Entro 48 ore tutti i centri sanitari di Gaza cesseranno di funzionare – Ministero della Salute

Redazione di Palestine Chronicle

30 giugno 2024 – The Palestine Chronicle

Domenica il Ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato che entro 48 ore gli ospedali e le stazioni di ossigeno in tutta la Striscia cesseranno le operazioni in seguito allesaurimento del carburante causato dalla guerra israeliana in corso.

In una dichiarazione il Ministero ha avvertito che entro 48 ore i restanti ospedali, centri sanitari e stazioni di ossigeno smetteranno di funzionare”.

Il Ministero ha osservato che questa situazione è prevista a causa dellesaurimento del carburante necessario per il funzionamento dei generatori, del quale Israele impedisce lingresso a Gaza insieme ad altre forniture essenziali come medicine e cibo, in un quadro di inasprimento delle restrizioni nei confronti della Striscia”.

Ha rilevato che le scorte di carburante sono quasi esaurite nonostante le rigorose misure di austerità attuate dal Ministero per conservare le scorte rimanenti il ​​più a lungo possibile, data l’insufficiente quantità disponibile per il funzionamento”.

Il ministero ha esortato tutte le organizzazioni internazionali e umanitarie pertinenti a intervenire tempestivamente fornendo il carburante necessario, nonché i generatori elettrici e i pezzi di ricambio necessari per la manutenzione”.

Venerdì Hossam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, ha affermato che l’ospedale avrebbe cessato a breve le operazioni a causa della carenza di carburante necessario per i suoi generatori elettrici.

La PRCS evacua

Domenica la Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS) ha evacuato la sua sede amministrativa temporanea nel sud della Striscia di Gaza a causa degli attacchi israeliani nella zona.

L’organizzazione “ha evacuato completamente la sua sede amministrativa temporanea nell’area di Mawasi Khan Younis a causa della caduta di schegge sull’edificio e dei bombardamenti diretti, che costituivano un pericolo per il personale che lavora all’interno”, ha affermato sabato su X.

Larea di Al-Mawasi è stata designata dallesercito israeliano come rifugio sicuroper i palestinesi in seguito allinvasione di terra di Rafah allinizio di maggio.

Tuttavia le forze israeliane hanno attaccato l’area da quando i palestinesi già precedentemente sfollati e rifugiatisi a Rafah sono stati costretti a sfollare ad Al-Mawasi.

Genocidio in corso

Attualmente sotto processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio contro i palestinesi, dal 7 ottobre Israele sta conducendo una guerra devastante contro Gaza.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza nel genocidio israeliano in corso a Gaza 37.877 palestinesi sono stati uccisi e 86.969 feriti.

Inoltre in tutta la Striscia almeno 7.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte, sotto le macerie delle loro case.

Organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e minori.

La guerra israeliana ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con la morte di molti palestinesi, soprattutto minori.

Laggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone provenienti da tutta la Striscia di Gaza, di cui la stragrande maggioranza costretti a rifugiarsi nella città meridionale, densamente affollata, di Rafah, vicino al confine con lEgitto in quello che è diventato il più grande esodo di massa in Palestina a partire dalla Nakba del 1948.

Israele afferma che il 7 ottobre, durante loperazione ‘Al-Aqsa Flood’ (‘Tempesta di Al-Aqsa’, ndtr.), sono stati uccisi 1.200 soldati e civili. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che suggeriscono che quel giorno molti israeliani sarebbero stati uccisi dal fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La campagna diffamatoria contro la sinistra francese sa di disperazione

David Cronin

25 giugno 2024 – The Electronic Intifada

In Francia il razzismo contro i palestinesi è accettato.

Yonathan Arfi del CRIF [Conseil Représentatif des Institutions juives de France] la più importante organizzazione filo-israeliana a Parigi ha dichiarato allinizio di questanno che non esiste alcuna equivalenza morale tra le vittime collaterali, civili, che non sono state deliberatamente prese di mira, e le vittime del terrorismo”.

Il messaggio è chiaro: per Arfi le vite dei palestinesi non contano.

Lungi dallessere messo da parte per il palese fanatismo e l’atteggiamento sprezzante nei confronti del genocidio che Israele sta perpetrando a Gaza, Arfi e la sua organizzazione intrattengono ancora rapporti cordiali con l’élite al potere francese. A maggio pochi mesi dopo lo spregevole commento di Arfi Gabriel Attal, il primo ministro francese, ha partecipato alla cena annuale del CRIF.

Attal in quell’occasione ha cercato di compiacere i suoi ospiti inveendo contro il partito di sinistra La France Insoumise (LFI).

Diffamare quel partito costituisce un pensiero fisso della lobby filo-israeliana. E nellattuale stagione elettorale le calunnie sono state implacabili.

Arfi è andato fuori di sé quando qualche settimana fa Rima Hassan ha vinto un seggio per LFI al Parlamento Europeo.

Hassan ha trascorso la sua prima infanzia in un campo profughi palestinese vicino alla città siriana di Aleppo prima di trasferirsi in Francia all’età di 10 anni. È stata soprannominata Lady Gazaper la sua energica protesta contro lattuale genocidio.

Quando recentemente ad Arfi è stato chiesto alla radio se considerava la sua elezione al Parlamento europeo un pericolo per gli ebrei, ha risposto sì”.

Arfi non ha prodotto alcuna prova che Hassan rappresenti un pericolo del genere. Invece, ha potenzialmente messo a rischio Hassan sostenendo (ancora una volta senza prove) che lei sarebbe una portavoce di Hamas e che seguirebbe una cultura di violenza politica”.

Domenica prossima [domenica 30 giugno, ndt.] gli elettori francesi si recheranno alle urne per il primo turno delle elezioni dell’Assemblea Nazionale.

Arfi ha affermato che i frequenti riferimenti alla Palestina fatti da La France Insoumise nella sua campagna creano un clima estremamente dannosoper gli ebrei.

La France Insoumise ha stretto un patto elettorale con altri partiti per presentare un fronte comune contro il Raggruppamento Nazionale di estrema destra di Marine Le Pen.

La sola idea che LFI potesse far parte di quel fronte al fianco di partiti considerati più moderati ha rappresentato un anatema per Arfi, che ha anche sostenuto che LFI starebbe promuovendo lodio verso gli ebrei per fini elettorali.

La settimana scorsa Arfi ha affermato che il principale carburante dellantisemitismo dal 7 ottobre è lodio per Israele, che viene strumentalizzato. In precedenza aveva puntualizzato che le generazioni più giovani sarebbero più ricettive allodio per Israele.

Attraverso tali accuse Arfi rivela le sue vere paure.

Israele potrebbe essere percepito come un alleato dalla Francia e da altri governi dellUnione Europea. Tuttavia, il diffuso disgusto nellopinione pubblica nei confronti del genocidio di Gaza rivela come le fondamenta su cui è costruita lalleanza siano sempre più traballanti.

I sostenitori di Israele non oserebbero ammettere che il disgusto sia una risposta diretta alla barbarie di Israele. Quindi devono denigrare chiunque dimostri solidarietà verso i palestinesi descrivendoli come antisemiti.

Tali tattiche saranno familiari a coloro che hanno seguito il modo in cui la lobby filo-israeliana ha creato una crisi di antisemitismoin Gran Bretagna quando Jeremy Corbyn era a capo del partito laburista di quel Paese. Le calunnie contro LFI e il suo più noto rappresentante Jean-Luc Mélenchon sono praticamente identiche a quelle affrontate da Corbyn.

Tuttavia, mentre Corbyn ha cercato una conciliazione con i bulli filo-israeliani, finora LFI li ha contrastati. Si spera che continui a farlo.

David Cronin è un co-redattore di The Electronic Intifada. Tra i suoi libri Balfours Shadow: A Century of British Support for Zionism [L’ombra di Balfour: un secolo di appoggio britannico al Sionismo, ndt.] e Israel and Europes Alliance with Israel: Aiding the Occupation [Israele e l’alleanza europea: un aiuto all’occupazione, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sotto le macerie, imprigionati, sepolti” – a Gaza scomparsi 20.000 minori

Redazione di Palestine Chronicle

25 giugno 2024 – The Palestine Chronicle

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

Secondo lorganizzazione non governativa internazionale Save the Children a Gaza oltre 20.000 minori palestinesi risultano dispersi a causa dell’incessante attacco israeliano contro la Striscia.

Molti di loro sono intrappolati sotto le macerie, imprigionati, sepolti in tombe anonime o separati dalle loro famiglie.

In una dichiarazione rilasciata lunedì lorganizzazione benefica con sede nel Regno Unito ha descritto le difficoltà nell’impegno di raccolta e verifica delle informazioni nell’attuale situazione di Gaza, dove continuano gli attacchi terrestri e aerei israeliani.

Lorganizzazione stima che vi siano almeno 17.000 minori non accompagnati e separati dalle loro famiglie, circa 4.000 probabilmente intrappolati sotto le macerie e un numero imprecisato di sepolti in fosse comuni.

“Altri sono stati fatti scomparire con la forza, compreso un numero indefinito di minori arrestati e trasferiti forzatamente fuori da Gaza e la loro ubicazione è sconosciuta alle loro famiglie con denunce di maltrattamenti e torture”, dichiara Save the Children.

Le famiglie sono torturate sulla mancanza di notizie rispetto all’ubicazione dei i loro cari. Nessun genitore dovrebbe essere costretto a scavare tra le macerie o nelle fosse comuni nel tentativo di trovare il corpo del proprio figlio”, afferma Jeremy Stoner, direttore regionale di Save the Children per il Medio Oriente.

Nessun bambino dovrebbe trovarsi solo, senza protezione in una zona di guerra. Nessun bambino dovrebbe essere detenuto o tenuto in ostaggio”, aggiunge.

Genocidio a Gaza

Dal 7 ottobre Israele sta conducendo una guerra devastante contro Gaza e oggi è sotto processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio nei confronti dei palestinesi.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza nel genocidio israeliano in corso dal 7 ottobre 37.626 palestinesi sono stati uccisi e 86.098 feriti.

Inoltre in tutta la Striscia almeno 7.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case.

Organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e minori.

La guerra israeliana ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con la morte di molti palestinesi, soprattutto minori.

Laggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone provenienti da tutta la Striscia di Gaza, costretti nella stragrande maggioranza a rifugiarsi nella sovraffollata città meridionale di Rafah, vicino al confine con lEgitto – in quello che è diventato il più grande esodo di massa dei palestinesi dalla Nakba del 1948.

Israele afferma che il 7 ottobre durante loperazione Al-Aqsa sono stati uccisi 1.200 soldati e civili. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che rivelano come quel giorno molti israeliani siano stati uccisi dal fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il più grande fondo pensioni della Norvegia vende il suo pacchetto di azioni Caterpillar a causa dell’espansione coloniale israeliana

Redazione di MEE

26 giugno 2024 – Middle East Eye

l maggior fondo pensioni della Norvegia ha revocato la propria partecipazione in Caterpillar Inc. a causa del suo coinvolgimento nelle violazioni dei diritti nei territori occupati palestinesi.

La KLP con sede a Oslo all’inizio di questo mese ha venduto le proprie azioni e obbligazioni della società per un valore di 728 milioni di corone norvegesi (69 milioni di dollari).

Kiran Aziz, capo del settore investimenti responsabili dell’azienda, ha detto che le attrezzature della società con sede in Texas vengono usate “per demolire case ed infrastrutture palestinesi per sgombrare il terreno alle colonie israeliane” ed ha anche fatto riferimento all’uso dell’equipaggiamento Caterpillar da parte dell’esercito israeliano.

Benché Caterpillar si sia mostrata disposta ad aprire un dialogo con KLP, le risposte della società non sono risultate credibili riguardo alla sua capacità di ridurre realmente il rischio di violazione dei diritti di persone in situazioni di guerra o conflitto, o di violazione del diritto internazionale”, ha detto Aziz secondo Bloomberg [compagnia leader globale nelle informazioni economiche e finanziarie, ndt.].

La società non è in grado di fornirci assicurazioni che non stia facendo niente del genere.”

Caterpillar è tra le società citate dall’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i Diritti Umani che sarebbero a rischio di “complicità in gravi violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani e del diritto umanitario internazionale” a causa delle sue forniture a Israele.

In marzo il governo norvegese ha emesso un avviso formale contro ogni attività commerciale o finanziaria con le colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati.

Il Ministro degli Esteri norvegese ha affermato in una dichiarazione che l’avviso è stato emesso nel contesto della crescente espansione delle colonie e della “accresciuta violenza coloniale contro i palestinesi”.

KLP ha fatto riferimento all’avviso del governo norvegese nella sua decisione di disinvestimento.

Dal 7 ottobre, quando un attacco di combattenti di Hamas nel sud di Israele ha ucciso 1.140 persone, le aggressioni dei coloni in Cisgiordania sono sempre più frequenti.

Secondo l’ONU e le associazioni per i diritti, da allora centinaia di palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dalle truppe israeliane e dai coloni.

Israele ha anche incrementato la costruzione di insediamenti illegali.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Manifestanti pro-Palestina bloccano il porto italiano di Genova

Redazione di Middle East Monitor

25 giugno 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che martedì attivisti solidali con la Palestina hanno inscenato una protesta al porto di Genova, nel Nord Italia, contro una consegna di armi ad Israele.

Martedì mattina presto i manifestanti, che comprendevano associazioni della società civile e sindacati dei portuali, hanno bloccato il porto in solidarietà con i palestinesi della Striscia di Gaza.

L’agenzia di stato italiana ANSA ha riferito che oltre 500 manifestanti hanno impedito il passaggio di camion che trasportavano container che dovevano essere caricati sulle navi.

I gruppi hanno criticato la fornitura di armi a Israele e hanno sostenuto che il porto di Genova è un punto di transito per le armi usate nel “massacro” dei palestinesi.

Un gruppo chiamato “giovanipalestinesi” ha scritto su Instagram che i container in arrivo al porto sono stati bloccati martedì mattina alle 6 ore locali.

Il gruppo ha aggiunto: “Sappiamo molto bene che la macchina da guerra comincia dalla logistica che invia armi, munizioni e tecnologia che hanno causato il genocidio del nostro popolo.”

Dall’incursione di Hamas oltre il confine del 7 ottobre 2023 che ha provocato 1.200 vittime, Israele ha ucciso più di 37.600 palestinesi. Il massacro ha ridotto il territorio in macerie e ha provocato una carestia.

Tuttavia da allora Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndt.] ha rivelato che elicotteri e carri armati dell’esercito israeliano hanno di fatto ucciso molti del 1.139 soldati e civili che Israele ha dichiarato essere stati ammazzati dalla resistenza palestinese.

Avendo violato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un immediato cessate il fuoco, Israele ha dovuto affrontare una condanna internazionale a fronte della sua continua e brutale offensiva a Gaza [iniziata] dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Israele è accusato di genocidio dalla Corte Internazionale di Giustizia, che con la sua ultima sentenza ha ordinato a Tel Aviv di fermare immediatamente le sue operazioni nella città meridionale di Rafah, dove un milione di palestinesi aveva cercato rifugio dalla guerra prima che fosse invasa il 6 maggio.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele è sull’orlo del fascismo. Varcherà la soglia?

David Ohana e Oded Heilbronner

24 giugno 2024 – Haaretz

Israele sta attraversando una piccola guerra civile che ricorda la Germania di Weimar e l’Italia alla vigilia della Marcia su Roma dei fascisti.

La settimana scorsa il suono degli stivali degli sgherri nei vicoli della Città Vecchia durante il Giorno di Gerusalemme ha richiamato quello delle marce delle SA e gli anni ’20 e ’30 in Germania. Adesso come allora, quando i miliziani con le camicie brune si avventavano violentemente contro ogni negozio di proprietà di un ebreo o di un comunista che incrociavano, quelli con la camicia gialla – gli ottusi discepoli del loro prepotente leader con un passato criminale che ora ha tutte le forze di polizia sotto il suo controllo – hanno picchiato, preso a pugni e imprecato contro arabi e giornalisti.

Era difficile distinguere tra i teppisti e i rappresentanti dello Stato nella forma di poliziotti di confine: ognuno di loro aveva un ruolo ben definito nell’imporre il terrore e la paura agli abitanti della Città Vecchia nell’annuale rituale fascista. Adolescenti del settore del sionismo religioso, che credono nella supremazia della razza ebraica e della “terra ebraica”, con la loro violenza hanno riportato alla memoria gli estremisti di destra e fascisti europei che davano la caccia a socialisti, comunisti ed ebrei.

Circa 100 anni fa i ruoli erano invertiti; ora ebrei violenti lungo il percorso verso il Muro del Pianto hanno dato la caccia a persone di altre origini etniche. In parallelo con la crescita dell’ondata della destra radicale e populista attualmente in corso in Europa, i gruppi protofascisti sono in aumento in Israele.

Questi processi riflettono tendenze globali e indicano il rafforzamento di una base sociale di destra radicale “pre-fascista” in Israele – gruppi neofascisti (tra cui alcuni elettori del Likud, comunemente noti come “Bibisti” [dal diminutivo di Netanyahu, “Bibi”]) che mantengono una presa sempre più stretta sulle classi basse. La radicalizzazione nazionalista in questa base sociale agevola un’alleanza tra la destra politico-culturale conservatrice, gruppi sociali tradizionalisti periferici di classe inferiore e gruppi religiosi e ultra-ortodossi che difendono valori di sangue, patria ebraica, terra, razza, sacralità, sacrificio e morte – un clima indiscutibilmente razzista.

Tali gruppi neofascisti sono pericolosi per il futuro della democrazia israeliana, in quanto producono una cultura fascista con semi che contengono un potenziale sociale di massa. Attualmente Israele sta attraversando una piccola guerra civile che ricorda momenti simili nell’Europa degli anni ’20. Questa analogia non è un confronto alla pari tra adesso e allora, ma, come recentemente ha chiarito lo scrittore svedese [in realtà norvegese, ndt.] Karl Ove Knausgård nel suo libro “My Struggle” [La mia lotta, che riprende il titolo del Mein Kampf di Hitler, ndt.], il periodo tra la fine del XIX secolo e la metà degli anni ’40 del ‘900 è visto retrospettivamente come un’epoca di trasformazioni nei principali aspetti dell’esistenza umana.

Molti intendevano trovare un nuovo elemento per creare una nuova società e hanno pensato di aver trovato quello che stavano cercando negli ultimi due grandi movimenti utopici: il nazismo e il comunismo. L’analogia tra l’Europa di Knausgård, soprattutto negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, così come in altri Paesi come la Francia, il Belgio e i Paesi dell’Europa orientale, e l’Israele di Netanyahu è intesa a ricavare indicazioni riguardo a similitudini tra avvenimenti, processi e figure nel passato e nel presente.

Come detto in precedenza, Israele attualmente sta vivendo una guerra civile che ricorda la Germania di Weimar e l’Italia alla vigilia della Marcia su Roma dei fascisti. Israele non è il solo ad affrontare tale crisi. Il ripudio dei valori liberali e democratici risuona oggi in tutto l’Occidente, con la possibile eccezione della Gran Bretagna, che ha sempre fatto la giusta scelta civica liberale.

Ciò è evidente nelle proteste dei “Gilet Gialli” in Francia (in cui Marine Le Pen molto probabilmente verrà eletta presidente nelle prossime elezioni[in realtà saranno elezioni parlamentari e non presidenziali, ndt.]), nell’assalto a Capitol Hill a Washington, nel crescente appoggio al partito “Alternative für Deutchland” [in Germania, ndt.], nell’elezione come primo ministro in Italia di Giorgia Meloni, una fan di Mussolini, e nella crescita senza precedenti del sostegno al leader nazionalista Geert Wilders in Olanda. Non più tardi di questa settimana la destra radicale si è rafforzata nel parlamento europeo.

Come in Israele, anche nei Paesi europei c’è una tendenza da entrambi i lati della barricata a vedere le crisi politiche, economiche e sociali come una lotta sul carattere della società e dello Stato, una lotta tra il desiderio di un profondo cambiamento dopo decenni di ordine liberal-democratico e quanti vogliono continuare nell’attuale ordine democratico.

La crisi di Israele è alimentata dai risultati delle elezioni del novembre 2022, ma bisognerebbe essere ingenui per vedere la vittoria del blocco religioso di destra come la causa della crisi israeliana. Anche qui come negli USA, in Gran Bretagna e in altri Paesi, la rivolta riflette processi più profondi: significativi cambiamenti geopolitici, nozioni economico-culturali radicali che spuntano dall’oggi al domani, crisi climatiche e ambientali, minacce alla secolarizzazione, al modo di vita liberale e una lotta contro regimi corrotti e antidemocratici.

Tutto ciò fa scendere in piazza folle in tutto il mondo. La crisi israeliana ha caratteristiche uniche: la struttura complessa della società israeliana, l’ombra minacciosa dell’occupazione e il pericolo della religione, soprattutto l’autoconvinzione della supremazia del sangue e della razza ebraici. Non c’è dubbio che il disastro del 7 ottobre e le proteste contro il regime sono una duplice reazione al clamoroso fallimento dell’establishment politico e securitario, ma sono anche la continuazione di proteste durante la pandemia e contro il colpo di stato costituzionale del 2023. Tutto ciò riflette una mancanza di fiducia dell’opinione pubblica israeliana in un regime vacillante.

Tre processi

C’è spazio per fare un confronto tra Israele e l’Europa nel periodo dell’ascesa del fascismo in tre importanti processi. Il primo è la crisi costituzionale in Germania negli anni 1930-33, una crisi politica che terminò, di fatto, solo con la caduta della democrazia della Repubblica di Weimar, debole fin dal suo inizio; qui il nascente governo Netanyahu, eletto dopo varie elezioni durante le quali c’è stato un crescendo nel potere negoziale dei partiti religiosi e ultra-ortodossi, dei nazionalisti razzisti laici e tra i nazionalisti religiosi, compresi i coloni e i partiti neo-fascisti. Come nella Germania di Weimar e in altre parti del mondo anche qui c’è stato un tentativo fallito di colpo di stato giudiziario che intendeva distorcere il sistema democratico di pesi e contrappesi tra i tre poteri dello Stato. L’ultimo atto, per il momento, è la guerra di Gaza.

Il secondo processo riguarda le divisioni nella società. In Italia, Spagna e, ovviamente, Germania ci fu una rottura tra campi politici polarizzati: da una parte la destra nazionalista, radicale e antisemita e dall’altra il versante socialista (SPD) e comunista, che trovò espressione in una pressoché continua guerra civile e nella violenza politica, definita dal giurista Carl Schmitt uno “stato di emergenza” (che accetta con favore un “dittatore”). Qui è la frattura tra i coloni e i loro sostenitori e quanti si oppongono all’occupazione, tra ultra-ortodossi e religiosi da una parte e israeliani laici dall’altra, oltre a ulteriori divisioni politiche e sociali.

Il terzo processo rivela gravi tensioni tra una società liberale e forze conservatrici e di destra radicale. Nella società italiana alla vigilia della Marcia su Roma, e soprattutto nella Germania di Weimar, erano in gioco tendenze altrettanto opposte: da una parte progresso, liberalismo e modernizzazione, dall’altra una rivoluzione fascista e una “rivoluzione conservatrice” promosse da eminenti pensatori italiani come Giovanni Gentile e tedeschi come Schmitt, Ernst Jünger, Oswald Spengler, Martin Heidegger e altri.

Il fulcro di quella rivoluzione fu una altrettanto paradossale combinazione di politiche reazionarie e progresso tecnologico, noto come Modernismo Reazionario, nome anche del libro dello storico Jeffrey Herf, ovvero “The Order of the Nihilists” [l’Ordine dei Nichilisti]. Là come qui c’era e c’è una lotta continua contro i valori universali, uguaglianza di cittadinanza e immigrazione, e dall’altro lato odi all’onore nazionale, all’unità e alla tradizione. Ideologicamente in Israele adesso è in corso una rivoluzione conservatrice, sopra e sotto la superficie, portata avanti sulle ali del “bibismo” e che fa affidamento sullo Shalem College [università privata israeliana, ndt.], con origini nel conservatorismo statunitense.

Si basa anche sul movimento Im Tirtzu, uno dei cui fondatori, Ronen Shoval, è stato influenzato dal romanticismo tedesco, considerato il predecessore del fascismo tedesco, un movimento descritto dall’ex-parlamentare del Likud Benny Begin come caratterizzato da “elementi fascisti” nella sua campagna, e da Zeev Sternhell [importante storico israeliano, ndt.] come “non peggiore del fascismo, più o meno simile.” Questa rivoluzione conservatrice è appoggiata anche dal Kohelet Policy Forum [centro studi israeliano di destra, ndt.], l’istigatore della legge israeliana sullo Stato Nazione [legge fondamentale che sancisce la superiorità degli ebrei e del sionismo sul resto della società, ndt.] e dal libertario Tikvah Fund, che ha elaborato la “riforma della giustizia” e incoraggia una fittizia sensazione di unità nazionale.

Non c’è da stupirsi che in questi circoli l’intellettuale di punta sia un colono ideologico, Micah Goodman, diplomato in una yeshiva [scuola religiosa, ndt.] che è stato presentato come un “intellettuale pubblico” moderato, mentre dietro l’idea che predica di “restringere il conflitto” nasconde un rafforzamento fraudolento della Grande Terra di Israele.

Ovviamente ci sono differenze. È impossibile capire la caduta della repubblica di Weimar senza il contesto della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale e le sue pesanti conseguenze che inclusero il colpo di stato bolscevico che minacciò la Germania, assassinii politici, i Freikorps (“Corpi franchi” [milizie di ex-combattenti, ndt.]) e violenti tentativi rivoluzionari di destra e di sinistra, nessuno dei quali corrisponde al caso israeliano. Né Israele sta vivendo il genere di inflazione devastante e la gravissima crisi economica che la Germania sperimentò negli anni ’20. Come ha dimostrato lo storico Walter Struve nel suo libro “Elites Against Democracy” [Élite contro la democrazia], in Germania le élite conservatrici si opposero al regime di Weimar o erano indifferenti al suo destino. Invece qui la maggior parte delle élite è identificata come liberale e viene accusata di “appropriarsi dello Stato con l’aiuto della Corte Suprema.”

Va sottolineato che, a differenza degli anni ’20 nell’Europa centrale, meridionale e orientale, la democrazia israeliana è ancora forte, ma ciò potrebbe non essere per sempre. Rispetto alle democrazie europee che caddero sotto il fascismo e il nazismo negli anni ’20 e ’30, le organizzazioni della società civile israeliana, il settore professionale nei servizi pubblici e il governo agiscono, in base alle circostanze, con integrità e lealtà nei confronti dei principi democratici, benché siano comparse crepe nella loro condotta e nel loro impegno verso la democrazia.

Tuttavia in vari punti nevralgici all’interno della società israeliana si possono riconoscere tendenze pre-fasciste e populiste. Soprattutto c’è un partito di governo che include nella base su cui si appoggia elementi che sono pre-fascisti. Recentemente il professor Menachem Mautner ha sostenuto che gruppi emarginati che rappresentano questa base sono lontani dalle società liberali -civiche perché queste ultime hanno adottato una politica economico-sociale neoliberale e a causa degli accordi disfattisti “di sinistra” con il nemico (Iyunei Mishpat, 45, 2021), che hanno suscitato una profonda ostilità verso le “élite di sinistra”.

Il primo ministro: ad un passo dall’essere un leader fascista

Ad aver promosso questa ideologia nazionalista e questa filosofia della storia che impone un “Israele immortale” (“Netzah Yisrael”) e comporta il rifiuto di riconoscere la legittimità del “nemico” è un leader populista, carismatico, propagandistico ed autoritario, Benjamin Netanyahu, che è a un passo dal diventare un leader fascista. Non c’è da stupirsi che dirigenti neo-fascisti o autoritari-populisti come Donald Trump negli USA, Narendra Modi in India e Viktor Orban in Ungheria abbiano il suo stesso quadro di riferimento e presentino analogie ideali con questo tipo di leadership.

Quello che tutti questi dirigenti hanno in comune è, tra le altre cose, il cinismo politico. L’azione politica che perseguiterà Netanyahu nella coscienza storica è il fatto di essersi basato per rafforzare il suo potere su un sostenitore di Kahane [rabbino noto per le sue posizioni razziste, ndt.] come Itamar Ben-Gvir, una figura in tutto e per tutto fascista. Il cinismo è evidente anche nella corsa di Netanyahu all’ospedale per una visita ripresa dalle telecamere ai quattro ostaggi liberati dall’esercito israeliano sabato, benché egli non abbia mai chiamato le famiglie degli ostaggi nemmeno una volta dal 7 ottobre.

Il costante stato di guerra a cui Israele è soggetto potrebbe fornire a Netanyahu i poteri d’emergenza che ha utilizzato durante la pandemia, quando ha approvato draconiane leggi d’emergenza senza precedenti (che non hanno avuto pari in nessuna democrazia occidentale, e accettate senza critiche). Oltre al massiccio reclutamento nazionale, allo spostamento di tutte le persone dal nord e dal sud di Israele e alla loro trasformazione in rifugiati, al trasferimento di palestinesi dall’altra parte del confine, alle dichiarazioni da parte di membri della coalizione di governo di un “diritto al ritorno” [di coloni israeliani, ndt.] alle “regioni d’origine” a Gaza, all’isolamento internazionale che ricorda la frase biblica “il popolo dimorerà da solo” e al tentato colpo di stato giudiziario-costituzionale, che continua ad essere una minaccia, tutto ciò indica tendenze fasciste insieme a populismo e nazional-socialismo.

Queste tendenze si sommano ad altre preoccupanti e crescenti tendenze nella società israeliana. Abbiamo di fronte una combinazione di crisi sociali, costituzionali e di sicurezza, il peggio che Israele abbia mai vissuto dalla sua nascita. Malcontento tra molte classi a causa dell’instabilità politica, proteste di massa, che, in base ad alcune circostanze, potrebbero trasformarsi in guerra civile e sono parte di una continua protesta che indica una perdita di fiducia dell’opinione pubblica nel sistema politico, sviluppo di reti sociali come violenta arena politica che sostituisce i tradizionali mezzi di comunicazione che implicano revisione, selezione e responsabilità, folgorante ascesa del populismo e il declino del liberalismo, che ha a che fare con l’instabilità mondiale e con processi globali, esistenza e persino la crescita di una destra radicale, pre-fascista, un blocco basato sulla religione e antiliberale, sono tutti indicatori che annunciano l’arrivo di un uragano che minaccia di devastare tutto ciò che c’è di buono in Israele.

Ecco tre esempi della scorsa settimana: l’appello di 39 associazioni studentesche, che fanno parte dell’Unione Nazionale degli Studenti Israeliani, in appoggio a una legge che consentirebbe il licenziamento di docenti universitari che neghino “l’esistenza di Israele come Paese ebraico e democratico” (la manifestazione di una posizione deformata, una continuazione della violenza di Tzachi Hanegbi e Israel Katz nell’unione degli studenti oltre 45 anni fa). Un altro esempio è la richiesta da parte di Nadav Haetzni [giornalista e avvocato di estrema destra, ndt.] di aprire un procedimento giudiziario contro accademici, giornalisti e magistrati in base all’articolo 103 del codice penale che vieta la “propaganda disfattista”, e all’articolo 99, che vieta di “fornire aiuto al nemico in tempo di guerra.” A ciò si può aggiungere l’annuncio da parte del sindaco di Haifa Yona Yahav che nella sua città nonsi devono svolgere manifestazioni contro la guerra. Non sono che tre esempi della corruzione morale, un segnale di ciò che avverrà. E che cosa porterà il domani?

Una discussione contemporanea sul fascismo europeo nella prima metà del XX secolo non può ignorare l’attuale situazione politica in Israele. La nascita di un unico modello di fascismo israeliano insieme al razzismo populista è stata recentemente considerata una possibilità concreta nel discorso politico pubblico e nella ricerca accademica. La creazione di un governo nazional-religioso in Israele nel 2022, che ha intensificato il dibattito sull’esistenza di elementi fascisti-razzisti nel governo Netanyahu e su un “colpo di stato costituzionale” conservando una facciata democratica, è stato un punto di svolta radicale nella democrazia israeliana, che per molti ha smesso di essere liberale.

Ciò in aggiunta alla partecipazione al governo di partiti che esibiscono una visione del mondo razzista, nazionalista e xenofoba, prendono d mira i diritti civili, le minoranze e i media, e presentano una posizione di sfida, di provocazione verso il mondo progressista. Sono sufficienti per definire fascisti il regime, la società e le istituzioni civili israeliani attuali? Per adesso la risposta è negativa, con la sottolineatura della parola “adesso”.

Se aggiungiamo a tutto questo l’occupazione e il regime di apartheid imposto da Israele alla Cisgiordania da oltre mezzo secolo e il passaggio da “occupazione temporanea” a un situazione di colonizzazione permanente, che ha fornito credibilità alla procedura ora in corso alla Corte Internazionale [di Giustizia] dell’Aia, e se aggiungiamo questi elementi etnocratici, in accordo con il paradigma del geografo politico Oren Yiftachel di un gruppo etnico che si impossessa delle risorse e istituzioni dello Stato a spese delle minoranze, continuando nel contempo a presentarsi come una democrazia (vuota), e in particolare la crescita di forze razziste in base alla religione, non possiamo ignorare il pericolo che in Israele si materializzi l’opzione fascista.

Quindi, come ricorderanno gli israeliani questi giorni turbolenti? Come attraverseranno il fiume impetuoso che minaccia di sommergerli? L’autocoscienza dei cittadini preoccupati della fragilità della democrazia si trasformerà in azione politica? Cosa rimarrà delle vicissitudini di questi giorni bui? Gli israeliani si ribelleranno? O si piegheranno, rinunceranno, faranno ammenda e compromessi e, chissà, forse preferiranno andare a vivere altrove? Ciò che ci rimane è interpretare correttamente le vicissitudini di questi giorni, continuare la lotta e conservare la speranza, ripetere ancora una volta le parole dello slogan scandito nel secolo scorso dai combattenti per la libertà davanti ai soldati: no pasarán.

Gli autori sono storici del fascismo e nazismo europei. Il prof. Ohana ha scritto il libro “The Fascist Temptation” [La tentazione fascista] (Routledge 2021) e il prof. Heilbronner è autore di “From Popular Liberalism to National Socialism” [Dal liberalismo popolare al nazional socialismo] (Routledge 2017).

[traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi]




Il crollo del sionismo

Ilan Pappé

21 giugno 2024-The New Left Review

L’assalto di Hamas del 7 ottobre può essere paragonato a un terremoto che colpisce un vecchio edificio. Le crepe cominciavano già a farsi vedere, ma ora sono visibili fin dalle fondamenta. A più di 120 anni dalla sua nascita il progetto sionista in Palestina – l’idea di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo, musulmano e mediorientale – potrebbe essere di fronte alla prospettiva del collasso? Storicamente una pluralità di fattori può causare il capovolgimento di uno stato. Può derivare da continui attacchi da parte dei paesi vicini o da una guerra civile cronica. Può derivare dal crollo delle istituzioni pubbliche che diventano incapaci di fornire servizi ai cittadini. Spesso inizia come un lento processo di disintegrazione che acquista slancio e poi, in un breve periodo di tempo, fa crollare strutture che una volta apparivano solide e stabili.

La difficoltà sta nell’individuare i primi indicatori. Qui sosterrò che questi sono più chiari che mai nel caso di Israele. Stiamo assistendo a un processo storico – o, più precisamente, all’inizio di uno – che probabilmente culminerà nella caduta del sionismo. E, se la mia diagnosi è corretta, allora stiamo anche entrando in una congiuntura particolarmente pericolosa. Perché una volta che Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla, come fece il regime di apartheid sudafricano nei suoi ultimi giorni.

1.

Un primo indicatore è la frattura della società ebraica israeliana. Attualmente è composta da due schieramenti rivali che non riescono a trovare un terreno comune. La spaccatura deriva dalle anomalie nel definire l’ebraismo come nazionalismo. Mentre a volte l’identità ebraica in Israele è sembrata poco più che un argomento di dibattito teorico tra fazioni religiose e laiche, ora è diventata una lotta sul carattere della sfera pubblica e dello Stato stesso. Questa lotta viene combattuta non solo nei media ma anche nelle strade.

Un campo può essere definito lo “Stato di Israele”. Comprende ebrei europei più laici, liberali e soprattutto, ma non esclusivamente, appartenenti alla classe media e ai loro discendenti, che furono determinanti nella creazione dello Stato nel 1948 e rimasero egemoni al suo interno fino alla fine del secolo scorso. Non lasciatevi fuorviare, la loro difesa dei “valori democratici liberali” non influisce sulla loro adesione al sistema di apartheid che viene imposto in vari modi a tutti i palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il loro desiderio fondamentale è che i cittadini ebrei vivano in una società democratica e pluralista dalla quale gli arabi siano esclusi.

L’altro campo è lo “Stato della Giudea”, che si è sviluppato tra i coloni della Cisgiordania occupata. Gode ​​di livelli crescenti di sostegno all’interno del Paese e costituisce la base elettorale che ha assicurato la vittoria di Netanyahu alle elezioni del novembre 2022. La sua influenza ai vertici dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani sta crescendo in modo esponenziale. Lo Stato della Giudea vuole che Israele diventi una teocrazia che si estenda su tutta la Palestina storica. Per raggiungere questo obiettivo è determinato a ridurre il numero dei palestinesi al minimo indispensabile e sta contemplando la costruzione di un Terzo Tempio al posto di al-Aqsa. I suoi membri credono che ciò consentirà loro di rinnovare l’era d’oro dei Regni Biblici. Per loro se gli ebrei laici rifiutano di unirsi a questo sforzo essi sono eretici quanto i palestinesi.

I due campi avevano cominciato a scontrarsi violentemente prima del 7 ottobre. Nelle prime settimane dopo l’assalto sembravano accantonare le loro divergenze di fronte a un nemico comune. Ma questa era un’illusione. Gli scontri di strada si sono riaccesi ed è difficile vedere cosa potrebbe portare alla riconciliazione. Il risultato più probabile si sta già svolgendo davanti ai nostri occhi. Più di mezzo milione di israeliani, appartenenti alla fazione “Stato di Israele”, hanno lasciato il Paese da ottobre, segno che il Paese viene inghiottito dallo “Stato di Giudea”. Si tratta di un progetto politico che il mondo arabo, e forse anche il mondo in generale, non tollererà a lungo termine.

2.

Il secondo indicatore è la crisi economica di Israele. La classe politica non sembra avere alcun piano per riequilibrare le finanze pubbliche in mezzo a conflitti armati perpetui, oltre a diventare sempre più dipendente dagli aiuti finanziari americani. Nell’ultimo trimestre dello scorso anno, l’economia è crollata di quasi il 20%; da allora la ripresa è stata fragile. È improbabile che l’impegno di Washington di 14 miliardi di dollari possa invertire questa situazione. Al contrario la congiuntura economica non potrà che peggiorare se Israele porterà avanti la sua intenzione di entrare in guerra con Hezbollah e allo stesso tempo intensificherà l’attività militare in Cisgiordania, in un momento in cui alcuni paesi – tra cui Turchia e Colombia – hanno iniziato ad applicare misure economiche sanzionatorie.

La crisi è ulteriormente aggravata dall’incompetenza del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che incanala costantemente denaro verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma sembra per il resto incapace di gestire il suo dipartimento. Il conflitto tra lo “Stato di Israele” e lo “Stato di Giudea”, insieme agli eventi del 7 ottobre, sta portando alcune élite economiche e finanziarie a spostare i propri capitali fuori dallo Stato. Coloro che stanno pensando di delocalizzare i propri investimenti costituiscono una parte significativa del 20% degli israeliani che pagano l’80% delle tasse.

3.

Il terzo indicatore è il crescente isolamento internazionale di Israele che sta gradualmente diventando uno stato paria. Questo processo è iniziato prima del 7 ottobre, ma si è intensificato dall’inizio del genocidio. Ciò si riflette nelle posizioni senza precedenti adottate dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale. In precedenza, il movimento globale di solidarietà con la Palestina era riuscito a galvanizzare le persone a partecipare alle iniziative di boicottaggio, ma non è riuscito a promuovere la prospettiva di sanzioni internazionali. Nella maggior parte dei paesi [occidentali, n.d.t.] il sostegno a Israele è rimasto incrollabile tra l’establishment politico ed economico.

In questo contesto le recenti decisioni della CIG e della CPI – secondo cui: è plausibile che Israele stia commettendo un genocidio; esso deve fermare la sua offensiva a Rafah; i suoi leader potrebbero essere arrestati per crimini di guerra – devono essere viste come un tentativo di tenere conto delle opinioni della società civile mondiale, invece di riflettere semplicemente l’opinione delle élite. I tribunali non hanno attenuato i brutali attacchi contro la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ma hanno contribuito al crescente coro di critiche rivolte allo Stato israeliano, che provengono sempre più sia dall’alto che dal basso.

4.

Il quarto indicatore, interconnesso, è il cambiamento epocale tra i giovani ebrei di tutto il mondo. In seguito agli eventi degli ultimi nove mesi molti ora sembrano disposti ad abbandonare il loro legame con Israele e con il sionismo e a partecipare attivamente al movimento di solidarietà palestinese. Le comunità ebraiche, in particolare negli Stati Uniti, un tempo fornivano a Israele un’efficace immunità contro le critiche. La perdita, o almeno la perdita parziale, di questo sostegno ha importanti implicazioni per la posizione globale del Paese. L’AIPAC può ancora fare affidamento sui sionisti cristiani per assistere e puntellare i suoi membri, ma non sarà la stessa formidabile organizzazione senza un significativo elettorato ebraico. Il potere della lobby si sta erodendo.

5.

Il quinto indicatore è la debolezza dell’esercito israeliano. Non c’è dubbio che l’IDF rimanga una forza potente con armi all’avanguardia a sua disposizione. Eppure i suoi limiti sono stati messi in luce il 7 ottobre. Molti israeliani ritengono che l’esercito sia stato estremamente fortunato poiché la situazione avrebbe potuto essere molto peggiore se Hezbollah si fosse unito all’ attacco in modo coordinato. Da allora, Israele ha dimostrato di fare disperatamente affidamento su una coalizione regionale, guidata dagli Stati Uniti, per difendersi dall’Iran, il cui attacco di avvertimento in aprile ha visto il dispiegamento di circa 170 droni oltre a missili balistici e guidati. Oggi più che mai il progetto sionista dipende dalla rapida consegna di enormi quantità di rifornimenti da parte degli americani, senza i quali non potrebbe nemmeno combattere un piccolo esercito di guerriglieri nel sud.

C’è ora tra la popolazione ebraica del paese una percezione diffusa dell’impreparazione e dell’incapacità di Israele di difendersi. Ciò ha portato a forti pressioni per rimuovere l’esenzione militare per gli ebrei ultra-ortodossi – in vigore dal 1948 – e iniziare ad arruolarne a migliaia. Ciò difficilmente farà molta differenza sul campo di battaglia, ma riflette la portata del pessimismo nei confronti dell’esercito – che a sua volta ha approfondito le divisioni politiche all’interno di Israele.

6.

L’ultimo indicatore è la rinnovata energia delle giovani generazioni di palestinesi. Queste sono molto più unite, organicamente connesse e chiare riguardo alle loro prospettive rispetto all’élite politica palestinese. Dato che la popolazione di Gaza e della Cisgiordania è tra le più giovani al mondo questa nuova fascia di età avrà un’enorme influenza nel corso della lotta di liberazione. Le discussioni che hanno luogo tra i giovani gruppi palestinesi mostrano che sono preoccupati di creare un’organizzazione genuinamente democratica – o un’OLP rinnovata, o una nuova del tutto – che persegua una visione di emancipazione che è antitetica alla campagna dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento come Stato. Sembrano preferire una soluzione a uno Stato rispetto a uno screditato modello a due Stati.

Saranno in grado di organizzare una risposta efficace al declino del sionismo? Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Al crollo di un progetto statale non sempre segue un’alternativa più brillante. Altrove in Medio Oriente – in Siria, Yemen e Libia – abbiamo visto quanto sanguinosi e prolungati possano essere i risultati. In questo caso si tratterebbe di decolonizzazione e il secolo scorso ha dimostrato che le realtà postcoloniali non sempre migliorano la condizione coloniale. Solo l’azione dei palestinesi può portarci nella giusta direzione. Credo che, prima o poi, una fusione esplosiva di questi indicatori porterà alla distruzione del progetto sionista in Palestina. Quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che un robusto movimento di liberazione sia lì per riempire il vuoto.

Per più di 56 anni quello che è stato definito il “processo di pace” – un processo che non ha portato da nessuna parte – è stato in realtà una serie di iniziative americano-israeliane alle quali si chiedeva ai palestinesi di rispondere. Oggi la “pace” deve essere sostituita con la decolonizzazione e i palestinesi devono essere in grado di articolare la loro visione per la regione, mentre gli israeliani devono rispondere. Ciò segnerebbe la prima volta, almeno da molti decenni, in cui il movimento palestinese prenderebbe l’iniziativa di presentare le sue proposte per una Palestina postcoloniale e non sionista (o come verrà chiamata la nuova entità). Nel fare ciò, probabilmente guarderà all’Europa (forse ai cantoni svizzeri e al modello belga) o, più appropriatamente, alle vecchie strutture del Mediterraneo orientale, dove i gruppi religiosi secolarizzati si trasformarono gradualmente in gruppi etnoculturali che vivevano fianco a fianco nello stesso territorio.

Che le persone accolgano l’idea o la temano, il collasso di Israele è diventato prevedibile. Questa possibilità dovrebbe orientare il dibattito a lungo termine sul futuro della regione. Sarà inserito all’ordine del giorno man mano che le persone si renderanno conto che il tentativo secolare, guidato dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti, di imporre uno Stato ebraico a un paese arabo sta lentamente giungendo al termine. Ha avuto abbastanza successo da creare una società di milioni di coloni, molti dei quali ora sono di seconda e terza generazione. Ma la loro presenza dipende ancora, come al loro arrivo, dalla capacità di imporre con la violenza la propria volontà a milioni di indigeni, che non hanno mai rinunciato alla lotta per l’autodeterminazione e la libertà nella loro patria. Nei decenni a venire i coloni dovranno abbandonare questo approccio e mostrare la loro volontà di vivere come cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le violenze che non fanno mai notizia

Adam Horowitz

23 giugno 2024 – Mondoweiss

 

Le morti quotidiane e il numero delle vittime che abbiamo conteggiato da ottobre si riferiscono solo a coloro che sono stati uccisi direttamente dall’offensiva militare israeliana. E quelli che sono stati uccisi dalla distruzione di una società? Questa è una domanda che mi ha perseguitato per mesi. Cosa è successo ai pazienti oncologici? Come hanno fatto i palestinesi con altri problemi di salute a ottenere le cure di cui hanno bisogno?

Parte della risposta è stata chiarita da una storia di Tareq Hajjaj che abbiamo pubblicato questa settimana sulle condizioni del settore medico a Gaza. I momenti di violenza più scioccanti di cui siamo stati testimoni nei passati 8 mesi, l’assedio degli ospedali, il massacro dei palestinesi che cercavano di ricevere aiuti, lo sfollamento forzato di oltre 2 milioni di persone sotto la minaccia delle armi sono solo la punta dell’iceberg della violenza a cui sono stati sottoposti i palestinesi di Gaza.

Tareq racconta la storia di Nabil Kuhail, un paziente di 3 anni affetto da leucemia che semplicemente non ha potuto ricevere le cure mediche necessarie perché gli ospedali di Gaza sono stati distrutti. “La storia di Nabil è una di tante,” scrive Tareq. “Sono innumerevoli i pazienti che lottano per avere i trattamenti per varie malattie, quelle comuni spesso più mortali di quelle serie.”

Tale distruzione della vita palestinese è la prova dell’intento genocida di Israele a Gaza. E, come Jonathan Ofir ci ha aiutato a confermare questa settimana, il sostegno per queste politiche si estende a tutto lo spettro politico israeliano, inclusi quelli spesso lodati in Occidente come i campioni più progressisti della “democrazia” israeliana.”

Naturalmente questa violenza quotidiana che i palestinesi affrontano oltre a quella riportata nei titoli dei giornali non è solo nella Striscia di Gaza. Shatha Hanaysha ci ha riferito del caso di sadismo dei soldati israeliani che hanno usato un palestinese ferito come scudo umano durante un attacco a Jenin in Cisgiordania questo fine settimana. 

Shatha racconta:

Un testimone oculare che preferisce rimanere anonimo ha detto a Mondoweiss che i soldati israeliani hanno deliberatamente maltrattato il ferito.

Sembrava che lo facessero per divertirsi,” ha detto il testimone, aggiungendo che l’uomo non era né ricercato né un combattente della resistenza, ma un civile disarmato. Ciò era evidente dal fatto che i militari israeliani non l’hanno arrestato, ma l’hanno consegnato all’ambulanza palestinese dopo che era rimasto legato sul cofano del veicolo per parecchi minuti nel caldo estivo.

Questa storia probabilmente non arriverà sulle testate internazionali ma ci dice di più sulla realtà dell’occupazione israeliana e l’apartheid che testimoniano molte relazioni sui diritti umani. 

E le minacce di violenza sembrano solo aumentare. Leggete questa relazione di Qassam Muaddi sulla crescente minaccia di un attacco israeliano su larga scala contro il Libano. Come chiarisce Qassam, probabilmente spetterà all’amministrazione Biden fermare un attacco israeliano che potrebbe avere conseguenze regionali gigantesche e devastanti. Sfortunatamente sembra che gli USA non vogliano opporsi a Israele. 

Tuttavia gli sforzi della politica statunitense continuano con molti occhi puntati sulle imminenti elezioni USA. Questa settimana Michael Arria ha delineato due importanti tentativi di sfidare lo status quo politico. 

Da quando la campagna “Uncommitted” per esprimere disapprovazione verso l’amministrazione Biden ha cominciato a comparire a sorpresa sui titoli dei giornali durante le primarie del partito Democratico la domanda è: cosa succederà dopo? Questa settimana Michael ha parlato con Lexis Zeidan, co-direttore di Listen to Michigan, per scoprirlo. Michael ha anche parlato con Usamah Andrabi, portavoce di Justice Democrats, sulla coalizione Reject AIPAC [Contro AIPAC, principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] per un podcast di Mondoweiss. Per favore, prestategli ascolto.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Giornalista palestinese a Gaza: potete anche togliermi il premio, non mi toglierete la voce

Maha Hussaini

20 giugno 2024 MiddleEastEye

 

Dopo aver seguito per mesi l’atroce genocidio di Gaza, mi è stato tolto il Premio Coraggio nel Giornalismo a seguito di una sistematica campagna diffamatoria da parte dei sostenitori di Israele.

Negli ultimi dieci anni da giornalista e reporter di guerra ho capito perché molti abbandonino questa professione, soprattutto in Palestina.

Oltre alle enormi sfide e ai continui attacchi fisici, ci sono sforzi continui, sistematici e ben organizzati da parte di organizzazioni filo-israeliane per intimidire e mettere a tacere i giornalisti palestinesi. Queste tattiche mirano a spingere i giornalisti ad abbandonare il proprio lavoro, che è fondamentale nel denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani e arrivare a scoprire le responsabilità.

Nel corso della mia carriera giornalistica mi sono stati assegnati due premi, entrambi seguiti da estese campagne diffamatorie e appelli da parte di associazioni e singoli individui israeliani che esortavano le organizzazioni che erogavano i premi a revocarli.

Lo scorso giugno ho ricevuto il Premio Coraggio nel Giornalismo dalla International Women’s Media Foundation (IWMF) per i miei reportage sul campo da Gaza, sottoposta a un devastante assedio israeliano e un bombardamento implacabile da più di otto mesi.

Durante questo periodo sono stata sfollata con la forza tre volte, spostandomi da un rifugio all’altro. La mia casa è stata bombardata e ho sopportato mesi di fame, blackout e continui bombardamenti. A volte ho dovuto ricorrere all’uso di carta e penna per poi inviare i miei articoli come messaggi di testo dopo che Israele ha tagliato le forniture di carburante ed elettricità e ha bombardato le infrastrutture delle principali società di telecomunicazioni di Gaza.

Nonostante queste difficoltà mi considero fortunata di non far parte (finora) del conteggio dei circa 150 giornalisti palestinesi uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre 2023.

Solo pochi giorni dopo che l’IWMF aveva annunciato il mio premio, sui social media è stata lanciata una campagna diffamatoria da parte di Israele che ne chiedeva la revoca. Nel giro di 24 ore l’IWMF ha ottemperato alla richiesta annullando il premio, rimuovendo il mio profilo dal suo sito web e riducendo il numero dei premiati da quattro a tre.

Attacchi inarrestabili

“Nelle ultime 24 ore l’IWMF è venuta a conoscenza di alcuni commenti fatti da Maha Hussaini negli anni passati che contraddicono ai valori della nostra organizzazione”, ha affermato l’IWMF in una breve dichiarazione, senza fornire ulteriori dettagli.

Di conseguenza abbiamo revocato il Premio Coraggio nel Giornalismo che le era stato precedentemente assegnato. Sia il Premio Coraggio che la missione dell’IWMF si basano sull’integrità e sull’opposizione all’intolleranza. Non tollereremo e non sosterreremo né supporteremo opinioni o dichiarazioni che non aderiscano a tali principi”.

Sullo stesso sito, tuttavia, l’IWMF afferma: “Il Premio Coraggio nel Giornalismo dimostra al mondo che le giornaliste non si faranno da parte, non possono essere messe a tacere e meritano di essere riconosciute per la loro forza di fronte alle avversità. Il premio onora le giornaliste coraggiose che raccontano argomenti tabù, lavorano in ambienti ostili alle donne e condividono verità scabrose”.

Ogni anno i giornalisti palestinesi ricevono premi internazionali per i loro coraggiosi reportage sotto l’occupazione israeliana e in mezzo ad attacchi senza sosta. Questi riconoscimenti onorano il loro coraggio e la loro dedizione nel rivelare la verità.

Tuttavia tali riconoscimenti sono spesso seguiti da estese campagne diffamatorie e da un’intensa pressione sulle organizzazioni che indicono il premio da parte dei sostenitori dell’occupazione israeliana e della lobby sionista. Mentre alcune associazioni si attengono ai propri principi e sostengono i giornalisti, altri purtroppo cedono alle pressioni.

Non avrei vinto questo premio se non fossi stata sul campo a denunciare le flagranti violazioni israeliane in condizioni pericolose, il tutto mentre venivo sistematicamente attaccata da chi sosteneva gli autori del reato.

Vincere un premio per il “coraggio” significa essere soggetto ad attacchi e scegliere di continuare il proprio lavoro nonostante tutto. Purtroppo la stessa organizzazione che ha riconosciuto queste condizioni pericolose e mi ha assegnato il premio ha scelto di non essere coraggiosa.

Complicità globale

Nonostante tutto sono felice sia di aver vinto il premio sia che il suo successivo ritiro abbiano dimostrato chiaramente i sistematici attacchi fisici e morali che i giornalisti palestinesi subiscono nel corso della loro carriera. A dimostrazione anche di come i media globali e le organizzazioni internazionali possano essere ritenuti complici nel mettere a tacere i giornalisti palestinesi.

Le minacce e le diffamazioni mirano proprio a zittire le voci più rilevanti e a perpetuare pregiudizi di lunga data sui media globali. Non ho mai lavorato per ricevere premi, né ho mai fatto domanda per candidarmi.

Non ho scelto il giornalismo come professione. Sono diventata giornalista dopo aver visto fino a che punto il mondo ignora la sofferenza dei palestinesi e sceglie di conformarsi alle pressioni israeliane, soprattutto nel momento in cui Israele vieta ai giornalisti internazionali di entrare nella Striscia di Gaza per riferire in maniera oggettiva della guerra.

Invece di riconoscere le minacce che i giornalisti palestinesi affrontano e contribuire a proteggerli, ritirare i premi ai giornalisti palestinesi di Gaza, dove decine di giornalisti sono già stati uccisi dalle forze israeliane, rischia di renderli obiettivi ancora più visibili.

Non ho rimpianti per gli eventuali post o commenti passati che hanno portato alla revoca del mio premio e non smetterò mai di esprimere le mie opinioni. Prima di diventare giornalista ero una palestinese che viveva sotto l’occupazione militare e un blocco soffocante. Oggi a Gaza sto subendo un genocidio riconosciuto a livello internazionale.

I miei nonni furono espulsi da Gerusalemme al momento della creazione dello Stato di Israele e io sono stata espulsa da casa mia a Gaza durante questo genocidio.

Se per vincere un premio è necessario sopportare e testimoniare crimini di guerra rimanendo in silenzio, non mi ritengo onorata di ricevere alcun premio.

Sarò sempre obiettiva nei miei resoconti, ma non potrò mai essere neutrale. Indicherò sempre i colpevoli e sarò solidale con le vittime. Questo è vero giornalismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Maha Hussaini è una giornalista pluripremiata e attivista per i diritti umani che risiede a Gaza. Maha ha iniziato la sua carriera giornalistica riferendo della campagna militare israeliana nella Striscia di Gaza del luglio 2014. Nel 2020 ha vinto il prestigioso Premio Martin Adler per il suo lavoro come giornalista freelance.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Rapporto: nuove prove rivelano che l’esercito israeliano aveva una conoscenza dettagliata del piano di Hamas per attaccare il territorio di Israele

Rachel Fink

18 giugno 2024-Haaretz

Un documento dell’esercito israeliano mai visto prima fa emergere nuovi sorprendenti dettagli sui piani operativi di Hamas per invadere Israele. Il rapporto delinea l’ordine di Hamas di prendere in ostaggio tra i 200 e i 250 israeliani.

Un documento recentemente emerso rivela che l’esercito e l’intelligence israeliani avevano una conoscenza dettagliata del piano di Hamas di attaccare il territorio di Israele; anche riguardo al numero di ostaggi da catturare e ad istruzioni specifiche per il loro trattamento durante la prigionia.

Secondo un servizio trasmesso lunedì sera dall’emittente pubblica israeliana Kan, il documento, basato sulle informazioni dell’Unità 8200 dell’intelligence militare, ha cominciato a circolare il 19 settembre, meno di tre settimane prima del massacro del 7 ottobre.

Le fonti anonime che hanno fornito a Kan il documento affermano anche che il suo contenuto è stato portato all’attenzione di almeno alcuni alti ufficiali dell’intelligence ma apparentemente ignorato. Il documento evidenzia fino a che punto la Divisione Gaza dell’esercito israeliano fosse a conoscenza di un potenziale attacco alle comunità del confine meridionale di Israele.

Il documento, intitolato “Addestramento dettagliato su raid end-to-end”, rivela dettagli sorprendenti e inizia con la descrizione di una serie di esercitazioni condotte dalle unità d’élite Nukhba di Hamas nelle settimane precedenti la sua pubblicazione. Nel documento si legge: “Alle 11 del mattino, dopo la preghiera ed il pranzo, sono state osservate diverse unità convergere per le sessioni di addestramento”.

“Alle 12:00 sono state distribuite attrezzature e armi ai terroristi, quindi ha avuto luogo un’esercitazione dei comandi delle unità. Alle 14:00 è iniziato il raid.” Secondo il documento alle unità Nukhba è stato dato un ordine evidenziato nel documento: ispezionare l’area durante l’incursione e non lasciare documenti dietro.

Kan ha anche riferito che i commando di Hamas si esercitavano a infiltrarsi in un finto avamposto dell’esercito israeliano, simulando basi sul confine di Gaza. L’esercitazione è stata effettuata da quattro unità del gruppo terroristico e a ciascuna era stato assegnato un diverso avamposto.

Gli obiettivi del raid descritti nel documento, che includono le strutture di comando e controllo dell’esercito, le sinagoghe della base, i quartier generali a livello di battaglione, il quartier generale delle comunicazioni e gli alloggi dei soldati, rispecchiano fedelmente i luoghi colpiti dalle forze di Hamas nelle prime ore del mattino del 7 ottobre.

Una delle sezioni più scioccanti del rapporto dell’esercito riguarda le istruzioni relative alla presa di ostaggi, il cui numero è stimato tra 200 e 250, un numero sorprendentemente vicino ai 251 uomini, donne e bambini effettivamente presi prigionieri da Hamas.

Secondo il rapporto dell’intelligence ai terroristi di Hamas è stato detto di perquisire gli israeliani rapiti per sequestrare i telefoni, poiché agli ostaggi era vietato informare le loro famiglie della loro condizione ed è stato ordinato loro di spostare gli ostaggi in un luogo diverso se fosse diventato evidente che Israele aveva scoperto dove venivano tenuti prigionieri. È stato anche detto loro di minacciare di uccidere gli ostaggi come mezzo per scoraggiare i tentativi di fuga.

Sebbene il documento contenga dettagli mai visti prima, è solo uno di una lunga lista di rapporti che indicano fino a che punto gli alti ufficiali israeliani fossero stati avvertiti dei piani di Hamas di attaccare Israele.

Nel luglio 2023 un sottufficiale dell’intelligence militare ha avvertito i suoi comandanti che Hamas intendeva compiere un massacro nelle comunità di confine di Gaza.

Il sottufficiale ha scritto tre rapporti nei sei mesi precedenti l’attacco del 7 ottobre in cui avvertiva che Hamas aveva completato una serie di esercitazioni simulando un raid contro i kibbutz e gli avamposti dell’esercito sul lato israeliano del confine.

A ciò si aggiungono le soldatesse destinate a compiti di osservazione che, per quasi un anno prima del 7 ottobre, hanno segnalato ai loro superiori attività sospette riguardanti i preparativi di Hamas vicino alla recinzione di confine, tra cui l’attività di droni, i tentativi di mettere fuori uso le telecamere di sicurezza, l’uso estensivo di furgoni e motociclette e persino prove per il bombardamento dei carri armati.

Molte delle osservatrici sopravvissute hanno affermato che i loro ripetuti avvertimenti sono caduti nel vuoto presso i loro ufficiali in comando.

Come riportato da Kan, l’esercito israeliano ha annunciato all’inizio di questo mese che all’inizio di luglio inizierà a esaminare i suoi fallimenti nel periodo precedente al 7 ottobre. Secondo la leadership dell’esercito le indagini si concentreranno sulle unità militari ritenute coinvolte nell’aver ignorato i preparativi di Hamas e sottovalutato la capacità del gruppo di sferrare un attacco su larga scala, con particolare attenzione a manovre alla frontiera che risalgono al 2018. Una manciata di ufficiali di alto rango ha già annunciato l’intenzione di dimettersi una volta finita la guerra.

Mentre molti cittadini e parlamentari israeliani hanno chiesto ulteriori indagini sulla gestione politica che ha contribuito al 7 ottobre, il primo ministro Benjamin Netanyahu e i membri della sua coalizione hanno insistito affinché tali indagini aspettassero fino alla fine della guerra a Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)