Samah Jabr parla del fatto di essere una dei solo 22 psichiatri in Cisgiordania

Jehan Alfarra

17 dicembre 2017, Middle East Monitor

Samah Jabr è una delle prime donne psichiatra in Palestina e una dei solo 22 psichiatri che assistono i 2.5 milioni di abitanti nella Cisgiordania occupata.

Nata a Gerusalemme, Jabr è cresciuta come abitante senza diritti di cittadinanza. Nella sua vita ha vissuto sotto occupazione militare, assistendo all’impatto sul benessere psicologico dei palestinesi di avvenimenti traumatici come l’arresto e la demolizione di case.

Crescere in Palestina come abitante di Gerusalemme mi ha resa consapevole della vulnerabilità della mia situazione e mi ha fatto capire che l’ingiustizia è un agente patogeno che danneggia il benessere del popolo palestinese sotto occupazione,” dice Jabr a MEMO.

Dopo essersi laureata alla facoltà di medicina dell’università Al-Quds, Jabr ha seguito corsi di specializzazione in psichiatria e psicoterapia infantile in Francia, Inghilterra e Palestina. Oltre al lavoro clinico, dal 1998 ha anche documentato la sua esperienza scrivendo per organi di stampa e pubblicando articoli accademici su riviste specializzate.

Il mio lavoro di medico mi ha portata a contatto con le esperienze della gente,” dice, “e sento la responsabilità morale di fornire una testimonianza dei casi e delle esperienze dei palestinesi.”

Jabr mi racconta che nel corso della sua carriera ha incontrato molte vittime di torture fisiche e psicologiche, ma che quello che più la colpisce sono sempre le ferite meno visibili, meno evidenti.

Si riferisce al caso di un giovane che ora dorme con una borsa di indumenti intimi vicino al letto perché ha il costante timore di essere riarrestato. Un altro caso che ha segnato Jabr è quello di alcune sorelle la cui madre è stata arrestata dai soldati israeliani durante una perquisizione in casa. Temendo un’altra incursione le ragazze hanno dormito per mesi nella stanza centrale dell’abitazione invece che nelle loro camere da letto, totalmente vestite e con il velo.

Le persone sono più interessate alle ferite fisiche, all’amputazione di una gamba o a un trauma cranico,” spiega,” e spesso quando non c’è sangue non prestiamo attenzione.”

Parliamo di quante persone sono state uccise e di quante sono rimaste ferite, ma qui c’è molta sofferenza invisibile, nascosta.

Sento la mia responsabilità morale di non fare solo il lavoro palliativo necessario a gestire le conseguenze di maltrattamenti, ma anche di informare e di fare quanto è possibile per fermare maltrattamenti e ingiustizia.”

Continua raccontando un’altra storia di un ragazzo palestinese che le ha detto che le guardie in prigione erano più brave di suo padre perché gli davano una sigaretta da fumare mentre suo padre non voleva. “In seguito ho saputo da questo ragazzino come suo padre non ha saputo proteggerlo dall’arresto,” continua.

Questo è un piccolo esempio del tipo di danni invisibili che patiscono le persone vulnerabili e del tipo di violenza che possono avere subito nella propria cerchia familiare, ciò che può disturbare i loro sentimenti e il loro sistema di valori,” dice, “e questi esempi sono molto comuni.”

Documentare il trauma in un film

Gli incontri e le idee di Jabr riguardo all’impatto psicologico della vita in Palestina sono stati il soggetto di un documentario presentato in alcuni cinema francesi il mese scorso. Nel film, “Beyond the Frontlines: Tales of Resistance and Resilience in Palestine” [Oltre la linea del fronte: racconti di resistenza e resilienza in Palestina], Jabr racconta brani scelti dai suoi scritti riguardanti cosa significhi resistenza nel contesto dell’occupazione israeliana.

La regista francese del film, Alexandra Dols, aveva contattato Jabr verso la fine del 2012 perché voleva usare i suoi scritti come base del documentario dopo aver trovato un articolo che Jabr aveva scritto nel 2007 per il “Washington Report on Middle East affairs” [rivista USA di studi sul Medio Oriente, ndt.] intitolato “Ballare per percussionisti diversi – ma comunque ballare”, che indagava il significato di un’azione per soggetti differenti. L’articolo parte dall’incontro con una paziente che le aveva raccontato come avesse “ballato come una gallina sgozzata” quando suo figlio era stato ucciso; seguono altri incontri di quel giorno con soldati israeliani che ballavano a un posto di blocco e di se stessa che danzava durante un matrimonio in famiglia.

Inizialmente esitante, Jabr ha risposto ad Alexandra nel 2013 accettando di partecipare al documentario. La troupe è arrivata in Palestina verso la fine dell’anno.

Dols è arrivata con due volontari,” spiega Jabr, sottolineando le difficoltà incontrate dal gruppo per garantirsi i fondi per il montaggio. “Ma il fatto che non fossero finanziati da una grande istituzione per me era rassicurante,” afferma Jabr, riferendosi alle sue preoccupazioni sulla censura delle istituzioni più importanti riguardo al suo discorso. Spiega:

Vedo la resistenza come una risposta sana alla violenza della situazione e all’occupazione, in cui le persone sono soggette all’ingiustizia.”

Questa idea viene ripresa da varie voci palestinesi intervistate nel film, provenienti da una grande varietà di contesti dello spettro politico e ideologico.

Le interviste e le registrazioni dei miei articoli hanno richiesto molto tempo,” aggiunge Jabs, “ma sono soddisfatta del film.

Mi è piaciuto il modo in cui Dols ha reso i miei articoli dal punto di vista visivo. Li ha fatti leggere a me e ha proposto immagini e fotografie che li rendono più visibili e più evidenti, gli argomenti e le idee su cui avevo scritto.”

Avendo partecipato alla prima settimana di proiezioni in Francia, Jabr dice di aver trovato che il film è un grande strumento di discussione, aggiungendo che le reazioni sono state incoraggianti. “É’ un film di due ore, ma le persone sono rimaste altre due ore per discutere e fare domande,” afferma.

Alcuni operatori nel campo della salute mentale che erano presenti mi hanno messo in discussione riguardo alla neutralità e all’imparzialità,” continua. “Alcuni di loro se ne sono usciti con l’affermazione che avere delle convinzioni politiche non è professionale e ciò mi ha permesso di ragionare sulla responsabilità morale che ritengo necessaria e sull’importanza di comprendere il contesto…senza ignorare i conflitti intimi degli individui.”

In seguito alle proiezioni, Jabr ha ricevuto una lettera in cui uno spettatore le ha scritto che Israele deve volersi suicidare per aver consentito alla regista del film di entrare a Gerusalemme e a Jabr di andare all’estero per criticarlo. Ha parlato di questo scambio in un articolo scritto in seguito alla proiezione.

Il film è stato proiettato anche in Palestina ed è stato accettato al festival cinematografico “Giorni di Cinema” [che si tiene in Palestina, ndt.]. In seguito ha vinto il premio “Sunbird” [attribuito dallo stesso festival] come miglior documentario.

Anche il gruppo israeliano di operatori della salute mentale per i diritti umani “PsychoActive” ha ospitato una proiezione del film. “C’è stata ogni sorta di reazioni diverse,” afferma Jabr, “ma la prima reazione sono stati silenzio e tristezza.”

Mentre alcuni israeliani sono stati incoraggiati non solo a farsi un’idea dell’occupazione ma ad agire contro di essa, altri hanno accusato il film di essere di parte e di non presentare la prospettiva israeliana.

La regista ha chiarito fin dalla prima scena, in cui c’è una conversazione tra un israeliano e un palestinese, che aveva deciso di seguire la storia dei palestinesi,” spiega Jabr.

La salute mentale in Palestina

Cinquant’anni di occupazione hanno lasciato i palestinesi con una delle percentuali più alte di disturbi mentali in Medio Oriente, eppure i servizi di salute mentale continuano ad essere tra le aree con meno risorse a disposizione per le prestazioni sanitarie, con finanziamenti e personale insufficienti. “Queste carenze non sono solo influenzate dalla situazione sul terreno, ma anche dalla mentalità dei responsabili politici della sanità,” dice Jabr. “Ma, nonostante questi limiti, c’è stata una crescita in questa professione e stiamo facendo molto per migliorarla.”

Nella sua veste di responsabile dei servizi di salute mentale in Cisgiordania, Jabr sta cercando di sviluppare un modello di servizi che risponda alle risorse a disposizione. “Sto cercando di promuovere una gerarchia nei servizi, per cui dottori generalisti, infermieri e insegnanti possano fornire interventi a bassa intensità per appoggiare la resilienza e il benessere delle persone,” aggiunge, “per identificare quelli che hanno necessità di aiuto e indirizzare chi ha bisogno di interventi più specialistici al personale specializzato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 12- 25 marzo (due settimane)

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in cinque diversi contesti, sono stati uccisi sei palestinesi e due israeliani; pertanto il numero di palestinesi e israeliani uccisi nel corso di quest’anno sale rispettivamente a 16 e 3 [di seguito il dettaglio].

Il 17 marzo, al raccordo stradale che porta alla colonia di Ariel, vicino a Salfit, un palestinese ha ucciso un soldato e un colono israeliani; prima di fuggire, ha ferito un altro soldato israeliano nei pressi di un vicino incrocio. Dopo l’accaduto, le forze israeliane hanno avviato numerose operazioni di ricerca-arresto ed hanno dispiegato decine di posti di blocco volanti. Due giorni dopo, un’unità israeliana sotto copertura ha fatto irruzione in una casa nel villaggio di Abwein (Ramallah) in cui si nascondeva il presunto colpevole e lo hanno ucciso dopo uno scambio a fuoco. Durante le operazioni di ricerca-arresto, sono scoppiati scontri tra palestinesi e forze israeliane; otto palestinesi sono rimasti feriti nella stessa Abwein e altri 14 nella città di Salfit. Inoltre, in un precedente episodio accaduto il 12 marzo nella città di Salfit, un altro palestinese era stato ucciso, con arma da fuoco, dalle forze israeliane e 40 palestinesi erano rimasti feriti durante scontri scoppiati nel corso di un’operazione di ricerca-arresto. Nello stesso giorno, presso un checkpoint per l’accesso pedonale alla zona H2 di Hebron controllata da Israele, un palestinese di 41 anni è stato ucciso dalle forze israeliane di presidio: l’uomo avrebbe tentato di pugnalare un soldato israeliano (nel 2018, nella stessa zona H2, in accoltellamenti o tentati accoltellamenti, tre palestinesi furono uccisi dalle forze israeliane). Il 20 marzo, altri due palestinesi sono stati colpiti con arma da fuoco e uccisi in una zona in cui erano in corso scontri tra palestinesi e forze israeliane; queste ultime stavano scortando coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe, nella città di Nablus; nella circostanza anche un’ambulanza palestinese ha subito danni che le hanno impedito di raggiungere i feriti. In un altro episodio, accaduto il 20 marzo a Betlemme, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese e ferendone un altro; i due transitavano nelle vicinanze di una torretta militare ad un posto di controllo israeliano; non è chiaro perché i soldati abbiano aperto il fuoco.

Nella Striscia di Gaza, il 22 marzo, in due zone ad est di Gaza e di Al Bureij, in manifestazioni e scontri verificatisi lungo la recinzione perimetrale, due palestinesi sono stati uccisi e altri 350 sono rimasti feriti. Secondo fonti sanitarie palestinesi, 204 di tali feriti sono stati ricoverati in ospedale; tra questi, 93 presentavano ferite da armi da fuoco. In ulteriori proteste e attività riferibili alla “Grande Marcia di Ritorno”, un palestinese è stato ucciso nella zona di Beit Hanoun e altri 69 sono rimasti feriti: questi dati fanno riferimento alle dimostrazioni tenute sulla spiaggia, vicino alla recinzione perimetrale nella parte settentrionale di Gaza, oltre che al tentativo, da parte di una flottiglia di barche, di rompere il blocco navale e ad attività notturne presso la recinzione; nel corso di queste ultime sono stati lanciati ordigni esplosivi contro le forze israeliane. Le forze israeliane hanno lanciato un missile verso una postazione militare ed hanno sparato proiettili di carri armati contro un gruppo di persone che, a quanto riferito, stava lanciando palloni incendiari presso la recinzione: in queste due circostanze sono rimasti feriti altri quattordici palestinesi.

Il 14 marzo, per la prima volta dalle ostilità del 2014, due razzi lanciati dalla Striscia di Gaza hanno colpito Tel Aviv. In risposta, le forze aeree israeliane hanno attuato diversi attacchi aerei, prendendo di mira siti militari e aree aperte di Gaza; sono rimaste ferite quattro persone, tra cui un minore e due donne, una delle quali incinta; i bombardamenti hanno creato gravi danni. Secondo fonti militari israeliane, a Gaza sarebbero stati colpiti100 obiettivi.

Il 25 marzo, nell’area centrale di Israele, sette israeliani sono rimasti feriti ed una casa è stata danneggiata gravemente da un razzo lanciato da Gaza. In seguito a questo episodio, le autorità israeliane hanno chiuso i valichi di Kerem Shalom ed Erez fino a nuovo avviso, consentendo solo transiti di casi urgenti; la zona di pesca consentita è stata ridotta a zero miglia nautiche. Inoltre, l’aviazione israeliana ha colpito diverse località della Striscia di Gaza, tra cui edifici residenziali, uffici, siti militari e aree aperte; secondo i primi rapporti del Gruppo Ripari di Emergenza, due persone sono state ferite e sedici famiglie sono state sfollate, per un totale di 83 persone. Gruppi armati palestinesi hanno sparato decine di proiettili verso il sud di Israele, causando danni.

In situazioni non collegate a manifestazioni, ma contestuali all’applicazione delle restrizioni di accesso, in almeno nove occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento nelle aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa di Gaza; ferito un palestinese. In un’occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 75 palestinesi. Tra questi, 26 in due operazioni di ricerca-arresto nel Campo Profughi di Al Jalazoun a Ramallah e nella città di Salfit, rispettivamente il 15 e il 17 marzo. Complessivamente, [nel periodo di riferimento di questo Rapporto,] le forze israeliane hanno condotto 227 operazioni di ricerca-arresto, durante le quali sono state arrestate 200 persone. Il 20 marzo, altri 22 palestinesi sono stati feriti nella città di Al Bireh (Ramallah): protestavano contro l’uccisione di un palestinese, avvenuta il giorno prima ad Abwein [vedi sopra]. Inoltre, durante gli scontri verificatisi nell’area H2 di Hebron [vedi sopra], 20 studenti e cinque insegnanti hanno avuto bisogno di trattamento sanitario a seguito del lancio di lacrimogeni dentro la loro scuola da parte delle forze israeliane. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, sette palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti dalle forze israeliane dopo che una stazione di polizia situata nel Complesso della Moschea di Al Aqsa aveva subito danni a causa di un incendio che, a quanto riferito, sarebbe stato appiccato deliberatamente da palestinesi. Il Complesso è stato chiuso per un breve periodo. Complessivamente, quasi due terzi delle lesioni provocate negli scontri verificatisi nel periodo di riferimento sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche, il 25% da proiettili di gomma, l’8% da aggressioni fisiche e il 3% da armi da fuoco.

Vi è stato un aumento della violenza dei coloni; sarebbe da collegare all’uccisione dei due israeliani avvenuta il 17 marzo [vedi sopra]; attribuiti a coloni 13 episodi che hanno portato al ferimento di cinque palestinesi e danni a proprietà palestinesi. In due di tali episodi, avvenuti a Nablus e Jenin, coloni hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi in transito sulla Strada 60 e vicino alla colonia di Homesh, ferendo quattro palestinesi, inclusa una donna. Un’altra donna è stata aggredita fisicamente da coloni nella zona di Tel Rumeida a Hebron. In altri otto episodi, coloni hanno fatto irruzione nei villaggi di Burqa, Burin e Asira al Qibliya (Nablus), Kifl Haris (Salfit), Jinsafut (Qalqiliya), Saffarin (Tulkarm) e Battir (Betlemme), vandalizzando almeno 30 auto di palestinesi e causando danni a tre case. Altri 28 veicoli [palestinesi] sono stati vandalizzati da coloni nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est.

Sempre in Cisgiordania, per la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 25 strutture di proprietà palestinese, sei delle quali erano state donate; le demolizioni hanno costretto allo sfollamento 35 persone e più di 500 altre sono state coinvolte. Nove delle strutture sono state demolite in Area C, in cinque Comunità dei governatorati di Betlemme e Hebron; le rimanenti si trovavano a Gerusalemme Est. In un caso, nel quartiere di Shu’fat, le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare in costruzione; si trattava di un ampliamento di una scuola preesistente che, nel prossimo anno scolastico, avrebbe dovuto ospitare 450 studenti.

Secondo quanto riportato da media israeliani, in due episodi, palestinesi hanno causato danni a tre veicoli appartenenti a coloni israeliani [di seguito il dettaglio]. Il 20 marzo, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiavano nei pressi del villaggio di Beit Sira (Ramallah), causando danni a due auto; nello stesso giorno hanno lanciato pietre contro la metropolitana leggera a Shu’fat (Gerusalemme).

Secondo gruppi per i Diritti Umani, tra il 14 e il 18 marzo, nel corso di proteste a Gaza, centinaia di persone sono state arrestate e altre sono state aggredite fisicamente e ferite dalle forze di Hamas. Le manifestazioni erano state organizzate contro le condizioni disastrose e l’alto costo della vita ed hanno visto l’incendio di pneumatici, la costruzione di barricate, il lancio di pietre e scontri con le forze di Hamas.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è rimasto aperto in entrambe le direzioni per sette giorni e in una sola direzione per altri due giorni, per consentire l’uscita dei pellegrini. Un totale di 2.635 persone sono entrate a Gaza, tra cui 641 pellegrini, e ne sono uscite altre 3.714, tra cui 1.539 pellegrini.

Ultimi sviluppi

Nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele si è registrata una significativa intensificazione delle ostilità: questo dopo che, il 25 marzo, da Gaza era stato lanciato un razzo che ha danneggiato gravemente una abitazione nell’area centrale di Israele ed ha ferito sette israeliani [vedi soprastante Rapporto]. Nonostante le segnalazioni di un cessate il fuoco negoziato dall’Egitto, le ostilità sono proseguite durante la notte del 26 marzo; dal 27 marzo pare subentrata una relativa calma.

Nelle prime ore del mattino del 27 marzo, durante scontri nel Campo Profughi di Duheisheh (Betlemme), un 18enne palestinese, in servizio sanitario volontario, è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




‘Il nostro popolo non cederà’: Gaza celebra l’anniversario delle proteste

Rana Shubair e Maram Humaid

30 marzo 2019, Al Jazeera

Quattro persone uccise, centinaia ferite dalle forze israeliane che utilizzano proiettili veri e gas lacrimogeni contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno

Decine di migliaia di palestinesi si sono radunati alla barriera tra Israele e Gaza per celebrare il primo anniversario delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, affrontando i carri armati e le truppe israeliane ammassati lungo il perimetro fortificato.

Secondo fonti del ministero della Salute di Gaza, sabato le forze israeliane hanno impiegato proiettili veri, pallottole rivestite di gomma e gas lacrimogeni contro i manifestanti, uccidendo tre diciassettenni e ferendo almeno 207 persone.

Tamer Aby el-Khair è stato colpito al petto ad est di Khan Younis nel sud di Gaza ed è morto in ospedale, ha comunicato il ministero. Il secondo ragazzo, Adham Amara, è deceduto dopo essere stato colpito al volto ad est di Gaza City.

Il terzo, Belal al-Najjar, secondo funzionari di Gaza è stato ucciso da un colpo di fucile israeliano. Un quarto palestinese, identificato come il ventenne Mohamed Jihad Saad, è stato ucciso durante una protesta nella notte precedente alla manifestazione principale.

I palestinesi chiedono il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie furono espulse con la forza durante la creazione di Israele nel 1948. Chiedono anche la fine dell’assedio israeliano ed egiziano a Gaza che dura da 12 anni.

Marceremo verso il confine anche se moriremo”, ha detto Yusef Ziyada, di 21 anni, con il volto dipinto coi colori della bandiera palestinese. “Non ce ne andremo. Ritorneremo nella nostra terra.” Nonostante la forte pioggia, circa 40.000 persone si sono radunate nella zona di confine, ha detto l’esercito israeliano.

[Ashraf Amra/Anadolu]

La maggior parte dei manifestanti si è tenuta lontana dalla barriera, ma alcuni hanno lanciato pietre e ordigni esplosivi verso la struttura e hanno incendiato copertoni, ha dichiarato l’esercito, aggiungendo di aver reagito con “mezzi antisommossa e spari, conformemente alle procedure operative standard.”

Descrivendo la marcia come “del tutto pacifica”, Mohammed Ridwan, un manifestante di 34 anni che lavora in un gruppo di esperti a Gaza, ha detto a Al Jazeera che l’enorme affluenza di sabato è stata “una chiara dimostrazione che il nostro popolo non tornerà indietro fino a che non otterrà i propri legittimi diritti.”

Bahaa Abu Shammal, un attivista ventiseienne, ha detto che si trovava nel luogo della protesta “a grande distanza dalla barriera di separazione”, eppure è stato quasi “soffocato dai gas lacrimogeni israeliani”.

Ha detto ad Al Jazeera: “Dobbiamo rompere il brutale assedio che stiamo subendo. Vogliamo tornare nelle nostre terre occupate.”

Minori uccisi’

L’anno scorso la barriera è stata teatro di proteste di massa e di una grande carneficina in cui sono stati uccisi più di 260 palestinesi, soprattutto dal fuoco di cecchini. Secondo il ministero della Salute di Gaza circa altri 7000 sono stati colpiti e feriti.

L’associazione per i diritti Save the Children ha dichiarato che tra gli uccisi vi sono 50 minori. Altri 21 adolescenti hanno avuto le gambe amputate e molti altri sono stati resi disabili permanenti, ha detto il direttore regionale dell’associazione, Jeremy Stoner.

Giovedì, esprimendo profonda preoccupazione per la morte dei ragazzini palestinesi, Stoner ha detto: “Temiamo che oggi altri minorenni potrebbero essere feriti o uccisi.”

La tregua tra Hamas e Israele

L’anniversario della Grande Marcia del Ritorno cade a pochi giorni di distanza da un grave scoppio di violenze tra Israele e Hamas, che governa Gaza. L’Egitto ha cercato di mediare tra le due parti nel tentativo di frenare le violenze ed evitare il tipo di risposta letale da parte dell’esercito israeliano che ha accompagnato le precedenti proteste.

Harry Fawcett di Al Jazeera, citando il giornale al-Risalah legato a Hamas, ha detto che l’organizzazione ha raggiunto un accordo con Israele per ridurre le tensioni nella Striscia di Gaza.

Secondo il giornale al-Risalah, le concessioni israeliane comprendono l’aumento del finanziamento del Qatar da 15 a 40 milioni di dollari al mese per il pagamento dei salari; l’estensione della zona di pesca da 9 a 12 miglia nautiche; l’incremento della fornitura di elettricità da Israele a Gaza; l’approvazione di un importante progetto di desalinizzazione”, ha detto Fawcett, che scrive da una zona a est di Gaza City.

In cambio, Israele ha chiesto lo stop al lancio di razzi, come quello che lunedì ha distrutto la casa di una famiglia a nord di Tel Aviv, ferendo sette persone e scatenando una nuova escalation.”

Abdullatif al-Kanoo, un portavoce di Hamas, ha confermato questo accordo, dicendo che i mediatori egiziani “sono riusciti ad ottenere l’approvazione” di Israele all’alleggerimento delle restrizioni sul lavoro, la pesca, l’elettricità e gli aiuti dal Qatar.

Nei prossimi giorni verrà stabilito un calendario per l’attuazione di quanto è stato concordato”, ha detto ad Al-Jazeera.

Nel frattempo, alla vigilia delle proteste per l’anniversario, gli organizzatori hanno diffuso istruzioni ai manifestanti invitandoli a tenersi a distanza di sicurezza dai fucili israeliani, a seguire le indicazioni degli organizzatori sul campo, ad astenersi da azioni aggressive e a non bruciare copertoni, una mossa considerata un segnale che l’accordo mediato dall’Egitto potrebbe essere rispettato.

I funzionari della sicurezza di Hamas sul luogo della protesta sono stati visti indossare per la prima volta uniformi militari, mentre raccoglievano le gomme e le portavano via.

Sembra che siano qui per rafforzare l’accordo, per assicurare che nessuno dia fuoco a queste gomme”, ha detto Fawcett.

Israele, che ha inviato altre truppe e carri armati al confine, vuole anche la fine dei lanci degli aquiloni incendiari e la garanzia di calma vicino alla barriera.

Non vi è stato alcun commento da parte israeliana al presunto accordo.

Tra quanti anni le nostre vite saranno migliori?

Le proteste della Grande Marcia del Ritorno sono iniziate il 30 marzo dell’anno scorso dopo che le associazioni della società civile a Gaza hanno chiamato ad un’azione contro il durissimo assedio di 12 anni contro l’enclave.

Le agenzie umanitarie accusano l’assedio di aver impoverito Gaza, dove i tassi di povertà e di disoccupazione sono alti. Secondo le Nazioni Unite più del 90% dell’acqua non è potabile, mentre i due milioni di abitanti di Gaza ricevono meno di 12 ore di elettricità al giorno.

Il 30 marzo segna anche il Giorno della Terra – la commemorazione annuale della morte nel 1976 di sei palestinesi che protestavano contro la confisca della loro terra per costruire comunità ebraiche.

Entro un anno finirò la scuola. Mio padre è disoccupato, per cui non potrò andare all’università. Chi ne è responsabile? Israele”, ha detto il manifestante Mohammed Ali, di 16 anni. “Non so quanti anni ci vorranno prima che le nostre vite migliorino, ma continueremo (le proteste) fino a quando ci saranno l’occupazione e l’assedio”, ha detto all’agenzia di stampa Reuters. L’uso di forza letale da parte di Israele contro i manifestanti è stato censurato dalle Nazioni Unite e dalle associazioni per i diritti.

Un’indagine dell’ONU ha riscontrato che, mentre alcuni dimostranti hanno usato la violenza, la grande maggioranza era disarmata e pacifica. Essa afferma che le forze israeliane potrebbero essere incolpate di crimini di guerra per l’uso eccessivo della forza.

Tutti gli israeliani devono sapere che, se sarà necessaria una campagna [militare] complessiva, noi la condurremo con forza e in sicurezza e dopo aver esaurito tutte le altre opzioni”, ha detto Netanyahu. Anche Hamas è sotto pressione politica interna.

All’inizio del mese, invece di andare al confine, i manifestanti sono scesi in piazza contro gli aumenti dei prezzi e delle tasse. Le forze di sicurezza di Hamas hanno represso le manifestazioni con pestaggi e arresti.

Al centro di queste proteste c’era lo stesso senso di frustrazione che da un anno ha spinto migliaia di persone sul confine, settimana dopo settimana.

Rana Shubair e Maram Humaid hanno contribuito al reportage da Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza oggi. Ancora sangue sulla Grande Marcia

Patrizia Cecconi

30 marzo 2019, L’Antidiplomatico

Oggi in Palestina è la Giornata della Terra, cioè la ricorrenza di una delle tante stragi impunite commesse da Israele contro un gruppo di palestinesi che tentavano di opporsi a un ulteriore furto delle loro terre in “alta Galilea”. Una giornata celebrativa che a Gaza coincide con il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno. Una giornata che potrebbe essere una carneficina come molti temono e i cui esiti non saranno importanti solo per Gaza ma, ci dicono più voci, per il futuro del Medio Oriente perché Gaza, pur sotto assedio e forse proprio perché sott’assedio, è diventata una “piazza” speciale, su cui arrivano e da cui partono messaggi politicamente complessi . Questo si diceva stamattina quando il sole si era appena levato e si discuteva di ciò che sarebbe stato.

Verso le 10 di questa stamattina, quando la marcia non era ancora cominciata, già si contava il primo martire. Mohammad J. Saad, 20 anni, ucciso da una granata alla testa nell’accampamento di Malaka nella zona centrale della Striscia. Lo stesso accampamento dove qualche mese fa, in uno dei venerdì della marcia, Taaghreed in un bellissimo abito bianco e Ahmad in elegante abito scuro decisero di sposarsi dando al loro gesto il significato altamente simbolico di partecipazione al sogno comune di libertà e di riconoscimento del diritto al ritorno nella loro terra. Era diversi mesi fa, e da allora sulla sabbia di Malaka, come su quella degli altri quattro accampamenti delle tende del ritorno, non sono più caduti confetti ma sangue.

Sempre a Malaka, nel pomeriggio, c’è stato il secondo omicidio. Un lacrimogeno – sparatogli in bocca come già successo per altri martire nei mesi scorsi – ha stroncato la vita di Adhan Nedal Saqr Amara, 17 anni, altri sogni spezzati prima ancora di raggiungere la maggiore età. Abbiamo ragione di supporre che non si tratti di errori ma del sadismo di chi sa di essere impunito perché protetto dal potere di quelle stesse lobby che garantiscono furti e o regali di terre altrui allo Stato ebraico.

La Marcia sta concludendosi e si tirano le somme. Due martiri e 112 feriti ospedalizzati secondo i dati ufficiali del Ministero della Salute, di questi circa la metà seriamente intossicati dai nuovi lacrimogeni usati da Israele che, come si sa, usa Gaza anche come laboratorio di sperimentazione delle sue armi. Questi nuovi lacrimogeni, uno dei quali ha ucciso il giovane Adhan, non sembra abbiano provocato convulsioni come altri usati precedentemente, ma violenta irritazione agli occhi e serie difficoltà di respirazione ottenendo più facilmente la dispersione dei manifestanti.

Tra le azioni di cui i manifestanti vanno fieri c’è quella di un gruppo di giovani che a Khan Younis ha sfidato la morte per andare a issare la bandiera palestinese sulla recinzione che definisce l’assedio. Piccola cosa dirà qualcuno, certo che è piccola cosa, ma grande simbolo, significa che pur in questa situazione, dove si sa che si può cadere come sagome di un tirassegno, c’è qualcosa che resiste alla legittima paura, qualcosa che i palestinesi chiamano al karameh, cioè sentimento di dignità. Quella che non permette ai gruppi di resistenti, con e senza orientamenti partitici, di accettare le concessioni fatte da Israele grazie alla mediazione egiziana. “Concessioni” e non riconoscimento di diritti dovuti, ciò per cui Gaza manifesta dal 30 marzo dello scorso anno.

I dirigenti di Hamas hanno partecipato alle manifestazioni di oggi in compagnia della delegazione egiziana. Il messaggio sembrerebbe chiaro ma le interpretazioni di natura politica in questo spicchio di mondo non sono mai lineari. Ci dicono alcuni gazawi che questo voleva significare che Hamas intende accettare l’invito a spegnere gradualmente la marcia con le rivendicazioni che l’hanno fatta nascere. Altri dicono che è una partita che Hamas sta giocando per non essere messo all’angolo e per garantire il miglioramento delle condizioni di vita veramente penose di una parte della popolazione gazawa ed evitare altre manifestazioni di malcontento popolare. Comunque, come ci hanno già detto ieri attivisti, medici, giornalisti e cittadini “qualunque” tutte le concessioni ottenute dalla delegazione egiziana sono interne alla logica dell’assediante. Non dovrebbero essere concessioni ma diritti che già spettano ai gazawi e che Israele non riconosce. Non è questo che vogliono i gazawi e lo hanno ben spiegato con la loro presenza al border i 30 – 40 mila che hanno sfidato i mezzi corazzati schierati in massa lungo la recinzione e i tiratori scelti dislocati lungo tutta la linea dell’assedio.

Rispetto alle previsioni di ieri le cose sono andate meglio del previsto. 112 feriti non sono cosa da niente, ma si temeva di peggio, si temeva la pesante carneficina che avrebbe potuto far scattare la reazione che da più parti si ipotizzava. Gli ospedali erano allertati e i timori espressi dal dr. Said dell’Al Awda Hospital e dal dr. Raed dell’UHCC che temevano di trovarsi nuovamente a soccorrere centinaia di feriti senza averne i mezzi , per fortuna sono stati fugati. I 112 feriti sono stati dislocati in 5 ospedali da nord a sud della Striscia e il Ministero della Salute ha comunicato che tra loro ci sono ben 26 bambini, un paio di giornalisti e due soccorritori e che anche un’ambulanza è stata danneggiata. Tutte cosucce che si configurano come pesanti violazioni del Diritto universale ma che in pochi si illudono che porteranno Israele sul banco degli imputati.

Ora che la giornata si è conclusa si aspettano le conseguenze politiche di quest’ultima manifestazione. Una cosa è chiara e ci è stata ripetuta da tante persone che oggi, pur non seguendo alcuna fazione politica, sono andate al border convinte di dover rischiare: i palestinesi di Gaza, per quanto coraggiosi e un po’ folli, non vanno a farsi ammazzare per nessun partito ma per quell’idea che ha dato il via alla marcia a partire dalle riflessioni di Abu Hartema, un po’ poeta, un po’ utopista, che si sono allargate a macchia d’olio e che, nonostante i tentativi di controllo e direzione di Hamas, restano la spina dorsale della Grande marcia la quale, al momento, non si sa come si evolverà e se si evolverà. Le valutazioni che emergono in proposito sono diverse. ma qui tutto e è estremamente variabile e ora la parola passa alla sfera istituzionale. I gazawi vogliono la libertà e il diritto al ritorno. Accetteranno le concessioni ottenute grazie all’Egitto nel caso in cui le istituzioni locali, ovvero Hamas, le accettasse?

I gazawi non sono Hamas, e i prossimi giorni si capirà se la Marcia si sarà chiusa come si chiuse la prima intifada nel 1993 o se i diritti irrinunciabili per cui circa 270 martiri hanno perso la vita sono ancora irrinunciabili e nessun accordo li metterà all’angolo.

Patrizia Cecconi

Betlemme 30 marzo 2019




Dall’ispirazione alla disperazione: un anno della Grande Marcia del Ritorno

Yara Hawari

30 marzo 2019 Middle East Eye

Come il sogno dei palestinesi di tornare a casa, Gaza è diventata sinonimo di guerra, morte e sofferenza

Lo scorso mese un quattordicenne palestinese di Gaza, Hasan Shalabi, è stato mortalmente colpito al petto da un cecchino israeliano. Stava cercando lavoro e cibo per la sua famiglia quando è diventato uno delle decine di ragazzini uccisi dall’esercito israeliano durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Le manifestazioni presso la barriera israeliana che rinchiude il territorio sono iniziate il 30 marzo 2018 per commemorare il Giorno della Terra, che ricorda un episodio del 1976, quando la polizia israeliana sparò e uccise sei cittadini palestinesi di Israele che stavano protestando contro l’esproprio di centinaia di ettari di terra palestinese.

Da allora la data è stata celebrata per sottolineare il rapporto tra la resistenza palestinese e la sua terra. Lo scorso anno a Gaza la data è stata anche utilizzata per evidenziare il diritto palestinese al ritorno.

Occupazione e assedio

La maggior parte dei due milioni di palestinesi di Gaza è composta da discendenti dei rifugiati espulsi dalle loro case nel 1948. Molti vivono a pochi chilometri dai loro villaggi d’origine. La Grande Marcia del Ritorno è iniziata dopo un appello della società civile di partecipare a una marcia di massa verso la barriera israeliana. Decine di migliaia di persone hanno risposto all’appello, marciando in nome del ritorno, ma anche in risposta a decenni di occupazione e di continuo assedio di Gaza.

Le immagini e i video di quel primo giorno sono state entusiasmanti, ricordavano altre marce del ritorno, quando i palestinesi hanno cercato di sfidare i confini coloniali. Una delle più importanti è stata nel maggio 2011, quando centinaia di palestinesi rifugiati in Siria marciarono verso la barriera che divide la Siria dalla città di Majdal Shams, sulle Alture del Golan, occupata da Israele.

Molti manifestanti oltrepassarono la barriera, ignorando gli avvertimenti sulla presenza di mine e riuscirono a rompere temporaneamente la loro forzata separazione. Un uomo, Hassan Hijazi di Giaffa, fece centinaia di chilometri fino alla città costiera prima di consegnarsi alle autorità israeliane. “Era il mio sogno arrivare a Giaffa perché è la mia città,” disse in seguito. “Ma pensavo che se fossi riuscito a farlo sarebbe stato con una marcia di un milione di persone.”

Un sogno collettivo

Questo sogno di rompere i confini coloniali di Israele ha dominato l’immaginazione di molti palestinesi. È un sogno di ritorno collettivo. Come ha chiesto l’organizzatore della Grande Marcia del Ritorno Ahmed Abu Artema: “E se 200.000 manifestanti marciassero pacificamente e attraversassero la barriera a est di Gaza ed entrassero per qualche chilometro nelle terre che sono nostre, portando le bandiere della Palestina e le chiavi del ritorno, accompagnati dai media internazionali, e poi vi piazzassero delle tende e costruissero una città lì?”

Sfortunatamente nel corso dell’anno passato alla domanda è stata data una risposta brutale, mentre le proteste nei pressi della barriera di Gaza sono continuate in modo costante. Più di 200 palestinesi sono stati uccisi e altre migliaia feriti dalle forze israeliane.

Un rapporto dell’ONU presentato a Ginevra questo mese ha accertato che “i soldati israeliani hanno commesso violazioni delle leggi per i diritti umani e umanitarie internazionali. Alcune di queste violazioni possono rappresentare crimini di guerra o crimini contro l’umanità.” Il rapporto dettaglia specifiche morti, ma anche esempi di ferite che hanno cambiato la vita [delle vittime], comprese molte amputazioni.

L’entità di quello che è stato inflitto a Gaza nello scorso anno è grande, soprattutto nel contesto del durissimo assedio israeliano – eppure il rapporto dell’ONU non ha fatto scalpore a livello internazionale. Gaza è diventata sinonimo di guerra, morte e sofferenza; la precarietà della vita lì è diventata un fatto accettato in tutto il mondo.

Inquadrare la violenza

In “Contesti di guerra” l’autrice, Judith Butler, lo spiega esaminando la “vita che può essere afflitta”, e sostiene che in certi contesti alcune vite non sono considerate perdute se fin dall’inizio non sono intese come vite. Le continue distruzioni e violenze inflitte a Gaza dal regime israeliano l’hanno a tal punto collocata in una simile cornice che la perdita della vita è stata normalizzata.

A un anno di distanza le proteste della Grande Marcia del Ritorno sono diventate una manifestazione di estrema disperazione. Gli effetti dell’assedio e dell’occupazione hanno ridotto più di metà dei palestinesi di Gaza a vivere in povertà estrema, molti in gravi condizioni di salute mentale e fisica. Com’è noto, un rapporto ONU ha stabilito che Gaza sarà invivibile entro il 2020, citando la distruzione di infrastrutture e la catastrofe ambientale in corso. Eppure, in base alla maggior parte dei parametri, Gaza è invivibile da molto tempo – una cosa che motiva molti dei manifestanti, nonostante le alte percentuali di ferite o di morte. Questa vita invivibile è ciò che ha portato Hasan Shalabi a protestare lo scorso mese.

Finché continuerà la disperazione a Gaza, lo farà anche il sogno di tornare a casa. Tuttavia l’anno che è passato ha dimostrato che i costi saranno alti – soprattutto se Israele continuerà a violare senza conseguenze i diritti dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Sparare per menomare”: come Israele ha creato una generazione con le stampelle a Gaza

Dania Akkad

29 marzo 2019, Middle East Eye

Medici dicono a MEE che le ferite invalidanti, soprattutto agli arti inferiori, dei manifestanti palestinesi sono state inflitte deliberatamente.

Medici in prima linea hanno detto a Middle East Eye che cecchini israeliani hanno intenzionalmente mutilato palestinesi che protestavano a Gaza lo scorso anno, creando una generazione di giovani disabili e sconvolgendo il già disastrato sistema sanitario del territorio.

Secondo l’inchiesta delle Nazioni Unite resa pubblica questo mese, oltre l’80% dei 6.106 manifestanti della Grande Marcia del Ritorno feriti nei primi nove mesi è stato colpito agli arti inferiori.

Il rapporto ne conclude che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato a civili e potrebbero aver commesso crimini di guerra con la loro durissima risposta alle proteste tenutesi periodicamente a Gaza dal 30 marzo 2018.

Operatori sanitari affermano che le caratteristiche ricorrenti delle ferite mostrano che i soldati israeliani hanno intenzionalmente sparato per menomare i manifestanti, molti dei quali sono giovani ventenni e ora hanno necessità di cure mediche a lungo termine.

“Il soldato sa esattamente dove sta sparando il proiettile. Non è casuale. È del tutto intenzionale, è decisamente pianificato,” dice Ghassan Abu Sitta, professore di chirurgia dell’Università Americana di Beirut (UAB), che lo scorso maggio per tre settimane ha curato manifestanti feriti all’ospedale Al-Awad di Gaza.

“Quando hai un numero così alto di ferite praticamente identiche, quando molti pazienti erano a 150 metri di distanza, non a diretto contatto con i soldati israeliani, ti rendi conto che questa è una politica intenzionale piuttosto che un danno involontario,” dice a MEE Abu Sitta.

Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di Medici senza Frontiere (MSF) concorda: “È ovvio. Quando hai quasi il 90% di persone ferite agli arti inferiori, significa che c’è la decisione politica di prendere di mira gli arti inferiori,” afferma.

MEE ha chiesto all’esercito israeliano se i soldati hanno intenzionalmente ferito i manifestanti. Sottolineando le condizioni nelle quali i soldati operano – che includono il fatto di essere sotto tiro, i tentativi dei manifestanti di entrare in Israele, i copertoni bruciati, il lancio di pietre e di bottiglie molotov – un portavoce ha detto a MEE via posta elettronica: “”L’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] usa proiettili veri solo come ultima risorsa e in base a regole che rispettano le leggi internazionali.” Il portavoce ha anche indicato a MEE una pagina di “Domande Frequenti” [nel sito dell’IDF, ndt.] sulle proteste.

Tra i più di 6.000 palestinesi feriti ci sono un calciatore la cui carriera è finita, uno studente di giornalismo a cui è stata amputata la gamba destra e una studentessa di 16 anni che quando è stata colpita stava sventolando una bandiera palestinese.

Secondo gli ultimi dati del ministero della Sanità di Gaza almeno 136 di loro hanno subito l’amputazione di arti, 122 dei quali solo agli arti inferiori.

Ma i dati non danno il quadro completo delle difficoltà che i manifestanti feriti, che soffrono di lesioni dolorose, e i loro familiari devono affrontare, in quanto la grande maggioranza vive in povertà, dice Bassem Naim, che è stato ministro della Sanità di Gaza dal 2006 al 2012.

“Sinceramente è una catastrofe. Molti dei feriti rimarranno per sempre disabili,” dice Naim. “Portarli da casa all’ospedale ogni giorno per la riabilitazione o le cure? È un onere veramente pesante.”

“Vivo al nono piano e praticamente ogni giorno non c’è elettricità da dodici a sedici ore. Si può immaginare cosa vuol dire per un giovane senza una gamba?”

Non è cambiata solo la vita di migliaia di manifestanti e delle loro famiglie, ma anche il sistema sanitario di Gaza in difficoltà è sottoposto a forti tensioni in seguito alle cure intensive necessarie per il trattamento delle ferite alle gambe.

Il personale sanitario teme che, con manifestazioni di massa previste questo fine settimana per commemorare un anno dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, il collasso del sistema possa essere imminente.

Caratteristiche ricorrenti delle ferite

Il 30 marzo 2018 decine di migliaia di palestinesi hanno protestato lungo il confine di 65 km con Israele, rivendicando il diritto di tornare alle case da cui le loro famiglie scapparono nel 1948 e la fine dell’assedio di 11 anni contro il territorio costiero palestinese.

Praticamente appena le proteste sono iniziate, i soldati israeliani hanno cominciato a sparare ai manifestanti a corta distanza con fucili di precisione. Alla fine di quel primo giorno di proteste sono rimasti uccisi 16 palestinesi e almeno altri 400 sono stati feriti da colpi di arma da fuoco.

Da allora quella che era prevista come una campagna di sei settimane si è prolungata per un anno, durante il quale almeno 197 palestinesi sono stati uccisi e 29.000 feriti. Secondo l’ONU nello stesso periodo due israeliani sono rimasti uccisi e 56 feriti.

Uno ogni quattro palestinesi feriti è stato colpito con proiettili veri, e la grande maggioranza alle gambe.

Uno di loro è stato il trentunenne Mohammed al-Akhras.

Akhras, che lavorava come fabbro, dice di aver deciso di unirsi alle proteste in seguito al fatto di essere stato torturato durante sei anni di detenzione in prigioni israeliane.

Quando le forze israeliane lo hanno arrestato e accusato di essere coinvolto in operazioni militari con fazioni armate palestinesi aveva 19 anni e stava cacciando uccelli sul confine orientale di Rafah, nel sud di Gaza.

È stato rilasciato nel 2013, ma il vivo ricordo e la frustrazione derivanti dal suo arresto e dalla sua detenzione lo hanno spinto a manifestare, dice.

Akhras racconta che il 18 maggio stava protestando come altri attorno a lui e non stava facendo niente di speciale quando due proiettili esplosivi – che scoppiano all’impatto squarciando i tessuti e le ossa – hanno colpito la sua gamba sinistra.

Aveva bisogno di un’operazione urgente, ma ci sono voluti due mesi prima che potesse essere operato – in Egitto.

Le autorità israeliane non gli hanno consentito di viaggiare attraverso il valico di Erez per essere operato in Giordania a causa del fatto che in precedenza era stato un detenuto.

“Dopo vari tentativi sono riuscito a andare in Egitto, e dopo che la tumefazione della mia gamba ha raggiunto il punto limite,” dice. A quel punto i dottori sono stati obbligati ad amputarla.

Secondo il rapporto dell’ONU e come sottolineato dal portavoce dell’esercito israeliano, le regole d’ingaggio delle forze di sicurezza israeliane consentono ai soldati di sparare ai manifestanti “come ultima risorsa nel caso di imminente pericolo di vita o di ferite di soldati o civili israeliani.”

Ma medici internazionali e palestinesi che hanno parlato con MEE affermano di aver visto colpire manifestanti anche quando questi non minacciavano i soldati.

L’ex ministro della Sanità di Gaza Naim dice di essere stato presente alla protesta l’8 febbraio con suo figlio di 14 anni e un gruppo di amici. Lì vicino un amico del ragazzo stava masticando semi di girasole e guardando la manifestazione a circa 100 o 150 metri dalla barriera con Israele.

“Improvvisamente hanno visto un ragazzino che cadeva, e quando sono corsi da lui lo hanno trovato in una pozza di sangue ed era stato colpito al collo,” dice.

“Ti posso mandare ore di video di attività culturali (durante le proteste) e al contempo vedrai qualcuno, soprattutto giovani, che cercano di lanciare pietre o di attraversare la barriera. Bene, ma posso dire che nel 99,9% dei casi non c’era alcuna minaccia per i soldati.”

Pur non essendo più direttamente coinvolto in campo medico, Naim sostiene di credere che i soldati israeliani abbiano intenzionalmente mutilato manifestanti – sia in base a quello che ha visto durante le manifestazioni di quest’anno che alla sua esperienza come medico durante la Seconda Intifada.

Durante quella rivolta all’inizio degli anni 2000, quando lavorava all’ospedale Naser di Khan Younis, Naim dice che c’erano evidenti caratteristiche costanti delle ferite inflitte dai cecchini israeliani.

“Un giorno c’erano solo gambe, un altro solo glutei, un terzo giorno solo toraci,” dice.

“Se vogliono spezzare la forza di volontà di un popolo, allora sparano con l’obiettivo di uccidere. Ma a volte, se non vogliono che le cose sfuggano al controllo, sparano, ma cercano di evitare di uccidere persone colpendo le gambe, le mani.”

Naim crede che i cecchini abbiano utilizzato, circa due decenni dopo, la stessa precisione ora sulla frontiera di Gaza.

“Ne posso essere certo perché alcuni venerdì ci sono uno, due o tre martiri, e a volte ce ne sono 50 o 25, perché vogliono esercitare più pressione,” dice.

Sistema sanitario al collasso

Oltre alle crescenti questioni sconvolgenti riguardo alle tattiche dell’esercito israeliano, la Grande Marcia del Ritorno ha messo sotto rinnovata pressione il sistema sanitario in difficoltà, in quanto migliaia di manifestanti feriti vi sono regolarmente portati per cure urgenti.

Il dottor Medhat Abbas, direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza City, descrive il 14 maggio dello scorso anno come uno dei giorni peggiori che l’ospedale abbia mai vissuto.

Ore dopo che il presidente USA Donald Trump aveva aperto la nuova ambasciata USA a Gerusalemme e sono scoppiate manifestazioni di rabbia in seguito al suo spostamento, sono arrivati all’Al-Shifa circa 500 palestinesi feriti, quasi quanti ne può ospitare l’ospedale, con 760 letti.

I pazienti giacevano a terra e nei corridoi mentre i chirurghi, troppo pochi e con mezzi insufficienti, hanno lavorato 24 ore al giorno in tutte le 14 sale operatorie dell’ospedale.

“È stata una giornata nera nel ricordo dei palestinesi,” dice Abbas a MEE, rispondendo alle domande con messaggi registrati di WhatsApp nelle ore più strane, troppo impegnato per un’intervista telefonica.

Nel campo di rifugiati d Jabaliya Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut, lavorava all’ospedale Al-Awda proprio perché era uno dei principali luoghi della manifestazione.

“Sapevamo che quel numero [di pazienti] che vedevamo ogni venerdì sarebbe aumentato il giorno dello spostamento dell’ambasciata,” dice.

Non era solo lo Shifa ad essere sovraffollato: tra le 16 e le 20 di quel giorno 3.400 manifestanti vennero feriti, 1.000 in più del numero totale dei letti negli ospedali di Gaza, dice Abu Sitta.

Alla fine della giornata 68 persone erano state uccise o avevano subito ferite mortali a causa delle quali in seguito sono decedute.

Il sistema sanitario di Gaza era già indebolito in seguito all’assedio di 11 anni che ha limitato l’afflusso nel territorio di apparecchiature mediche, rifornimenti e medici, in particolare quelli specializzati in chirurgia.

Ma l’alto numero di vittime in giorni come il 30 marzo o il 14 maggio ha lasciato negli ospedali di Gaza un peso duraturo. Ferite da arma da fuoco alle gambe, soprattutto quelle provocate da pallottole dei cecchini sparate a corta distanza, possono richiedere fino a nove interventi chirurgici per essere curate, dice Abu Sitta.

Cosa succede quando proiettili di cecchini colpiscono le gambe

Il danno provocato da un proiettile dipende dalla velocità alla quale si muove la pallottola, con la velocità cinetica che si trasferisce ai tessuti, dice Ghassan Abu Sitta, docente di chirurgia all’Università Americana di Beirut.

“Quando usi un fucile di precisione – che è un fucile da guerra ad alta velocità – si tratta del proiettile più veloce che ci sia perché può percorrere fino a 3 km,” afferma.

“Perciò quando spari a qualcuno a 50 o 100 metri, la maggioranza dell’energia cinetica è ancora nel proiettile.”

Secondo Medici Senza Frontiere, in metà dei casi di ferite alle gambe che hanno trattato a Gaza dallo scorso marzo, i pazienti avevano fratture esposte complicate, cioè l’osso è esposto all’aria e c’è il rischio che si infetti.

Molti hanno anche gravissimi danni ai tessuti e ai nervi e perdono parti importanti delle ossa delle gambe.

Un medico di MSF dice che in metà dei casi che ha visto l’osso “era letteralmente polverizzato”.

Questo tipo di ferite richiede una serie di interventi chirurgici, a volte fino a nove, dice Abu Sitta.

“Ciò significa mesi e forse anni di cure. Quindi ciò vuol dire che hanno molto dolore, stanno soffrendo molto,” afferma Marie-Elisabeth Ingres, capo missione di MSF a Gerusalemme.

La maggioranza di quelli che sono feriti avranno effetti collaterali per il resto della loro vita, compresi irrigidimento degli arti, paralisi e, per alcuni, amputazione.

“Pensi al numero di interventi chirurgici ortopedici e plastici necessari per fare una chirurgia ricostruttiva sull’80% dei 6.500 (pazienti feriti),” afferma.

“Supera le capacità di risorse umane di Gaza. Supera il numero di ore di sala operatoria a disposizione, in termini di materiali, di medicazioni, di riabilitazione. E lo scopo è di sovraccaricare totalmente il sistema. C’è l’intenzionalità di menomare.”

Se i medici non possono spostarsi rapidamente per aiutare i feriti, questi possono patire complicazioni per il resto della loro vita, dice Ingres di MSF.

“Siamo in difficoltà perché temiamo che, se non si reagisce con sufficiente impegno, migliaia di persone potrebbero rimanere disabili,” sostiene.

“Già 200 persone hanno subito amputazioni, e se non siamo in grado di curarle domani, cioè tra i giovani, molti di loro saranno disabili perché non siamo riusciti a salvare le loro gambe, e ciò si potrebbe fare.”

Le ferite alle gambe hanno anche suscitato preoccupazioni riguardo alla resistenza agli antibiotici a Gaza. Ingres afferma che MSF stima che almeno 1.200 persone possono aver sviluppato infezioni alle ossa, che richiedono sei settimane di ospedalizzazione e antibiotici di alto livello prima di ogni operazione.

“Quindi sappiamo già che il trattamento sarà lungo e molto costoso,” dice.

Il tributo di una generazione

Oltre ai vari livelli di crisi sanitaria a Gaza, dicono i medici, ci sono le conseguenze a lungo termine di una generazione di disabili palestinesi, molti dei quali ventenni.

“I media diranno ‘oggi due, tre palestinesi morti, 500 feriti’. Ma in realtà questi 500 sono condannati a una vita di disabilità, di disoccupazione e ad anni di dolorose operazioni chirurgiche,” afferma Abu Sitta.

“È anche un problema psicologico,” aggiunge Ingres, “perché ora i giovani capiscono che sarà molto difficile per loro.”

“La maggioranza voleva solo manifestare per mostrare che hanno il diritto di esistere come chiunque altro al mondo. E oggi, dopo un anno, cos’hanno ottenuto? Non hanno niente.”

Ingres sostiene che lo spettro di una grande manifestazione per commemorare il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno è preoccupante.

“Ad essere sinceri, se ci sarà un nuovo massiccio numero di feriti nessuno riuscirà a gestire Gaza,” dice. “Sarà un disastro.”

Ma pur avendo una chiara comprensione dei rischi in cui incorrono per protestare vicino alla frontiera, i giovani palestinesi hanno continuato a protestare, con l’invito a un milione di persone perché sabato si uniscano alla marcia di commemorazione.

Akhras, il trentunenne colpito a una gamba lo scorso maggio, potrebbe essere tra i manifestanti, nonostante il fatto che la sua vita sia drammaticamente cambiata da quando è stato ferito.

Non più in grado di guadagnarsi da vivere come fabbro, Akhras ha ricevuto uno stipendio dall’Autorità Nazionale Palestinese per persone ferite fino a due mesi fa, quando è stato sospeso e lui è rimasto in condizioni economiche difficili.

Sua moglie, Haneen al-Qutati, di 23 anni, contribuisce al sostentamento della coppia con il suo lavoro di infermiera, e il loro primo figlio nascerà a breve. Nel frattempo, grazie a un’organizzazione che aiuta persone disabili, Akhras si sta formando come falegname.

Dice di sentire spesso il dolore della ferita, ma non vuole prendere antidolorifici per il timore di diventarne dipendente. Non ha ancora una gamba artificiale e per spostarsi usa le stampelle.

“Alla sera ho forti dolori, ma cerco di far vedere a mia moglie che non mi fa male,” dice. “Qualcuno mi guarda con compassione. È una sensazione penosa per mia moglie.”

Ciononostante durante molti degli ultimi venerdì è uscito per unirsi alle proteste nei pressi di Rafah, ancora deciso a manifestare.

“Voglio che i giovani dimostrino una grande volontà,” afferma. “L’occupazione li prende deliberatamente di mira e vuole che una giovane generazione di palestinesi cammini con le stampelle.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rischio di carneficina e Medio Oriente in fiamme

Patrizia Cecconi

29/03/2019, Pressenza

Domani 30 marzo, Giornata della Terra e anniversario dell’inizio della Grande marcia per il ritorno, sarà un giorno importante, forse tragicamente importante, in Palestina.  Gaza è sotto i riflettori perché lì si gioca la parte più dura della partita, ma ci saranno manifestazioni in tutta la Palestina  e quel che succederà domani avrà ripercussioni in Israele, sempre più vicino alle elezioni, ma andrà anche oltre Israele.

Ormai tutto il Medio Oriente, tra accordi e disaccordi, alleanze che un tempo sarebbero sembrate improbabili e  alleanze tradizionali, devastazioni  per mano dell’Occidente e assestamenti precari,  tutto il M.O. si è trasformato in una polveriera.

In tutto questo Israele ha una sua parte importante, in particolare in Siria dove, nel silenzio o con l’approvazione  sia di alcuni paesi arabi che di paesi occidentali, ha effettuato circa 800 raid per colpire quello che è il suo nemico principale: l’Iran. E l’Iran prima o poi risponderà.  Il giornale israeliano Haaretz oggi titolava  che la repubblica islamica sta dichiarando guerra a Israele, ma in modo trasversale, attraverso Gaza. Praticamente lo farebbe fornendo armi ad uno dei partiti della resistenza armata, il Jihad islamico, i cui  missili non sono più i “razzetti” artigianali che facevano solo boom. Ma anche Hamas, sebbene meno ricco di forniture simili, può contare su missili che non sono più solo razzetti artigianali e gli ultimi lanci, che siano stati accidentali, o pilotati da provocatori e strumentali ad altro come ad esempio le elezioni israeliane, o spediti come test deterrente – tutte ipotesi verosimili – lo hanno dimostrato, e la partita che si giocherà domani dovrà tenerne conto.

Israele ha già comunicato che farà fucilare chiunque si avvicini alla recinzione. Lo ha sempre fatto e domani forse lo farà con maggiore zelo. Lungo i circa 40 km che segnano la linea dell’assedio via terra, Israele ha dislocato mezzi corazzati in quantità impressionante e il premier dello Stato ebraico ha dichiarato che non esclude la possibilità di un attacco da terra (quindi contro la popolazione civile). Una minaccia  contro ogni norma del Diritto internazionale, visto che la Striscia è sotto assedio, ma Israele può tutto.

Intanto la popolazione di Gaza si sta organizzando. C’è grande eccitazione. Parteciperanno sicuramente in tanti e non certo perché lo vuole Hamas come lascia intendere Israele. Anzi, si ha motivo di ritenere che Hamas avrebbe raffreddato e forse fermato la marcia, se avesse potuto. Questo ce lo ricordano anche alcuni degli intervistati.

Ricordiamo che la Marcia NON è “di” Hamas, per quanto ovviamente la componente del partito al governo abbia una voce importante all’interno del comitato organizzatore, come ci dice Yousef Hammash,  giornalista di Gaza. Oltre a Y. Hammash abbiamo sentito molte altre voci dal nord al sud, interviste raccolte necessariamente per telefono visto che per motivi di sicurezza chi scrive è stata fatta uscire dalla Striscia. Alcuni degli intervistati hanno chiesto l’anonimato e rispettiamo, ovviamente,  la loro volontà, mentre Y. Hammash e il dr. Said Sehweil dell’ospedale Al Awda ci hanno autorizzato a riportare i loro nomi.

Per tutti la giornata di domani è un’incognita, e tutti temono il peggio. Il dr. Said comunica che l’UHWC di cui fa parte l’ospedale Al Awda ha 6 punti di emergenza dislocati da Nord a Sud e sono tutti in stato di allerta temendo un grande afflusso di feriti. Inoltre vi sono i  team di primo soccorso che, insieme a tutte le altre organizzazioni sanitarie, dalla Mezzaluna Rossa all’UHCC, saranno direttamente lungo il border.  Il dr.Said dice anche che alla manifestazione parteciperà la delegazione egiziana responsabile della mediazione tra Gaza e Israele, con la chiara intenzione di monitorarla e di evitare che si verifichi la carneficina che molti temono.

La delegazione ha raggiunto alcuni risultati, ma ciò che viene offerto per tacitare i gazawi è lontanissimo da ciò che ha dato inizio alla Grande marcia e il governo locale si trova stretto ancora una volta in un cul de sac, tra l’accettare gli aiuti per migliorare la situazione economicamente critica della popolazione – motivo delle manifestazioni di malcontento – e rispettare gli obiettivi che hanno  dato vita un anno fa a questa straordinaria iniziativa di protesta, sostanzialmente pacifica, da parte palestinese, costata finora 256 vite, di cui circa 50 bambini,  e un numero impressionante di feriti.

Come dice Y. Hammash “gli accordi non rispettano  quello che noi vogliamo e gli egiziani non sono onesti con i gazawi. Loro vogliono che domani sia una giornata calma, hanno ottenuto che Israele faccia  passare tramite Erez il denaro del Qatar per pagare gli stipendi  degli impiegati governativi. Per Israele è un periodo sensibile a causa delle elezioni del prossimo 9 aprile e questo determina molte scelte” . Quindi Hamas accetterebbe la mediazione egiziana? chiedo.  “Hamas non può convincere 2 milioni di persone per un po’ di denaro. Gli egiziani stavano chiedendo ad Hamas di fare pian piano le mosse giuste per tenere i dimostranti sotto controllo  e impedire loro di avvicinarsi alla recinzione.”  Vuoi dire che verrebbe accettato il denaro contro la richiesta di dignità? “Esatto.  Hamas deve capire che non è questione di denaro e se domani ci saranno più di 10.000 persone nessuno potrà tenerle sotto controllo e forse ci saranno un sacco di martiri”.

Chiedo a Yousef se appartiene a qualche formazione politica e la risposta è negativa, nessun partito né ora né in passato e aggiunge che domani andrà alla marcia “perché domani è un giorno speciale”. Domani, me lo hanno confermato molte altre persone, uomini e donne,  di diversa e di nessuna appartenenza politica, andranno alla marcia perché domani è una questione di dignità e nessuno dei numerosi intervistati  è disposto ad accettare il controllo sui partecipanti richiesto dall’Egitto (e quindi da Israele) ad Hamas.  Andranno i ragazzi che hanno come interesse prioritario lo skateboard, andranno le donne che sono determinatissime e porteranno figli e figlie. Andranno fianco a fianco e con un’unica bandiera, militanti di Hamas e di Fatah. Per qualcuno domani sarà una specie di festa, così mi dice un vecchio militante di Fatah che andrà anche lui con i suoi figli.

Chiedo se non hanno paura che la giornata di domani inneschi la temuta escalation che porterebbe al disastro minacciato da Netanyahu ed una delle persone intervistate, che preferisce mantenere l’anonimato, mi  dice che“ i razzi su Tel Aviv hanno avuto la loro efficacia e Netanyahu, seppure nella propaganda elettorale, deve sempre mostrare  durezza contro i palestinesi come elemento vincente, non potrebbe vincere se si trovasse una pioggia di razzi su Tel Aviv, neanche se come risposta sterminasse un milione di gazawi.” Quest’affermazione mi porta a rivedere le precedenti valutazioni circa i potenti missili non rivendicati né da Hamas né dalla Jihad e che ufficialmente sarebbero partiti per errore o per colpa di un fulmine.  La stessa persona dice che “se domani alla marcia gli israeliani uccidessero un quadro di Hamas o della Jihad la faccenda si complicherebbe molto.” Ma tutto resta un’incognita e molto dipende dai risultati della mediazione egiziana.  Un’altra delle persone intervistate mi conferma  che sono tutti estremamente preoccupati  e mi dice testualmente “siamo tutti  preoccupatissimi ma tutti altrettanto volenterosi di voler partecipare, donne e bambini in prima linea”. Insomma sembra proprio lo spaccato della cultura gazawa, cultura in senso antropologico, quella per cui riescono a convivere situazioni contrastanti anche nella quotidianità.

Un altro degli intervistati mi ha detto che dalla mediazione egiziana si sono avute una serie di condizioni positive quali la promessa che il valico di Rafah resterà aperto, che i pescatori potranno arrivare a 12 miglia marine (lo prevedevano già  gli accordi di Oslo!), che verrà fatto passare un alto numero di camion con merci, ovviamente israeliane, così i gazawi avranno le merci, magari non tutti avranno i soldi per comprarle, ma Israele avrà il suo mercato di sbocco a Gaza e, infine, pare che sia stata accettata la possibilità di esportare merci da Gaza. Ma, conclude, “alcuni saranno arrabbiati ed altri vorranno accettare, però non è questo quello che noi vogliamo”.

Infatti l’obiettivo della marcia, quello sintetizzato nello slogan “o grandi sulla terra o martiri sotto terra”, è la libertà di movimento, quindi la rottura dell’assedio e il diritto al ritorno nelle case da cui i palestinesi sono stati cacciati. Ma questo Israele non sembra proprio volerlo accettare, anche se è nell’ordine del Diritto internazionale e dovrebbe già essere da molti anni un fatto e non una richiesta.

Domani forse sarà una carneficina o forse si avvererà il miracolo, ma una cosa è chiara a tutti coloro che pur senza appartenenza partitica hanno una visione politica della situazione, e questo lo riconferma il giornalista intervistato all’inizio, quando dice che “seppure davvero si rompesse l’assedio resterebbe il grave problema della divisione politica interna” e aggiunge “ora Israele grazie a Trump prende il Golan, domani prenderà la West Bank e lascerà Gaza a due milioni di persone . No, abbiamo bisogno di una situazione interna di cambiamento e di unità” praticamente quello che la Grande marcia ha praticato e ha provato a insegnare alle leadership che finora non hanno imparato.

Intanto oggi, a dimostrazione del fatto che la grande marcia appartiene al popolo, nel senso che è veramente un’espressione popolare e non decisa dalle autorità locali, un buon numero di gazawi ha realizzato la marcia del venerdì in attesa di domani. Ci sono stati feriti, perché gli sniper hanno comunque sparato, ma non molti e non gravi.

Domani si capirà se il Medio Oriente aggiungerà altre fiamme a quelle che già ardono e l’Iran entrerà in gioco in forma più determinata attraverso il Jihad, come ipotizza Haaretz, o se i missili forniti alla resistenza avranno avuto il loro effetto deterrente e, quindi, anche gli sniper avranno avuto indicazioni conseguenti e l’impressionante ammasso di artiglieria lungo il confine sarà solo una esibizione di forza potenziale nel  braccio di ferro tra popolo assediato ed esercito assediante.

Betlemme, 29 marzo 2019




A proposito di semiti e antisemiti, sionisti e antisionisti

Shlomo Sand

28 febbraio 2019, Investig’action

Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo.

Sebbene residente in Israele, “Stato del popolo ebraico”, ho seguito da vicino il dibattito in Francia su antisemitismo e antisionismo. Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo.

Iniziamo con i problemi di definizione. Già da molto tempo mi sento a disagio, non solo per la recente formula in voga: “civiltà giudaico-cristiana”, ma anche davanti all’uso tradizionale del vocabolo “antisemitismo”. Questo termine, come sappiamo, è stato inventato nella seconda metà del 19° secolo da Wilhelm Marr, nazional-populista tedesco che detestava gli ebrei. Nello spirito di quel tempo, coloro che usavano quel termine avevano come presupposto fondamentale l’esistenza di una gerarchia di razze in cima alla quale si trova l’uomo bianco europeo, mentre la razza semita occupa un rango inferiore. Uno dei fondatori della “scienza della razza” fu, come sappiamo, il francese Arthur Gobineau.

Ai nostri giorni, la Storia un pochino più seria non conosce altro che delle lingue semitiche (l’aramaico, l’ebraico e l’arabo, che si sono diffuse nel Vicino Oriente), mentre, al contrario, non conosce nessuna razza semitica. Sapendo che gli ebrei d’Europa non parlavano correntemente l’ebraico, che era utilizzato solo per la preghiera (come i cristiani usavano il latino), è difficile considerarli come semiti.

Bisogna forse ricordare che il moderno odio razziale contro gli ebrei è, soprattutto, un’eredità delle chiese cristiane? Dal quarto secolo, il cristianesimo si è rifiutato considerare l’ebraismo come una religione legittima concorrente, e da lì, ha creato il famoso mito dell’esilio: gli ebrei sono stati esiliati dalla Palestina per avere partecipato all’omicidio del figlio di Dio – pertanto, è opportuno umiliarli per dimostrare la loro inferiorità. Ma occorre sapere che non c’è mai stato un esilio degli ebrei di Palestina, e, fino ad oggi, non troveremo alcun testo di ricerca storica sul tema!

Personalmente, faccio parte di quella scuola di pensiero tradizionale che rifiuta di vedere gli ebrei come un popolo-razza estraneo all’Europa. Già nel 19° secolo, Ernest Renan, dopo essersi liberato del suo razzismo, aveva affermato che: “L’ebreo delle Gallie … era, molto spesso, solo un gallo che professava la religione israelita.” Lo storico Marc Bloch ha specificato che gli ebrei sono: “Un gruppo di credenti reclutati precedentemente in tutto il mondo mediterraneo, turco-cazaro e slavo”. E Raymond Aron aggiunge: “I cosiddetti ebrei, per la maggior parte, non sono biologicamente dei discendenti delle tribù semitiche …”. La giudeofobia, tuttavia, si è sempre ostinata a vedere gli ebrei non come un’importante fede, ma come una nazione straniera.

Il lento declino del cristianesimo come credo egemonico in Europa, purtroppo non è stato accompagnato da un declino della forte tradizione giudeofobica. I nuovi “laici” hanno trasformato l’odio e la paura ancestrale in moderne ideologie “razionaliste”. Possiamo quindi trovare pregiudizi sugli ebrei e sull’ebraismo non solo in Shakespeare o Voltaire, ma anche in Hegel e Marx. Il nodo gordiano tra ebrei, ebraismo e denaro sembrava ovvio tra le élite istruite. Il fatto che la stragrande maggioranza dei milioni di ebrei nell’Europa orientale abbiano sofferto di fame e vissuto in povertà non ha avuto assolutamente alcun effetto su Charles Dickens, Fiodor Dostoevskij, né su una larga parte della sinistra europea. Nella Francia moderna la giudeofobia ha conosciuto bei giorni non solo con Alphonse Toussenel, Maurice Barrès e Edouard Drumont, ma anche con Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon e anche, per un certo tempo, con Jean Jaures e Georges Sorel.

Con il processo di democratizzazione la giudeofobia ha costituito un elemento immanente tra i pregiudizi delle masse europee: l’affair Dreyfus si è dimostrato un evento “emblematico”, in attesa di essere superato, e di gran lunga, dallo sterminio di ebrei durante la seconda guerra mondiale. È tra questi due avvenimenti storici che il sionismo è nato come idea e movimento.

Va ricordato, tuttavia, che fino alla seconda guerra mondiale, la stragrande maggioranza degli ebrei e dei loro discendenti laici erano antisionisti. Non c’era solo l’ortodossia, forte e organizzata, ad indignarsi all’idea di accorciare i tempi della redenzione emigrando in Terra Santa; anche le correnti religiose più moderniste (riformatori o conservatori) erano fortemente contrarie al sionismo. Il Bund, partito laico dell’Impero russo e poi della Polonia indipendente in cui la maggior parte dei socialisti era di madre lingua yddish, considerava i sionisti come alleati naturali dei giudeofobi. I comunisti di origine ebraica non perdevano occasione di condannare il sionismo come complice del colonialismo britannico.

Dopo lo sterminio degli ebrei d’Europa, i sopravvissuti che non erano riusciti a trovare in tempo rifugio nell’America del Nord, o nell’URSS, addolcirono la loro relazione ostile al sionismo, anche perché la maggior parte dei paesi occidentali e del mondo comunista avevano riconosciuto lo stato di Israele. Il fatto che la creazione di questo stato sia stata effettuata nel 1948 a spese della popolazione araba indigena non disturbò granché. L’ondata della decolonizzazione era ancora agli inizi e non era un dato da prendere in considerazione. Israele fu quindi percepito come uno stato-rifugio per gli ebrei erranti, senza ricovero né focolare.

Il fatto che il sionismo non sia riuscito a salvare gli ebrei d’Europa e che i sopravvissuti desiderassero emigrare in America, e nonostante la percezione del sionismo come un’impresa coloniale nel pieno senso del termine, non altera un dato significativo: la diagnosi sionista riguardante il pericolo che incombeva sulla vita degli ebrei nella civiltà europea del ventesimo secolo (non affatto giudeo-cristiana!), si era rivelata corretta. Theodore Herzl, il pensatore dell’idea sionista, aveva, meglio dei liberali e dei marxisti, compreso i giudeofobi del suo tempo.

Ciò non giustifica, tuttavia, la definizione sionista secondo cui gli ebrei formano un popolo-razza. Né giustifica la visione dei sionisti che la Terra Santa è la patria nazionale sulla quale avrebbero diritti storici. I sionisti hanno tuttavia creato un fatto politico compiuto e qualsiasi tentativo di cancellarlo si tradurrebbe in nuove tragedie di cui sarebbero vittime le due popolazioni che ne sono risultate: israeliana e palestinese.

Allo stesso tempo bisogna ricordarsi e ricordarlo: se non tutti i sionisti rivendicano la continuazione del dominio sui territori conquistati nel 1967, e se molti di loro non si sentono a proprio agio con il regime di apartheid che Israele vi esercita da 52 anni, tutti quelli che si definiscono sionisti continuano a vedere in Israele, almeno nei suoi confini del 1967, lo stato degli ebrei del mondo intero e non una Repubblica per tutti gli israeliani, un quarto dei quali non sono considerati ebrei, di cui il 21% sono arabi.

Se una democrazia è fondamentalmente uno stato che aspira al benessere di tutti i suoi cittadini, di tutti i suoi contribuenti, di tutti i bambini che vi nascono, Israele, al di là del pluralismo politico esistente, è, in realtà, una vera e propria etnocrazia come erano la Polonia, l’Ungheria e altri stati dell’Europa orientale, prima della seconda guerra mondiale.

Il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron e del suo partito di criminalizzare oggi l’anti-sionismo come una forma di antisemitismo mostra di essere una manovra cinica e manipolatoria. Se l’antisionismo diventa un crimine, mi sento di raccomandare a Emmanuel Macron di far condannare con effetto retroattivo, il bundista Marek Edelman, che fu uno dei leader del ghetto di Varsavia e totalmente anti-sionista. Si potrebbe anche inviare a processo i comunisti anti-sionisti che, piuttosto che emigrare in Palestina, scelsero di combattere, armi in pugno, contro il nazismo, cosa che ha loro conquistato un posto sul “manifesto rosso” [stampato dai nazisti contro gruppi della resistenza antinazista in Francia composti da persone senza cittadinanza francese, ndt.].

Se intende essere coerente nella condanna retroattiva di tutti i critici del sionismo, Emmanuel Macron dovrà aggiungere la mia insegnante Madeleine Rebérioux, che ha presieduto la Lega dei diritti umani, l’altro mio insegnante e amico Pierre Vidal-Naquet e, naturalmente, anche Eric Hobsbawm, Edward Saïd e molte altre eminenti figure, ora scomparse, ma i cui scritti sono ancora autorevoli.

Se Emmanuel Macron desidera attenersi a una legge che reprime gli anti-sionisti ancora viventi, la cosiddetta futura legge dovrà applicarsi anche agli ebrei ortodossi di Parigi e New York che rifiutano il sionismo, a Naomi Klein, Judith Butler, Noam Chomsky e molti altri umanisti universalisti, in Francia e in Europa, che si autoidentificano come ebrei pur dichiarandosi anti-sionisti.

Si troveranno, naturalmente, molti idioti antisionisti e giudeofobi, come non mancano dei pro-sionisti imbecilli, pure giudeofobi, ad augurare che gli ebrei lascino la Francia e emigrino nello Stato di Israele. Li includerà in questa grande impennata giudiziaria? Stia attento, signor Presidente, a non lasciarsi trascinare in questo ciclo infernale, proprio quando la popolarità è in declino!

Per concludere, non penso ci sia un aumento significativo dell’antigiudaismo in Francia. Questo è sempre esistito, e temo, purtroppo, che abbia davanti a sé ancora giorni buoni. Non ho dubbi, tuttavia, che uno dei fattori che gli impedisce di regredire, in particolare in alcuni quartieri in cui vivono persone immigrate, è precisamente la politica praticata da Israele contro dei palestinesi: quelli che vivono come cittadini di seconda classe all’interno dello “stato ebraico” e quelli che, da 52 anni, subiscono un’occupazione militare e una colonizzazione brutali.

Facendo parte di coloro che protestano contro questa tragica situazione, sostengo con tutte le mie forze il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e sono favorevole alla “desionizzazione” dello Stato di Israele. Dovrò, in questo caso, temere che la mia prossima visita in Francia mi porti davanti a un tribunale?

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org




Fascismo n°5: la ministra israeliana recita in una bizzarra campagna pubblicitaria per un profumo

Redazione di Middle East Eye

19 marzo 2019, Middle East Eye

Secondo la candidata di estrema destra Ayelet Shaked il profumo fascista “odora come la democrazia”

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked recita in una propaganda elettorale satirica del suo partito di estrema destra in cui compare un profumo chiamato “Fascismo” che, dice, “odora come la democrazia”.

Shaked, che partecipa alle elezioni generali del 9 aprile per il partito “Nuova Destra”, sembra prendere in giro i timori di sinistra che il suo partito stia cercando di danneggiare il sistema giudiziario a favore del governo dominato dalla Destra.

In un videoclip in bianco e nero con una musica di pianoforte in crescendo, Shaked indossa gioielli, sta in piedi di fianco a un quadro e scende al rallentatore dalle scale prima di spruzzarsi il profumo “Fascismo”, mentre una voce fuori campo sussurra le frasi “riforma giudiziaria”, “separazione dei poteri”, “governo” e “limitazione della Corte suprema”.

Poi Shaked dice agli spettatori: “Per me ha il profumo della democrazia.” Alla fine del clip di 44 secondi, mentre si allontana dalla telecamera la pubblicità afferma: “La prossima rivoluzione sta arrivando.”

L’annuncio, diffuso in ebraico, può essere visto come un esplicito sostegno al fascismo, ma colpisce per la particolare somiglianza con una scenetta di “Saturday Night Live” [programma comico di una televisione americana, ndt.] che ha ospitato Scarlett Johansson [attrice americana, ndt.] che recitava il ruolo di Ivanka Trump [figlia del presidente americano Donald Trump, ndt.] nella pubblicità di un profumo chiamato “Complicit”, in quanto il programma satirico americano voleva attirare l’attenzione sulla Trump per quelle che considera le sue responsabilità nel governo del padre.

Lunedì il co-fondatore di “Nuova Destra” e ministro dell’Educazione, Naftali Bennett, ha condiviso il video di Shaked con la didascalia: “Il profumo che a quelli di sinistra non piacerà molto.”

La campagna elettorale di Shaked e Bennett promette di contrastare il movimento palestinese Hamas e la Corte Suprema israeliana con lo slogan: “Shaked sconfiggerà l’Alta Corte di Giustizia, Bennett sconfiggerà Hamas.”

Membri del partito hanno accusato la Corte Suprema, formata da 15 persone, di limitare la capacità dei soldati israeliani di “sconfiggere il terrorismo”.

Nel 2017 Shaked ha fatto pressione con successo per la nomina alla Corte di tre giudici di destra, compreso un colono.

Domenica la corte ha escluso dalle elezioni del prossimo mese un candidato ebreo di estrema destra e approvato la candidatura di un partito arabo, una decisione che Shaked ha liquidato come un’“interferenza sbagliata nel cuore della democrazia israeliana.”

Shaked, che si definisce una politica laica, ha co-fondato il partito “Nuova Destra” a dicembre. Ora il partito ha tre seggi nel parlamento israeliano.

I sondaggi prevedono un massimo di sette seggi per il partito “Nuova Destra” nelle imminenti elezioni.

Shaked è stata costantemente criticata da parte di organizzazioni per i diritti umani per le sue virulente posizioni di estrema destra. Nel 2015 avrebbe affermato che le madri palestinesi allevano “piccoli serpenti” e chiesto che vengano uccise.

Ma in un’atmosfera politica di estrema destra in Israele molti politici competono per chi esprime la posizione più intransigente nei confronti dei palestinesi.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha alternativamente definito il suo principale oppositore nelle prossime elezioni, Benny Gantz, “debole” e “di sinistra” per il suo presunto atteggiamento disponibile a compromessi verso i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ispettori dell’ONU chiedono a Israele di rivedere le “regole d’ingaggio” nell’imminenza dell’anniversario delle proteste a Gaza.

Un News -18 marzo 2019

Lunedì gli ispettori nominati dal Consiglio [ONU] per i Diritti Umani hanno esortato Israele a rivedere le regole d’ingaggio del suo esercito poco prima del primo anniversario dell’inizio delle manifestazioni presso la barriera di confine del Paese con Gaza, con un bilancio di centinaia di palestinesi morti e altre migliaia feriti.

Parlando a Ginevra il presidente della commissione d’inchiesta sulle proteste del 2018 nel territorio palestinese occupato, Santiago Canton, ha spiegato quello che la commissione ha scoperto riguardo alle relative regole dell’esercito israeliano.

“In base alle regole, possono essere colpiti alle gambe in qualunque momento,” ha detto. “Mentre in teoria questa fondamentale condizione di istigazione doveva essere attribuita solo quando la folla poneva un’imminente minaccia alla vita [dei soldati], in realtà – e questa è stata una delle principali conclusioni della commissione –raramente è stato così.”

Le dichiarazioni di Canton hanno fatto seguito alla sua affermazione secondo cui “la principale conclusione della commissione…è che abbiamo trovato fondati motivi per credere che l’esercito israeliano abbia commesso gravi violazioni dei diritti umani e delle leggi umanitarie internazionali.

Durante le manifestazioni dello scorso anno nella Striscia di Gaza – definite “Grande Marcia del Ritorno e della Rottura dell’Assedio”- la commissione ha scoperto che sono stati uccisi 189 palestinesi, 183 dei quali da proiettili veri.

Tra le vittime ci sono stati minori, persone disabili – compresa una persona amputata a entrambe le gambe che è stata colpita e uccisa mentre era sulla sua sedia a rotelle – , giornalisti e personale paramedico.

A meno di due settimane dall’anniversario dell’inizio delle proteste, la preoccupazione della commissione è evitare che si ripetano dimostrazioni con morti come quelle del 30 marzo, del 14 maggio e del 12 ottobre. “Noi speriamo che la comunità internazionale venga coinvolta per evitare più morti e più sparatorie durante l’anniversario,” ha detto Canton ai giornalisti dopo il suo discorso della mattina al Consiglio per i diritti umani. “Penso che sia la ragione per cui questa presentazione è stata importante. In sostanza è importante che Israele modifichi le regole d’ingaggio e blocchi le sparatorie.”

Si è premuto il grilletto 6.000 volte”

Oltre a quanti sono stati uccisi durante le proteste settimanali alla barriera di confine con Israele, la commissione ONU ha sottolineato i danni causati da proiettili ad alta velocità, che hanno sostituito quelli ricoperti di gomma inizialmente utilizzati contro i manifestanti.

“Nel caso di molte delle uccisioni, ci sono stati fori molto piccoli in entrata e molto grandi in uscita,” ha detto il membro della commissione Sara Hossain. “Abbiamo anche prove dettagliate sul tipo di proiettili, ma pure sull’uso di fucili di precisione di lunga distanza, di sofisticati dispositivi ottici di mira,” ha aggiunto.

“Sappiamo che nel mirino dei cecchini il bersaglio può essere ingrandito, per cui avrebbero potuto sapere le conseguenze di almeno una parte dei tiri. Ciononostante hanno premuto il grilletto, e ciò è avvenuto più di 6.000 volte.”

Alla domanda riguardo alla legalità del fatto di prendere di mira dimostranti disarmati in una manifestazione, la commissione ha insistito che farlo sulla base dell’appartenenza dei singoli a un gruppo armato è illegittimo.

“Crediamo che in una situazione di controllo della folla e che noi crediamo fosse fondamentalmente di civili, se in essa ci sono individui che possono essere un bersaglio legittimo, in ogni caso non si può sparare contro la massa, perché si potrebbero uccidere o colpire individui innocenti,” ha detto Canton.

Apprezzata l’inchiesta di Israele su 11 episodi

La commissione ha anche apprezzato le indagini su undici episodi che Israele ha detto di voler intraprendere, anche se Hossain chiede maggiore trasparenza.

“Sulla natura delle inchieste, per quelle di Israele, hanno annunciato che ci sono questi 11 episodi…ma ciò dopo un anno,” ha affermato. “E non ci sono dichiarazioni su come procedono queste inchieste e pensiamo che ci sia quanto meno un obbligo etico di rivelare quale sia il loro risultato.”

Hossein ha detto che nel rapporto della commissione per il Consiglio per i Diritti Umani è stato anche affrontato il problema del lancio di aquiloni e palloni incendiari da parte dei manifestanti di Gaza, notando che hanno provocato “significativi danni alle proprietà” nel sud di Israele.

Lunedì, in un ulteriore incontro, il relatore speciale del Consiglio per i Diritti Umani Michael Lynk ha messo in guardia su un’imminente “catastrofe umanitaria” a Gaza legata alle “soffocanti restrizioni” sugli abitanti della Striscia.

“Israele ha continuato a imporre un ermetico blocco aereo, marittimo e terrestre attorno a Gaza, controllando chi e cosa entra ed esce dalla Striscia (di Gaza),” ha detto Lynk al Consiglio. “Per circa cinque milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione il peggioramento della fornitura di acqua, lo sfruttamento delle risorse naturali e la deturpazione del loro ambiente sono sintomatici della mancanza di ogni significativo controllo che possono avere sulla loro vita quotidiana.”

Una gravissima preoccupazione è dovuta all’“esaurimento delle fonti naturali di acqua potabile a Gaza e all’impossibilità per i palestinesi di avere accesso alla maggior parte delle loro sorgenti in Cisgiordania,” ha detto il relatore speciale.

L’agenzia ONU per la salute avverte che il livello di necessità delle vittime di Gaza è enorme

In concomitanza con gli sviluppi al Consiglio per i Diritti Umani di lunedì, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha chiesto 5,3 milioni di dollari per aiutare le molte migliaia di gazawi feriti e menomati durante le manifestazioni.

“La vastità delle necessità traumatologiche a Gaza è enorme: ogni settimana continuano ad arrivare agli ospedali pazienti feriti, che necessitano di complesse cure a lungo termine,” ha detto il dottor Gerald Rockenschaub, capo dell’ufficio del OMS per i Territori Palestinesi Occupati.

L’OMS ha ripetuto la preoccupazione che l’imminente anniversario di un anno della “Grande Marcia del Ritorno” il 30 marzo possa avere come risultato ulteriori vittime e un incremento di persone che hanno bisogno di cure traumatologiche e di servizi di riabilitazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)