hanno dato alcun risultato.

Questa volta ci si può aspettare qualcosa di diverso?

Non abbiamo altro nemico che Israele”

A proposito di queste recenti riunioni, gli israeliani hanno notato due novità: 1) né Rajoub né Al-Arouri hanno fatto dichiarazioni pubbliche sulla fine delle divisioni, la formazione di un governo di unità o l’indizione di nuove elezioni; 2) chi ha spinto i vecchi dirigenti a riprendere i colloqui è stato Israele.

Dal punto di vista israeliano, durante la conferenza stampa successiva alla riunione l’ANP ha avuto un chiaro obbiettivo, e non si è trattato di una riconciliazione con Hamas. Ha inteso solo contrariare Israele dopo aver messo fine al coordinamento in materia di repressione. Ma dare semaforo verde a Hamas per agire in Cisgiordania è la tappa successiva della campagna contro l’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.].

Certo non l’hanno detto così, ma era questa la conclusione, dopo che si sono ascoltate espressioni come “una lotta comune sul terreno”. Rajoub ha dichiarato: “Non abbiamo altro nemico che Israele” e Al-Arouri è parso felice di questo annuncio ed ha chiamato ad una lotta comune in Cisgiordania.

Nonostante tutti questi aspetti, gli israeliani sono convinti che Abbas si atterrà alla sua politica di opposizione alla lotta armata. Si può immaginare che non voglia davvero vedere le bandiere verdi di Hamas sventolare ad ogni angolo di strada nel territorio palestinese sotto occupazione…

Tuttavia, quando Rajoub parla di Hamas in termini di lotta comune contro il piano israeliano di annessione, e seduto virtualmente accanto alla persona responsabile della creazione dell’infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania, corre il rischio di “cavalcare la tigre”. Questo incontro tra Fatah e Hamas può avere conseguenze immediate sulla volontà di quest’ultimo di condurre attacchi di resistenza armata nei territori occupati.

Semaforo verde” per il movimento Hamas nella Cisgiordania occupata?

Quanto ai dibattiti in Israele, essi insistono sul fatto che l’incontro tra Rajoub e Al-Arouri è il segnale di un partenariato tra Fatah e Hamas. Una simile cooperazione inquieta al massimo grado gli israeliani perché, per quanto limitata possa essere, resta un elemento di primaria importanza per il loro Paese. La velocità con cui è stato raggiunto l’accordo tra i due movimenti ha sorpreso i servizi di sicurezza israeliani, anche se non avevano escluso questa possibilità dal momento in cui Benjamin Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione.

Gli israeliani non prestano molta attenzione a ciò che viene detto durante le conferenze stampa palestinesi organizzate congiuntamente da Fatah e Hamas, poiché quel che conta è ciò che avviene sul terreno. Tutto dipende quindi dal possibile annuncio da parte dell’ANP che non fermerà i membri di Hamas e li lascerà agire liberamente in Cisgiordania.

Parlando di queste riunioni tra Fatah e Hamas, gli israeliani rivelano alcune informazioni importanti relativamente ai partecipanti. Rajoub, per esempio, è uno dei principali aspiranti alla successione di Abbas, e si è alleato con l’ex capo dei servizi di informazione, Tawfik Tirawi, e con il nipote di Yasser Arafat, Nasser Al-Qudwa.

Recentemente si è anche in parte riconciliato con il suo antico rivale Mohammed Dahlan, che è stato cacciato dalla Palestina occupata e vive in esilio a Abu Dhabi e in Serbia, da dove cerca continuamente di conquistarsi amicizie ed influenza tra le fila di Fatah.

Sempre secondo quanto si discute in Israele, Rajoub non è il prescelto di Abbas per la sua successione, né quello dell’ANP. Tuttavia il capo dell’ANP ha scelto Rajoub per coordinare le proteste contro i piani di annessione israeliani, e Rajoub si presenta anche come il solo uomo di Fatah in grado di raggiungere un accordo con Hamas.

Del resto, il fratello di Rajoub, Sheikh Nayef Rajoub, è un alto dirigente di Hamas in Cisgiordania.

Al-Arouri è un uomo molto astuto e di grande acume ed ha subito capito i vantaggi di un incontro con Rajoub. Ora è convinto che Hamas sarà in grado di organizzare grandi manifestazioni in Cisgiordania, cosa che Fatah non è stata capace di fare. I militanti di Hamas non rischieranno un arresto da parte delle forze di repressione dell’ANP e potranno riunirsi, almeno nei circoli politici.

Secondo l’interpretazione israeliana, le riunioni tra Fatah e Hamas potrebbero creare una situazione positiva per la resistenza sulla scena palestinese, dato che gli scontri tra i dirigenti dei due movimenti sarebbero sostituiti da un coordinamento e da garanzie reciproche. È davvero l’ultima cosa che Israele si augura….

Adnan Abu Amer dirige il dipartimento di scienze politiche e di mezzi di comunicazione dell’università Umma Open Education di Gaza, dove tiene corsi sulla storia della causa palestinese, la sicurezza nazionale e Israele. È titolare di un dottorato in storia politica all’università di Damasco e ha pubblicato parecchi libri sulla storia contemporanea della causa palestinese e del conflitto arabo-israeliano. Lavora anche come ricercatore e traduttore per centri di ricerca arabi ed occidentali e scrive regolarmente su quotidiani e riviste arabi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)