La comunità internazionale è complice delle torture di Israele ai palestinesi

Ramona Wadi

2 ottobre 2019 – Middle East Monitor

Le torture subite dal prigioniero palestinese Samer Arabeed da parte degli agenti israeliani dello Shin Bet [servizi segreti interni, ndtr.] che lo interrogavano hanno dimostrato, ancora una volta, che il divieto di tale trattamento, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione ONU contro la Tortura, è poco più di una serie di punti di riferimento utilizzati dalle associazioni per i diritti umani come monito per i torturatori.

Arabeed è stato trasferito all’ospedale Hadassah in seguito a pesanti torture dopo essere stato arrestato per la sua presunta partecipazione in agosto ad un attacco con una bomba. Una dichiarazione dell’associazione di sostegno ai detenuti e per i diritti umani, Addameer, ha riferito che Israele ha ammesso di aver utilizzato “metodi estremi ed eccezionali durante gli interrogatori, che in realtà equivalgono a torture”.

Il ministero di Giustizia israeliano ha annunciato un’indagine per decidere se si debbano avviare procedimenti penali contro i funzionari dello Shin Bet. Le torture subite da Arabeed gli hanno provocato rottura delle costole e perdita di conoscenza. Ora la sua situazione lo mette in pericolo di vita e dipendente da un macchinario di supporto vitale. Il suo trasferimento dal carcere all’ospedale è stato comunicato in ritardo alla sua famiglia e al suo avvocato.

Lo scorso luglio il prigioniero palestinese Nasser Taqatqa è morto dopo essere stato torturato e interrogato dallo Shin Bet. Le testimonianze di ex prigionieri palestinesi confermano il fatto che negli interrogatori israeliani si utilizza sistematicamente la tortura. Nel 2013 Arafat Jaradat morì sotto tortura mentre era detenuto nel carcere di Megiddo.

Nel novembre 2018 la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza favorevole alla tortura nel caso che il detenuto sia membro di “una organizzazione terroristica individuata come tale”, sia coinvolto nella resistenza armata o quando non esista altro mezzo per ottenere informazioni. Se Israele ha stabilito questa immunità, come si può sperare che il continuo riferimento alle leggi e alle convenzioni internazionali sia sufficiente per impedire la tortura dei prigionieri palestinesi?

Definendo i dettagli sulla proibizione della tortura, la comunità internazionale evitò la responsabilizzazione, allo scopo di garantire i diritti umani agli autori e un labirinto di vicoli ciechi senza uscita per le vittime. Tra questi due estremi, le organizzazioni per i diritti umani si sono fatte carico di difendere i principi al posto dei governi, ma per il loro limitato potere o, in alcuni casi, per i loro programmi parziali, non hanno potuto realizzare nessun sistema di giustizia praticabile.

Israele è assolutamente consapevole di questa discrasia e sfrutta la mancanza di responsabilizzazione per falsificare ciò che costituisce un metodo accettabile di tattiche di interrogatorio. La totale marginalizzazione dei palestinesi da parte della comunità internazionale relativamente ai loro diritti ha facilitato la costante normalizzazione della tortura da parte di Israele, in totale violazione del diritto internazionale, in assenza di una condanna collettiva.

Il risultato è una permanente separazione tra le informazioni diffuse e il tipo di azione legale che fornirebbe ai prigionieri palestinesi una possibilità di giustizia. Le organizzazioni per i diritti umani come Addameer si vedono costrette ad una collaborazione involontaria con la diplomazia, girando continuamente a vuoto per svegliare le coscienze, che è ciò che la comunità internazionale voleva in primo luogo quando non ha potuto mantenere l’assunzione di responsabilità.

Chiedere la liberazione di Arabeed non significherà la fine della feroce violenza di Israele. E’ una mossa preventiva rispetto a nuove torture, ma dietro a questa storia ve ne sono altre che sono sfuggite alla scarsa attenzione dei media che sbatte i nomi delle vittime in prima pagina, anche se per breve tempo. Addameer da sola non può ottenere giustizia per i prigionieri palestinesi. Come minimo, dovrebbe esserci un’attenzione globale collettiva per mostrare la complicità della comunità internazionale nella tortura e la sua agenda ingannevole sui diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramona Wadi

Fa parte della redazione di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)

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Guardate Hebron e vedrete l’occupazione nel suo complesso

Eyal Hareuveni

29 settembre 2019 +972 Magazine

Le colonie, i checkpoint ed i muri che sono la realtà della popolazione palestinese di Hebron vengono ora replicati ovunque in tutta la Cisgiordania.

Chi visita per la prima volta la colonia ebraica nel centro della città vecchia di Hebron potrebbe avere l’impressione di essere finito nel cuore dell’oscurità. È qui che le politiche di occupazione militare israeliana hanno toccato il picco della barbarie: reggimenti di soldati sono dispiegati per proteggere 700 coloni ebrei che vivono in un’enclave che è diventata un luogo di degrado urbano in conseguenza delle misure di sicurezza dell’esercito. I 200.000 palestinesi residenti della città non possono fare nulla per contrastare le misure oppressive che rendono insopportabili le loro vite.

A Hebron l’esercito ha distrutto o sigillato le case dell’epoca mamelucca [regno egiziano durato dalla metà del XIII alla metà del XVI secolo, ndtr.] che costeggiano il cosiddetto Cammino dei Fedeli, un sentiero riservato esclusivamente ai coloni ebrei in quanto è il loro percorso verso la Tomba dei Patriarchi [la moschea di Ibrahim per i musulmani, ndtr.]. Shuhada Street, un tempo vivace fulcro commerciale dell’intera Cisgiordania meridionale, è immersa nel silenzio; i commercianti hanno abbandonato i loro negozi e quasi tutti gli abitanti se ne sono andati. Né è possibile ignorare le decine di checkpoint attrezzati con tecnologie avanzate di riconoscimento facciale. Queste riproposizioni nel XXI secolo delle fortezze medievali mantengono la colonia ebraica separata dal resto di Hebron.

Alcuni palestinesi sono rimasti, anche se le loro vite sono controllate e gestite dalle forze di sicurezza israeliane. Quasi tutti dicono che, se solo avessero potuto, avrebbero lasciato la città fantasma in cui da tempo Israele li ha intrappolati. Ogni attività quotidiana – andare a scuola o al lavoro, fare o ricevere visite dai famigliari, partecipare a feste di famiglia, addirittura andare a fare la spesa – comporta stare in fila ai checkpoint e subire un trattamento umiliante.

Quasi ogni giorno, nella pressoché totale impunità, soldati, poliziotti e coloni commettono violenze contro i palestinesi. I soldati li sottopongono a perquisizioni umilianti, fanno incursione nelle loro case nel cuore della notte ed eseguono finti arresti. Tutti questi sono normali aspetti dell’occupazione in generale, ma ad Hebron sono molto più continui.

Nel 2007 Hagai Alon, allora collaboratore dell’ex Ministro della Difesa Amir Peretz [dirigente del partito Laburista israeliano, ndtr.], disse che lo scopo di queste politiche era di “svuotare Hebron dagli arabi” – in altri termini, scacciare la popolazione civile con la forza. In base al diritto umanitario internazionale, il trasferimento forzato di popolazione civile è un crimine di guerra.

Il modello di Hebron non è unico. Le forze di occupazione usano le stesse tattiche in tutta la Cisgiordania, in modi differenti ma con lo stesso scopo – la sempre più violenta espulsione dei palestinesi dalle loro case e dalle loro terre. Insediamenti, checkpoint e muri circondano i principali centri urbani palestinesi, ed anche villaggi come Susiya e Khan al-Ahmar. Gli abitanti di questi due villaggi devono anche affrontare la minaccia di espulsione nel tentativo di spingerli a forza in enclave più grandi. Lo stesso avviene nella Valle di Shiloh, nel blocco di colonie di Talmonim, in tutta la Valle del Giordano dove sono sorti gli avamposti, a Gerusalemme est, intorno a Betlemme e nel sud della Cisgiordania. In altre parole, avviene ovunque.

Il meglio di Israele ha preso parte a questa ingiustizia: i giudici della Corte Suprema, gli alti ufficiali dell’esercito e degli apparati di sicurezza, i membri dell’Avvocatura Generale dell’esercito, l’ufficio della Procura di Stato e, ovviamente, politici di destra e di sinistra. Tutti hanno tollerato la violenza, a Hebron e dovunque in Cisgiordania. Tutti hanno legittimato l’espulsione dei palestinesi e il furto delle loro proprietà – e non solo ad Hebron. Tutti hanno appoggiato la continua oppressione dei palestinesi, anche dopo che gli atroci effetti di questa politica sono diventati evidenti.

I coloni amano dire: “Hebron: infine e per sempre”. Ma Hebron è molto più di ciò: è qui, là e dovunque. Guardate Hebron e vedrete tutti i territori occupati.

Eyal Hareuveni è un ricercatore di B’Tselem. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Palestinese ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato interrogato dagli israeliani

Shatha Hammad da Ramallah, Cisgiordania occupata

29 settembre 2019 – Middle East Eye

Gli avvocati e la famiglia di Samir Arbeed accusano lo Shin Bet israeliano di torture in seguito a percosse e a metodi di interrogatorio “eccezionali”

Gli avvocati e la famiglia dicono che un detenuto palestinese è stato ricoverato in ospedale e si trova in condizioni critiche dopo essere stato torturato e duramente percosso durante l’arresto e l’interrogatorio.

Secondo i suoi legali Samir Arbeed, di 44 anni, accusato di essere responsabile di un attacco nella Cisgiordania occupata, era in buone condizioni di salute prima di essere preso in custodia da Israele mercoledì. Tuttavia, dopo essere stato sottoposto a un interrogatorio da parte del servizio di intelligence interno di Israele Shin Bet è stato trasferito all’ospitale Hadassah di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno accusato Arbeed di essere la mente della cellula che in agosto ha effettuato un attentato dinamitardo, che ha ucciso una diciassettenne israeliana, nei pressi della colonia illegale di Dolev, nella Cisgiordania occupata a nord est di Ramallah.

Sabato lo Shin Bet ha affermato che i membri della cellula fanno parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e che tutti e quattro sono stati arrestati. Lo Shin Bet ha anche sostenuto che la cellula stava pianificando un altro attentato.

Secondo mezzi di informazione israeliani un giudice ha concesso al servizio di sicurezza il permesso di “utilizzare mezzi eccezionali per interrogare” Arbeed.

Noura Miselmani, la moglie di Arbeed, ha detto a Middle East Eye di aver visto forze speciali israeliane colpire suo marito mentre veniva arrestato mercoledì di fronte al suo posto di lavoro nella città di al-Bireh. Afferma che giovedì, quando ha detto al giudice di essere sofferente e non in condizioni di mangiare per i colpi subiti, Arbeed è comparso davanti al tribunale con evidenti lividi.

Nonostante le sue difficili condizioni, il giudice ha adottato la decisione di consentire un interrogatorio militare e l’uso della forza per ricavare informazioni da lui,” ha detto.

Condizioni critiche

Sabato le autorità israeliane hanno detto a un avvocato di “Addameer”, un gruppo per i diritti dei detenuti palestinesi, che Arbeed era stato trasferito in ospedale.

Tuttavia Miselmani sostiene che in realtà Arbeed era stato ricoverato da venerdì.

Prima di essere arrestato era in buone condizioni. Mio marito non aveva nessuna malattia e la sua salute è peggiorata a causa delle torture subite,” afferma.

Sabato lo Shin Bet ha rilasciato una dichiarazione in cui dice: “Durante l’interrogatorio del capo della cellula terroristica responsabile dell’attacco nei pressi della sorgente Ein Buvin che ha ucciso Rina Shnerb, chi lo ha interrogato ha rilevato che egli non si sentiva bene. In base alla procedura è stato trasferito all’ospedale per esami e cure mediche. Non può essere fornito nessun altro particolare.”

Gli avvocati di Arbeed hanno detto che a loro è stato concesso di vederlo solo alle 22,30 di domenica, quando hanno scoperto che era arrivato in stato di incoscienza, con fratture alla cassa toracica, lividi, segni di percosse su tutto il corpo e grave insufficienza renale.

La sua famiglia afferma che a loro è stato impedito di vederlo e che lo Shin Bet ha rifiutato di fornire ogni ulteriore informazione sul caso.

Miselmani afferma che solo sabato lo Shin Bet ha emanato un comunicato nel tentativo di evitare ogni responsabilità legale nel caso Arbeed fosse morto.

Chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani di intervenire rapidamente per salvare mio marito Samir e di contribuire a garantire il suo immediato rilascio,” afferma.

Sahar Francis, direttrice di “Addameer”, sottolinea che la tortura di detenuti è illegale e che ogni confessione ottenuta in simili circostanze è inattendibile e dovrebbe essere ignorata.

In base allo Statuto di Roma quello che Samir ha subito è un crimine, soprattutto in quanto è entrato in condizioni critiche entro le 48 ore in conseguenza del fatto di essere stato torturato,” dice a MEE, aggiungendo che il suo ricovero in ospedale “conferma che è stato sottoposto a violenza e a gravissime torture.”

Francis sostiene che durante gli interrogatori militari di detenuti palestinesi le autorità israeliane usano normalmente metodi che costituiscono torture.

Ci sono decisioni della Corte Suprema israeliana che consentono allo Shin Bet di utilizzare la tortura come mezzo per estorcere confessioni,” afferma.

Estesa caccia all’uomo

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Arbeed è stato arrestato per la prima volta due settimane fa in quanto sospettato di altri delitti, ma è stato rilasciato.

Nuove informazioni secondo cui sarebbe stato in possesso di esplosivi, lo hanno visto di nuovo in arresto mercoledì, informa Haaretz.

Le forze israeliane hanno condotto una vasta caccia all’uomo in seguito all’attacco nei pressi di Dolev il 23 agosto. Anche il padre e il fratello della diciassettenne Shnerb sono rimasti feriti nell’esplosione.

Domenica il FPLP ha affermato che le forze israeliane hanno arrestato decine di suoi membri in varie località della Cisgiordania, aggiungendo che non si farà intimidire dagli arresti.

Siamo impegnati in un percorso di resistenza e ciò continuerà ad aumentare finché il vulcano palestinese erutterà in faccia all’occupazione e ai coloni,” afferma il FPLP in un comunicato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La corte israeliana approva l’uso di corpi palestinesi come moneta di scambio

Maureen Clare Murphy

19 settembre 2019 Electronic Intifada

Una famiglia palestinese del villaggio di al-Eizariya, dalle parti di Gerusalemme, non ha potuto seppellire il figlio quattordicenne, che è stato ucciso dalla polizia israeliana il mese scorso.

La famiglia di Nassim Abu Rumi ha presentato una istanza all’alta corte israeliana perché venga disposta la restituzione delle sue spoglie che, secondo quanto riferito, verranno trasferite venerdì. Israele restituirà anche i resti di Omar Younis, morto in un ospedale israeliano ad aprile dopo essere stato ucciso dalle forze di occupazione ad un posto di blocco in Cisgiordania.

Israele detiene i resti di oltre una decina di palestinesi recentemente uccisi durante presunti ed effettivi attacchi contro le forze di occupazione e contro civili.

Questo mese, in seguito ad una petizione da parte di diverse famiglie dei cui congiunti Israele è ancora in possesso delle spoglie mortali, la corte suprema del Paese ha decretato la sua decisione politica.

Come ha riportato The Times of Israel, la corte ha stabilito che l’esercito israeliano ha “il diritto legale di trattenere i corpi dei terroristi uccisi per usarli come leva in futuri negoziati con i palestinesi”.

Nel dicembre 2017, la corte ha dichiarato che Israele non ha l’autorità legale di detenere i corpi “fino a quando non venga dato il consenso a determinate disposizioni funebri” da parte della famiglia della vittima palestinese.

Israele, hanno dichiarato i giudici all’epoca, “non può trarre vantaggio dai cadaveri ai fini di negoziati dal momento che non esiste una legge specifica e chiara che gli consenta di farlo”.

L’anno successivo il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una legge che consente alla polizia di trattenere i corpi dei palestinesi uccisi nella circostanza in cui presumibilmente stiano compiendo un attacco contro israeliani.

Secondo The Times of Israel la legge autorizza i comandanti di polizia a trattenere un corpo se viene stabilito che il funerale della persona uccisa “potrebbe essere utilizzato per compiere un attacco o per fornire una occasione per esaltare il terrorismo”.

“Non ne abbiamo bisogno”

Il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan, che sovrintende alla polizia israeliana, ha dichiarato al momento dell’approvazione della legge che “il governo non vuole avvantaggiarsi di questi corpi. Per quanto ci riguarda, i cadaveri di questi maledetti terroristi marciranno. Non ne abbiamo bisogno.”

La sentenza della corte suprema israeliana di questo mese, tuttavia, mostra che lo Stato intende utilizzare i corpi come moneta di scambio per proteggere i soldati israeliani ancora trattenuti dai palestinesi.

Le organizzazioni per i diritti umani confutano l’affermazione dell’alta corte secondo cui il rifiuto di restituire i corpi dei palestinesi sia consentito dal diritto internazionale umanitario, che regola i conflitti armati.

Adalah, una organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, ha affermato che la sentenza è stata tra le “più eccessive” mai emesse dalla corte, “in quanto mina i principi più elementari dell’umanità universale”.

L’organizzazione per i diritti ha aggiunto che la sentenza del tribunale è la prima al mondo che consente alle autorità statali di detenere corpi in modo che possano essere utilizzati come moneta di scambio.

L’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha affermato: “La pratica di trattenere i cadaveri equivale a una politica di punizione collettiva”, che è proibita dal diritto internazionale.

Trattenere i corpi, ha aggiunto Al-Haq, è anche “contrario al divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”.

Le famiglie che hanno presentato la petizione alla corte hanno dichiarato che “prevedono di ricorrere ai tribunali internazionali nel tentativo di fare tutto il possibile per recuperare i corpi dei loro cari”.

Lasciato morire dissanguato

Un video mostra Nassim Abu Rumi mentre viene ucciso pochi istanti dopo che lui e un altro minore palestinese, il 15 agosto, si sono lanciati con in mano dei coltelli da cucina contro gli agenti di polizia israeliani nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Gli agenti hanno deciso di aprire il fuoco contro i ragazzi come prima istanza, senza usare mezzi meno letali per bloccarli.

L’altro ragazzo è stato gravemente ferito ed è stato accusato di tentato omicidio. Uno spettatore palestinese è stato ferito durante l’incidente e un agente è stato leggermente ferito dai giovani.

I video dell’episodio non mostrano alcun tentativo di prestare un soccorso immediato a nessuno dei ragazzi, una volta colpiti dalla polizia. Un video mostra un agente mentre riceve delle cure.

Una organizzazione per i diritti umani sta richiedendo un’indagine da parte del ministero della Sanità israeliano su un altro caso in cui un sospetto aggressore palestinese è stato lasciato morire dissanguato, anche se un medico della polizia era sul posto.

Yaqoub Abu al-Qiyan è stato ucciso dalla polizia durante quello che ritenevano fosse un tentativo di attentato con l’auto tramite speronamento, durante un raid contro Umm al-Hiran, un villaggio beduino nel sud di Israele non riconosciuto dallo Stato.

L’analisi pubblicata dal gruppo di ricerca britannico Forensic Architecture indica che, contrariamente a quanto affermato dai leader israeliani, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, Abu al-Qiyan quando, nel gennaio 2017, la polizia ha aperto il fuoco sul suo veicolo, non stava tentando nessun attacco.

I risultati di Forensic Architecture indicano che Abu al-Qiyan, un cittadino israeliano-palestinese, stava guidando lentamente e il suo veicolo ha solo accelerato dopo essere stato colpito dalla polizia, il che suggerisce che egli abbia perso il controllo della sua auto.

Un’indagine interna della polizia, conclusa di recente, ha assolto il medico della polizia [dall’accusa] di negligenza.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che l’incapacità del medico della polizia di prestare le prime cure ad Abu al-Qiyan “non è una carenza specifica, ma un problema sistemico”.

I Physicians for Human Rights-Israel (I Medici per i diritti umani – Israele, n.d.tr.) hanno dichiarato che “Le procedure imprecise sulla presa in cura delle persone ferite in episodi interpretati come attacco terroristico consentono situazioni in cui le persone ferite, ritenute responsabili, non ricevano assistenza”.

“I medici non possono agire in qualità di giudici e di giurie”, ha aggiunto l’associazione. “I medici e l’altro personale sanitario devono trattare tutti i feriti secondo le regole del triage”.

Nella sua indagine su una serie di uccisioni illegali di palestinesi da parte delle forze israeliane, Amnesty International ha dichiarato che le inadempienze nella prestazione delle prime cure – “in particolare l’omissione intenzionale – violano il divieto di tortura e di altre punizioni crudeli, disumani e degradanti”.

L’organizzazione per i diritti umani ha aggiunto che “In quanto tale, la mancata prestazione di assistenza medica dovrebbe essere indagata come crimine”.

Mercoledì scorso, una donna palestinese è stata colpita dalle forze israeliane ad un posto di blocco in Cisgiordania e lasciata sanguinare a morte per strada.

Testimoni oculari hanno affermato che alla donna è stato negato il soccorso immediato. La Palestine Red Crescent Society ha affermato che le forze israeliane hanno impedito ai paramedici di raggiungerla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Quando torna a casa papà?

Sarah Algherbawi 

24 settembre 2019 – The Electronic Intifada 

La piccola Mira al-Sultan, di due anni, continua a chiedere quando tornerà a casa papà. Purtroppo lui è morto, ma la mamma di Mira non trova il coraggio di spiegarglielo.

Tamer, il padre di Mira, ha lasciato Gaza ad aprile di quest’anno. Lui, farmacista, sperava di costruire una nuova vita per la sua famiglia in Europa.

Dopo aver attraversato via terra la Turchia, Tamer si è imbarcato su una nave affollata diretta in Grecia. Una volta arrivato in Grecia, ha iniziato un viaggio tortuoso per evitare di essere fermato dalla polizia di frontiera.

Dalla Grecia, Tamer ha attraversato, quasi sempre a piedi, l’Albania e la Serbia. Il suo progetto era di arrivare alla fine in Belgio, via ex Jugoslavia, Italia e Francia.

L’undici agosto, Tamer ha telefonato alla moglie Marwa. “Mi ha detto che stava per addentrarsi nei boschi della Bosnia ed Erzegovina e che ci sarebbero voluti sei giorni per raggiungere la Croazia” ha detto Marwa. “Quella è stata l’ultima volta che ho sentito la sua voce.”

Mentre stava attraversando la foresta in Bosnia, Tamer si è fatto male a un braccio e, poiché la ferita non è stata curata subito, le sue condizioni si sono aggravate.

Pochi giorni dopo un ospedale bosniaco ha comunicato alla famiglia di Tamer che era morto a causa della setticemia. Aveva 38 anni.

A Gaza Tamer aveva una farmacia. “Ma è stato costretto a venderla perché la situazione economica era peggiorata” ha detto Marwa. “Ha deciso di emigrare e trovare un lavoro fuori Gaza.”

Tamer, che era anche un attivista, aveva preso parte ad appelli per far annullare i debiti quando la gente non è in grado di rimborsarli. Nel marzo di quest’anno era stato arrestato dalla polizia di Gaza per aver partecipato a proteste contro la carenza di energia elettrica.

Tamer era il padre di due ragazzini e di una bambina. Sua moglie Marwa aspetta un altro maschietto. “Chiamerò il bambino Tamer come il padre che lui non conoscerà mai”, ha detto. Prima di partire, Tamer aveva piantato una vite e aveva chiesto ai suoi figli di proteggerla fino al suo ritorno. “Cercherò di prendermi cura dell’albero come mi aveva chiesto papà”, ha detto il figlio Wisam di 9 anni. “Sono sicuro che papà sarà felice di saperlo.”

Partenza di massa

Poco dopo la morte di Tamer, si è saputo che Israele attua una politica intenzionale per spingere la gente ad andarsene da Gaza in massa. Più di 35.000 residenti di Gaza sono emigrati nel 2018.

La partenza di massa è stata facilitata dal blocco che Israele ha imposto a Gaza durante gli ultimi 12 anni. Le opportunità all’interno del territorio sono estremamente ridotte. Nel 2018 circa il 52% della forza lavoro di Gaza era disoccupata. Il tasso di disoccupazione nell’età compresa tra i18 e i 29 anni è particolarmente elevato. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, tra il 2008 e l’anno scorso è salito dal 53% al 69%. Ho condotto un sondaggio informale fra 20 giovani, quasi tutti laureati. Diciotto su 20 hanno risposto che stanno progettando di lasciare Gaza in un prossimo futuro. Gli intervistati si sono arrabbiati quando hanno saputo che Israele sta spingendo i residenti di Gaza ad emigrare per una precisa strategia politica.

Nonostante pensino di essere quasi obbligati ad andarsene, non vogliono in nessun modo dare l’impressione di fare un favore a Israele. Come gesto simbolico, molti hanno promesso di non partire dall’aeroporto di Tel Aviv. Ahmad al-Hindi, un musicista disoccupato che si è laureato nel 2016 all’Università al-Azhar di Gaza, è tra quelli che si preparano a partire. “Ma preferirei morire piuttosto che emigrare attraverso un aeroporto israeliano”, ha detto.

Una grande prigione”

Mio cognato, Muhammad Abu al-Tarabeesh, è emigrato da Gaza nel settembre del 2018. Muhammad studiava contabilità all’Università della Palestina a Gaza, ma ha dovuto ritirarsi dal corso perché la famiglia non poteva più permettersi di pagare le tasse. Muhammad, che ora ha 26 anni, è partito per l’Europa per cercare là opportunità migliori. Ha viaggiato attraverso la Turchia per un mese e poi ha intrapreso un viaggio per mare diretto in Grecia, un’esperienza che ha descritto come “spaventosa”. Per gran parte dell’anno scorso, Muhammad è rimasto bloccato in una roulotte sull’isola greca di Leros. Vive in un campo gestito dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Il campo è stato acclamato come un “modello” dall’agenzia stessa.

Muhammad ne ha un’opinione diversa. “È come una grande prigione con due portoni, uno per entrare e l’altro per uscire”, ha detto. “C’è sempre la massima sorveglianza. Ci sono ore fisse per mangiare e dormire e ci trattano come se fossimo semplicemente dei numeri.” Secondo Muhammad ogni roulotte è larga 3 metri e lunga 6 e ospita una media di 12 persone. Lui deve aspettare a Leros fino a quando la sua domanda di asilo non sarà esaminata. Non gli è ancora stato detto se la sua pratica ha fatto dei progressi. La nostra famiglia è preoccupata per Muhammad, ma almeno ci consola sapere che è vivo e, almeno per il momento, al sicuro.

Affogati

Lo stesso non si può dire per molti altri migranti.

Saleh Hamad, 22 anni, ha lasciato Gaza con la sua famiglia all’inizio di giugno di quest’anno. Si sono diretti verso la Turchia e, più tardi nello stesso mese, sono salpati per la Grecia.

Ad agosto, Hamad si è messo in viaggio con il suo amico Moataz Abu Obeid. Il loro piano era di dirigersi verso il Belgio. I due amici hanno cercato varie volte di entrare a piedi in Albania.

Per sei volte sono stati catturati dalla polizia albanese che li ha riportati al confine con la Grecia. Al settimo tentativo, secondo Abu Obeid, erano riusciti ad arrivare ​​in Albania senza essere scoperti e avevano iniziato ad andare a piedi verso la Serbia.

Arrivati in Serbia, i due uomini sono stati messi in stato di custodia dalla polizia e poi rilasciati dopo sette ore. Hanno quindi attraversato la Serbia a piedi e, dopo un paio di giorni, hanno deciso di provare ad attraversare il fiume Drina per entrare in Bosnia.

Quando sono arrivati vicino al fiume era buio, quindi hanno deciso di aspettare fino al mattino dopo. Quella notte sono stati attaccati da animali selvatici, ma comunque sono riusciti a scappare.

La mattina seguente, i due uomini erano lungo la riva del fiume quando Hamad ha perso l’equilibrio. È caduto nel fiume, dove c’è una forte corrente e stava per annegare.

Nel frattempo, Abu Obeid era svenuto dopo avere sbattuto contro un albero. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovato circondato dalla polizia serba.

La polizia non è stata di nessun aiuto. Secondo Abu Obeid, si sono rifiutati di organizzare una ricerca per trovare Hamad, dicendo che molti altri erano annegati mentre cercavano di attraversare il fiume.

La polizia ha solo preso alcune informazioni su Salah e sui vestiti che indossava”, ha detto Abu Obeid.

Il corpo di Hamad è stato poi ritrovato a settembre, poche settimane dopo la sua scomparsa. Non è il primo gazawi a morire nel tentativo di cercare una vita migliore all’estero. Ed è probabile che non sia neanche l’ultimo.

Sarah Algherbawi è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Alcune donne palestinesi che manifestavano contro la violenza domestica sono state aggredite dalla polizia israeliana

Shatha Hammad

26 settembre 2019– Middle East Eye

Il gruppo ‘Free Homeland, Free Women’ ha tenuto proteste contro la violenza domestica in tutta la Cisgiordania occupata, a Gaza e in Israele

Giovedì, davanti alle mura del castello turrito che per secoli ha difeso la Città Vecchia di Gerusalemme, centinaia di donne si sono riunite per protestare e chiedere la fine della violenza domestica per poi essere affrontate e, nel caso di alcune di loro, aggredite dalle forze di sicurezza israeliane.

Il gruppo “Free Homeland, Free Women” [Patria Libera, Donne Libere] si è radunato per denunciare che, secondo i dati stilati dal Women’s Centre for Legal Aid and Counselling [Centro per il Sostegno Legale e di Ascolto delle Donne] (WCLAC), lo scorso anno almeno 23 donne palestinesi sono state uccise durante liti domestiche.

Le manifestanti sono state anche motivate dalla recente morte in un ospedale di Betlemme di Israa Ghrayeb, una ‘makeup artist’ diciannovenne, in seguito a quello che i suoi amici e sostenitori hanno descritto come un “delitto d’onore”. Eppure le forze israeliane avevano in mente qualcos’altro. Hanno represso con violenza la protesta pacifica attaccando alcune delle donne mentre marciavano verso il centro della Città Vecchia.

Immagini postate su Facebook mostrano una fila di poliziotti che spingono le dimostranti su per la scalinata e lontano dall’entrata della Porta di Damasco verso la Città Vecchia.

Poi si possono vedere parecchi poliziotti che urtano violentemente le manifestanti gettando a terra alcune di loro.

Nimir al-Mughrabi, un’attivista del gruppo di donne, racconta a Middle East Eye che le forze israeliane hanno colpito molte manifestanti, ferendo una donna a un occhio e un’altra a una mano.

Forze israeliane a cavallo hanno anche inseguito le dimostranti, cercando di procedere ad arresti, dice al-Mughrabi. Uno degli arrestati è un tredicenne identificato come Majdi Abu al-Arabi.

Al-Mughrabi ha raccontato a MEE che le forze israeliane hanno iniziato a usare tattiche intimidatorie quando le donne hanno cominciato a riunirsi in strada dalla Città Vecchia, aggiungendo che le bandiere palestinesi sono state confiscate, mentre le forze israeliane cercavano di sbarrare la strada alla manifestazione.

Un portavoce della polizia israeliana ha detto a MEE che la protesta è stata consentita a patto che non disturbasse l’ordine pubblico.

Ma, ha affermato, alcune manifestanti hanno sventolato bandiere palestinesi, il che rappresenta una violazione dell’ordine pubblico.

Le dimostranti hanno iniziato ad affrontare la polizia ed hanno anche lanciato lattine contro di essa. Ciò ha obbligato la polizia a disperdere il raduno per mantenere l’ordine pubblico,” ha detto il portavoce.

Proteste simili, organizzate da gruppi per i diritti delle donne, si sono tenute durante il giorno nelle città palestinesi di Ramallah, Gaza, Arrabeh,Taybeh, al-Jish, Nazaret, Giaffa e Haifa le ultime 4 località si trovano in Israele, ndtr.], ed anche a Berlino e a Beirut.

https://twitter.com/i/status/1177269621109534720

Il gruppo si definisce un collettivo di donne palestinesi indipendenti che chiedono la fine di ogni forma di violenza contro le donne palestinesi ovunque.

Si è formato dopo che lo scorso mese Israa Ghrayeb è stata uccisa da membri della sua famiglia, scatenando una piccola ondata di proteste nelle comunità palestinesi.

Alcune componenti del gruppo hanno detto di essere particolarmente preoccupate per il “temporeggiamento” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese nel denunciare il crimine e nel farne pagare le conseguenze ai responsabili.

“Noi (donne) rifiutiamo il fatto di essere una priorità che è rinviata a dopo la liberazione nazionale,” dice a MEE Razan Hazim, un’aderente a “Free Homeland, Free Women” che ha partecipato alla protesta di Ramallah. “Rifiutiamo la parola ‘dopo’,” afferma. “Intendiamo ridefinire la liberazione nazionale sulla base della libertà, della giustizia e della dignità sociale.”

Sottolinea che il gruppo intende espandersi progressivamente e continuare il movimento finché la violenza contro le donne palestinesi verrà bloccata.

A Ramallah le manifestanti hanno terminato il corteo davanti al Complesso Medico Palestinese, il principale ospedale pubblico della città, in cui una donna di 39 anni di Jenin viene curata per le percosse che ha subito.

La donna sarebbe stata picchiata dalla sua famiglia ed ha sofferto fratture alle gambe talmente gravi che, secondo i media locali, i medici potrebbero doverle amputare.

Ma, pur dicendo che la protesta del gruppo è concentrata sulle donne uccise durante litigi domestici, Hazim sottolinea anche che l’occupazione israeliana ha solo reso più grave questa violenza.

Le donne che vivono nelle zone controllate da Israele sono più vulnerabili di quelle della Cisgiordania e di Gaza, dice Hazim, dato che sanno di non poter ricorrere all’applicazione della leggi israeliane.

Le manifestazioni oggi rappresentano una garanzia per noi come palestinesi che possiamo sconfiggere la situazione imposta dal colonialismo, la divisione della Palestina e la nostra espulsione,” dice Hazim a MEE.

Le dimostranti hanno sollevato anche un’altra questione nazionale, includendo le pretese da parte di Israele di una Gerusalemme indivisa come sua capitale e i continui arresti di migliaia di prigionieri politici palestinesi.

La marcia di oggi è parte del tentativo di recuperare spazi pubblici confiscati dall’occupazione a Gerusalemme,” dice Hazim, aggiungendo che il suo gruppo appoggia la liberazione di “tutta la Palestina occupata, dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo].”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Insegnare Edward Said a Gaza

Haidar Eid

27 settembre 2019 Mondoweiss

Questa settimana cade l’anniversario della morte di Eward Said. Sono tentato dall’idea di scrivere della sua vita di intellettuale all’opposizione, figura organica del dissenso, come avrebbe detto Antonio Gramsci. In questi tempi di crisi, non solo in Palestina, ma a livello globale, è importante ricordare Said come lui avrebbe voluto che lo ricordassimo, uno “fuori posto”. [Sempre nel posto sbagliato Feltrinelli 1999]

Personalmente, ho comunicato con lui per email solo due volte, per invitarlo in Sud Africa quando studiavo e lavoravo là, una volta per un evento organizzato dai gruppi di solidarietà e poi in occasione della Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza svoltasi a Durban nel 2001, per chiedergli se avrebbe partecipato. Purtroppo, mi rispose che si stava sottoponendo a una terapia contro la leucemia.

In quel periodo, durante una conferenza, avevo avuto una discussione con un simpatico accademico sudafricano bianco sull’analogia fra l’apartheid sionista e la Palestina e la lotta contro l’apartheid in Sud Africa. Il dibattito proseguì e si arrivò a citare gli straordinari successi dei sudafricani, dai 4 premi Nobel al premio internazionale Man Booker …ecc. Lui non aveva la minima idea di Ghassan Kanafani, Fadwa Touqan, Toufiq Zayyad, Samih El-Qasim, Mouin Bseiso, per citare solo alcuni dei giganti palestinesi. Poi ha deciso di lanciare una bomba: “Noi abbiamo Nelson Mandela, e voi chi avete?” E io, senza un minimo di esitazione, ho ribattuto: Edward Said! Fine della discussione.

A febbraio di quest’anno, mi sono offerto volontario per lavorare con la nostra università a Gaza per tenere quella che è stata probabilmente la prima conferenza in memoria di Edward Said in Palestina; la sala era stracolma di accademici, personalità della cultura e studenti che ascoltavano l’intervento, appassionato e ben articolato, di uno degli studenti di Said, il Dr Samah Idriss, direttore di Al-Adab, rivista libanese molto prestigiosa.

Quello che io, come palestinese e “altro orientale” ho capito grazie a Said è insuperabile: la complicità della cultura nell’imperialismo europeo, inclusa la narrazione sionista; ‘la lettura contrappuntistica’ vista come ‘contro-narrativa’; l’interrelazione fra ‘affiliazione’ e ‘cosmopolitismo’, il ‘criticismo secolare’ quale strategia di interferenza intellettuale. Una cosa che faccio nella mia classe, dove capita che i miei studenti siano palestinesi, è il ribaltamento del ruolo dell’estetica nel colonialismo come sua caratteristica più saliente. Nelle nostre discussioni analizziamo la dialettica di conoscenza e potere che compare nel suo lavoro seminale Orientalismo, per confutare la ‘purezza’ e il ‘disinteresse’ degli studi orientalisti. La nostra conclusione è che non c’è un ambito ‘innocente’ del discorso europeo sull’Oriente. La differenza fra Oriente e Occidente è chiarita in questo magnifico passo tratto da Orientalismo: 

Dopo un’impresa come quella di Napoleone, in Occidente il corpo di conoscenze sull’Oriente si modernizzò … c’era ovunque fra gli orientalisti l’ambizione di descrivere le loro scoperte, esperienze e intuizioni con una terminologia adeguatamente moderna, per portare le idee sull’Oriente in stretto contatto con le realtà moderne.

In uno dei corsi che tengo, studiamo dei testi che trattano le stereotipate posizioni europee, condizionate da un’opposizione binaria per cui ‘l’Occidente’ è caratterizzato da idee di illuminismo, progresso, ragione e ‘civiltà’, mentre ‘l’Oriente’ incarna la classica inversione negativa di queste caratteristiche. Questo in base alla sua tesi secondo cui “tutte le rappresentazioni sono in qualche modo fuorvianti …”

I testi che studiamo nelle mie classi vanno dal romanzo estremamente razzista di V.S. Naipaul Sull’ansa del fiume [A Bend in the River] a quello critico di Mohsin Hamid, Il fondamentalista riluttante [The Reluctant Fundamentalist], ai racconti africani anti-coloniali di Njabulu Ndebele, Ousmane Sembene e Noureddin Farah, alla “letteratura della resistenza” di Ghassan Kanafani: Uomini sotto il sole, Ritorno ad Haifa, [Men in the Sun, Returning to Haifa, All That Is Left to You]La terra delle arance tristi e La morte nel letto numero 12 [Land of Sad Oranges, Death of Bed 12]. La scelta di questi testi deriva dall’enfasi posta da Said sull’esistenza di una resistenza all’Orientalismo non solo dall’esterno, ma anche all’interno dell’orientalismo stesso. Le nostre sono letture “contrappuntistiche” che rivelano quello che lui stesso chiamava “la grande cultura di resistenza emersa in risposta all’imperialismo.”

Da qui l’importanza dei suoi ripetuti riferimenti all’ “agency individuale” come componente sostanziale del suo lavoro critico. È qui che il ruolo dell’intellettuale come figura di opposizione diventa colui che trasgredisce la linea ufficiale del potere, come sostiene in Representations of the Intellectual.  L’intellettuale nello svolgere il suo ruolo ha un vantaggio, e non può interpretarlo senza avere la percezione di essere qualcuno il cui ruolo è sollevare pubblicamente domande imbarazzanti, combattere, non creare, l’ortodossia e i dogmi, una figura che non può essere facilmente cooptata da governi o corporazioni, la cui raison d’être è nel rappresentare tutti quei popoli e quelle battaglie che sono regolarmente dimenticate o nascoste sotto il tappeto .

Questo è il motivo per cui in aggiunta a “critica” lui usa costantemente “di opposizione”. E questo è il motivo per cui abbiamo deciso di portare in classe i lavori letterari di Ghassan Kanfani. Comunque, insegnare le opere di Naipaul si deve al fatto post-coloniale secondo cui il progetto imperialista europeo nel mondo non occidentale è stato consolidato dalla cultura europea alta con la collusione di raffinati intellettuali che razionalizzavano e nascondevano l’uso del potere morale per raggiungere quella che Said chiama una “pacificazione ideologica”. Nel suo Cultura e imperialismo [Culture and Imperialism] sostiene eloquentemente, alla Fanon, [Frantz Fanon è stato un grande intellettuale, critico del colonialismo] che questi intellettuali avevano tradito le loro proprie idee quando si erano convinti che esistesse una gerarchia fra i popoli, cosa che fa nascere serie domande ideologiche sull’uso del termine “post-colonialità”, per certi versi una continuazione della sottomissione coloniale.

Come lui, e Vico prima di lui, noi crediamo fermamente che la cultura umana, dato che è stata creata dal genere umano, possa essere positivamente modellata con gli sforzi delle persone. Ecco perché, ispirati dalle sue idee, abbiamo cominciato la campagna di BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per “rispondere” al sionismo, al neo-colonialismo, per sollevare morali in merito alla Palestina, rivelare ingiustizie e, cosa più importante di tutte, dire la verità al potere.

Sono tempi duri per noi palestinesi, con la negazione dei nostri diritti fondamentali, le elezioni israeliane in cui la competizione è solo fra partiti di destra, un “accordo del secolo” con il quale ci viene chiesto di firmare la nostra estinzione…ecc. Cosa avrebbe detto, scritto e fatto Edward Said?

(traduzione di Mirella Alessio)




Incatenata al proprio passato: una formula tedesca per l’ingiustizia nei confronti del popolo palestinese

Richard Falk e Hans von Sponeck

20 settembre 2019 WordPress

[Nota alla seconda prefazione del nuovo post: per consentire una prima pubblicazione tedesca in rete ho temporaneamente tolto questo post dopo due ore. Il testo è identico a quello che avevo postato in precedenza. Siamo desiderosi di incoraggiare il dibattito, la discussione e la democrazia, e quindi incoraggiamo la diffusione attraverso le reti sociali e con qualunque mezzo riteniate efficace. Un’udienza di qualche giorno fa del consiglio della città di Dormunt, che ha revocato il premio di letteratura “Nelly Sachs” alla scrittrice anglo-pakistana Kamila Shamies perché ha scoperto che è una sostenitrice del BDS, è un’ulteriore conferma del declino della democrazia in Germania, almeno riguardo a questo soggetto-argomento di Israele/Palestina].

[Prefazione: Il seguente articolo è stato scritto insieme al mio caro amico di lunga data Hans von Sponeck, che per esperienze familiari e atteggiamento morale è profondamente consapevole dei dilemmi della politica tedesca associati al suo passato. Queste questioni si sono recentemente manifestate nel contesto della soppressione dell’attivismo non violento filo-palestinese, che crediamo sia stata gestita con modalità che tendono a riprodurre, invece di superare, i mali dell’epoca nazista prendendo una serie di iniziative per proteggere le azioni criminali del governo israeliano dalle pressioni esercitate dal movimento internazionale di solidarietà con i palestinesi, e in particolare dalla campagna BDS. Abbiamo tentato di pubblicare questo commento prima su alcuni importanti giornali tedeschi, ma è stato respinto. A quanto pare in Germania i media, guardiani dell’opinione pubblica, ritengono preferibile il silenzio alla discussione e al dibattito su questo problema cruciale.

Come da biografia a parte, Hans ha lavorato per 32 anni alle Nazioni Unite. Nel suo ultimo incarico con il ruolo di assistente del segretario generale dell’ONU ha guidato il programma “Petrolio per Cibo” in Iraq in virtù del suo ruolo di coordinatore umanitario per l’Iraq (1998-2000) in seguito alla prima guerra del Golfo (1991). Ha dato le dimissioni per principio a causa dell’imposizione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sanzioni punitive responsabili di aver prodotto moltissime vittime tra la popolazione civile irachena].

 

Incatenata al suo passato: una ricetta tedesca per l’ingiustizia nei confronti del popolo della Palestina

 

Richard Falk e Hans von Sponeck

La risoluzione del Buntestag tedesco del 15 maggio che ha condannato la campagna BDS in quanto contribuirebbe all’incremento dell’antisemitismo in Europa provoca serie preoccupazioni. Etichetta il BDS, un’iniziativa nonviolenta dei palestinesi, come antisemita e invita il governo tedesco a negare il sostegno non solo al BDS in quanto tale, ma a ogni organizzazione che lo appoggi. Prende questa posizione sottolineando la particolare responsabilità della Germania nei confronti degli ebrei, senza alcun riferimento alle prolungate violazioni di Israele del più fondamentale dei diritti umani del popolo palestinese, quello all’autodeterminazione. La risoluzione tedesca non fa neppure riferimento al ruolo importante che una precedente campagna BDS contro il razzismo sudafricano ha giocato nel determinare la fine non violenta del regime di apartheid, e al fatto che persino quelli che vi si opponevano per ragioni strategiche o pragmatiche non hanno mai cercato di demonizzarne i sostenitori.

Ciò che ci turba in particolare è l’approccio punitivo al BDS preso dal potere legislativo tedesco. Ci si dovrebbe ricordare che, nonostante la notevole opposizione contro la campagna sudafricana, agli attivisti del BDS non è mai stato detto che era giuridicamente e moralmente inaccettabile farne parte. Le obiezioni erano basate sulla fattibilità e sugli effetti, così come su affermazioni speciose secondo cui sotto l’apartheid gli africani in Sudafrica stavano meglio dei loro fratelli e sorelle nel resto del continente.

In sostanza, crediamo che questa risoluzione sia il modo sbagliato di imparare dal passato della Germania. Invece di optare per la giustizia, per la legge e per i diritti umani, il Bundestag non ha neppure menzionato il popolo palestinese e il dramma che sta vivendo e che il BDS sta sfidando. Dare il via libera alle politiche oppressive ed espansioniste di Israele vuol dire appoggiare implicitamente politiche di punizioni collettive e di violazioni del più debole che sono state, andrebbe ricordato, le caratteristiche più riprovevoli dell’epoca nazista.

Scriviamo in quanto persone con un passato molto diverso, che tuttavia condividono un impegno per Nazioni Unite forti e il dovere di Paesi grandi e piccoli di rispettare le leggi internazionali e promuovere la giustizia nel mondo.

Condividiamo anche una costante consapevolezza dell’Olocausto come terribile tragedia che colpì il popolo ebraico ed altri, così come un orrendo crimine da parte della Germania e di altri Paesi in passato. Condividiamo un impegno preminente per un ordine globale in cui tali tragedie e azioni criminali non si ripetano nei confronti del popolo ebraico e di qualunque altro popolo ovunque. Siamo anche consci che tali tragedie e crimini sono stati perpetrati dal 1945 contro vari gruppi etnici ed hanno preso di mira popoli, tra gli altri in Cambogia, Rwanda, Serbia e, più di recente, il popolo rohingya in Myanmar.

Anche le nostre origini sono piuttosto diverse. Uno di noi è tedesco e cristiano (von Sponeck), l’altro (Falk) americano ed ebreo. Von Sponeck è figlio di un generale giustiziato dai nazisti nell’ultima fase della Seconda Guerra Mondiale ed è andato in Israele nel 1957 per lavorare in un moshav [collettività agricola sionista con proprietà individuale, ndtr.] e in vari kibbutz [comunità sionista con proprietà collettiva, ndtr.]. Ha lavorato per 32 anni come funzionario civile internazionale delle Nazioni Unite, arrivando fino al ruolo di assistente del Segretario Generale. La sua carriera all’ONU è finita quando ha dato le dimissioni come coordinatore dell’ONU del programma “Petrolio per Cibo” (1998-2000) per protestare contro la politica di sanzioni a danno dell’Iraq da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha portato alla morte di molti civili iracheni innocenti. Dopo le sue dimissioni von Sponeck ha insegnato e tenuto conferenze in varie sedi ed ha pubblicato libri su questioni dell’ONU, tra cui “The Politics of Sanctions on Iraq and the UN Humanitarian Exception” [Le politiche di sanzioni contro l’Iraq e l’eccezione umanitaria dell’ONU] (2017).

Falk è americano e per 40 anni è stato docente all’università di Princeton, con l’incarico di professore di diritto internazionale della cattedra Albert G. Milbank. Il suo contesto familiare include origini paterne in Germania, con entrambi i nonni nati in Baviera, non lontano da Monaco, emigrati negli Stati Uniti a metà del secolo XIX°. Tra il 2008 e il 2014 Falk ha lavorato come relatore speciale per la Palestina occupata per conto della Commissione ONU per i Diritti Umani. Ha pubblicato parecchi libri su questioni internazionali, compresi di recente “Power Shift: On the New Global Order [Spostamento di potere: sul nuovo ordine globale] (2016) e “Palestine: The Legitimacy of Hope” [Palestina: la legittimità della speranza] (2017).

Abbiamo analizzato il fallimento della diplomazia internazionale per cercare una soluzione al conflitto tra Israele e Palestina. Crediamo che Israele sia il principale responsabile di questo fallimento, che ha prodotto come conseguenza decenni di gravissime sofferenze per il popolo palestinese. Crediamo che la radice di questo fallimento sia il progetto sionista di imporre uno Stato ebraico su una società fondamentalmente non ebraica. Ciò ha inevitabilmente determinato la resistenza palestinese, e un crescente razzismo ha messo le basi di strutture destinate a tenere soggetto il popolo palestinese nel suo complesso all’interno del suo stesso Paese. Crediamo inoltre che la pace potrà venire per entrambi i popoli solo quando queste strutture di apartheid saranno smantellate, come lo sono state in Sud Africa oltre 25 anni fa.

Contro questo contesto abbiamo trovato inaccettabile e particolarmente preoccupante la resistenza del governo e del popolo tedeschi nel rispondere a queste circostanze di ingiustizia ed estremamente deplorevole la loro tacita acquiescenza in Germania. Sia noi due che le nostre famiglie siamo stati in modo diverso vittime del nazismo. Tuttavia ciò non ci impedisce di insistere sul fatto che l’esitazione tedesca a criticare l’etnocentrismo israeliano evidenzia un pericoloso equivoco riguardo all’importanza del passato nazista. L’Olocausto dovrebbe innanzitutto servire per mettere in guardia il mondo contro l’ingiustizia, i crimini di Stato e la vittimizzazione di un popolo sulla base della sua identità razziale e religiosa. Ciò non dovrebbe esimere Israele dal renderne conto giuridicamente e moralmente solo perché la sua dirigenza è ebrea e molti dei suoi cittadini ebrei sono parenti di vittime dell’Olocausto.

Attraverso l’adozione da parte della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di una legge fondamentale come quella dello Stato Nazione del popolo ebraico del 2018, Israele rivendica un’identità come se ciò gli conferisse un mandato di impunità. La lezione dell’Olocausto riguarda le violazioni, la criminalità e la vittimizzazione e non dovrebbe essere pervertita da nessuna implicazione sovvertitrice secondo cui, poiché gli ebrei hanno dovuto sopportare terribili crimini in passato, sono esenti dal doverne rendere conto quando commettono crimini recenti. Ricordiamo la lettera di Albert Einstein a Chaim Weizmann [uno dei massimi dirigenti sionisti, ndtr.] nel 1929, in cui scriveva: “Se non riusciamo a trovare un percorso di onesta collaborazione e non scendiamo a patti con gli arabi, non avremo imparato niente dal nostro dramma di duemila anni e meriteremo la sorte che ci affliggerà!” Il governo israeliano deve comprendere che molto del minaccioso aumento delle opinioni antisemite e anti-israeliane in Europa e altrove ha origine nelle stesse politiche che persegue.

Ci aspettiamo che le nostre dichiarazioni saranno duramente attaccate in quanto antisioniste e persino antisemite. Parte della funzione di questi attacchi è bloccare le risposte tedesche ricordando l’Olocausto e la falsa impressione che criticare Israele e il sionismo sia la ripresa di un attacco contro gli ebrei e contro l’ebraismo. Insistiamo sul fatto che non si tratta assolutamente di questo. È proprio il contrario. Sostiene che i valori fondamentali della religione ebraica e in generale i valori umanistici sono legati alla giustizia e che questo uso della calunnia di antisemitismo è una tattica totalmente inaccettabile per difendere Israele da critiche giustificate. Questo tipo di intimidazioni dovrebbe essere contrastato e superato.

Da questa prospettiva è nostra convinzione e speranza che la Germania e il popolo tedesco abbiano la forza di sbarazzarsi del torpore morale indotto dai cattivi ricordi del passato e possano unirsi alla lotta contro l’ingiustizia. Una simile dinamica del potenziamento morale sarebbe chiara se la Germania dimostrasse empatia per il dramma dei palestinesi e desse il proprio sostegno alle iniziative nonviolente destinate ad esprimere solidarietà con e incoraggiamento al movimento nazionale palestinese per ottenere diritti fondamentali, incluso, su tutti, l’inalienabile diritto all’autodeterminazione.

Ci incoraggia molto che le nostre azioni non avvengano nel vuoto qui in Germania. Prendiamo nota degli zelanti sforzi dei “Tre di Humboldt”***per protestare contro l’apartheid israeliano e del sostegno popolare che le azioni di questi giovani, due israeliani e un palestinese, hanno riscosso. Il loro messaggio ispiratore è simile al nostro. È tempo che il governo tedesco e i suoi cittadini rompano il loro silenzio, riconoscano che il passato nazista è più facile da superare attraverso l’attiva opposizione all’ingiusta oppressione del popolo palestinese. Ci sentiamo affini anche alla lettera aperta ampiamente appoggiata da intellettuali in tutto il mondo, compresi molti israeliani, che chiede a ‘individui e istituzioni in Germania’ di porre fine a ogni tentativo di confondere le critiche a Israele con l’antisemitismo.

Crediamo che la pace tra ebrei ed arabi in Palestina dipenda dal prendere iniziative per ripristinare l’uguaglianza di relazioni tra questi popoli da troppo tempo in conflitto. Ciò potrà avvenire soltanto se le attuali strutture di apartheid verranno smantellate come preludio alla pace. Il precedente del Sudafrica ci mostra che ciò può avvenire, ma solo quando le pressioni internazionali si uniscono alla resistenza interna. Sembrava impossibile in Sudafrica fino al momento stesso in cui ciò è avvenuto. Ora sembra impossibile riguardo a Israele, ma l’impossibile avviene quando è in linea con le richieste di giustizia e mobilita il sostegno di persone di buona volontà in tutto il mondo. Il corso della storia ha favorito la parte più debole dal punto di vista militare nei grandi movimenti anticoloniali dell’ultima metà del XX° secolo, e quindi noi non dobbiamo perdere la speranza in una soluzione giusta per israeliani e palestinesi, nonostante il fatto che l’attuale equilibrio delle forze ora favorisca il dominio israeliano.

É importante ricordare anche che, finché al popolo palestinese verranno negati i diritti fondamentali, non ci potrà essere pace. Ogni accordo raggiunto mentre persiste l’apartheid non sarà altro che un cessate il fuoco. Una pace duratura dipende dal riconoscimento e dalla messa in pratica dell’uguaglianza dei due popoli sulla base della mutua autodeterminazione. La Germania e i tedeschi hanno la grande opportunità di promuovere questa visione e così facendo libereranno il Paese dal suo passato. In un senso profondo, sia che siamo tedeschi o americani o altro, ognuno di noi non deve niente di meno ai popoli ebraico e palestinese.

***si tratta degli attivisti del BDS tedesco Ronnie Barkan e Stavit Sinai, ebrei israeliani, e Majed Abusalama, palestinese di Gaza, che nel giugno 2017 interruppero il discorso di una parlamentare israeliana, ospitata presso l’Università Humboldt di Berlino dalla Deutsch-Israelische Gesellschaft (Società tedesco-israeliana). Aliza Lavie, deputata alla Knesset (il parlamento israeliano) per il partito centrista Yesh Atid, aveva fatto parte del governo di coalizione israeliano durante l’attacco del 2014 contro la Striscia di Gaza, nella quale furono uccisi 2.220 palestinesi.  Con Lavie c’era Dvora Weinstein, una sopravvissuta all’Olocausto. I tre sono stati denunciati con l’accusa di invasione di proprietà privata e aggressione. Il processo è ancora in corso.

RICHARD FALK

Richard Falk è uno studioso di diritto e relazioni internazionali che ha insegnato all’università di Princeton per quarant’anni. Dal 2002 ha vissuto a Santa Barbara, California, ed ha insegnato nel campus della locale università di California Studi Globali e Internazionali e dal 2005 ha presieduto il Consiglio della Fondazione per la Pace nell’Epoca Nucleare. Ha aperto questo blog in parte per festeggiare il suo ottantesimo compleanno.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Kamila Shamsie è solo l’ultima vittima della tendenziosità della Germania contro i palestinesi

Abir Kopty

 26 settembre 2019 – Middle East Eye

Più di 70 eventi in diverse città sono stati annullati negli ultimi 4 anni in seguito a pressioni da parte della lobby israeliana

La recente decisione della città tedesca di Dortmund di ritirare un premio letterario alla scrittrice anglo-pakistana Kamila Shamsie per la sua posizione a favore dei palestinesi non è certo una sorpresa.

Non è la prima volta che questo cambiamento di una decisione avviene in seguito alle pressioni della lobby sionista in Germania. Pochi giorni fa un evento pubblico organizzato dal “Jewish-Palestinian Dialogue Group” [Gruppo per il Dialogo Ebraico-Palestinese] a Monaco è stato annullato a causa del suo appoggio ai diritti dei palestinesi e al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). L’organizzazione Caritas, che doveva ospitare l’avvenimento, lo ha annullato a causa di pressioni della comunità ebraica di Monaco.

Far tacere critiche legittime

L’evento avrebbe dovuto ospitare il giornalista Christoph Sydow, co-autore di reportage sul campo per “Der Spiegel” [settimanale tedesco di centro sinistra, ndtr.] su come le organizzazioni della lobby ebreo-tedesca e filo-israeliana hanno giocato un ruolo fondamentale nella recente risoluzione del Bundestag [il parlamento tedesco, ndtr.] contro il BDS. Questo reportage ha fatto scalpore, provocando un violento attacco da parte della lobby filoisraeliana.

Sydow non è un attivista, ma un giornalista che ha fatto il proprio lavoro per svelare la verità sulla lobby filoisraeliana. Eppure ogni critica può essere messa a tacere sventolando la bandiera dell’antisemitismo. In Germania questa strategia sembra sempre funzionare, in quanto la lobby filoisraeliana continua ad (ab)usare della storia tedesca di genocidio contro gli ebrei per far tacere le legittime critiche alle continue violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Una lista stilata da attivisti tedeschi di cui sono venuta in possesso documenta più di 70 eventi in diverse città che negli ultimi quattro anni sono stati annullati per pressioni da parte della lobby israeliana.

Solo quest’anno agli attivisti palestinesi Rasmea Odeh e Khaled Barakat è stato impedito di partecipare ad iniziative pubbliche in Germania; tre attivisti sono stati processati per aver interrotto una conferenza presso l’università Humboldt di una deputata della Knesset [parlamento] israeliana che ha appoggiato l’attacco di Israele contro Gaza nel 2014; il direttore del Museo Ebraico di Berlino, Peter Schafter, è stato obbligato a dimettersi in seguito a pressioni della comunità ebraica per un tweet critico nei confronti della presa di posizione della Germania contro il BDS.

Sempre quest’anno, dopo che il gruppo Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East [Voci Ebraiche per una Pace Giusta in Medio Oriente, gruppo di ebrei tedeschi contro l’occupazione, ndtr.] ha vinto un premio per la pace nella città di Gottinga, funzionari di alto livello hanno cercato di farlo revocare – benché la giuria alla fine abbia confermato la propria decisione ed abbia finanziato il premio.

Situazione di timore

Mentre queste misure dovrebbero impensierire tutti i difensori dei diritti umani e in particolare il movimento filo-palestinese, esse dovrebbero in primo luogo preoccupare gli stessi tedeschi.

I tedeschi dovrebbero cogliere l’occasione per prendere in considerazione lo stato di timore che devono affrontare se vogliono esprimere le proprie opinioni sulle politiche di Israele. Molti tedeschi in privato mi hanno detto di non sentirsi tranquilli quando si esprimono in pubblico “a causa della nostra storia”.

Il significato sottinteso è che temono di perdere il proprio lavoro o di essere presi di mira da una campagna di calunnie che potrebbe distruggere le loro vite.

I tedeschi parlano a voce alta di persone oppresse in tutto il mondo; i palestinesi sono l’eccezione. Sembrerebbe che la Germania valorizzi la democrazia e la libertà di parola, salvo quando si tratta della Palestina. Molti semplicemente non sono abbastanza coraggiosi da schierarsi chiaramente contro quelli che soffocano la loro libertà di parola e impediscono loro di vivere secondo i propri valori.

Mentre questa condizione di timore è predominante, ci sono ancora quelli che rifiutano di essere messi a tacere e che continuano a reagire – soprattutto sul piano legale.

Motivo di speranza

Due settimane fa il tribunale amministrativo di Colonia ha ordinato alla città di Bonn di accettare la “German-Palestinian Women’s Association” [Associazione Tedesco-Palestinese delle Donne] all’annuale “Festival della Cultura e dell’Incontro” di Bonn, dopo che in un primo tempo la città aveva escluso il gruppo per il suo appoggio al BDS. Secondo il tribunale, la città non ha “neppur lontanamente dimostrato” alcuna ragione plausibile per l’esclusione.

Secondo l’“European Legal Support Centre” [Centro di Sostegno Legale Europeo] la decisione ha fatto seguito ad altre due precedenti sentenze da parte del tribunale amministrativo di Oldenburg e dell’Alta Corte Amministrativa della Bassa Sassonia, a Luneburg, che hanno anch’esse garantito l’accesso di attivisti del BDS a strutture pubbliche dopo che inizialmente erano state loro negate dalle autorità locali. 

Benché queste decisioni siano motivo di speranza, le azioni legali da sole non sono sufficienti. La vera lotta riguarda la sfera pubblica.

I tedeschi dovrebbero porsi domande scomode e decidere se intendono continuare a vivere in una condizione di timore che sabota i loro diritti fondamentali di libertà di parola e di pensiero.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Abir Kopty

Blogger, conduttrice radio-televisiva e dottoranda.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netflix e Israele: un rapporto speciale

Belen Fernandez

24 settembre 2019 – Middle East Eye

Come numerose piattaforme dell’intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara israeliana

Nel 2016 l’ambasciata israeliana negli Stati Uniti ha twittato riguardo all’espansione di Netflix a livello globale: “Per circa 5 giorni all’anno il tempo non è buono…@Netflix, ora in Israele!”

Certo, che fortuna che Israele sia riuscito a fondarsi su terra rubata con un clima così favorevole. E, parlando di fortuna, Netflix si è dimostrato un vero dono del cielo per lo Stato ebraico per molto più di cinque giorni all’anno. Come numerose piattaforme di intrattenimento, Netflix si è fatta inglobare nell’industria della hasbara [propaganda, ndtr.] israeliana.

Onorare il Mossad

L’ultimo prodotto filo-israeliano per abbellire gli schermi degli utenti a pagamento è la serie in sei parti “La Spia” di Netflix, con Sacha Baron Cohen che interpreta l’agente del Mossad [servizio segreto per l’estero, ndtr.] israeliano Eli Cohen, giustiziato a Damasco nel 1965.

Prevedibilmente la serie umanizza Cohen in quanto umile, amorevole e zelante patriota impegnato in un nobile inganno a favore degli innocenti israeliani sotto attacco da parte dell’ignobile Siria. Non si fa alcun riferimento al ruolo prevalente di Israele come aggressore-provocatore, mentre la sua storia di stragi di massa al servizio di disegni predatori a livello regionale è – come al solito – sparita sotto il mantra dell’“autodifesa”.

Ma “La Spia” è solo l’inizio. Cercate “Israele” su Netflix e sarete bombardati da ogni sorta di offerte, da “Dentro al Mossad” a “Fauda”, una serie su “un importante agente (che) ritorna in servizio dalla pensione per dare la caccia a un combattente palestinese che pensava di aver ucciso”. Nel trailer, apprendiamo che “Abu Ahmad ha sulle mani il sangue di 116 israeliani” e che “nessun altro terrorista ne ha uccisi così tanti: uomini, donne, bambini, anziani, soldati.”

Non importano, allora, gli episodi della vita reale come quella volta in cui nel 2014 l’esercito israeliano ha avuto sulle sue mani il sangue di 2.251 palestinesi, compresi 299 donne e 551 minorenni. Quello che interessa alla propaganda israeliana è invertire il rapporto tra carnefice e vittima, cosicché il terrorismo istituzionalizzato di Israele a danno dei palestinesi sarebbe in qualche modo per sua natura una reazione, mentre le vittime di più di settant’anni di aggressioni israeliane si ritrovano nel ruolo degli aggressori.

La morale della storia

La lista di Netflix continua. Vi sono ospitati anche due film intitolati “L’angelo” e “La spia caduta sulla terra”, usciti rispettivamente nel 2018 e nel 2019, e riguardanti lo stesso personaggio: l’egiziano Ashraf Marwan, genero del defunto presidente Gamal Abdel Nasser.

Nel loro libro “Spies Against Armageddon: Inside Israel’s Secret Wars” [Spie contro l’Armageddon: dentro le guerre segrete di Israele] Dan Raviv e Yossi Melman notano che nel 1973 Marwan è stato il coordinatore del complotto libico-egiziano-palestinese per abbattere un aereo della linea aerea israeliana El Al in Italia, in risposta all’abbattimento da parte di Israele di un velivolo libico che aveva ucciso le 105 persone a bordo.

Marwan consegnò personalmente i missili richiesti a incaricati palestinesi a Roma, ma “il piano fallì…Quello che i cospiratori libici, egiziani e palestinesi non hanno mai saputo è il segreto riguardante Marwan: era un agente al soldo del Mossad, uno dei migliori che Israele abbia mai avuto.”

Mentre per gli arabi la morale della storia è forse che fare la spia per Israele è un buon modo per raggiungere una fama postuma su Netflix, questo specifico aneddoto dovrebbe anche annullare concretamente le affermazioni israeliane di avere a cuore il benessere e la sicurezza dei propri cittadini.

Poi c’è “When Heroes Fly” [Quando volano gli eroi], la serie del 2018 su quattro veterani dell’esercito israeliano traumatizzati dalla guerra del 2006 in Libano; solo per il fatto che Israele fece la grande maggioranza delle uccisioni ed altri danni non significa che il ruolo di vittima dovrebbe essere tolto ai suoi soldati.

Un articolo di Haaretz ci assicura che “il nuovo thriller israeliano di Netflix ‘When Heroes Fly’ è divertente quasi quanto ‘Fauda’” e la serie è “abbastanza avvincente da soddisfare chiunque abbia perso ‘Fauda’ nella propria vita.” Di certo è difficile pensare a qualcosa di più divertente di una guerra e di un trauma.

Ultimo ma non per importanza, c’è il film di Netflix “Il Centro Immersioni del Mar Rosso”, sui tentativi da salvatore bianco del Mossad negli anni ’80 di evacuare gli ebrei etiopi attraverso il Sudan verso la Terra Promessa (ovviamente per molti la terra in questione non sarebbe risultata così promessa, come possono probabilmente testimoniare gli etiopi a cui sono stati somministrati a forza farmaci contraccettivi o a cui la polizia israeliana ha sparato).

Il film è diretto da Gideon Raff, che ha ideato anche “La Spia” e “Hatufim”, che ha ispirato la serie razzista considerata da tutti la preferita, “Homeland” [Patria] – alla quale Raff ha contribuito. Discussione su come trovare il proprio posto.

Spettacolo vergognoso

Evidentemente non c’è niente di contraddittorio riguardo agli israeliani che compiangono la morte e l’espulsione in Etiopia – e all’imperativo morale di salvare le vittime – quando tutta l’impresa israeliana è costruita su, proprio così, morte ed espulsione.

Nel 1948 la Nakba vide centinaia di villaggi palestinesi distrutti, l’uccisione di 15.000 palestinesi ed altri 750.000 costretti a fuggire dalle loro case. Da allora il modello della pulizia etnica è solo continuato, punteggiato da veri e propri picchi di massacri.

In quello che non può che essere descritto come un’esibizione di totale spudoratezza, “The Red Sea Diving Resort” include battute come questa, detta da una bionda agente israeliana: “Non siamo tutti solo dei rifugiati?”

Il film finisce ricordando che “attualmente ci sono più di 65 milioni di rifugiati in tutto il mondo”; al diavolo il fatto che, grazie a Israele, di palestinesi rifugiati ce ne sono oltre sette milioni.

E mentre nel film un agente sostiene che c’è “un altro sanguinoso genocidio” che sta avvenendo in Etiopia, ma che “a nessuno gliene fotte niente perché avviene in Africa”, il tentativo di genocidio di Israele per spazzare via l’identità palestinese non merita evidentemente la stessa preoccupazione.

A conti fatti la mia ricerca di “Palestina” su Netflix – e lo stesso vale per “Libano” e “Siria” – ha prodotto in buona misura la stessa ampia scelta di thriller con spie israeliane e altre “piacevolezze”. Quando ho tentato di cercare “Nakba”, il principale risultato è stato “Bad Boys II” [Cattivi ragazzi 2, serie poliziesca USA, ndtr.], interpretato da Martin Lawrence e Will Smith; un po’ più in basso si trova “The Red Sea Diving Resort”.

Sparizione

Recentemente ho contattato Netflix per avere risposte alle critiche sul fatto che funge da mezzo per la propaganda israeliana, ed ho ricevuto la seguente dichiarazione da un portavoce: “Ci occupiamo dell’industria dell’intrattenimento, non dei media o della politica.

Comprendiamo che non tutti gli spettatori apprezzano tutta la programmazione che offriamo. È per questo che abbiamo una vasta gamma di contenuti da tutto il mondo – perché crediamo che le grandi storie arrivino da qualunque parte. Tutti gli spettacoli di Netflix mostrano la classificazione e l’informazione per aiutare gli utenti a prendere le proprie decisioni su quello che va bene per loro e per le loro famiglie.”

La mia attenzione era rivolta anche ad alcuni esempi dei “diversi contenuti arabi che si trovano nel servizio e in via di sviluppo”, di cui il primo è “comici del mondo”, uno spettacolo che ospita 47 comici internazionali – quattro dei quali mediorientali.

Ma i comici del Medio Oriente sono molto lontani dagli apprezzamenti per “The Spy” – che, come ogni spettacolo di intrattenimento centrato su Israele, è intrinsecamente politico – e il solo fatto che su Netflix ci sia un “contenuto arabo” non significa che faccia qualcosa per umanizzare o contestualizzare la lotta dei palestinesi.

Il rapporto speciale di Netflix con Israele potrebbe essere redditizio per chi ne è coinvolto, ma, contribuendo ad alzare gli indici di gradimento di Israele in un’esibizione di brutalità che è già durata per settant’anni di troppo, la compagnia è totalmente complice nella sparizione dei palestinesi operata da Israele.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Belen Fernandez  è autrice di Exile: Rejecting America and Finding the World [Esilio: rifiutare l’America e trovare il mondo”] e di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro]. È una collaboratrice della rivista “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)