Il principale sconfitto in queste elezioni: il sionismo liberale

Mairav Zonszein

26 settembre 2019 +972

Gli israeliani votano regolarmente contro l’idea di uno Stato ebreo e democratico israeliano accanto uno Stato palestinese. E’ ora impossibile capire come ciò possa mai essere realizzato.

Domenica Ayman Odeh, il presidente della Joint List (Lista Unita, alleanza politica dei principali partiti arabi in Israele, n.d.tr.), ha incontrato il presidente Reuven Rivlin per annunciare la decisione importante del suo partito di appoggiare Benny Gantz, presidente del partito “Blu e Bianco” [i colori della bandiera israeliana. Partito di centro che ha vinto le elezioni, n.d.tr.], per la sua elezione come primo ministro. Nel tentativo di contrastare un altro mandato di Netanyahu, Ayman Odeh ha fatto ciò che nessun altro politico israeliano sta facendo – ha definito una visione per il futuro del Paese: “Vogliamo vivere in un luogo pacifico che sia fondato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele, su una vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, su una giustizia sociale e certamente sulla democrazia per tutti “.

Questa non è una posizione nuova o radicale. Semmai, rappresenta l’anima dello schieramento israeliano a favore della pace degli anni ’90. È un caratteristico approccio sionista liberale, ma l’unico politico israeliano che lo esprima è un politico musulmano palestinese di Haifa. Odeh presiede il Partito socialista arabo-ebraico Hadash, che insieme ai tre partiti prevalentemente arabi costituisce la Joint List; avendo vinto 13 seggi dopo le elezioni della scorsa settimana, la Joint List è ora il terzo maggiore partito della Knesset.

L’opinione di Odeh pubblicata sul The New York Times domenicale [vedi su zeitun.info] ha tradotto per un pubblico americano ciò in cui credono molti cittadini palestinesi e una minoranza di cittadini ebrei: “Il solo futuro per questo paese è un futuro condiviso, e non c’è futuro condiviso senza piena ed equa partecipazione dei cittadini [israeliani] arabo-palestinesi ”.

Per chi sostiene la democrazia liberale, o anche solo per chi è realista, è difficile mettere in discussione questa affermazione, soprattutto da momento che i cittadini palestinesi costituiscono il 20% della popolazione israeliana. Tuttavia rimane non solo una posizione minoritaria in Israele, ma perseguitata e delegittimata. Con o senza Netanyahu, non vi è alcuna prospettiva realistica che la Joint List sia invitata a far parte di una coalizione di governo (dalla fondazione dello Stato, nessun partito palestinese-israeliano è stato al governo) o addirittura a dirigere l’opposizione. I cittadini palestinesi di Israele hanno dimostrato di avere abbastanza potere per esistere nel quadro politico, ma non abbastanza per cambiarla.

Dopo i risultati elettorali della scorsa settimana, Netanyahu ha parlato della necessità di un “governo sionista forte” (in codice: per soli ebrei) ed ha etichettato la Joint List come “anti-sionista”. Allo stesso modo, il Partito Blu e Bianco, come la maggior parte degli israeliani, sostiene che Israele è la casa patria del popolo ebraico in cui solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione. Blu e Bianco ha partecipato alle elezioni con un programma anti-Netanyahu; durante la sua campagna, il partito ha sostenuto il pluralismo e ha insistito sul fatto che avrebbe respinto la legge discriminatoria sullo Stato nazione ebraico.

Alla fine, tuttavia, lo Stato-nazione ebraico finisce per rappresentare esattamente ciò in cui credono. Sono emotivamente e ideologicamente attaccati all’idea che Israele debba essere uno Stato che privilegi i diritti degli ebrei rispetto a quelli dei cittadini non ebrei. Non importa quanto siano liberali o affermino di esserlo, questo dato di fatto prevale sempre sul tutto il resto, lasciando centinaia di migliaia di cittadini palestinesi intrinsecamente privati degli stessi diritti e negando loro la via per acquisirli.

Un recente sondaggio condotto dall’Israel Democracy Institute mostra che il 76% dei cittadini palestinesi è favorevole al fatto che la Joint List si unisca a una coalizione al potere e faccia in modo che i propri rappresentanti ricoprano nel governo la carica di ministri. Quasi la metà dei cittadini ebrei (49 per cento) si oppone all’idea. Ciò rende insignificante l’affermazione secondo cui i cittadini palestinesi sono anti-sionisti o che non riconoscono Israele, dal momento che stanno evidentemente prendendo parte attiva al processo politico.

Dopo due elezioni in un anno, entrambe non in grado di produrre una chiara maggioranza, il paese si trova in una condizione di stallo politico; la difficoltà riflette la condizione sia del modello liberale sionista che l’ostinazione del consenso israeliano. Un Stato etnico ebraico non può, per definizione, essere anche liberale e democratico, in particolare quando la sua popolazione comprende una grande minoranza autoctona con un’identità nazionale e culturale separata.

Dalla fondazione dello Stato, i leader politici israeliani sia di destra che di sinistra hanno dato la priorità all’appropriazione della terra e agli’insediamenti ebraici rispetto alla concessione degli stessi diritti civili a tutti i cittadini, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione. Questa politica è andata a scapito del raggiungimento di una soluzione politica – per non dire sostenibile – che riconosca i diritti e le aspirazioni di entrambi i popoli.

Blu and Bianco, Likud, Yisrael Beitenu [Israele Casa Nostra, partito di estrema destra laica, n.d.tr.] di Avigdor Lieberman, i partiti ortodossi e persino i partiti Unione Democratica e laburista-Gesher, di centro-sinistra, affrontano tutti la stessa crisi. Sostengono di essere liberali e insistono di essere democratici, ma non hanno ancora capito come trattare con i cittadini palestinesi di Israele, come oggi gli è stato chiarito da Ayman Odeh, o dal popolo palestinese in generale. È interessante, ad esempio, notare che il partito israeliano di centrosinistra è stato chiamato, nelle elezioni del 2015, Unione Sionista, mentre quest’anno abbiamo visto come la formazione della Unione Democratica (una coalizione di Meretz, Ehud Barak e Labor’s Stav Shaffir, entrambi laburisti), manifestasse la tensione tra il sionismo e la democrazia e come, da un giorno all’altro, ammettesse che per essere di sinistra in Israele, alla fine devi difendere l’uno o l’altra. Questo dice molto sullo stato attuale della politica israeliana.

Il principale sconfitto della seconda elezione israeliana del 2019 è il sionismo liberale. L’idea che Israele possa essere uno Stato ebraico e democratico con confini internazionalmente riconosciuti, che riconosca la sua minoranza nazionale palestinese e insieme raggiunga un accordo per costituire uno Stato palestinese, ha subito un colpo fatale. Gli israeliani hanno regolarmente votato contro questa idea; ora è impossibile capire come potrebbe mai essere realizzata.

Ayman Odeh è un leader valido ed efficace, con un’integrità. Insistendo nel suo articolo sul New York Times, sul fatto che “c’è abbastanza spazio per tutti noi nella nostra patria condivisa, abbastanza spazio per la poesia di Mahmoud Darwish e le storie dei nostri nonni, abbastanza spazio per tutti noi per far crescere le nostre famiglie in uguaglianza e pace”, egli sta sfidando gli israeliani liberali a guardarsi allo specchio e a trovare un modo per conciliare le loro opinioni politiche particolaristiche (il loro sionismo) con i loro valori. Possono farlo solo accettando che i palestinesi – cittadini, residenti o sotto occupazione senza uno Stato – non se ne vadano. La natura precisa della soluzione politica, che si tratti di uno o due Stati, è di secondaria importanza per conseguire una formula in base alla quale ebrei e arabi abbiano pari diritti e vivano in pace e dignità.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mentre l’economia di Gaza è in caduta libera, il carcere per i debitori è sovraffollato

Yousef M. Aljamal

24 settembre 2019 – Mondoweiss

Karam Marwan, di 22 anni, voleva aprire un negozio di videogiochi. Nel 2016 ha ottenuto un prestito di 5.000 dollari da un suo conoscente per aprire l’attività. Marwan si era appena laureato al college in contabilità, ma, date le scarse prospettive di lavoro nella Striscia di Gaza dove vive, ha fatto la scommessa di aprire una piccola attività in proprio. In meno di un anno il negozio di video avrebbe chiuso e Marwan sarebbe andato in prigione con una condanna a tre mesi per non aver potuto restituire il denaro preso a prestito.

Secondo la legge sull’esecuzione delle pene n. 23 approvata nel 2015, a Gaza l’insolvenza dei debiti è un illecito civile punibile con un massimo di 91 giorni di condanna. La normativa consente ai giudici di incarcerare un palestinese che abbia un debito, a prescindere che quel debito sia nei confronti di un tradizionale istituto di credito o di un privato. Nella maggior parte dei casi un giudice media una conciliazione tra debitori e creditori. Ogni anno i programmi di condono di finanziamenti e prestiti gestiti da Hamas, come anche da enti indipendenti no-profit, durante il mese sacro islamico del Ramadan rimborsano o cancellano alcuni debiti, ma molti palestinesi vengono abbandonati a se stessi.

Secondo l’European Asylum Support Office [Ufficio Europeo Assistenza Asilo], a Gaza sono stati incarcerati per debiti solo maschi.

Un portavoce della polizia di Gaza, Ayman al-Batniji, ha detto al canale britannico New Arab che nel 2018 sono stati incarcerati per debiti o prestiti scaduti 93.314 palestinesi, anche se non ha specificato la durata della detenzione. In base ai dati forniti dalla magistratura di Gaza ed analizzati da New Arab ciò segnala un incremento rispetto ai circa 80.000 detenuti a Gaza sia per frode che per debiti nel 2015.

In un rapporto pubblicato lo scorso anno dall’AFP [Agenzia di stampa francese], la polizia di Hamas ha fornito cifre che presentano un andamento contraddittorio, affermando che nel 2017 erano state incarcerate per debiti circa 45.000 persone.

Nel decennio scorso, con una maggior fiducia negli istituti di credito, sempre più palestinesi hanno contratto debiti per affrontare necessità fondamentali della vita o per comprare a rate beni come telefoni cellulari. In uno studio del 2018 Islamic Relief’ [agenzia umanitaria internazionale, ndtr.] ha scoperto che “il 92% delle famiglie si è indebitato per assicurarsi le necessità basilari di cibo o altri beni di uso quotidiano.”

Marwan, il proprietario del negozio di videogiochi, ha contratto un prestito che avrebbe dovuto essere restituito in quote di 200 dollari al mese. “All’inizio tutto andava bene, ma con la prospettiva di interruzioni di elettricità a Gaza, ho dovuto procurarmi l’elettricità privatamente.” L’incremento dei costi per i servizi, unito ad una minor domanda di acquisto di giochi alimentati con l’energia elettrica, ha ridotto le sue entrate.

“Sette mesi dopo l’apertura del negozio i debiti hanno iniziato ad accumularsi”, ha detto Marwan.

Preoccupato, ha chiesto denaro ad amici e conoscenti per ripagare il suo debito. Il creditore gli ha concesso due mesi e poi avrebbe sporto denuncia, ma in quelle otto settimane Marwan ha cercato di sfuggirgli.

“Ho iniziato a spegnere il cellulare e sono andato via da casa. Ho smesso di aprire il negozio per nascondermi all’uomo che pretendeva i suoi soldi”, ha detto.

“Una mattina si è presentato a casa mia un poliziotto che mi ha consegnato una citazione, il che mi ha sconvolto”, ha raccontato Marwan. Per l’ angoscia è finito in ospedale. “Quando sono uscito dall’ospedale sono stato arrestato”, ha detto.

“Il tribunale mi ha condannato a tre mesi di prigione all’anno fino a che non avrò pagato i restanti 4.000 dollari”, ha detto, aggiungendo: “La mia vita in prigione era dura e il marito di mia sorella ha pagato il mio debito.”

Oggi il negozio di Marwan è chiuso e lui è senza lavoro, cosa non rara a Gaza. La Banca Mondiale ha rilevato che il tasso di disoccupazione a Gaza è salito al 52% nel 2018. Nello stesso periodo l’economia, in cui dal 70 all’80% dei redditi proviene dagli aiuti internazionali e dal sostegno dell’Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania, è scesa dell’8%.

Le condizioni economiche sono peggiorate negli ultimi dieci anni sotto il blocco di Israele ed Egitto iniziato a Gaza nel 2007, dopo che Hamas ha preso il potere. Secondo la Banca Mondiale, mentre nei primi anni di assedio il PIL di Gaza ha continuato a crescere, i danni alle infrastrutture causati da tre guerre in dieci anni e i recentissimi drastici tagli dei finanziamenti dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno portato l’economia di Gaza ad una situazione di “caduta libera”. I palestinesi che adesso non possono pagare l’affitto finiscono in prigione.

Raed al-Hawajri, di 42 anni, vive in una casa di una stanza con la moglie e quattro figli nel campo profughi di al-Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza. Non ha un lavoro fisso o un reddito sicuro, per cui ha difficoltà a pagare l’affitto. Fino a due anni fa ha svolto lavori occasionali come guardia di sicurezza, piastrellista, idraulico e nell’edilizia.

L’affitto gli costa 125 dollari al mese, che lo scorso aprile non ha pagato.

“Ho smesso di lavorare a causa della cattiva situazione economica nella Striscia di Gaza. Sono stato sfrattato da casa dal proprietario, per cui io e la mia famiglia siamo diventati dei senzatetto, che chiedono aiuto a dio e a chi può aiutarci”, ha detto.

Allora il padrone di casa ha tentato di querelare Raed per circa 400 dollari di morosità. Ha sporto denuncia, ma quando Raed non è stato in grado di saldare il conto è stato arrestato. Dopo tre giorni è intervenuto un amico benestante che ha pagato sia il suo debito pregresso che le rate future per l’anno dopo.

Anche i palestinesi che hanno contratto debiti per sostenere spese mediche sono finiti in prigione. A Gaza le malattie croniche affliggono il 42% delle famiglie.

Mofeed Badwan, un uomo di mezza età con una solida carriera come imbianchino, nel 2012 ha contratto un tumore alla gola. È stato curato in un ospedale israeliano sei volte in sei anni per un totale di quattro mesi. Ha speso i risparmi di una vita, 20.000 dollari, per sostenere le spese.

“Sono rimasto senza soldi e ho dovuto pagare tutte le spese e rimborsare di tasca mia le cure in un ospedale israeliano”, ha detto. All’inizio di quest’anno, senza più soldi, Badwan ha cercato di proseguire le cure in un ospedale di Gaza. Ha ottenuto un prestito da due amici e dal suo farmacista.

“Ho dovuto farmi prestare un totale di 10.000 shekel israeliani [oltre 2.500 euro, ndtr.] per sostenere i costi e le spese in medicinali e sono finito in prigione perché non ho potuto restituire i miei debiti”, ha detto. Ha passato due giorni in carcere ed è stato rilasciato eccezionalmente a causa delle sue condizioni di salute.

Moin Rajab, un professore in pensione dell’università Al-Azhar nella Striscia di Gaza, ha detto a Mondoweiss che un crescente numero di palestinesi ha contratto debiti lo scorso anno. Al contempo, negli ultimi due anni, i dipendenti pubblici dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno percepito solo il 70% dei loro salari, mentre migliaia di altri non hanno percepito nulla.

“Credo che affrontare simili contenziosi mettendo di mezzo la polizia non risolverà il problema. La gente deve parlare con personalità pubbliche per risolvere queste questioni, il carcere non è mai una buona soluzione”, ha detto Rajab.

Altri palestinesi sono detenuti nel carcere per debiti contratti per sostenere le spese del matrimonio.

Ismail Sadi, di 27 anni, nel 2017 ha chiesto un prestito per sposarsi. Sadi intendeva restituire la somma con il guadagno dei suoi due lavori. Dava una mano al negozio di oreficeria di suo padre in una stanza della casa dei genitori e guidava un taxi. Viveva in casa dei suoi per risparmiare. Per sposarsi si è fatto prestare circa 2.800 dollari da una società privata di Gaza.

Ha restituito la metà del prestito con 100 dollari al mese. Ma quando il proprietario del taxi ha chiesto la restituzione della sua vettura, “i soldi non erano più sufficienti per pagare la società e sostenere le mie spese famigliari. La società si è rivolta alla polizia perché per tre volte di seguito non ho pagato la rata mensile. La polizia mi ha rintracciato e arrestato”.

Sadi è stato condannato a dieci giorni di carcere.

“Mio padre ha anche cercato di farsi prestare del denaro dai suoi amici e conoscenti per farmi uscire di prigione, ma non ha potuto ottenere l’intera cifra. È riuscito ad avere solo 1000 shekel israeliani [280 dollari] e li ha dati alla società”, ha detto.

Alla fine un’organizzazione senza scopo di lucro ha garantito il denaro per estinguere i debiti dei palestinesi in difficoltà economica. Non è un servizio regolare, avviene occasionalmente a Gaza come forma di assistenza.

“Della gente ricca”, ha detto Sadi, “ha pagato il mio debito nel mese sacro del Ramadan e sono riuscito ad uscire di prigione.”

Yousef M. Aljamal è un profugo di Gaza e attualmente è dottorando in Studi sul Medio Oriente all’università di Sakarya in Turchia. È il traduttore di ‘Sognando la libertà: parlano i bambini palestinesi prigionieri’.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’appoggio a Benny Gantz da parte della Joint Arab List è stato un errore

Haidar Eid

24 settembre 2019 – Al Jazeera

I politici palestinesi non avranno niente da guadagnare dall’ appoggio a un generale accusato di crimini di guerra perché diventi primo ministro

Una delle più gravi conseguenze dei disastrosi accordi di Oslo è stata che hanno ridisegnato il popolo palestinese come se fosse composto solo da chi vive nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate. Il 1,8 milione di cittadini palestinesi di seconda classe in Israele e i 6 milioni di rifugiati palestinesi che vivono nella diaspora sono stati quindi relegati in fondo all’agenda di qualunque discussione, dato che non hanno rappresentanti al tavolo negoziale.

In seguito a ciò ogni componente del popolo palestinese sta perseguendo il proprio personale progetto e la propria soluzione finale – che si tratti di uno Stato indipendente per quanti vivono in Cisgiordania e a Gaza, di una maggiore allocazione di fondi pubblici per i palestinesi cittadini di Israele o di più diritti civili per i rifugiati che vivono nel mondo arabo.

Solo all’interno di questo contesto si può comprendere la catastrofica iniziativa di tre dei quattro partiti che fanno parte della Joint Arab List [Lista Araba Unita] di appoggiare Benny Gantz – un uomo che ha progettato crimini di guerra durante l’attacco israeliano del 2014 contro Gaza, che ha ucciso più di 2.200 palestinesi, e che non ha dimostrato nessun pentimento per questo – per la carica di prossimo primo ministro israeliano. La ragione per cui la Joint Arab List, con l’eccezione di tre membri del partito Balad, ha deciso di proporre il nome di Gantz è “perché vogliamo porre fine all’era di Netanyahu”, come ha spiegato il suo presidente Ayman Odeh.

In uno dei suoi tweet egli ha aggiunto che “vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, la fondazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele, reale uguaglianza a livello civile e nazionale, giustizia sociale e una democrazia garantita per tutti,” senza spiegare come ciò giustifichi il sostegno a Gantz, che ha già respinto in anticipo tutte queste richieste e che durante la campagna elettorale si è vantato, di fatto, di aver ucciso palestinesi.

Questa iniziativa senza precedenti da parte di politici palestinesi in Israele, che giunge nel momento in cui ogni venerdì cecchini israeliani stanno uccidendo e mutilando manifestanti palestinesi nei pressi della barriera di Gaza, ha provocato forti ripercussioni in tutta la Palestina storica. Ciò non solo perché l’appoggio legittima un criminale di guerra che sostiene la legge razzista dello Stato-Nazione in Israele, che relega i palestinesi come cittadini di seconda classe, ma anche perché come primo ministro egli sicuramente continuerà a commettere crimini contro il popolo palestinese.  Egli ricomincerà da dove ha finito Netanyahu e continuerà a promuovere e rafforzare l’apartheid, l’uccisione di civili palestinesi innocenti, a mantenere la Cisgiordania sotto occupazione militare, ad assediare e strangolare la Striscia di Gaza con un atto di punizione collettiva, ad annettere terra palestinese e ad espandere le colonie ebraiche illegali in Cisgiordania.

Questa decisione della Joint Arab List riflette la miopia e l’opportunismo politico di parte dell’élite politica palestinese in Israele. Ciò riduce la lotta da parte dei cittadini palestinesi di Israele per una vera uguaglianza ed anche la comune lotta dei palestinesi per la libertà e la giustizia ad “averne semplicemente abbastanza di Netanyahu” e a sostituirlo con un altro criminale di guerra.

Invece di chiedere i loro pieni diritti, sono pronti a raccogliere “briciole di compassione buttate dal tavolo di qualcuno che si considera il (loro) padrone,” come direbbe l’arcivescovo Desmond Tutu [premio Nobel sudafricano che ha lottato contro l’apartheid, ndtr.].

Le ripercussioni della decisione presa dalla Joint Arab List ci perseguiteranno a lungo. È una forma di normalizzazione, in cui il colonizzato, accecato dall’ammirazione nei confronti della falsa democrazia etnica liberale del colonizzatore, non riesce a comprendere i meccanismi di potere in uno Stato colonialista d’insediamento.

Come hanno sottolineato molte forze politiche palestinesi, di sinistra e di destra, il fatto di partecipare alle elezioni israeliane è in sé una cosa molto problematica. Legittima le strutture politiche israeliane, come la Knesset israeliana, in cui si legifera continuamente a favore dell’oppressione del popolo palestinese e la si legalizza.

Appoggiare queste strutture non può in alcun modo aiutare i palestinesi a ottenere i diritti umani fondamentali, la giustizia o l’uguaglianza. Dato che il fulcro del potere è l’apartheid, lavorare al suo interno non può portare né porterà mai alla liberazione del popolo palestinese, in quanto si fonda sulla segregazione, sull’oppressione e sull’occupazione.

Questo sistema dev’essere boicottato, per mettere in discussione la legittimità del suo ordine razzista e per preparare la strada ad alternative. Perché ciò avvenga, tuttavia, è evidente che ci sia bisogno di decolonizzare la mente dei palestinesi in Israele, in modo che i dirigenti dei partiti arabi in Israele comprendano che opporsi alla tendenziosità politica ed ideologica del sistema implica rifiutare tutte le sue strutture di potere.

Finché ciò non avverrà, la Joint Arab List continuerà a giocare il suo gioco politico, che non solo esclude le altre due componenti del popolo palestinese, ma gioca anche d’azzardo con i diritti fondamentali del suo stesso elettorato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Haidar Eid è docente associato dell’università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa c’è dietro la campagna saudita contro Hamas?

Adnan Abu Amer

23 settembre 2019 Al Jazeera

Attraverso i ripetuti  arresti dei suoi sostenitori e l’interruzione dei i flussi finanziari verso Gaza, Riyadh cerca di mettere Hamas colle spalle al muro

Il 9 settembre Hamas ha rilasciato una sorprendente dichiarazione ufficiale che condanna gli arresti di alcuni dei suoi sostenitori residenti in Arabia Saudita. Da aprile, decine di palestinesi, giordani e cittadini sauditi sono stati arrestati e accusati di appartenere e sostenere Hamas attraverso la raccolta di donazioni a favore del movimento.

Alcuni sono stati presumibilmente torturati, altri sono stati espulsi; a molti sono state congelate le attività e monitorati i trasferimenti finanziari. Inoltre, sono stati imposti controlli severi sulle rimesse verso i territori palestinesi, cosa che durante l’estate ne ha determinato un blocco quasi completo.

Per mesi, Hamas è rimasto per lo più silenzioso, sperando che la mediazione politica potesse risolvere il problema. Importanti dirigenti di Hamas si sono rivolti ripetutamente alle autorità saudite in merito alla questione chiedendo anche la mediazione di vari funzionari arabi.

La dichiarazione ufficiale che condanna la campagna saudita contro i suoi sostenitori suggerisce che gli sforzi di mediazione siano falliti e che le tensioni non siano state risolte. Sembra che questa crisi sia stata scatenata dall’alleanza saudita con l’amministrazione Trump e il suo “accordo del secolo”, insieme alla sua campagna diplomatica contro l’Iran.

 Relazioni tra Arabia Saudita e Hamas

Dopo la costituzione di Hamas negli anni ’80, la sua leadership ha intrattenuto per anni buoni rapporti con l’Arabia Saudita. Sebbene le autorità saudite non abbiano mai inviato al partito finanziamenti diretti, hanno consentito la raccolta di fondi sul proprio territorio.

All’inizio degli anni 2000, Hamas ha iniziato ad avvicinarsi all’Iran, il che ha inevitabilmente influenzato le relazioni con l’Arabia Saudita. Nel 2007, in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinesi e agli scontri con Fatah a Gaza, Riyadh ha cercato di mediare la riconciliazione tra i due, ma non è riuscito a farlo, il che ha inasprito ulteriormente l’atteggiamento saudita nei confronti della leadership di Hamas.

Quando nel 2011 è scoppiata la primavera araba e le proteste di massa contro il regime di Assad si sono diffuse in tutta la Siria, Hamas si è trovata sempre di più in conflitto con l’Iran. Mentre i disordini si trasformavano in una guerra civile, il movimento ha deciso di appoggiare l’opposizione siriana, interrompendo di fatto i rapporti con Teheran, schierata con Damasco.

Questo sviluppo  gradito ai sauditi è stato oscurato dal colpo di stato militare del 2013 in Egitto e dalla rimozione del presidente egiziano Mohamed Morsi. Il sostegno saudita all’allontanamento del primo presidente egiziano eletto democraticamente e la contrarietà di Hamas hanno esacerbato le loro relazioni, interrompendo le visite ufficiali della leadership di Hamas a Riyadh.

Il nuovo regime al Cairo ha accresciuto la pressione su Gaza, mentre si approfondiva la crisi nelle relazioni con Fatah. Di conseguenza, sentendosi sempre più isolato, nel 2017 Hamas ha iniziato a riprendere i contatti con l’Iran.

Da allora, le relazioni con Teheran sono notevolmente migliorate, come dimostrato da una visita ufficiale di una delegazione di Hamas nel Paese nel luglio di quest’anno e dal suo incontro con il leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei.

Una nuova crisi

L’inizio del riavvicinamento tra Iran e Hamas ha coinciso approssimativamente con la svolta della strategia americana nei confronti dell’Iran. L’amministrazione Trump si è ritirata dall’accordo nucleare e ha annunciato una politica di “massima pressione” verso Teheran, che sia l’Arabia Saudita che Israele hanno accolto con favore.

Allo stesso tempo, Washington ha legato essenzialmente la sua politica verso l’Iran ai suoi sforzi per far passare un “accordo di pace” tra israeliani e palestinesi, che prevede il sostegno da parte degli Stati arabi e la normalizzazione dei loro rapporti con Israele. L’Arabia Saudita ha mostrato abbastanza esplicitamente il suo sostegno al piano.

In questo contesto, gli atteggiamenti ufficiali nei confronti della Palestina hanno cominciato a cambiare.

Il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) ha iniziato a fare pressioni sull’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) perché accettasse l’accordo americano già nel 2017. Nel 2018, circolavano delle voci secondo le quali [MBS] avrebbe minacciato il presidente palestinese Mahmud Abbas e gli avrebbe offerto  sostegno finanziario per incoraggiarlo ad accettare i termini dell’accordo americano.

Quindi, all’inizio di quest’anno, Riyadh ha rivolto il suo sguardo su Gaza. Ad aprile hanno avuto luogo i primi arresti dei sostenitori di Hamas, inclusa la detenzione del dott. Mohammed al-Khodary, da oltre 20 anni responsabile delle relazioni bilaterali. Ciò è stato seguito da un chiaro cambiamento nel linguaggio saudita sui social media e su quelli tradizionali.

A maggio, il quotidiano saudita La Mecca ha pubblicato un elenco di 40 personaggi islamici in tutto il mondo descritti come terroristi influenzati dalle idee dei Fratelli Musulmani. Tra questi, il fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, l’ex leader Khaled Meshaal, l’attuale leader Ismail Haniya, e i suoi comandanti militari Mohammad al-Deif e Yahya al-Sinwar.

Quindi, durante l’offensiva israeliana contro Gaza, nello stesso mese, attivisti e blogger sauditi hanno scritto tweet di solidarietà con Israele e hanno attaccato Hamas, accusandolo di lavorare per l’Iran e la Turchia e chiedendo a Israele di contrastare quello che hanno definito il “terrorismo” del “sangunario” Hamas. Queste affermazioni sono state unanimemente accolte con favore da Israele.

Secondo i funzionari di Hamas con cui ho parlato, l’Arabia Saudita ha affermato che Hamas deve “risolvere i suoi problemi con gli americani”. Sebbene non sia chiaro cosa significhi in modo specifico, la leadership di Hamas ritiene che questa campagna miri a spingerla ad accettare “l’accordo del secolo” dell’amministrazione Trump e a cessare la sua resistenza armata contro l’occupazione israeliana.

Oltre che cercare di soddisfare il desiderio americano di esercitare pressioni sul movimento e di prosciugarne le fonti di finanziamento, la campagna saudita contro Hamas sta anche tentando di frenarne il riavvicinamento all’Iran.

 E adesso?

La decisione di Hamas di rendere pubblica la campagna saudita contro i suoi membri mostra chiaramente il suo rifiuto di perseguire migliori relazioni con l’Arabia Saudita attraverso il taglio delle relazioni con l’Iran. In passato [Hamas] ha mantenuto relazioni equilibrate con entrambi i Paesi e vuole che ciò continui.

La resistenza di Hamas alle pressioni saudite potrebbe spingere Riyad a intensificare la sua campagna contro il movimento. La sua demonizzazione nei media sauditi probabilmente continuerà, così come gli sforzi per tagliare i suoi canali di finanziamento.

Il regno potrebbe anche esercitare pressioni politiche ed economiche su altri Paesi arabi per dare un giro di vite su Hamas e fare pressioni affinché la Lega araba lo definisca come un’organizzazione terroristica, come fece con Hezbollah nel 2016.

Se la pressione saudita persistesse e aumentasse, ciò inciderebbe senza dubbio sulla precaria situazione di Hamas nella regione e rafforzerebbe le sue relazioni con l’Iran, il quale ha ripristinato il suo sostegno militare e finanziario a favore del movimento.

Mentre Hamas si sentirà sempre più con le spalle al muro, il popolo palestinese sarà quello che ne pagherà il prezzo, poiché nella Striscia di Gaza le condizioni di vita e il disastro economico continueranno a peggiorare .

Per ora, nonostante le attuali tensioni, Hamas appare desideroso di non interrompere completamente le sue relazioni con l’Arabia Saudita. Tenterà di resistere alla tempesta nella speranza che la situazione politica nel regno e nella regione cambi e ci si avvii a un eventuale disgelo nelle relazioni.

Nel contesto del crescente allineamento arabo con le posizioni statunitensi e saudite, questa crisi è vista dai palestinesi come un’ulteriore indicazione del fatto che [essi] sono stati in gran parte lasciati in balia dei loro occupanti e dei loro sostenitori occidentali dai governi arabi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Il Dr. Adnan Abu Amer è il responsabile del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Ummah a Gaza.

(Traduzione di Aldo Lotta)




Il miraggio di Benny Gantz

Jonathan Ofir

23 Settembre 2019 – Mondoweiss

“Il Paese ha scelto l’unità, il Paese ha scelto ‘prima Israele’” ha detto il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz giovedì, dopo che la stragrande maggioranza dei voti alle elezioni di Israele del 17 settembre ha dato al suo partito un leggero vantaggio sul Likud di Netanyahu (adesso 33 a 31, i risultati ufficiali ci saranno mercoledì) [il risultato definitivo è stato 33 a 32, ndtr.]. Nessuno dei due sembra poter creare un governo se non uno di coalizione che combini i loro due partiti, dal momento che Avigdor Lieberman lo esige con i suoi decisivi 8 seggi. Entrambi i partiti maggiori (destra e centro-sinistra) senza Lieberman restano sotto la soglia dei 61 seggi.

Oggi, se si dice ” prima l’America “, è chiaro cosa significhi. Significa supremazia bianca. Anche in Israele, quando dici “prima Israele”, sai cosa significa: significa supremazia ebraica, nota anche come sionismo. Ma in Israele, per qualche ragione, questa nozione è accettata come opinione prevalente. Il sionismo sopra ogni cosa non è considerato razzismo.

Ora di recente è successo un grande evento: la Joint List [Lista Unita], che rappresenta sostanzialmente i cittadini palestinesi ed è il terzo  ad aver ricevuto più voti con 13 seggi, ha sostenuto Benny Gantz come Primo Ministro.

All’inizio è stato detto che il blocco di centro-sinistra è in vantaggio con 57 seggi rispetto ai 55 del blocco di destra. Ma poi si è  scoperto che all’interno della Joint List non tutti sono d’accordo. Una delle quattro fazioni, Balad (che chiede uno Stato democratico laico) ha insistito sul fatto che “Gantz sta progettando di formare un governo con Lieberman e Likud”, e quindi “sostenerlo sarebbe sostenere un governo di unità, che è perfino peggio di uno di destra. ”

Ayman Odeh, capo della Joint List, nella sua apertura al presidente israeliano Reuven Rivlin, ha insistito che gli avrebbe portato il sostegno di tutti e 13 i suoi rappresentanti, ma la cosa non è certa. Secondo il Jerusalem Post, il supporto che Gantz può effettivamente ottenere è sceso a 54, un seggio sotto i 55 di Netanyahu.

Gli 8 seggi di Lieberman sono i più incerti. Quindi, ancora una volta, senza il supporto di Lieberman, nessuno dei due blocchi ce la farebbe – ma Lieberman non si alleerà con la Joint List, che chiama i “nemici”.

Quindi tutto punta al centro, quel centro sionista che in realtà è un blocco di centro-destra. Il presidente Rivlin ha sottolineato che “il popolo di Israele vuole un governo che sia stabile” e “un governo stabile non può essere un governo senza entrambi i due maggiori partiti”.

Il capo della delegazione Blu e Bianco che ha incontrato il presidente è Moshe Ya’alon, ex ministro della Difesa, terzo nella direzione del partito e zelante sostenitore del progetto israeliano di colonizzazione. Ya’alon ha detto che avrebbe accolto con favore “tutti i partiti sionisti” nella coalizione, il che significa non la Joint List, e la Joint List sa che sarebbe stata comunque all’opposizione.

Il presidente Rivlin deciderà al più presto mercoledì sera, quando i risultati finali saranno ufficiali, se affidare il primo tentativo di formazione di una coalizione di governo a Gantz o Netanyahu. Vi sono varie considerazioni che influenzano tale decisione. Uno è il numero di seggi del partito del leader. In questo caso Gantz sarebbe in testa ma solo di poco. Un’altra considerazione è la possibilità di formare una futura coalizione. In questo caso nessuno dei due ce l’ha senza Lieberman, che cerca di escludere entrambi i settori di destra e di sinistra: i 24 seggi dei partiti religiosi e di destra (Ebraismo della Torah Unita, Shas e il nazionalista religioso Yamina) e 24 seggi della sinistra sionista (Unione Democratica, Lavoro-Gesher) e Joint List. Quindi al momento Lieberman non sta sostenendo alcun candidato per la carica di Primo Ministro, ma sta cercando di unire il suo Yisrael Beitenu ai due partiti principali come “l’unica opzione”.

Rivlin è ansioso di raggiungere l’accordo. Dice che l’opinione pubblica israeliana è “disgustata” dalla prospettiva di una terza elezione (le elezioni di settembre sono state necessarie poiché le precedenti elezioni in aprile non sono riuscite a produrre un governo).

Ciò che ha guidato molti dei “sionisti liberali” è stata l’idea di “solo non Netanyahu”. Netanyahu è stato un bel regalo per queste persone, dal momento che potevano dire di essere contrari a Netanyahu ed ecco! sei un progressista! Bari Weiss, una degli opinionisti sionisti del New York Times, in un’intervista a Bill Maher, distingueva tra il sionismo e quello che lei chiama “bibiismo” (usando il soprannome di Benjamin Netanyahu, Bibi):

“Sono due cose molto diverse. Sono molto critica rispetto all’attuale Primo Ministro dello Stato di Israele. Credo che proprio come gli ebrei hanno un diritto alla terra, così anche i palestinesi, e se Israele vuole essere uno Stato democratico e liberale, ci devono essere due Stati.”

Be’, è semplicemente fantastico, ma quei “due Stati” non sono comunque sul tavolo di Gantz, che ha appena rimproverato Netanyahu di aver rubato la sua idea di annettere la Valle del Giordano. Dunque, Bari Weiss sta indicando davvero una reale alternativa? No, solo “non Bibi”.

E la Joint List, almeno la corrente che ha sostenuto Gantz, fa anch’essa parte di questo “solo non Bibi”. Ayman Odeh ha detto al presidente Rivlin: “Stiamo cercando il modo di impedire a Netanyahu di diventare primo ministro, ed è quello che vuole la maggior parte della gente.”.

Ma esiste un grave pericolo. È in pericolo la relativa legittimità che un governo di unità può ottenere per politiche che, sul fronte politico più critico nei confronti dei palestinesi, non sono diverse da quelle di un governo Likud. E così si capisce l’affermazione di Balad secondo cui un tale governo di unità è anche peggio di un governo di destra. Perché il governo di unità, specialmente se sarà guidato da Gantz, renderà più facile legittimare lo status quo israeliano dell’apartheid. Ed è quello che vuole la maggior parte degli israeliani.

A cui non dispiacerebbe che Gantz – il macellaio di Gaza, che si vanta di averla ridotta all’età della pietra e desidera ardentemente tornare ai giorni di gloria dei sistematici omicidi extragiudiziali– guidasse il paese, perché dopo tutto è così sionista. Ed è meno volgare di Netanyahu, e sicuramente anche meno corrotto, quindi ha una buona immagine. Le persone sono stanche di Netanyahu, cambiate l’immagine.

Deve essere un bel dilemma per un palestinese che ha diritto di voto in Israele. Tutto ciò che fai finisce per essere solo una limitazione del danno, qualunque cosa tu faccia finisce per essere “prima Israele ” – che significa “ultimi i palestinesi “.

 

Jonathan Ofir

Musicista, direttore d’orchestra e blogger / scrittore israeliano che risiede in Danimarca.

 

(traduzione di Luciana Galliano)




Ayman Odeh: stiamo mettendo fine alla presa di Netanyahu su Israele

Ayman Odeh

Odeh guida la Lista Unita, la terza principale coalizione nel parlamento israeliano, la Knesset, ed è il segretario del partito Hadash

22 settembre 2019 – New York Times

Il leader della Lista unita, composta principalmente da partiti arabi spiega perché userà il suo potere per contribuire a a far diventare Benny Gantz primo ministro di Israele

GERUSALEMME – i cittadini arabo-palestinesi di Israele hanno scelto di bocciare il primo ministro Benjamin Netanyahu, la sua politica di paura e di odio, la disuguaglianza e la divisione che ha promosso nell’ultimo decennio. La scorsa estate Netanyahu ha dichiarato che i cittadini arabo-palestinesi di Israele, che rappresentano un quinto della popolazione, dovessero essere ufficialmente cittadini di seconda classe. “Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini,” ha scritto su Instagram Netanyahu dopo aver fatto approvare la legge dello Stato-Nazione. “Secondo la legge fondamentale sulla nazionalità che abbiamo approvato Israele è lo Stato-Nazione del popolo ebraico – e solo di esso.”

Il governo israeliano ha fatto di tutto per respingere quelli di noi che sono cittadini arabo-israeliani, ma la nostra influenza è solo aumentata. Saremo la pietra angolare della democrazia. I cittadini arabo-israeliani non possono cambiare da soli l’andamento delle cose in Israele, ma il cambiamento è impossibile senza di noi. In precedenza ho sostenuto che, se i partiti di centro-sinistra israeliani credono che i cittadini arabo-israeliani abbiano un posto in questo Paese, devono accettare che abbiamo un posto nella sua politica.

Oggi quei partiti non hanno più scelta. Almeno il 60% dei cittadini arabo-palestinesi ha votato nelle ultime elezioni, e la Lista Unita, la nostra alleanza che rappresenta gli arabi e i partiti arabo-ebraici, ha conquistato 13 seggi ed è diventata la terza principale coalizione alla Knesset. Decideremo chi sarà il prossimo primo ministro di Israele.

A nome della Lista Unita, ho suggerito che il presidente di Israele scelga Benny Gantz, il leader del partito di centro “Blu e Bianco”, perché sia il prossimo primo ministro. Questo sarà il passo più significativo per contribuire a creare la maggioranza necessaria ad impedire un altro mandato per Netanyahu. E ciò dovrebbe porre fine alla sua carriera politica.

I miei colleghi ed io abbiamo preso questa decisione non per sostenere Gantz e le sue proposte politiche per il Paese. Siamo consapevoli che Gantz ha rifiutato di accettare le nostre legittime richieste politiche per un futuro condiviso, e per questo non parteciperemo al suo governo.

Le nostre richieste per un futuro condiviso e più equo sono chiare: chiediamo risorse per affrontare la violenta criminalità che affligge città e villaggi arabi, leggi per la casa e piani regolatori che concedano alle persone dei Comuni arabi gli stessi diritti dei loro vicini ebrei e un loro maggior accesso agli ospedali.  Chiediamo un aumento delle pensioni per tutti in Israele, in modo che i nostri anziani possano vivere dignitosamente, e la creazione e il finanziamento di un piano per prevenire la violenza contro le donne.

Chiediamo l’integrazione giuridica di villaggi e cittadine non riconosciuti – per lo più arabo-palestinesi – che non hanno accesso all’elettricità o all’acqua. E insistiamo per la ripresa di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi per raggiungere un trattato di pace che ponga fine all’occupazione e crei uno Stato palestinese indipendente sulla base dei confini del 1967. Invochiamo l’abrogazione della legge sullo Stato-Nazione che dichiara che io, la mia famiglia e un quinto della popolazione siamo cittadini di seconda classe. È a causa del fatto che per decenni i candidati a primo ministro si sono rifiutati di appoggiare un programma a favore dell’eguaglianza che dal 1992 nessun partito arabo o arabo-ebraico ha dato indicazioni di un primo ministro.

Eppure questa volta facciamo una scelta diversa. Abbiamo deciso di dimostrare che i cittadini arabo-palestinesi non possono più essere rifiutati o ignorati. La nostra decisione di indicare Gantz come il prossimo primo ministro senza unirci al suo previsto governo di unità nazionale è un chiaro messaggio che l’unico futuro per questo Paese è un futuro comune, e non c’è un futuro condiviso senza la piena e paritaria partecipazione dei cittadini arabo-israeliani.

La mattina dopo che è stata approvata la legge discriminatoria dello “Stato -Nazione”, ho accompagnato a scuola i miei figli e ho pensato al fatto di farli crescere in un Paese che ha ripetutamente rifiutato i bambini arabo-palestinesi. I governi israeliani hanno continuamente ribadito questo rifiuto, dagli anni della legge marziale imposta agli arabi in Israele tra la fondazione dello Stato [nel 1948, ndtr.] e il 1966, fino ai tentativi di lunga data di eliminare la cultura palestinese e alla continua decisione di occupare le terre e le vite dei nostri fratelli e sorelle in Cisgiordania e a Gaza.

Ogni volta che accompagno la mia figlia più giovane, Sham, a scuola vedo un brano del Libro dei Salmi scritto su un muro: “La pietra che il costruttore ha scartato è diventata una pietra angolare.”

Scegliendo di indicare Gantz abbiamo dimostrato che la collaborazione tra le persone, arabe ed ebree, è l’unica strategia politica di saldi principi che porterà a un futuro migliore per tutti noi. Innumerevoli persone in Israele e nel resto del mondo ci saranno grate di vedere la fine del lungo regno di corruzione, bugie e paura di Netanyahu.

Continueremo il nostro lavoro verso un futuro migliore e giusto, e la nostra lotta per i diritti civili, radicata nella nostra identità come palestinesi. C’è spazio sufficiente per tutti noi nella nostra patria comune, spazio sufficiente per i versi di Mahmoud Darwish e per le storie dei nostri nonni, spazio sufficiente perché tutti noi facciamo crescere le nostre famiglie nell’uguaglianza e nella pace.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le elezioni rivelano una profonda spaccatura nella destra israeliana.

Meron Rapoport

19 settembre 2019 + 972

Il potere politico del movimento dei coloni, una volta un’élite in ascesa, è ora in declino.

Mentre gli analisti politici si chiedono se siamo arrivati alla fine dell’era Netanyahu, si presta poca attenzione a un altro importante risultato di queste elezioni, cioè il declino del potere politico del movimento nazionalista religioso. Un tempo questi “signori della terra”, come si autodefiniscono, pensavano di essere sulla strada giusta per diventare la nuova élite politica e culturale di Israele. Ma i dati dimostrano che il loro influsso politico sta calando.

Il Likud è sempre stato al centro del blocco di destra. Negli ultimi decenni ha assorbito i partiti che rappresentano tre grandi gruppi demografici: gli ultraortodossi, gli immigrati dall’ex Unione Sovietica e il movimento nazionalista religioso o dei coloni. Netanyahu ha creato un blocco politico coerente che, ad ogni elezione, ha garantito una maggioranza praticamente automatica alla destra.

Netanyahu ha fatto del consolidamento del blocco dell’ala destra lo scopo della sua vita politica, basandosi sulla convinzione che fosse il modo migliore per evitare uno Stato palestinese. Quindi ha rafforzato i legami del Likud con il campo nazionalista religioso, poiché la loro lealtà alla Terra di Israele era indiscussa, a differenza di quella della vecchia base del Likud, più interessata al libertarismo che all’espansionismo territoriale. Questo è uno dei motivi per cui Netanyahu si è circondato di gente che indossa lo yarmulke [tipico copricapo degli ebrei osservanti, ndtr.] all’uncinetto, preferito dai coloni nazionalisti religiosi.

Le elezioni di aprile hanno creato una spaccatura nel blocco di destra, che ha visto i partiti che rappresentano gli ultraortodossi e gli elettori dall’ex Unione Sovietica distanziarsi dagli ideologi nazionalisti religiosi, di cui non condividono la visione del mondo. Infatti non sono mai stati particolarmente interessati né all’idea di controllare la Grande Terra Biblica di Israele, né al progetto delle colonie.

Lieberman non ha dovuto faticare molto per convincere i falchi della sua base secolare proveniente dall’ex Unione Sovietica che gli ultraortodossi erano il loro più grande nemico. Gli ultraortodossi sono quelli che mettono in discussione la loro identità ebraica e che cercano di imporre il loro stile di vita religioso, con il rifiuto di permettere i trasporti pubblici di sabato e i tentativi di controllare la vendita di cibi non kosher.  Gli ultraortodossi hanno reagito.

Alle elezioni del 17 settembre, entrambi i gruppi sono cresciuti, Lieberman ha fatto crescere il suo partito da cinque a otto seggi e gli ultra-ortodossi sono saliti da 16 a 17. Ma ci sono poche possibilità che i partiti di destra si uniscano di nuovo per ricostruire un’alleanza forte come in passato.

Ancora più interessante è la sorte dei partiti nazionalisti religiosi, che hanno legato il proprio destino al Likud. Ad aprile avevano vinto 44 seggi (35 per il Likud, 4 per Kahlon [leader del partito di centro Kulanu, ndtr.] e 5 per l’Unione dei partiti di destra), più 4 dal partito New Right [Nuova Destra, partito dei coloni, ndtr] di Bennett e Shaked e altri 3 dal partito Jewish Leadership [Dirigenza Ebraica, partito sionista libertario, ndtr.] di Moshe Feiglin. Complessivamente, 51 seggi sono andati al blocco di destra.

Queste elezioni hanno visto affievolirsi il potere del movimento religioso nazionalista. Il Likud ha conquistato solo 31 seggi, un calo rispetto ai 35 di aprile. Netanyahu ha ottenuto solo 38 seggi per il suo blocco, nonostante quelli vinti con i voti dei sostenitori di Kahlon, Feiglin, Smotrich, Rafi Peretz, Shaked e Bennett. La lista kahanista di Otzma Yehudit (Jewish Power) non ha superato la soglia, ma anche se lo avesse fatto, avrebbe portato solo quattro seggi in più, arrivando a 41, mentre il minimo necessario per un governo di coalizione è di 61 seggi.

L’equilibrio di potere nella destra politica è ora scosso, con implicazioni cruciali. Se i partiti ultra-ortodossi vedranno che collaborare con il blocco dell’ala destra non garantisce loro un incarico nel governo, rivaluteranno la loro alleanza. Se gli elettori dell’ex Unione Sovietica vedranno che scontrarsi con gli ultraortodossi ne fa l’ago della bilancia nell’arena politica israeliana, non si affretteranno a rientrare nel blocco di Netanyahu.

Il movimento nazionalista religioso pagherà il prezzo politico più alto per una tale ridistribuzione dell’equilibrio del potere. Nonostante la loro percezione di sé come signori della terra, non sono mai riusciti ad entrare in politica come partito indipendente. Invece di diventare la “nuova élite”, il movimento dei coloni starebbe per diventare un peso politico, proprio come il movimento dei kibbutz, ormai quasi dimenticato, che divenne praticamente irrilevante nel 1977 quando Menachem Begin guidò il Likud alla vittoria. Non siamo ancora arrivati a quel punto, ma ci siamo più vicini di quanto chiunque avesse potuto pensare sei mesi fa.

(traduzione  di Mirella Alessio)




ISRAELE. Gantz, nemico di Netanyahu non delle sue politiche

Michele Giorgio

20 settembre Nena News

Il vincitore, di misura, delle elezioni del 17 settembre, in politica estera e nei confronti di Iran e dei palestinesi non è lontano dalle posizioni del premier sconfitto.

Benyamin “Benny” Gantz in politica interna prenderà, in parte, le distanze dalla linea di Benyamin Netanyahu e promuoverà la «serenità sociale» tra ebrei laici e religiosi. Ma non farà alcuna rivoluzione nei rapporti tra gli israeliani ebrei e i cittadini di serie B, gli arabi, i palestinesi d’Israele. E in politica estera non marcherà una differenza sostanziale da quella svolta dal leader della che ha sconfitto il 17 settembre. Userà il pugno di ferro, come Netanyahu, con l’Iran e i suoi alleati – che alla Conferenza di sicurezza di Monaco dello scorso febbraio ha indicato Tehran come una delle principali sfide all’Occidente – e non rinuncerà all’abbraccio di Donald Trump. Il presidente Usa mercoledì sera ha segnalato che lui ha rapporti non solo con Netanyahu ma con tutto lo Stato di Israele. Se Netanyahu è, come sembra, avviato sul viale del tramonto, ciò non vuole dire che la fine della sua lunga era politica genererà una svolta.

Nato 60 anni fa, sposato, quattro figli, una vita trascorsa nelle forze armate, conclusa con il grado di generale e l’incarico di capo di stato maggiore, Gantz solo in apparenza è un uomo di centro. Il programma del suo partito “Resilienza” – che ha fondato lo scorso dicembre e ha poi unito ad altre formazioni dando vita a “Blu e Bianco” – si avvicina molto a quello della destra quando sul tavolo ci sono questioni come l’Iran, il mondo arabo e i territori palestinesi occupati. Gantz non rientra nel solco del sionismo religioso, che ha ispirato Netanyahu e ora domina nella società israeliana, ma non è riconducibile ideologicamente neppure al sionismo di marca laburista (tramontato da tempo). Semplicemente è un sionista laico fautore delle politiche israeliane di sicurezza e di mantenimento dell’ occupazione.

In questa campagna elettorale, e in quella per il voto del 9 aprile, l’ex capo di stato maggiore non ha fatto mai riferimento alla soluzione a “Due Stati”, Israele e Palestina. Il sito progressista, +972, sostiene che a Gantz piace lo status quo, l’occupazione, con Israele che controlla tutto il territorio della Palestina storica senza però annettere ufficialmente la Cisgiordania come vorrebbe fare Netanyahu. Gantz si era recato a fine luglio nella Valle del Giordano dichiarando che quel territorio palestinese rimarrà sotto Israele in qualsiasi futuro accordo. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, si presentò nelle comunità israeliane di confine di Gaza promettendo «azioni incisive per abbattere i leader di Hamas». In pratica una nuova guerra. D’altronde da comandante delle forze armate ha guidato due offensive contro Gaza, nel 2012 e nel 2014, che hanno provocato oltre duemila morti palestinesi, migliaia di feriti e distruzioni immense. La scorsa primavera Gantz, per recuperare voti a destra, si vantava di aver ridotto in macerie Gaza. Nena News




Bassam al-Sayeh, Faris Baroud e il lento omicidio dei prigionieri palestinesi

Ramzy Baroud

19 settembre Middle East Monitor

Bassam Al-Sayeh è solo l’ultima vittima della malasanità nelle prigioni israeliane. Al-Sayeh, palestinese di Nablus di 47 anni, è morto l’8 settembre scorso. Prima di lui, fu Faris Baroud a morire in una prigione di Nafha il 6 di febbraio.

Nel 2011, ad al-Sayeh fu diagnosticato un cancro alle ossa e al sangue, secondo quanto riportato da Samidoun, la Rete di Solidarietà dei Prigionieri Palestinesi. Pochi anni dopo è stato arrestato dai soldati israeliani dell’occupazione. Nel 2015 una corte militare israeliana lo ha condannato all’ergastolo per il presunto concorso nell’omicidio di un ufficiale israeliano in Cisgiordania.

Le organizzazioni e gli attivisti per i diritti umani che hanno seguito il caso avevano più volte segnalato quanto la vita di al-Sayeh fosse in pericolo a causa delle condizioni di vita estremamente dure nelle carceri di Ramleh e la scarsa attenzione medica dedicata ai malati di cancro. Si poteva fare ben poco per salvargli la vita.

In una dichiarazione del 9 settembre, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha accusato Israele di essere responsabile della morte di al-Sayeh. Altri gruppi hanno evidenziato come la malasanità sia un modo usato nelle prigioni israeliane per infliggere ulteriori punizioni ai palestinesi che resistono all’occupazione israeliana  persino dopo il loro arresto e condanna.

Secondo il movimento per i diritti dei prigionieri Samidoun, “Al-Sayeh è il 221º prigioniero palestinese a perdere la vita in una prigione israeliana, dove la malasanità e gli abusi medici hanno un ruolo rilevante nella contrazione di malattie e nella morte dei prigionieri palestinesi proprio come la tortura e il maltrattamento nell’assedio”.
Il gruppo di supporto ai prigionieri Addameer, di base a Ramallah, concorda: la Corte Suprema Israeliana “ha adottato una politica di malasanità volontaria contro prigionieri e detenuti”. Nell’arco delle rivolte della Seconda Intifada tra il 2000 e il 2008, 18 prigionieri sono morti per essere stata loro negata la dovuta cura medica.

Chi non muore deve affrontare il cronicizzarsi di malattie che spesso li accompagneranno per il resto della vita. Secondo Addameer “il numero di persone malate tra i prigionieri e detenuti è salito a 1000 casi, in confronto agli 800 casi di malattia registrati nel 2013”. Duecento di questi pazienti soffrono di malattie croniche, tra cui tumori, e 85 sono disabili a vita. Faris Baroud era uno di questi malati cronici e, proprio come Bassam al-Sayeh, è morto in prigione per l’omissione delle cure.

Baroud fu arrestato il 23 marzo 1991. Una corte militare israeliana lo ha condannato a 134 anni di reclusione, accusandolo di aver ucciso un colono ebreo israeliano armato che stava prendendo parte all’occupazione di Gaza.

Alla madre di Faris, Ria, fu proibito di far visita a suo figlio nella prigione di Nafha per tutti gli ultimi 15 anni. Alla donna, ormai settantenne, fu detto che la decisione era stata presa per “questioni di sicurezza”.

Faris era il suo unico figlio: era nato nel 1968, due anni dopo l’inizio dell’occupazione militare di Gaza. Suo padre, Ahmad Mohammad Baroud, era morto quando Faris era ancora un bambino. Ria, che non si risposò mai, ha dedicato la sua vita alla crescita del figlio, con cui viveva in una piccola casa nel campo profughi di Shati’, a Gaza.

Si dice che Faris sia stato torturato e tenuto in isolamento per più di dieci anni, e che gli fossero state vietate le visite dei familiari per più di metà della sua detenzione. Prima del suo arresto soffriva già di asma, condizione che si era poi aggravata.
Anni dopo il suo il suo incarceramento, Faris sviluppò una malattia renale che peggiorò per la negligenza nelle cure e fu inasprita ulteriormente dalla sua partecipazione a vari scioperi della fame per solidarietà verso altri prigionieri.

A Faris fu negata più volte la scarcerazione, da immediatamente dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 a uno scambio di prigionieri nel 2011. Ne fu poi programmato lo scarceramento, insieme ad altri 29 detenuti, nel 2013 o 2014 nell’ambito di un accordo speciale anch’esso mandato a monte dal governo israeliano.

Dal 2002, a Ria fu proibito di far visita a suo figlio. Nonostante la sua salute peggiorasse e stesse perdendo la vista per un glaucoma, Ria è famosa per non aver mancato una sola delle veglie organizzate ogni lunedì dalle famiglie dei prigionieri palestinesi di fronte agli uffici della Croce Rossa, nella famosa Jala’ Street di Gaza.

A volte era l’unica a presentarsi, con in mano sempre la stessa fotografia incorniciata di suo figlio Faris vicino al cuore. Ria Baroud è morta il 18 maggio 2017, aveva 85 anni. Aveva passato quasi un terzo della sua vita lottando per rivedere suo figlio di nuovo libero.

Subito dopo la morte della madre, la salute di Faris si aggravò, sviluppando anche una forma di glaucoma molto aggressiva che secondo quanto riferito lo aveva portato a perdere l’80% della vista. Faris muore il 6 febbraio 2019 nella prigione di Nafha nel deserto di Naqab. Aveva 51 anni.

Questi non sono che cenni a due sole storie,nell’apparentemente infinita serie di episodi di sofferenza inflitta a migliaia di palestinesi e le loro famiglie.

I diritti dei prigionieri sono protetti da leggi internazionali, in particolar modo dagli Articoli 76 e 85 della quarta Convenzione di Ginevra. A Israele non dovrebbe essere permesso di continuare indisturbato questa mistificazione dei valori morali. I gruppi internazionali e le organizzazioni che rivendicano i diritti umani dovrebbero far sentire la propria voce per Bassam, Faris e le migliaia di detenuti palestinesi che soffrono e spesso muoiono soli nelle carceri israeliane.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Maria Monno)




Nuovo sondaggio: più del 60% dei palestinesi vuole che Abbas lasci

The Palestine Chronicle – 18 settembre 2019

Secondo un sondaggio, il 60% dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza vuole che il Presidente Mahmoud Abbas si dimetta.
Felesteen.ps riferisce che, da una ricerca condotta dal Centro Palestinese di Ricerca Politica e Sondaggi tra l’11 e il 14 settembre, emerge che il 50% dei palestinesi vorrebbe tornare all’Intifada armata, data la mancanza di passi avanti nel processo di pace, mentre il 40% chiede lo scioglimento dell’Autorità Palestinese.

Tra il 32 e il 50% degli intervistati ritiene che i risultati del governo siano peggiori di quelli del suo predecessore.
Il 56% è contrario alla soluzione dei due Stati, con il 37% che preferisce la resistenza armata e il 32% a favore di una soluzione nonviolenta della questione palestinese.

I contrari all’accordo di pace USA, l’“Accordo del Secolo”, raggiungono il 69% e il 72% boccia il coinvolgimento americano nella risoluzione della crisi dei rifugiati palestinesi.


Circa i tre quarti – il 72% – chiedono che si tengano elezioni legislative e presidenziali e vogliono che l’Autorità Palestinese tolga le sanzioni che ha imposto alla Striscia di Gaza sotto assedio.
Il sondaggio ha rilevato che il 63% dei palestinesi di Gaza si sente al sicuro, rispetto al 52% della Cisgiordania; a Gaza, il 43% ha dichiarato di sentirsi libero di criticare Hamas, mentre in Cisgiordania è il 36% che si sente libero di criticare Fatah.

(Middle East Monitor, PC, Social Media)

 

(Traduzione di Elena Bellini)