I costruttori dei muri dell’apartheid israeliana speculano sulla militarizzazione dei confini statunitensi

Nora Barrows-Friedman

8 ottobre 2019 – Electronic Intifada

Una grande azienda di armamenti israeliana è stata scelta come uno delle principali beneficiari della speculazione sulla militarizzazione dei confini statunitensi.

Secondo la ricerca del giornalista Todd Miller, Elbit Systems ha ottenuto dal governo degli Stati Uniti contratti per la protezione della frontiera per un valore di 187 milioni di dollari.

Il più importante, assegnato durante l’amministrazione Obama, è quello relativo alla costruzione di più di 50 torri di sorveglianza a ridosso del confine tra Stati Uniti e Messico per la Customs and Border Protection [Agenzia delle Dogane e della Frontiera] (CBP) del governo degli Stati Uniti.

Dieci di quelle torri si troveranno su terreni appartenenti alla Nazione Indigena dei Tohono O’odham in Arizona.

Un’ analisi di Bloomberg del 2014 ha previsto che i profitti iniziali di Elbit potrebbero moltiplicarsi se il Congresso autorizzasse maggiori stanziamenti per la militarizzazione del confine.

Il rapporto di Miller – “Più di un muro: speculazione aziendale e militarizzazione dei confini statunitensi” – è stato recentemente pubblicato dal Transnational Institute [Istituto Transnazionale], un gruppo di ricerca sui diritti umani, in collaborazione con No More Deaths [Non Più Morti], un’organizzazione umanitaria che protegge i migranti lungo il confine meridionale degli Stati Uniti.

Il rapporto traccia un profilo delle 14 principali società che traggono profitto dalla militarizzazione delle frontiere statunitensi, inclusa Elbit.

Nel 2004, Elbit ha vinto un contratto con il governo degli Stati Uniti per la fornitura di droni Hermes da utilizzare lungo il confine.

L’organizzazione benefica britannica War on Want [Lotta contro la Povertà n.d.tr.] nel 2013 ha dichiarato che Israele “ha ‘testato sul campo’, nel corso degli attacchi a Gaza, quei droni che hanno causato la morte di molti palestinesi, compresi bambini”.

In particolare, afferma il nuovo rapporto, Elbit “vende un’esperienza maturata attraverso la costruzione dei muri in Cisgiordania e a Gaza”.

Da quando nel 2002 Israele ha iniziato a costruire il suo muro intorno a Gerusalemme e altrove, all’interno della Cisgiordania occupata, Elbit e le sue filiali hanno incassato contratti per l’installazione di tecnologie di sorveglianza elettronica “progettate per mantenere operativi i centri di comando e controllo [dell’esercito israeliano]”.

Il muro della Cisgiordania è illegale ai sensi del diritto internazionale e, sulla base di una sentenza del 2004 della Corte di giustizia internazionale, deve essere smantellato.

Nel 2013 Elbit ha installato sistemi simili nelle alture del Golan siriane occupate, grazie ad un contratto del valore di 55 milioni di euro.

Il rapporto afferma che due anni dopo Elbit ha iniziato a sviluppare una “tecnologia di rilevazione dei tunnel” da utilizzare attorno alla Striscia di Gaza assediata. Tale tecnologia sarebbe diventata parte di un muro sotterraneo profondo circa 40 metri che Israele ha iniziato a costruire nel 2017.

In occasione della gara per il contratto sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico, Elbit ha presentato come caratteristica auto-promozionale l’impegno ultra-decennale nel “proteggere i confini più difficili del mondo” e il possesso di una “comprovata esperienza”.

Una manna

Insieme a Elbit, società del settore bellico tra cui Raytheon, Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, G4S, IBM e Northrop Grumman hanno incassato quello che il rapporto descrive come una “manna [proveniente dalla politica] di protezione delle frontiere”.

Tra il 2006 e il 2018, i contratti per la militarizzazione delle frontiere statunitensi con tali società hanno totalizzato almeno 80,5 miliardi di dollari.

Ma, secondo le stime del rapporto, questa somma è “certamente inferiore a quella reale” poiché le agenzie che emettono i contratti non sono state sempre trasparenti.

Secondo il rapporto, gli stanziamenti annuali per la militarizzazione delle frontiere statunitensi sono più che raddoppiati negli ultimi 15 anni e sono aumentati di oltre il 6.000% dal 1980.

Alcune società incaricate dalla CBP hanno commesso significative violazioni etiche.

Ma, afferma il rapporto, i ripetuti scandali che coinvolgono alcune delle più grandi società [impegnate nel campo] della sicurezza delle frontiere “hanno fatto poco per ridurre il flusso dei guadagni”.

G4S, la più grande compagnia al mondo nell’ambito della sicurezza e importante appaltatore statunitense, ha dovuto affrontare procedimenti legali per abuso e morte di detenuti negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

Gli attivisti hanno esercitato con successo pressioni su istituzioni e governi perché interrompessero i contratti con G4S a causa delle violazioni dei diritti umani.

Questi abusi includono il ruolo nelle prigioni israeliane in cui i palestinesi vengono regolarmente torturati.

Lobbismo verso i parlamentari

Le aziende hanno fatto pressioni su esponenti politici statunitensi e hanno contribuito alle [loro] campagne elettorali nel tentativo di espandere i contratti con la CBP.

Elbit, ad esempio, ha finanziato le deputate repubblicane del Congresso Martha McSally dell’Arizona e Kay Granger del Texas.

McSally ha usato la retorica per demonizzare gli immigrati o i richiedenti asilo.

È una convinta sostenitrice delle brutali politiche sulle frontiere dell’amministrazione Trump.

E Granger è un membro di rango del Comitato per gli stanziamenti della Camera che assegna i finanziamenti per la militarizzazione delle frontiere.

Il rapporto afferma che è tempo di rivelare come le aziende che traggono profitto dalla crudeltà e dalla militarizzazione alle frontiere influenzino i parlamentari.

“La costante spinta verso [la costruzione] di ulteriori barriere di confine, verso maggiori tecnologie, più incarcerazioni, maggiore criminalizzazione, fa parte – sostiene – di un modello aziendale che aderisce alle dinamiche imprenditoriali legate alla dottrina della crescita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il ministero dell’Educazione ha lanciato una campagna contro i sostenitori della Palestina nelle università. Molti l’avevano previsto

Michael Arria

8 ottobre 2019 – Mondoweiss

Lo scorso giugno l’amministrazione Trump ha nominato Kenneth Marcus sottosegretario per i diritti civili e [la sua nomina] è stata approvata dal Senato, 50 a 46, pur non avendo ricevuto voti democratici. Alcune organizzazioni si sono opposte alla nomina di Marcus per varie ragioni: ha appoggiato la revoca delle disposizioni contro le aggressioni sessuali nei campus, si è opposto alle agevolazioni a favore delle minoranze riguardo all’educazione e non è possibile individuare un solo esempio in cui sia stato in disaccordo con Donald Trump riguardo ai diritti civili.

Alcune delle maggiori preoccupazioni riguardo a Marcus sono state espresse da attivisti e gruppi che sostengono i diritti dei palestinesi. Marcus è stato fondatore e presidente del filoisraeliano “Louis D. Brandeis Center for Human Rights” [Centro per i Diritti Civili Louis D. Brandeis, politico USA e fervente sionista, ndtr.], un’organizzazione che intende combattere “il rinascente problema dell’antisemitismo e dell’ostilità verso Israele nei campus universitari.” Marcus ha fatto pressioni a favore di una definizione di antisemitismo (a livello federale e statale) che includa le critiche contro Israele. Ha anche promosso il ritiro dei finanziamenti ai programmi di studi sul Medio Oriente nelle università ed ha chiesto al Congresso di approvare l’ Anti-Semitism Awareness Act [legge per la sensibilizzazione sull’antisemitismo], una norma che censurerebbe le posizioni a favore dei palestinesi nei campus.

Quando Marcus si servirà delle accuse di ‘antisemitismo’ per soffocare la libertà di parola su Israele-Palestina nelle università, dove saranno allora i senatori?”, si è chiesta Debra Shushan, la responsabile giuridica di “Americans for Peace Now” [associazione USA moderatamente critica con il governo israeliano, ndtr.] dopo l’approvazione della nomina di Marcus. Riguardo a questa nomina “Palestine Legal” [associazione di giuristi a favore del diritto dei cittadini USA di parlare a sostegno dei palestinesi, ndtr.] ha valutato i danni potenziali della designazione di Marcus:

Riguardo alle denunce sulla base del Titolo VI [che proibisce discriminazioni in progetti finanziati pubblicamente, ndtr.], che prendano di mira il sostegno ai diritti dei palestinesi, Marcus ha dedicato gli ultimi 13 anni a promuoverle, e non passerà dal ruolo di sostenitore a quello di arbitro.

Avrà l’autorità di indagare su università che autorizzano il sostegno ai diritti dei palestinesi protetto dal Primo Emendamento [della Costituzione USA, che protegge il diritto di parola e di riunione, ndtr.].

Troverà che le università in cui è consentito agli studenti criticare Israele violano il Titolo VI della legge sui diritti civili e obbligherà tali istituti scolastici a inserire “accordi di risoluzione” o “accordi di applicazione”. Tali accordi obbligheranno le università a limitare i discorsi a favore dei diritti dei palestinesi, in violazione del Primo Emendamento. Anche solo la minaccia di un’indagine da parte del governo federale probabilmente provocherà il fatto che le università interferiscano nel dibattito dei campus per evitare di essere messe sotto inchiesta.”

Un anno dopo questo monito si è dimostrato preveggente.

Lo scorso mese il Dipartimento per l’Educazione (DOE) di Betsy DeVos [ministra dell’Educazione nominata da Trump nel 2017, ndtr.] ha minacciato di tagliare i finanziamenti al Consorzio per il Medio Oriente, una collaborazione tra l’università del North Carolina e la Duke University. In una lettera pubblica, il DOE chiarisce di ritenere che il programma sia troppo condiscendente verso l’islam. “Si pone una considerevole enfasi sull comprendere gli aspetti positivi dell’islam, mentre manca del tutto un’attenzione simile verso gli aspetti positivi del cristianesimo, dell’ebraismo e di qualunque altra religione o sistema di credenze in Medio Oriente,” recita. Per continuare a ricevere finanziamenti, in base al Titolo VI il programma deve rivedere i suoi criteri e fornire al DOE un’analisi dettagliata dei suoi progetti di spesa.

La lettera del DOE è nata da un’indagine sul programma iniziata in giugno. Lo scorso marzo il programma di studi sul Medio Oriente aveva tenuto una conferenza intitolata “Conflitto contro Gaza: persone, politiche e possibilità.” L’evento includeva un’esibizione del musicista palestinese Tamer Nafar, che ha suonato una canzone ironica su un arabo che si innamora di una soldatessa dell’esercito israeliano. In seguito un blogger filo-israeliano ha postato immagini decontestualizzate dell’esibizione e la faccenda è stata ripresa dal senatore repubblicano George Holding, che ha chiesto a DeVos di indagare su tutto il programma.

Elyse Crystall è docente associata di Inglese e Letteratura Comparata all’UNC [Università della North Carolina, ndtr.] ed era presente alla conferenza. Afferma che l’evento è stato sfruttato in modo cinico per censurare le voci a favore di palestinesi e musulmani nel campus. “Abbiamo studenti che sono palestinesi, musulmani, arabi, arabo-americani e sono stati pugnalati alle spalle,” racconta a Mondoweiss. “Nessuno si preoccupa di come ciò li abbia colpiti. Sono sconvolti e non sanno dove andare. [Non hanno] nessuno con cui parlarne.”

Alcuni docenti della Duke recentemente hanno pubblicato una lettera di condanna della decisione del DOE. “L’inchiesta federale è il punto più alto di una campagna pluridecennale da parte di organizzazioni anti-palestinesi contro programmi e corsi di studi accademici ritenuti non sufficientemente ‘filo-israeliani’,” si afferma. “Questa inchiesta prende di mira un centro studi sul Medio Oriente, ma dovrebbe preoccupare tutti noi. Oggi ogni docente e studioso è in pericolo se non si allinea alla politica nazionale e alle priorità della sicurezza nazionale.” Inoltre oltre 100 studiosi ebrei (compresi nomi quali Noam Chomsky e Judith Butler) hanno inviato una lettera a DeVOs chiedendole di porre fine a questa “aggressione infondata” ai programmi di studi sul Medio Oriente:

Sotto la sua direzione il ministero dell’Educazione ha condotto una crociata contro chiunque nei campus universitari osi criticare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele. Infatti il ‘capo per i diritti civili’ da lei designato, Kenneth Marcus, ha fatto carriera attaccando chi critica l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza che dura da 52 anni. Per anni Marcus ha cercato di delegittimare e privare di finanziamenti i programmi di studio sul Medio Oriente che consentono agli studenti e al corpo docente di criticare il governo di Israele e il modo in cui tratta il popolo palestinese. Il modo di agire di Marcus rende evidente come la sua preoccupazione non sia di promuovere la libertà di parola e la libera discussione accademica, ma soffocarla.”

Molti opinionisti e commentatori hanno ribadito che sotto Trump stiamo attraversando una crisi della libertà di parola nelle università, in quanto alcuni punti di vista vengono attaccati o messi a tacere. Tuttavia, com’era prevedibile, nel dibattito pubblico questa campagna potenzialmente vasta contro la libertà accademica è ignorata.

Michael Arria è inviato di Mondoweiss negli USA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come alcuni medici israeliani rendono possibile la tortura da parte dello Shin Bet

Ruchama Marton

7 ottobre 2019- +972

Dall’autorizzare brutali tecniche di interrogatorio al redigere referti medici falsi, alcuni medici israeliani hanno assunto un ruolo attivo nella tortura dei prigionieri palestinesi.

Se lo Shin Bet [servizi di sicurezza interni israeliani, ndtr.] gestisce una scuola per i propri agenti ed addetti agli interrogatori, il curriculum deve sicuramente includere una lezione su come dire una menzogna. Sembra che i testi insegnati non siano cambiati nel corso degli anni. Nel 1993, rispondendo alle accuse secondo cui lo Shin Bet aveva brutalmente torturato il detenuto palestinese Hassan Zubeidi, l’allora comandante delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] del comando nord Yossi Peled disse al giornalista israeliano Gabi Nitzan che “in Israele la tortura non c’è. Ho fatto il soldato per 30 anni nelle IDF e so quello di cui sto parlando.”

Ventisei anni dopo, il vice capo dello Shin Bet ed ex-addetto agli interrogatori dello Shin Bet Yitzhak Ilan ha ripetuto la stessa frase al conduttore del telegiornale della televisione nazionale Ya’akov Eilon mentre parlava di Samer Arbeed, un palestinese di 44 anni che è stato ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato, a quanto pare, torturato dallo Shin Bet. Arbeed è sospettato di aver organizzato un attentato mortale che in agosto ha ucciso una ragazza israeliana ed ha ferito suo padre e suo fratello presso una sorgente in Cisgiordania. Ilan si è molto arrabbiato all’idea che lo Shin Bet sia in qualche modo responsabile delle condizioni di Arbeed.

Lasciando da parte queste assurde forme di negazione, come medico e fondatore di “Medici per i diritti umani-Israele”, sono sempre rimasto scosso da come in Israele medici israeliani collaborino e consentano le torture.

Nel giugno 1993 organizzai a Tel Aviv una conferenza internazionale per conto di MEDU contro la tortura in Israele. Alla conferenza presentai un documento medico dello Shin Bet scoperto per caso dalla giornalista israeliana Michal Sela. Nel documento al medico dello Shin Bet veniva chiesto se il prigioniero in questione avesse una qualche limitazione di carattere medico riguardo al fatto di tenerlo in isolamento, se potesse essere legato, se il suo volto potesse essere coperto o se potesse essere lasciato in piedi per lunghi periodi di tempo.

Lo Shin Bet negò che questo documento fosse mai esistito. “Non c’è nessun documento. Era un semplice documento sperimentale che non è in uso,” sostenne l’istituzione. Quattro anni dopo venne alla luce un secondo documento, simile in modo sospetto al primo. Quel documento chiedeva ai dottori di autorizzare la tortura in base a una serie di condizioni precedentemente concordate.

Il primo documento, insieme ad altre risultanze, venne pubblicato nel libro intitolato “Tortura: diritti umani, etica medica e il caso di Israele.” Il libro non si può trovare in Israele: Steimatzky, la più antica e grande catena di librerie di Israele, ha vietato la sua vendita. Forse è un’ulteriore prova che in Israele non si pratica la tortura.

Dopo che il documento venne scoperto, MEDU si rivolse all’associazione dei medici di Israele e chiese di unirsi alla lotta contro la tortura. L’IMA [Israel Medical Association] pretese che il MEDU consegnasse i nomi dei medici dello Shin Bet che avevano firmato il documento in modo che la questione potesse essere gestita internamente.

Mi rifiutai di consegnare i nomi e dissi all’avvocato dell’IMA di non essere interessato a perseguire medici di base – volevo cambiare l’intero sistema. Ciò significava l’abolizione della legittimità concessa alle confessioni estorte sotto tortura, educare i membri dell’IMA riguardo alla non collaborazione con i torturatori, e in particolare fornire aiuto concreto a quei dottori che denunciassero sospetti di torture o interrogatori brutali.

All’epoca l’IMA si accontentò di far circolare le nostre dichiarazioni senza fare niente per impedire ai medici dello Shin Bet di cooperare con la tortura. Oltretutto l’organizzazione non rispettò i suoi obblighi di creare un ambito di discussione in cui i dottori informassero su sospette torture.

Un fallimento etico, morale e pratico

Ma non sono solo i medici nello Shin Bet e nel servizio carcerario israeliano che collaborano con la tortura. In tutto Israele i medici dei pronto soccorso stilano falsi pareri medici in sintonia con le richieste dello Shin Bet. Prendete ad esempio il caso di Nader Qumsieh, della città cisgiordana di Beit Sahour. Venne arrestato a casa sua il 4 maggio 1993 e portato cinque giorni dopo nel centro medico Soroka di Be’er Sheva. Lì un urologo gli diagnosticò un’emorragia e una lacerazione allo scroto.

Qumsieh affermò di essere stato picchiato e colpito ai testicoli durante l’interrogatorio. Dieci giorni dopo Qumsieh venne portato davanti allo stesso urologo per un controllo medico, dopo che questi aveva ricevuto una telefonata dall’esercito israeliano. L’urologo scrisse una lettera retrodatata (come se fosse stata redatta due giorni prima), senza effettuare realmente un ulteriore controllo del paziente, in cui diceva che “secondo il paziente, egli è caduto dalle scale due giorni prima di essere arrivato al pronto soccorso.” Questa volta la diagnosi fu “ematoma superficiale nella zona dello scroto, che corrisponde a contusioni locali subite da due a cinque giorni precedenti la visita.” La lettera originaria dell’urologo scritta dopo il primo esame sparì dalla documentazione medica di Qumsieh. La storia ci insegna che ovunque i medici introiettano facilmente e concretamente i valori del regime, e molti di loro diventano suoi leali servitori. Questo è stato il caso della Germania nazista, degli Stati Uniti e di vari Paesi in America latina. Lo stesso vale per Israele. Il caso di Qumsieh, insieme a innumerevoli altri casi, riflette il fallimento etico, morale e concreto del sistema sanitario israeliano di fronte alla tortura.

Già dal XVIII° secolo giuristi – più che medici – pubblicarono opinioni legali accompagnate da prove secondo cui non c’era rapporto tra provocare dolore e arrivare alla verità. Quindi sia la tortura che le confessioni estorte con la sofferenza erano legalmente prive di valore. Si può solo supporre che i capi dello Shin Bet, dell’esercito e della polizia conoscano questo pezzo di storia.

Eppure la tortura, che include una crudeltà sia psicologica che fisica, continua ad avvenire su vasta scala. Perché? Perché il reale obiettivo della tortura e dell’umiliazione è spezzare lo spirito e il corpo del prigioniero o della prigioniera. Eliminare la sua personalità.

La ragione giuridica per vietare la tortura è basata sull’idea utilitaristica che non si possa arrivare alla verità infliggendo dolore. Ma i medici sono tenuti prima di tutto al principio che sia proibito provocare danno fisico o psicologico a un paziente.

Il documento di idoneità medica dello Shin Bet consente di impedire il sonno, consente a chi interroga di esporre il prigioniero a temperature estreme, di picchiarlo, di legarlo per molte ore in posizioni dolorose, di obbligarlo a stare in piedi per ore finché i vasi sanguigni dei piedi bruciano, di coprigli la testa per lunghi periodi di tempo, di umiliarlo sessualmente, di spezzare il suo spirito recidendo i rapporti con la famiglia e gli avvocati, di tenerlo in isolamento finché perde la salute mentale.

Il modulo di idoneità medica dello Shin Bet non è lo stesso di quello utilizzato per stabilire l’idoneità per far parte della forza aerea o persino guidare un’auto. Questo tipo di “idoneità” porta il prigioniero direttamente nella camera di tortura – e il medico lo sa. Il medico sa a quale tipo di processo sistematico di dolore e umiliazione lui o lei sta prestando il proprio consenso e approvazione. Sono i medici che sovrintendono alla tortura, visitano il prigioniero torturato e stilano il parere medico o il referto patologico.

Il camice bianco passa nella camera di tortura come un’ombra in agguato durante gli interrogatori. Un dottore che collabora con le torture di Israele è complice di quello stesso sistema. Se un prigioniero o una prigioniera muore durante l’interrogatorio, il medico è complice della sua morte. Medici, infermieri, paramedici e giudici che sanno quello che avviene e preferiscono rimanere in silenzio sono tutti complici.

Ci dobbiamo opporre in modo incondizionato a qualunque forma di tortura, senza eccezioni. Noi, cittadini di uno Stato democratico, dobbiamo rifiutare di cooperare con il crimine della tortura, e a maggior ragione se si tratta di medici.

Non dobbiamo neanche nasconderci dietro l’idea che la tortura sia un sintomo dell’occupazione, dicendo a noi stessi che questa pratica sparirà quando finirà l’occupazione. La tortura è una concezione del mondo in base alla quale i diritti umani non trovano posto o non hanno valore. Esisteva molto prima dell’occupazione e continuerà ad esistere se noi non cambiamo quella mentalità.

Pratiche investigative violente e crudeli non contribuiscono alla sicurezza nazionale neppure se sono commesse in suo nome. La tortura provoca una vertiginosa distruzione del nostro stesso tessuto sociale. Non perdono i valori morali, della dignità umana e della democrazia solo quelli che praticano questo terribile tipo di “lavoro”, ma anche tutti quelli che rimangono in silenzio, che non lo vogliono sapere. Di fatto, tutti noi.

Il dottor Ruchama Marton è il fondatore di “Medici per i Diritti Umani-Israele”. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi devono imparare dagli errori del Sudafrica

Ramzy Baroud

4 ottobre 2019 – Al Jazeera

I palestinesi che guardano al Sudafrica post-apartheid devono esaminare con attenzione i suoi tanti errori.

Oggi il paragone tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid è tanto diffuso quanto ovvio. Proprio come fecero in passato il Sudafrica e molti altri colonialismi di insediamento, ora Israele sta applicando politiche di segregazione razziale e di pulizia etnica per favorire e proteggere gli interessi dei colonialisti negando e marginalizzando i fondamentali diritti umani della popolazione colonizzata.

Naturalmente il discorso della liberazione della Palestina ha preso a riferimento la lotta popolare contro l’apartheid sudafricana, mentre anche il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) ha largamente adottato il modello del movimento di boicottaggio del Sudafrica.

L’indomita resistenza e gli enormi sacrifici dei sudafricani fatti per rovesciare definitivamente centinaia di anni di colonialismo e di apartheid razziale olandesi e britannici sono eccezionali e degni di ammirazione. Sfidare e sconfiggere ufficialmente le potenti e sinistre forze che hanno perpetrato una tale storica ingiustizia è un’impresa straordinaria. Essa sottolinea l’invincibile potere dei movimenti popolari ed offre un esempio positivo per i palestinesi.

Tuttavia, nella corsa ad enfatizzare le similitudini tra le due esperienze – che nasce dal bruciante e giustificabile desiderio dei palestinesi di raggiungere la propria “opportunità sudafricana” – vengono commessi due gravi errori.

Primo: i palestinesi spesso fraintendono e idealizzano il percorso della lotta sudafricana contro l’apartheid. Secondo: tra i palestinesi ed i loro sostenitori vi è una assai diffusa convinzione che l’abolizione ufficiale delle leggi di apartheid abbia automaticamente aperto la strada ad una nuova era di democrazia ed eguaglianza in Sudafrica.

Simili percezioni conducono all’erronea ipotesi che un’analoga vittoria legale in Israele possa risolvere tutti i problemi della Palestina e spianare la strada all’agognata soluzione di uno Stato unico.

Questa questione ha occupato i miei pensieri durante una recente visita in Sudafrica. Mentre facevo conferenze sulla Palestina e sulla comune lotta delle due Nazioni, ho avuto l’occasione di incontrare, per discutere dell’esperienza sudafricana, parecchi intellettuali, ex militanti anti-apartheid e attivisti per i diritti umani, che partecipano all’attuale lotta per l’uguaglianza in Sudafrica.

A mio avviso i palestinesi devono ascoltare ed analizzare attentamente le opinioni dei sudafricani che hanno lottato e continuano a lottare per una reale uguaglianza e per una democrazia piena, in modo da poter meglio comprendere il Sudafrica post-apartheid e ricavarne importanti lezioni per la nostra lotta.

Nazione, democrazia ed emarginazione

Una delle principali sfide che il Sudafrica post-apartheid ha affrontato è stata la costruzione di una Nazione sulle ceneri di un regime connotato dalla divisione razziale, dall’emarginazione e dall’oppressione.

Come hanno spiegato gli accademici Na’eem Jeenah e Salim Vally nel loro saggio ‘Beyond ethnic nationalism: lessons from South Africa’ [Oltre il nazionalismo etnico: lezioni dal Sudafrica], un futuro comune per colonialisti e colonizzati può essere costruito solo “quando vi sia accordo sul fatto che una nuova Nazione deve essere forgiata all’interno di un nuovo Stato.”

Benché si possa essere tentati di discutere subito di un nuovo Stato e di lasciare la questione della nuova Nazione ad una fase post-liberazione, questo sarebbe un enorme errore. In Sudafrica essa è stata rimandata e ora i sudafricani ne stanno subendo le conseguenze”, hanno scritto Jeenah e Vally.

Di certo, mentre i governi post-apartheid in Sudafrica hanno enfatizzato i simboli dell’unità e esaltato la diversità – come la bandiera arcobaleno – il simbolismo non è stato sufficiente a tenere insieme una Nazione.

Come ha sottolineato Enver Motala, professore associato alla cattedra di Educazione per comunità, adulti e lavoratori dell’università di Johannesburg, “l’approccio alla creazione della Nazione nel Sudafrica post-aprtheid spesso ha privilegiato le rivendicazioni democratico- progressiste che tendono all’inserimento in costituzione dei diritti umani e giuridici, dei loro simboli, di bandiere e slogan per l’unificazione, lasciando inalterati gli assetti strutturali e le perduranti caratteristiche del potere storicamente costituito, e la frammentazione sociale.”

Motala ha aggiunto che la creazione di uno Stato e di una Nazione veramente uniti può essere possibile solo attraverso “l’eliminazione di ogni forma concepibile di privilegio sociale”.

Ci si aspettava che l’eliminazione delle strutture politiche dell’apartheid e l’introduzione della democrazia avrebbero facilitato il processo di costruzione della Nazione. Ma, come mi ha detto Karima Brown, importante giornalista e analista politica, la svolta democratica del 1994 è stata solamente “l’inizio di un processo di rafforzamento della democrazia e di costruzione di un ordine più equo, non sessista e antirazzista.”

Ha sottolineato l’importanza di non consentire che il colonialismo di apartheid venga sostituito da un progetto neo-coloniale che continuerebbe ad emarginare molti gruppi e a minare gli sforzi di costruzione della Nazione.

Disuguaglianza e diritti sulla terra

Secondo un recente studio della Banca Mondiale il Sudafrica “resta il Paese economicamente più iniquo al mondo”, una triste realtà che ha molto a che fare con il modello economico neoliberista che il governo sudafricano democraticamente eletto ha adottato dal 1994 e che è strettamente collegato con le potenti forze neocoloniali che continuano ad agire in Sudafrica.

Vally mi ha detto che “le carenze dell’attuale sistema di disuguaglianza in Sudafrica si possono far risalire alla natura dell’accordo negoziato tra il movimento di liberazione allora egemone ed il regime di apartheid.”

Di conseguenza, la fine del sistema di apartheid non ha modificato la composizione di classe e le relazioni di potere in Sudafrica, dato che il periodo post-apartheid ha testimoniato “il permanere del carattere classista dello Stato (nonostante il discorso sui diritti umani, la democrazia borghese liberale e lo sviluppo) e l’inserimento del Sudafrica nell’economia globale di mercato.”

In un certo senso, mentre l’impianto delle leggi discriminatorie di impronta razziale è stato eliminato, le fondamenta e la struttura della diseguaglianza permangono, addirittura più forti che prima del 1994. I tradizionali capitalisti bianchi, il capitale globale, una parte della classe media nera e pochi capitalisti neri sono oggi coloro che traggono benefici a spese della grande maggioranza”, ha detto Vally.

La persistente disuguaglianza si manifesta in vari modi, in modo più evidente nella questione dei diritti e nella ridistribuzione della terra. Come nel caso dei palestinesi, i sudafricani concepiscono la terra come se avesse un valore molto più alto del suo prezzo di mercato; esso è strettamente legato all’identità e alle radici culturali.

Mahlatse Mpya, una ricercatrice del Centro africano – mediorientale, mi ha detto che il governo del Sudafrica è ancora incapace di “ capire che cosa significhi la terra per la popolazione nera”. Per i neri sudafricani “la terra è parte della loro identità ed eredità, un modo per molti di loro di collegarsi alle proprie radici e ai propri antenati”, mi ha spiegato.

I neri sudafricani si aspettavano che nel periodo post-apartheid la terra gli sarebbe stata restituita, ma per anni l’African National Congress (ANC) [prima movimento di liberazione e poi principale partito politico sudafricano, al governo dal 1994, ndtr.] si è mostrato riluttante a confiscare la terra ai bianchi. Temendo che una simile iniziativa avrebbe provocato al Paese la perdita di investimenti ed appoggi stranieri, il governo ha invece cercato di ottenere la terra comprandola dai bianchi.

Recentemente l’ANC ha adottato una risoluzione per promuovere leggi di esproprio della terra senza indennizzo. Mentre alcuni hanno apprezzato l’iniziativa, altri sono diffidenti.

La terra continua ad essere una questione conflittuale e non sarà risolta da un governo che privilegia gli investimenti esteri rispetto alla volontà del popolo”, ha detto Mpya.

Violenza e giustizia sommaria

E poi c’è il problema della violenza. L’esperienza del Sudafrica ha dimostrato che l’abbandono ufficiale dell’apartheid non significa necessariamente la fine dello stato di repressione e coercizione. Se la violenza da parte dell’apparato di sicurezza sudafricano è gestita in modo differente rispetto ai tempi dell’apartheid, l’effetto traumatizzante che provoca è sostanzialmente lo stesso.

Tokelo Nhlapo, un ricercatore del Comune sudafricano di Ekurhuleni per l’Economic Freedom Fighters (EFF) [Combattenti della libertà economica, partito di ispirazione panafricana, ndtr.], mi ha detto che il governo del Sudafrica ha utilizzato la repressione per mantenere lo stesso modello di controllo che veniva impiegato dai governanti coloniali del Paese. È stato in grado di farlo perché la giustizia sudafricana di transizione non è riuscita ad affrontare e risolvere molte delle conseguenze della violenza dell’apartheid sull’intera popolazione.

L’avvio del processo giudiziario della Commissione di Verità e Riconciliazione (TRC) ha promesso di guarire le ferite del Sudafrica e di portare la riconciliazione in un Paese un tempo profondamente diviso”, ha detto. “Mentre la TRC è stata generalmente ben accolta dalla comunità internazionale come strumento pacifico per superare un passato violento, in realtà l’approccio giudiziario alla storia del conflitto sudafricano ha identificato la violenza statale nei confronti di intere comunità, tralasciando il legame tra chi la perpetrava e chi ne beneficiava.”

Ha ulteriormente spiegato: “Con ‘approccio giudiziario’ mi riferisco all’eccessivo affidamento a mezzi legali per affrontare il fondamentale aspetto morale della violenza dell’apartheid, che negava alla maggioranza nera la concessione della cittadinanza, ne limitava la libertà di movimento tramite l’emanazione di leggi, all’espulsione forzata dalle proprie terre, al limitato accesso all’istruzione e alle opportunità di lavoro – su nessuno dei quali aspetti la TRC ha indagato.”

In conseguenza della mancanza di una vera riconciliazione e di seri sforzi da parte dell’ANC di affrontare la brutalità dell’apartheid in tutte le sue manifestazioni e strutture, la violenza si è diffusa anche all’interno delle comunità precedentemente oppresse.

Mphutlane wa Bofelo, un operatore culturale e critico della società sudafricano, ha spiegato che l’attuale violenza sommaria nella società sudafricana ha profonde radici nell’apartheid.

Ci sono stati tentativi di costruire il potere del popolo attraverso associazioni civiche, comitati di strada, di quartiere, di caseggiato, unità di difesa e tribunali del popolo”, ha detto Bofelo.

Un insieme di fattori, tra cui la detenzione di massa, gli arresti e l’esilio di leader socio-politici dotati di esperienza e maturità, la mancanza di competenze, il settarismo, la divisione in fazioni e l’infiltrazione di agenti del regime (post 1994), attenti al tornaconto personale, eccetera, ha condotto a parecchi atti di cattiva gestione della democrazia, che hanno ridotto le attività di alcune associazioni civili, comitati di strada e di caseggiato, unità di difesa e tribunali del popolo a strumenti di giustizia sommaria.”

Certamente, come hanno evidenziato ripetutamente i miei interlocutori sudafricani durante le nostre conversazioni, l’esperienza sudafricana è densa di difficoltà e di insuccessi. Molti intellettuali del Paese ritengono che il percorso post-apartheid sia poco promettente.

Perciò i palestinesi dovrebbero porre attenzione a ciò che sta avvenendo oggi in Sudafrica, piuttosto che esaltare ed applaudire ciecamente il suo passato di lotta anti-apartheid. Tutte queste questioni – la costruzione della Nazione post-apartheid, l’oppressione economica e la violenza endemica – devono essere attentamente esaminate e integrate nella strategia di liberazione palestinese.

Se vogliamo riuscire a sconfiggere l’apartheid di Tel Aviv e a costruire un luminoso futuro in cui gli arabi palestinesi e gli ebrei israeliani si spartiscano la terra e le risorse su un piano di eguaglianza, dobbiamo imparare dagli errori del Sudafrica.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, consulente di media, scrittore.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

Si veda anche sullo stesso argomento il saggio di Al Shabaka




Artista israeliana in Germania messa in guardia perché non appoggi il BDS

Tamara Nassar

4 ottobre 2019 – Electronic Intifada

I responsabili di un locale in Germania hanno comunicato a un’artista tedesco-israeliana che il suo imminente concerto a Monaco sarà annullato se lei manifesta il proprio sostegno al movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi.

Il centro culturale Gasteig ha mandato una lettera a Nirit Sommerfeld, una discendente di sopravvissuti all’Olocausto, in cui esige che, durante il concerto del 5 ottobre, non faccia commenti antisemiti o di sostegno al BDS, mettendo insieme le due cose.

Se risultasse che il testo riportato qui sopra verrà menzionato durante l’evento, saremo costretti ad annullarlo,” si sostiene nella lettera.

La musicista klezmer [musica tipica degli ebrei dell’Europa orientale, ndtr.] ha risposto garantendo al centro culturale che lei dal palco non ha mai parlato di BDS, ma è comunque indignata per il fatto che abbiano confuso l’antisemitismo con il sostegno ai diritti dei palestinesi.

Per anni ho usato l’arte per promuovere la giustizia in Israele e i diritti umani per i palestinesi. Basta questo per essere sospettata di antisemitismo?” si chiede.

Vi ricordo che sono una donna ebrea nata in Israele, figlia di un sopravvissuto all’Olocausto e nipote di un nonno assassinato dagli antisemiti nel campo di concentramento di Sachsenhausen.”

Sommerfeld ha scritto spesso dei tweet a sostegno dei diritti dei palestinesi e ha invitato gli artisti a rispettare il boicottaggio culturale di Israele.

Il movimento BDS si oppone con chiarezza a tutte le forme di intolleranza, inclusi l’antisemitismo e l’islamofobia.

Atmosfera maccartista

La lettera del centro culturale Gasteig rientra nel contesto della decisione presa dal comune di Monaco nel 2017 di impedire ai sostenitori del BDS di utilizzare spazi pubblici.

Nella sua risposta Sommerfeld evidenzia che lei è stata una dei 240 accademici ebrei e israeliani che hanno firmato una lettera respingendo la recente mozione della camera bassa del parlamento tedesco che equiparava il BDS e l’antisemitismo.

Sebbene la mozione del Bundestag non sia vincolante, essa fomenta l’atmosfera maccartista anti-palestinese incoraggiata dai media e dalle élite tedeschi.

Dopo la mozione e a causa del loro sostegno ai diritti per i palestinesi, molte figure del mondo culturale sono state perseguitate o hanno subito la cancellazione di eventi in Germania.

Il mese scorso, la città di Dortmund, nel nord-ovest della Germania, ha revocato un premio alla scrittrice Kamila Shamsie a causa del suo sostegno al BDS.

La giuria del premio Nelly Sachs ha annunciato la sua decisione dopo che blogger del sito anti-palestinese Ruhrbarone hanno accusato lei di antisemitismo e la giuria di promuovere “la distruzione di Israele.”

Shamsie ha risposto confermando il suo sostegno al BDS.

Mi indigna sapere che il movimento BDS (ispirato al boicottaggio del Sud Africa) e che conduce delle campagne contro il governo di Israele per le sue azioni discriminatorie e brutali contro i palestinesi, sia considerato ingiusto e da deplorare.”

Sommerfeld è una fra decine di artisti, scrittori e musicisti che hanno espresso la loro solidarietà a Shamsie.

Revoca dei premi

Lunedì anche la città di Aachen, nella Germania occidentale, ha revocato il premio all’artista libanese-americano Walid Raad a causa del suo sostegno al BDS.

Marcel Philipp, il sindaco di Aachen, in precedenza aveva affermato che Raad è “un sostenitore del movimento BDS che ha partecipato, in vari modi, al boicottaggio culturale di Israele.”

Philipp ha definito il movimento” antisemita”.

Il museo che gestisce l’Aachen Art Prize ha tuttavia annunciato che comunque concederà a Raad un premio di 10.000 dollari.

Il Ludwig Forum for International Art ha comunicato che garantirà i fondi indipendentemente dal Comune.

Il museo ha manifestato il suo disaccordo con la decisione del Comune non trovando in Raad alcuna traccia di antisemitismo.

Secondo la rivista ARTnews, il sostegno pubblico di Raad al BDS sembra consistere nell’aver firmato nel 2014 una lettera aperta in cui si chiedeva agli artisti di ritirarsi da una mostra in un’università israeliana.

Phillip ha detto che quando Raad è stato interpellato a proposito del BDS si è dimostrato “vago” e non ha “preso le distanze” dal movimento.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Israele uccide un cittadino di Gaza durante le proteste

Maureen Clare Murphy

4 ottobre 2019 – Electronic Intifada

Venerdì, nel corso della 77a settimana delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, lungo il confine orientale di Gaza le forze di occupazione israeliane hanno ucciso un palestinese ­­­­

Alaa Nizar Ayyash Hamdan, 28 anni, colpito al petto con pallottole vere nella zona nord di Gaza, è il duecentotreesimo palestinese ucciso durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Venerdì il gruppo per i diritti umani Al Mezan ha dichiarato che nel corso delle proteste di quella giornata le forze israeliane hanno ferito 29 palestinesi con pallottole vere e ne hanno colpiti direttamente altri 16 con candelotti lacrimogeni.

Secondo Al Mezan, un medico volontario è stato colpito alla testa con un candelotto lacrimogeno mentre portava via due manifestanti feriti.

Il mese scorso, durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, sono stati uccisi tre palestinesi, tra cui due minorenni.

L’esercito israeliano ha sostenuto che la scorsa settimana, quando è stato ucciso Saher Awadallah Jeer Othman, 20 anni, non avrebbe utilizzato contro i manifestanti pallottole vere.

L’esercito continua a sparare e uccidere i manifestanti nonostante alcuni mesi fa abbia modificato, come riportato lo scorso mese dai media israeliani, le sue “regole di ingaggio”.

Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, invece di fare affidamento sui cecchini per dissuadere i manifestanti dall’avvicinarsi alla barriera di confine tra Gaza e Israele, ai comandanti israeliani verrebbe ora “ordinato di schierare le forze all’interno di veicoli blindati a poche decine di metri dalla barriera”.

“Ciò ha comportato un numero notevolmente inferiore di vittime – ha aggiunto Haaretz – poiché i cecchini devono sparare con minore frequenza”.

Da un’indagine indipendente delle Nazioni Unite sull’uso da parte di Israele della forza contro la Grande Marcia del Ritorno, è emerso che “l’uso di pallottole vere da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti è stato illegale”.

Israele trasferirà il gettito fiscale

Sempre venerdì, l’Autorità Nazionale Palestinese ha annunciato che Israele trasferirà una parte delle entrate fiscali che ha rifiutato di versare [ad iniziare] da febbraio.

Quel mese Israele ha dichiarato che avrebbe ridotto i trasferimenti delle entrate fiscali all’ANP di circa 127 milioni di euro, l’importo destinato ai palestinesi incarcerati da Israele e alle loro famiglie. L’Autorità Nazionale Palestinese ha rifiutato di accettare trasferimenti inferiori all’intera cifra raccolta.

Una legge approvata l’anno scorso consente a Israele di detrarre i pagamenti effettuati ai prigionieri palestinesi e alle loro famiglie dalle entrate fiscali dell’Autorità Nazionale Palestinese, di cui Israele possiede il controllo.

La situazione di stallo dei trasferimenti delle tasse ha favorito una “grave crisi di liquidità” dell’ANP, la cui soluzione ha avuto la massima priorità nel corso di una conferenza internazionale di donatori sponsorizzata dall’ONU e tenutasi la scorsa settimana.

Ad agosto è stato effettuato un primo trasferimento delle entrate fiscali congelate. In tale circostanza, secondo quanto riferito da Haaretz, l’ANP ha dichiarato che Israele avrebbe “accettato di esentare l’ANP dall’accisa che applica per il carburante [fornito da Israele] … e di applicare retroattivamente questa esenzione [agli] ultimi sette mesi”.

Israele continuerà a trattenere i fondi equivalenti a quanto l’ANP versa alle famiglie dei prigionieri. Pertanto, il problema alla base della crisi che dura da mesi resta irrisolto.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani Al Mezan il trattenimento da parte di Israele delle entrate fiscali palestinesi è una violazione degli obblighi di Israele ai sensi dei contenuti del Protocollo di Parigi, stabilito a metà degli anni ’90 come parte degli accordi di Oslo .

Come ha affermato B’Tselem, un’altra organizzazione per i diritti umani [israeliana], in base al Protocollo di Parigi Israele riscuote le tasse per conto dell’Autorità Naizonale Palestinese, dandole il “controllo esclusivo sulle frontiere esterne e sulla riscossione delle tasse sull’importazione e del VAT [IVA, ndtr.]”.

Il quadro dell’unione doganale del Protocollo di Parigi è stato adottato perché, aggiunge B’Tselem, Israele “non voleva stabilire una frontiera [in materia] economica con l’Autorità Nazionale Palestinese, un provvedimento che avrebbe avuto un chiaro sentore di sovranità”.

L’Autorità Nazionale Palestinese valuta che l’economia della Cisgiordania e di Gaza subisca una perdita di almeno 320 milioni di euro all’anno a causa del modo in cui Israele mette in pratica il Protocollo di Parigi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 17 – 30 settembre ( due settimane)

Il 27 settembre, durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR) tenutasi ad est di Rafah, vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza ed Israele, un palestinese è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane. Altri 441, tra cui 193 minori, sono rimasti feriti; 90 [dei 441] presentavano ferite di arma da fuoco. Complessivamente, dal marzo 2018, data di inizio delle proteste della GMR, sono stati uccisi 210 palestinesi, tra cui 46 minori. Fonti israeliane hanno riferito che, durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto], contro le forze israeliane sono stati lanciati ordigni esplosivi artigianali, bombe a mano e bottiglie incendiarie; inoltre ci sono stati diversi tentativi di aprire brecce nella recinzione.

Nel corso di tre distinti episodi di accoltellamento, due donne israeliane sono state ferite, una donna palestinese è stata uccisa e due ragazzi sono stati arrestati [segue dettaglio]. Il 18 settembre, presso il checkpoint di Qalandiya che controlla l’accesso a Gerusalemme Est da nord, una donna palestinese si è avvicinata ai soldati con un coltello: le forze israeliane hanno sparato, colpendola ad una gamba: la donna è morta per dissanguamento. Il 25 settembre, uno dei due ragazzi (un 14enne), ha accoltellato e ferito una colona ad una stazione d’autobus vicina al checkpoint della Barriera nella città di Maccabim (Ramallah) ed è stato successivamente arrestato. Il secondo ragazzo palestinese è stato arrestato dopo aver accoltellato e ferito, il 26 settembre, una poliziotta nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Sei palestinesi sono rimasti feriti da un razzo, lanciato da Gaza verso Israele; il razzo è caduto all’interno della Striscia, ad est di Rafah, vicino alla loro casa. Durante il periodo di riferimento non sono stati registrati attacchi aerei israeliani.

In almeno 16 occasioni, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nelle aree della Striscia adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa [cioè le ARA, Aree ad Accesso Riservato]; non sono stati segnalati feriti. Le forze israeliane hanno effettuato quattro incursioni [nella Striscia] e compiuto operazioni di spianatura del terreno nei pressi della recinzione. Un palestinese è stato arrestato dalle forze israeliane al valico di Erez, dopo essere stato convocato per un colloquio con i funzionari della sicurezza,

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, nel corso di numerosi scontri, le forze israeliane hanno ferito un totale di 68 palestinesi, tra cui sette minori [segue dettaglio]. 19 sono rimasti feriti nella città di Al ‘Eizariya (governatorato di Gerusalemme), in scontri con le forze israeliane. In tale località gli scontri si sono protratti, con regolarità, per più di un mese. Altri 24 palestinesi sono rimasti feriti in operazioni di ricerca-arresto condotte dalle forze israeliane; 16 [dei 24 ferimenti] sono avvenuti nel villaggio di Azzun (Qalqiliya), dove le operazioni hanno anche implicato la chiusura dei negozi e del cancello posto sull’accesso principale del villaggio. Infine, due palestinesi sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la protesta settimanale contro l’espansione degli insediamenti. Oltre la metà dei feriti è stata curata per inalazione di gas lacrimogeno, il 20% per lesioni causate da proiettili di gomma ed i restanti per le aggressioni fisiche e le ferite di arma da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato un totale di 191 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 167 palestinesi. La maggior parte delle operazioni sono state condotte nei governatorati di Ramallah (58), Gerusalemme (45) ed Hebron (23).

Nel sud di Hebron, citando ragioni di sicurezza, le autorità israeliane hanno installato una barriera permanente lungo una strada chiave, ostacolando ulteriormente gli spostamenti delle vulnerabili Comunità di pastori. Tale barriera limiterà il movimento di circa 800 palestinesi appartenenti a quattro Comunità a rischio di trasferimento forzato. Esse, infatti, vivono in un’area (Massafer Yatta) che, in aggiunta ad altre pratiche restrittive, Israele ha designato come “zona per esercitazione a fuoco” per l’addestramento militare.

Coloni israeliani hanno compiuto quattro aggressioni che hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni ad ulivi; altri 12 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane in episodi collegati a coloni [segue dettaglio]. In due casi, avvenuti nella zona H2 (a controllo israeliano) della città di Hebron e nel villaggio di Beitin (Ramallah), coloni hanno lanciato pietre e ferito cinque palestinesi, tra cui un ragazzo di 14 anni. Gli altri due casi si sono verificati a Nablus: gli abitanti del villaggio di As Sawiya hanno riferito che coloni hanno rubato le loro olive ed hanno vandalizzato 47 alberi, mentre nel villaggio di Duma hanno spruzzato slogan sulle case e hanno vandalizzato un veicolo. Altri 12 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane durante scontri scoppiati in concomitanza con la visita di coloni israeliani a siti religiosi delle città di Nablus e Halhul (Hebron). Infine, vicino all’insediamento avamposto di Havat Ma’on (Hebron) [insediamento colonico illegale anche per Israele], coloni hanno aggredito verbalmente ed intimidito i volontari internazionali che accompagnavano pastori palestinesi.

In Area C e Gerusalemme Est, durante il periodo di riferimento, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 12 strutture di proprietà palestinese, sfollando sette persone. Tutte le strutture, tranne una “tenda di protesta”, sono state demolite per mancanza di permessi edilizi israeliani. La tenda era stata eretta nella zona di Al Muntar, vicino alla città di Al ‘Eizariya (Gerusalemme), per protesta contro un nuovo insediamento colonico avamposto. Palestinesi hanno riferito che l’avamposto è stato eretto sulla loro terra e che ne rende problematico l’accesso a circa 300 persone. Gli sfollamenti sopraccitati sono avvenuti a Gerusalemme Est, dove sono state demolite tre abitazioni nei quartieri di Beit Hanina, Silwan e At Tur. Le restanti proprietà demolite includevano quattro strutture di sostentamento, due case in costruzione, una cisterna per l’acqua e recinzioni in cemento in cinque località dell’Area C. Finora, in Cisgiordania, nel 2019 sono state demolite o sequestrate 439 strutture, con un aumento di oltre il 40% rispetto al periodo equivalente del 2018.

Secondo fonti israeliane, nell’area di Ramallah, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni a un’auto.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Perché Israele si dibatte per venir fuori da uno stallo politico

Jonathan Cook 2 ottobre 2019 mondoweiss

Sarebbe un grave errore supporre che l’attuale fase di stallo politico in Israele – nella quale né il primo ministro in carica Benjamin Netanyahu né il suo principale rivale Benny Gantz sembrano in grado di mettere insieme un governo di coalizione – sia il segnale di un profonda frattura ideologica.

In termini politici, non esiste nessuna spaccatura in Israele. Nelle elezioni generali di questo mese, il 90 % degli ebrei israeliani ha votato per partiti o della destra militarista e anti-araba oppure dell’estrema destra religiosa anti-araba.

I due partiti che dichiarano di rappresentare il centro-sinistra – le versioni ribattezzate del Labour e di Meretz – hanno avuto solo 11 seggi in un parlamento composto da 120 membri.

Ancora più strano, i tre partiti che affermano di voler formare un “governo di grande coalizione” hanno avuto circa il 60% dei voti.

Il Likud di Netanyahu, il partito Blu e Bianco di Gantz guidato da ex generali, e l’ Yisrael Beiteinu dell’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman si sono assicurati, insieme, 73 seggi – ben oltre i 61 necessari per la maggioranza.

Tutti e tre sostengono il rafforzamento dell’occupazione e l’annessione di parti della Cisgiordania; tutti e tre pensano che gli insediamenti siano giustificati e necessari; tutti chiedono che l’assedio di Gaza continui; tutti vedono la leadership palestinese come inaffidabile; e tutti vogliono che i vicini stati arabi si facciano piccoli per la paura.

Moshe Yaalon, generale collega di Gantz nel partito Blu e Bianco, era stato in passato una figura chiave nel Likud al fianco di Netanyahu. E Lieberman, prima di creare il suo partito, era il responsabile dell’ufficio di Netanyahu. Questi non sono nemici politici; sono stretti alleati sul piano ideologico.

Esiste una differenza significativa ma non del tutto insormontabile. Gantz pensa che sia importante mantenere il sostegno bipartisan degli Stati Uniti all’occupazione militare da parte di Israele, mentre Netanyahu ha preferito affidare la sorte di Israele a Donald Trump e alla destra religiosa cristiana.

Reuven Rivlin, presidente di Israele, ha sollecitato i tre partiti a lavorare insieme. Ha suggerito che Netanyahu e Gantz si alternino nel ruolo di primo ministro, una prassi già utilizzata in Israele in passato.

Ma dopo che la scorsa settimana Gantz ha posto un rifiuto, il presidente ha assegnato a Netanyahu il compito di cercare di formare un governo, sebbene la maggior parte degli osservatori ritenga che lo sforzo si rivelerà inutile. Dopo le elezioni non risolutive in aprile e settembre, Israele sembra quindi avviarsi verso un terzo turno elettorale.

Ma se lo stallo non è ideologico, quale ne è la causa?

In verità, la paralisi è stata determinata da due paure: una nel Likud, l’altra nel Blu e Bianco.

Gantz è felice di sedere in un governo di unità con il Likud. La sua difficoltà è allearsi con Netanyahu, i cui avvocati hanno iniziato questa settimana le udienze con il procuratore generale per molteplici accuse di frode e abuso d’ufficio. Netanyahu vuole restare al potere per poter imporre una legge che gli garantirebbe l’immunità dall’accusa.

Blu e Bianco è stato costituito per estromettere Netayahu perché è un corrotto e sta energicamente distruggendo ciò che resta delle istituzioni democratiche israeliane, anche attraverso il tentativo di denigrare i pubblici ministeri che lo indagano.

Per Blu and Bianco sostenere ora Netanyahu in un governo di coalizione rappresenterebbe un tradimento nei confronti dei propri elettori.

La soluzione per il Likud, quindi, dovrebbe essere ovvia: eliminare Netanyahu e condividere il potere con Blu e Bianco.

Ma il problema è che i membri del Likud sono assolutamente schiavi del loro leader. Il pensiero di perderlo li terrorizza. Il Likud ora sembra più un credo religioso verso un uomo che un partito politico.

Gantz, nel frattempo, è preda di un diverso tipo di paura.

Senza il Likud, l’unica soluzione per Gantz è chiedere appoggio altrove. Ma ciò lo legherebbe ai 13 seggi della Lista Comune, una coalizione di partiti che rappresenta la grande minoranza israeliana di cittadini palestinesi.

E lì è il problema. Blu e Bianco è un partito profondamente arabo-fobico, proprio come il Likud e l’Yisrael Beiteinu. Il suo unico leader civile, Yair Lapid, ha notoriamente rifiutato di lavorare con i partiti palestinesi dopo le elezioni del 2013 – prima che Netanyahu facesse dell’istigazione al razzismo il marchio della sua campagna elettorale.

Lapid ha dichiarato: “Non starò mai con gli Zoabi”, un riferimento al più importante dei legislatori palestinesi dell’epoca, Haneen Zoabi.

Allo stesso modo, Gantz ha più volte ribadito il suo rifiuto di sedere in Parlamento con la Lista Comune.

Tuttavia, il leader della Lista Comune Ayman Odeh la scorsa settimana ha fatto un gesto senza precedenti, offrendo a Gantz il contributo [elettorale] della maggior parte della sua corrente.

Non è stata una concessione facile, date le posizioni di Gantz e [dato] il suo ruolo nel 2014 nel condurre la distruzione di Gaza al comando dell’esercito. La mossa ha fatto arrabbiare molti palestinesi nei territori occupati.

Ma Odeh a settembre ha assistito, come risultato, ad un balzo in avanti del 10% dei votanti nella minoranza palestinese rispetto alle elezioni di aprile, tanto è disperato il desiderio dei suoi elettori di sbarazzarsi di Netanyahu.

I sondaggi segnalano anche una crescente frustrazione tra i cittadini palestinesi per la loro scarsa influenza politica. Sebbene i colloqui di pace siano fuori dall’agenda di Israele, alcuni in quella minoranza sperano di ottenere un po’ di sollievo per la loro comunità dopo decenni di aspre discriminazioni istituzionali.

In un articolo pubblicato sul New York Times la scorsa settimana, Odeh ha spiegato il suo sostegno a Gantz. Intenderebbe inviare “un chiaro messaggio, che l’unico futuro per questo paese sia un futuro condiviso e che non esista un futuro condiviso senza la piena ed equa partecipazione dei cittadini arabo palestinesi”.

Gantz sembra indifferente. Secondo un’indagine dei media israeliani, Netanyahu ha avuto per primo l’opportunità di formare un governo perché Gantz è impallidito all’idea.

Era preoccupato che se fosse stato colto in un negoziato con la Lista Comune, Netanyahu lo avrebbe nuovamente infangato – e danneggiato agli occhi degli elettori.

Netanyahu ha già dipinto le alternative in termini netti: o un governo di coalizione con lui a capo, o un governo Blu e Bianco sostenuto da coloro che “sostengono i terroristi”.

Il leader del Likud potrebbe ancora estrarre un coniglio dal suo cappello malconcio. Gantz o Lieberman potrebbero cedere, di fronte ad affermazioni provocatorie [tipo] che altrimenti “gli arabi” infilerebbero un piede nella porta. Oppure Netanyahu potrebbe dare il via ad uno stato di emergenza nazionale, persino a una guerra, per costringere i suoi rivali a sostenerlo.

Ma nel caso di una terza elezione, Netanyahu avrebbe ottime ragioni per assicurarsi, questa volta, un successo. E ciò richiederà senza dubbio il rapido ricorso a un’altro pericoloso ingranaggio contro la minoranza palestinese.

La realtà è che in Israele esiste una forte unità – nella condivisione di atteggiamenti profondamente violenti nei confronti dei palestinesi, siano essi cittadini o vittime dell’occupazione. Paradossalmente, l’unico ostacolo alla concretizzazione di tale unità è rappresentato dagli sforzi di Netanyahu di tenersi aggrappato al potere.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il nazionalismo colonialista ispirato dalla religione alimenta le guerre di Israele

Rod Such

14 agosto 2019 – The Electronic Intifada

War over Peace: One Hundred Years of Israel’s Militaristic Nationalism [Guerra alla Pace: cento anni di nazionalismo militarista di Israele] di Uri Ben-Eliezer, University of California Press (2019)

War over Peace, del sociologo israeliano Uri Ben-Eliezer, solleva una serie di domande relative alla natura della società israeliana, e soprattutto sul perché Israele abbia tentato di risolvere con la guerra invece che con mezzi diplomatici praticamente ogni conflitto che ha incontrato o generato.

La sua risposta può essere brevemente sintetizzata in questo modo: la guerra e la violenza sono intrinseche all’ideologia sionista. I suoi elementi fondamentali – etno-nazionalismo e militarismo – promanano dall’imperativo di dominare e controllare la “Terra di Israele” in modo esclusivo, senza concedere potere politico agli arabi. Questo imperativo non può essere visto semplicemente da un punto di osservazione politico o economico, ma come una conseguenza della cultura colonialista di insediamento del sionismo. Quella cultura, conclude Ben-Eliezer, si basa sempre di più su una forma di nazionalismo colonialista ispirato dalla religione.

Un precedente libro di Ben-Eliezer, The Making of Israeli Militarism [La Creazione del Militarismo Israeliano] (1998), indaga la creazione di Israele come una “Nazione in armi”, un tema che riprende anche in questo libro.

War over Peace è per molti versi complementare a “Fortress Israel” [Fortezza Israele] di Patrick Tyler, solo che quest’ultimo non riesce a dar conto degli elementi di etno-nazionalismo nell’ideologia sionista individuati da Ben-Eliezer. Benché sociologo di formazione, Ben-Eliezer usa una prospettiva storica per esaminare l’evoluzione della cultura da “nazionalismo militarista” di Israele. Costruisce una narrazione che abbraccia la prima colonizzazione sionista pre-statuale, la Nakba del 1947-49, la guerra di Suez del 1956, le guerre del 1967 e del 1973 con i circostanti Paesi arabi, le due invasioni del Libano, le intifada palestinesi e le più recenti guerre contro Gaza.

In ogni capitolo egli inserisce riflessioni sul carattere etno-nazionalista che sta dietro ai conflitti, ma in questo studio tende a predominare l’inquadramento storico. Di conseguenza il lettore ne ricava un’analisi più storica che sociologica, molto probabilmente perché l’autore riconosce la necessità di smitizzare la propaganda che Israele ha utilizzato per descriversi come il debole David circondato dai Golia arabi.

Sete di potenza”

Ben-Eliezer inizia il suo racconto con un’analisi del movimento sionista pre-statuale, che divide in tre campi – laburista, revisionista e binazionale – dedicando una particolare attenzione alla critica del nazionalismo etnocentrico fatta da intellettuali del gruppo binazionale noto come “Brit Shalom”.

Notando l’affinità del campo revisionista con il fascismo europeo, egli attribuisce all’Olocausto la definitiva predominanza del sionismo laburista. Ben-Eliezer afferma che il destino degli ebrei europei sotto il fascismo nazista convinse la maggioranza dei coloni sionisti a credere che la potenza militare fosse indispensabile. Facendo citazioni dall’archivio del gruppo sionista laburista a partire dal 1943, egli evidenzia la loro convinzione della necessità di “una sete di potenza, un aumento di potenza, una smania di potenza”.

La ricerca di capacità militari portò il leader del sionismo laburista David Ben Gurion a sostenere la creazione di un esercito e poi il trasferimento di massa dei palestinesi, anticipando la fine del Mandato Britannico [sulla Palestina, ndtr.] in seguito alla raccomandazione per la partizione da parte delle Nazioni Unite.

Ben-Eliezer respinge l’affermazione dello storico israeliano Benny Morris secondo cui non c’è una prova documentaria che dimostri che ci sia stato un ordine esplicito di espulsione di massa [dei palestinesi, ndtr.]. Ben-Eliezer sostiene che l’esistenza di un simile documento non è necessaria, perché l’intenzione di espellere i palestinesi in modo massiccio era ben compresa ed accettata tra i paramilitari sionisti e scaturiva senza soluzione di continuità da una “condizione mentale, una percezione culturale, da un’ideologia.”

L’obiettivo della pulizia etnica divenne chiarissimo, aggiunge l’autore, quando le forze israeliane rifiutarono il diritto dei palestinesi a tornare alle loro case molto dopo la creazione di Israele. La continua espulsione alla fine del 1948 e all’inizio del 1949 non aveva niente a che vedere con la sicurezza, scrive. Al contrario, sostiene Ben-Eliezer, queste espulsioni evidenziano “un chiaro proposito etno-nazionale: evitare ogni possibilità di futura partizione” e quindi ogni richiesta araba sul rimanente 22% della Palestina mandataria. Anche allora i dirigenti israeliani volevano quei territori come pare del Grande Israele.

War over Peace rende evidente la tesi di altri storici o studiosi secondo cui il principale obiettivo del colonialismo di insediamento era la conquista della terra.

Lo stato maggiore dell’esercito israeliano, nota, pianificò l’acquisizione di più territorio fin dal 1963. A quel tempo l’esercito era diventato talmente potente che avrebbe potuto andare oltre la leadership civile, cosa che fece ignorando semplicemente una strategia di de-escalation appoggiata dal primo ministro Levi Eshkol e iniziando la guerra del 1967 contro le forze egiziane, una linea di condotta che più tardi divenne famosa come “la rivolta dei generali”.

Sionismo religioso

La conseguente occupazione israeliana della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, della Striscia di Gaza, della penisola del Sinai e delle Alture del Golan siriane portò allo scoperto quello che Ben-Eliezer denomina “sionismo religioso”. Ciò che era stato un occasionale sottinteso utilizzato sia dai sionisti laici che religiosi per giustificare le azioni di Israele ora risultò essere la prevalente giustificazione per la conquista di tutta la Palestina.

Questo nuovo movimento nazionalista religioso evitò di addurre ragioni di sicurezza per la conquista e invece mise insieme argomenti religiosi e nazionalisti con l’affermazione secondo cui i territori occupati furono dati agli ebrei da dio e quindi non possono essere ceduti.

Gli insuccessi militari patiti da Israele nella guerra del 1973 con Egitto e Siria e durante le successive invasioni israeliane del Libano portarono a una ridefinizione di questo ethos religioso-nazionalista e all’emergere di gruppi contro la guerra come “Peace Now” [Pace Ora]. Le perdite subite in questi conflitti determinarono una messa in discussione pubblica sulla questione se il nazionalismo fosse coerente con l’ebraismo.

Ben-Eliezer descrive come fondamentale punto di svolta quando nel 1983 un nazionalista di destra lanciò una granata contro una manifestazione di “Peace Now”, uccidendo un israeliano: “La sua uccisione segnò uno spartiacque, dopo il quale la società israeliana non sarebbe più stata la stessa. L’epoca dell’egemonia e del consenso nei confronti del processo di costruzione della Nazione e della formazione dello Stato era giunta al termine.”

L’autore è meno efficace nello spiegare come questo momento di svolta, che vide l’apparizione di quello che Ben-Eliezer definisce “nazionalismo progressista” o “civile”, abbia rappresentato solo un breve periodo nella storia sociale di Israele.

Ben-Eliezer riconosce che l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso nel 1995 e il fatto che Israele non abbia tenuto fede agli accordi di Oslo giocarono un ruolo in quello che definisce una ritirata rispetto ad una società più progressista. Ciò coincise con il riemergere del nazionalismo religioso in una forma ancora più virulenta. Ma l’autore è meno accurato nella spiegazione del perché ciò avvenne.

Potrebbe darsi che Oslo e la prospettiva della partizione nella forma della soluzione dei due Stati abbia amplificato, invece di mettere in discussione, i fondamenti dell’etno-nazionalismo?

In ogni caso War over Peace merita attenzione per la sua penetrante analisi del ruolo della cultura e dell’ideologia nella formazione del colonialismo di insediamento israeliano.

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’anti-palestinismo è il moderno maccartismo

AsaWinstanley

1 ottobre 2019Middle East Monitor

Come sanno i lettori abituali di questa rubrica, nel Regno Unito l’atmosfera maccartista contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi sta peggiorando. Ciò è dovuto in parte al consenso della leadership del partito laburista alla campagna diffamatoria che mira a rappresentare il partito come anti-semita. L’anno scorso, l’accettazione da parte del comitato esecutivo nazionale del partito laburista della falsa “definizione operativa” di antisemitismo da parte dell‘IHRA (Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto) ha fornito al documento diffusione e approvazione immeritate, confondendo deliberatamente l’antisemitismo con le critiche ad Israele per essere quello stato razzista che così evidentemente è.

Non sorprende che l’accettazione del documento dell’IHRA abbia portato i consigli comunali che lo hanno adottato a proibire in quanto “antisemite” persino innocue manifestazioni di solidarietà con l’esistenza della Palestina. Forse l’esempio più vergognoso è stato l’anno scorso, quando il consiglio comunale di Tower Hamlets [quartiere del centro di Londra, ndtr.] ha vietato al Big Ride for Palestine [Grande Corsa per la Palestina, gara ciclistica e attività di sensibilizzazione che si svolgono a Manchester e Londra, ndtr.] l’uso dei suoi parchi pubblici e spazi aperti per la manifestazione e i comizi.

Gli organizzatori del Big Ride avevano fatto domanda di autorizzazione presso tutte le istituzioni preposte: inizialmente erano stati mandati dagli impiegati comunali da un ufficio all’altro e poi avevano ricevuto un rifiuto sulla base di un’affermazione completamente pretestuosa, cioè che il Comune non permetteva raduni “politici” nei suoi parchi pubblici. Tale affermazione è stata contraddetta dallo stesso sindaco laburista di Tower Hamlets, John Biggs, che aveva precedentemente usato proprio lo stesso parco richiesto dal Big Ride per uno dei suoi raduni elettorali.

Le email di Tower Hamlets, ottenute grazie alla legge sulla libertà di informazione, hanno rivelato che la vera ragione per il divieto era che gli impiegati comunali avevano deciso che l’evento poteva violare la falsa definizione di antisemitismo dell’IHRA. Perché? Perché il sito web del Big Ride for Palestine afferma, correttamente, che ci sono “paralleli fra l’apartheid in Sud Africa e lo Stato di Israele.”

Il Big Ride for Palestine resta una delle forme di solidarietà verso la Palestina più inoffensive e condivisibili che si possano immaginare. Non progettava un’azione diretta contro i commercianti di armi che potrebbero teoricamente rischiare l’arresto. Non coinvolgeva degli oratori discussi e sobillatori.

Era semplicemente una corsa in bici sponsorizzata per raccogliere fondi per i bambini palestinesi vittime della guerra. Più precisamente, i corridori e i loro sponsor volevano aiutare i bambini di Gaza che soffrono di disturbi da stress postraumatico e altre patologie causate dalle varie guerre israeliane sui territori palestinesi, raccogliendo fondi per comprare degli equipaggiamenti sportivi. Il fatto che Tower Hamlets abbia vietato un evento così perché potenzialmente “antisemita” rivela quanto la definizione di antisemitismo dell’IHRS sia falsa.

Se le cose vanno male da questa parte del canale della Manica, pensate alla situazione degli attivisti per i diritti dei palestinesi nel resto dell’Europa. In Francia e Germania la situazione è persino peggiore, specie in Germania.

Da quando, a maggio, la camera bassa del parlamento tedesco ha approvato una mozione (non-vincolante) di condanna del movimento BDS, questo neo-maccartismo è ulteriormente peggiorato. L’establishment letterario e culturale tedesco ha cominciato a vietare, escludere e, ironia delle ironie, boicottare figure culturali internazionali se sostengono la campagna per i diritti dei palestinesi del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Più agghiacciante ancora, alle associazioni culturali tedesco-palestinesi è vietato l’uso di spazi pubblici, a causa del loro sostegno al BDS. Questo ha conseguenze di vasto raggio dato che, sostanzialmente, tutta la società civile palestinese sostiene il movimento BDS, che è totalmente non-violento.

Due casi recenti esemplificano questa agghiacciante atmosfera politica maccartista. A giugno, il rapper afro-americano Talib Kweli, famoso per i suoi testi socialmente e politicamente impegnati, è stato escluso da un festival musicale tedesco dopo che si era rifiutato di cedere alle insistenze degli organizzatori di condannare il movimento BDS. Kweli è un sostenitore del BDS da molti anni e, cosa da ammirare, ha rifiutato la richiesta di “censurare me stesso e mentire sul BDS per soldi.”

Più di recente, una città tedesca ha revocato un premio alla scrittrice anglo-pakistana Kamila Shamsie per il suo sostegno al movimento BDS. “I membri della giuria non sapevano che l’autrice era stata un membro del movimento, dal 2014 aveva partecipato e continua a partecipare al boicottaggio del governo di Israele per le sue politiche nei confronti dei palestinesi” ha annunciato il Comune di Dortmund che assegna il premio Nelly Sachs.

Questo modo di fare della censura politica da parte della città di Dortmund nei confronti di una scrittrice importante è stato ampiamente condannato. Fra i critici ci sono Yasmin Alibhai-Brown, editorialista, Naomi Klein, scrittrice e giornalista, e la deputata pachistana Sherry Rehman.

Il blog tedesco che per primo ha attirato l’attenzione sul sostegno di Shamsie al BDS è un sito apertamente razzista. Sebbene in teoria sia di orientamento politico “liberale” quando si tratta di Israele, Ruhrbarone è apertamente anti-palestinese, arrivando addirittura a invocare il genocidio. A novembre dello scorso anno, durante un particolare attacco israeliano contro la popolazione della Striscia di Gaza, il blog Ruhrbarone  ha twittato una vignetta apertamente genocida, chiedendo, presumibilmente allo Stato sionista, di “trasformare Gaza in una Garzweiler”.

Garzweiler è una miniera di carbone a cielo aperto. La richiesta del blogger di decimare e radere al suolo il territorio palestinese assediato, abitato da 2 milioni di persone, quasi tutti civili disarmati, non avrebbe potuto avere intenti più apertamente genocidi. È da notare che gli autori del blog tedesco hanno usato l’inglese in modo da rendere ancor più comprensibili le loro intenzioni.

In Germania sembra che, quando l’obiettivo sono i palestinesi, un linguaggio violento e persino genocida sia ammissibile. Tuttavia movimenti pacifici come il BDS, che cercano di spingere Israele a cambiare le sue politiche razziste che negano ai palestinesi i diritti umani e civili più elementari, sono palesemente proibiti.

Questo, insieme al tentativo di bandire le associazioni culturali palestinesi dalla vita pubblica in Germania, rivela il razzismo insito nel tentativo di mettere oggi al bando il movimento BDS in Europa. L’anti-palestinismo, in tutte le sue forme mostruose, è davvero il maccartismo di oggi.

Le opinioni contenute in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)