“Questo è ‘art-washing’”: attivisti israeliani protestano contro l’Eurovision

Megan Giovannetti da Tel Aviv, Israele

17 maggio 2019 – Middle East Eye

Decisi a denunciare la situazione dell’occupazione e dell’assedio di Gaza da parte di Israele, un gruppo di israeliani ha organizzato manifestazioni quotidiane

Questa settimana centinaia di persone hanno affollato ogni giorno il villaggio Eurovision sulla spiaggia di Tel Aviv, godendosi i festeggiamenti che hanno circondato la competizione musicale che quest’anno è arrivata in Israele.

Ma, mentre l’ambiente potrebbe sembrare benevolo e accogliente, un gruppo di attivisti israeliani ha preso l’impegno di svelare un lato molto diverso della competizione canora Eurovision 2019.

Shahaf Weinstein, 26 anni, ha detto a Middle East Eye: “Siamo qui perché Eurovision, e naturalmente Eurovillage, sono una grande e lucrativa attività che aiuta Israele a promuovere i suoi cosiddetti valori di luogo giovane, alla moda, multiculturale, ospitale con gli LGBTQ, quando di fatto è uno Stato dell’apartheid.”

Questo è pink-washing, art-washing [utilizzo di tematiche omosessuali o artistiche per trasmettere un’immagine positiva, ndtr.], e noi siamo contrari.”

Eurovision 2019: perché Israele ospita la competizione musicale?

Il nome della competizione canora suggerisce che si tratti di una questione europea, quindi perché Israele, un Paese mediorientale, può parteciparvi e perché ospita la gara di quest’anno?

L’ammissione all’Eurovision non è basata sulla geografia ma sul fatto di essere membro della “European Broadcasting Union [Unione Europea di Radiodiffusione] (EBU), che organizza l’evento, e l’“Israeli Public Broadcasting Corporation” [Compagnia Pubblica Israeliana di Radiodiffusione] ne fa parte.

Tecnicamente ciò significa che anche Paesi arabi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, Marocco e Tunisia hanno i titoli per parteciparvi.

In effetti il Marocco vi partecipò nel 1980, dopo che Israele si era ritirato perché la data della competizione si sovrapponeva alla festa della Pasqua ebraica.

Israele è entrato per la prima volta nell’Eurovision nel 1973 ed ha vinto la competizione quattro volte, compreso lo scorso anno, quando Netta Barzilai ha vinto in Portogallo. In precedenza ha ospitato l’evento nel 1979 e nel 1999, tutte e due le volte a Gerusalemme.

Weinstein, ebrea israeliana, fa parte di un collettivo di attivisti di vari gruppi che ha organizzato proteste quotidiane contro il fatto che Israele ospiti l’Eurovision e la positiva ribalta internazionale che ne deriva.

Mercoledì, mentre israeliani e turisti stavano festeggiando su una spiaggia del villaggio del festival Eurovision, i palestinesi stavano commemorando il 71° anniversario della Nakba – la “catastrofe” in arabo – quando centinaia di migliaia [di palestinesi] vennero cacciati dalle proprie case nel conflitto che ha accompagnato la creazione di Israele.

Lo stesso giorno Weinstein e altri 12 attivisti hanno messo in scena presso la sede [dell’Eurovision] “die-in” [una protesta in cui i partecipanti simulano la propria morte, ndtr.], manifestando contro la Nakba e la continua uccisione di manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza assediata.

Indossando magliette con la scritta sulla schiena “Gaza libera”, gli attivisti hanno recitato le morti stendendosi per terra. Avevano appeso al collo foto di palestinesi uccisi durante la violenta repressione da parte di Israele contro il movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno di Gaza durata un anno.

Essendo stata rafforzata la sicurezza in previsione di queste proteste, a cinque attivisti è stato negato l’ingresso nel villaggio Eurovision e sono stati tolti i documenti di identità. Altri otto sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a mettere in pratica il piano.

Sono ebreo. Ho il privilegio di essere qui e protestare mentre ai palestinesi di Gaza che protestano viene sparato,” ha detto Omer Shamir, un ventiseienne di Tel Aviv.

Io rischio molto poco, ho la ‘democrazia’ – quella democrazia che stanno cercando di mostrare al mondo,” ha detto Shamir. “Ce l’ho in quanto ebreo, ma i palestinesi non ce l’hanno.”

In quanto israeliani siamo responsabili”

La sera prima, durante un corteo a Tel Aviv, Nimrod Flashenberg ha esposto le proprie ragioni per scendere in piazza.

Penso che noi, in quanto israeliani, lo Stato di Israele, siamo responsabili delle sofferenze (dei palestinesi),” ha detto Flachenberg, 28 anni, a MEE. “Quindi dobbiamo dire ‘basta con l’occupazione e con l’assedio.’”

La manifestazione di martedì notte ha coinciso di proposito con il giorno in cui la cantante israeliana Netta Barzilai ha vinto l’Eurovision 2018, consentendo che Israele ospitasse la gara canora di quest’anno.

È stato anche il primo anniversario dello spostamento ufficiale dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre in contemporanea 68 palestinesi venivano colpiti a morte durante le proteste.

Il corteo ha coinvolto 300 sostenitori, e Flashenberg ha denunciato una mancanza di sentimenti contrari all’occupazione tra gli ebrei israeliani come una ragione della scarsa partecipazione.

In Israele la popolazione ebraica sta andando verso destra,” ha detto. “Si sta chiudendo. Sta chiudendo gli occhi alle sofferenze dei palestinesi attorno a noi.”

Weinstein crede che la conquista della politica israeliana da parte della destra sia “parte del processo internazionale di neo-fascistizzazione che stiamo vedendo avvenire in molti Paesi, compresi gli USA (e) l’Europa.

In molti posti la popolazione sta diventando più rancorosa, più islamofoba e più razzista. La gente sta ascoltando sempre meno.”

Secondo Weinstein “l’occupazione continua a causa della complicità della comunità internazionale,” che secondo lei è la ragione per cui la protesta e le azioni di boicottaggio dell’Eurovision in Israele sono importanti nella lotta per i diritti dei palestinesi.

In effetti Israele sta lavorante senza sosta con la sua hasbara,” ha detto Flashenberg, utilizzando il termine ebraico per intendere la diffusione di informazioni positive [riguardo a Israele], “ed ha avuto molto successo nel suo tentativo di mettere da parte la questione palestinese nell’agenda internazionale.”

Secondo Flashenberg ospitare l’Eurovisione è solo un esempio del tentativo di Israele di normalizzare la sua occupazione delle terre palestinesi.

Shamir, che ha manifestato martedì notte, è d’accordo.

Ospitare la competizione dell’Eurovision vuol dire pretendere che (Israele) sia un normale Paese europeo, progressista e ospitale per i gay,” ha detto.

Per cui l’unico modo per svegliarsi da questo inganno è la pressione internazionale, che avviene nella forma delle sanzioni e del boicottaggio.”

Ma Shamir non pensa che le persone attorno a lui siano sufficientemente “scosse” da far scoppiare la bolla del comfort.

In genere direi che Tel Aviv è considerata piuttosto di sinistra, ma molti dei miei amici, i miei coetanei, non vengonoa protestare,” ha detto.

Il fatto che siano occupanti è ancora molto comodo (per loro), il che penso ci riporti al punto del perché sia importante ora sottolineare che (Israele) non è un posto normale.”

Dovrebbero divertirsi”

Le proteste giornaliere nel periodo che ha preceduto la finale dell’Eurovisione di sabato sono un modo per cercare di ricordare alla gente la realtà della vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana, ha affermato Shamir. Anche se si tratta solo di “un pizzicotto”.

Lunedì Shamir e altri attivisti hanno proiettato inquietanti immagini da Gaza su un grande schermo davanti al principale palco del villaggio dell’Eurovision. Lentamente una folla danzante sotto di esso ha iniziato a capire quello che stavano vedendo, e le cose hanno preso una piega violenta.

È stato tutto un po’ ironico per Shamir, che ha detto che l’Eurovision doveva mostrare quanto pacifico e “normale” sia Israele. Invece “alcune persone ci hanno picchiati, hanno rubato il nostro proiettore e sono scappati,” ha detto.

Weinstein ha sperimentato una reazione simile mercoledì.

Subito dopo il “die-in”, circa una decina di israeliani l’ha circondata, gridando insulti volgari e facendo rumore per impedirle di essere intervistata dalla stampa.

Dicevano che i miei genitori dovevano vergognarsi di me – cosa che non fanno,” dice Weinstein. “Dicevano che dovrei vivere ad Ashkelon (una città del sud vicino a Gaza), e che dovrei andare a Gaza. Mi hanno detto un sacco di orribili insulti.”

Nani, una donna di Ashkelon, ha detto a MEE di essersi unita alla folla che gridava contro Weinstein perché la giovane attivista è israeliana e considera questo comportamento come un tradimento.

Sta contro e non con Israele perché vuole liberare la Palestina,” ha detto Nani.

Ruthie, 42 anni, pensa che sia una vergogna che attivisti siano andati al villaggio dell’Eurovision per protestare.

Sono venuti qui, quindi dovrebbero divertirsi,” ha affermato.

Ruthie è arrivata dal lontano confine del deserto meridionale per godersi dei festeggiamenti e crede che ospitare la competizione musicale sia una buona cosa per l’immagine di Israele.

Penso che stiano protestando perché non conoscono davvero la situazione e quello che succede realmente,” ha detto Ruthie a MEE. “Come puoi vedere qui va tutto bene, questa è la situazione qui. Impariamo a conviverci.

Siamo venuti per divertirci e accogliamo chiunque perché venga in Israele e si diverta. È un posto veramente sicuro.”

Flashenberg vive vicino al villaggio Eurovision e sente ogni notte i gioiosi festeggiamenti, che trova fastidiosi.

C’è qualcosa in questa accettazione ed esaltazione internazionale riguardo a Israele che ovviamente è, agli occhi dei palestinesi e di chi vuole la pace, sconvolgente,” ha detto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Facebook censura un’importante operazione di fake news condotta da Israele

Ali Abunimah

17 maggio 2019, Electronic Intifada

Facebook ha scoperto un’importante campagna israeliana per influenzare politici ed elezioni in tutti i Paesi del mondo.

Giovedì il gigante dei social media ha annunciato di aver rimosso 265 accounts di Facebook e Instagram con un seguito complessivo di 2.8 milioni di utenti, per coinvolgimento in “comportamento fraudolento coordinato.”

“Questa attività ha avuto origine in Israele e si è concentrata su Nigeria, Senegal, Togo, Angola, Niger e Tunisia, oltre ad alcune azioni in America Latina e sudest asiatico”, ha affermato Facebook.

Coloro che agiscono in rete si sono falsamente “presentati come soggetti locali, incluse agenzie di notizie locali, e hanno pubblicato presunte indiscrezioni su politici” e su “elezioni in diversi Paesi, opinioni di candidati e critiche di oppositori politici.”

Facebook ha detto che “i soggetti che stanno dietro a questa rete hanno cercato di nascondere la propria identità”, ma l’indagine della compagnia li ha collegati a “un ente commerciale israeliano” chiamato Gruppo Archimede.

Venezuela connection?

Il Gruppo Archimede è una società di consulenza con sede a Tel Aviv, che si vanta sul suo sito web di “condurre campagne vincenti in tutto il mondo”, ma fornisce poche altre informazioni su di sé.

Interessante notare che uno dei filmati sul suo sito web mostra una manifestazione in Venezuela, suggerendo un segreto ruolo di Israele nel tentativo a guida statunitense di rovesciare il governo del presidente Nicolas Maduro.

Il Times of Israel [quotidiano israeliano on-line in lingua inglese, ndtr.] ha individuato l’amministratore delegato del Gruppo Archimede in Elinadav Heymann, citando la società svizzera di consulenza ‘Negotiations.CH’ che lo annovera tra i suoi consulenti.

“Una biografia pubblicata sul sito web della compagnia lo descrive come ex direttore del gruppo lobbistico ‘Amici europei di Israele’, con sede a Buxelles, ex consulente politico del parlamento israeliano ed ex agente segreto delle forze aeree israeliane.”

Comunque dopo quell’articolo ‘Negotiations.CH’ sembra aver rimosso la biografia di Heymann dal suo sito web.

Sembra che Heymann stia cercando di far perdere le proprie tracce.

Su internet è ancora visibile una copia archiviata della sua biografia.

All’inizio di questo decennio Heymann era uno dei principali lobbisti a favore di Israele a Bruxelles. L’organizzazione che guidava, ‘Amici Europei di Israele’, era un’alleanza interpartitica di politici ostili ai diritti dei palestinesi.

Al momento apparentemente inattiva, ‘Amici europei di Israele’ è stata modellata sull’esempio di gruppi analoghi attivi a Washington. Heymann ha anche lavorato come consulente di politica estera per rappresentanti del partito conservatore britannico nel Parlamento Europeo.

Più grande del Russiagate

Secondo Facebook la campagna di condizionamento israeliana dal 2012 ha speso più di 800.000 dollari per annunci falsi – otto volte di più di quanto si dice abbia speso un’azienda gigante russa per inserzioni sui social media, soprattutto dopo le elezioni USA del 2016, un intervento insignificante che i politici USA e gli opinionisti favorevoli a Hillary Clinton hanno pubblicizzato come paragonabile all’attacco a Pearl Harbour.

Eppure è certo che l’ultima prova dell’inganno ideato da Israele attirerà una minima parte dell’attenzione suscitata dalla sterile ricerca di una presunta interferenza e collusione russa che ha ossessionato i media e le elite politiche americane negli ultimi tre anni.

Ma questa operazione è ben lungi dall’essere solo un tentativo nascosto di Israele di influenzare e sabotare le politiche e l’attivismo in tutto il mondo.

L’annuncio di Facebook di aver fermato l’operazione di ‘Archimede’ giunge solo pochi giorni dopo che WhatsApp, di proprietà di Facebook, ha rivelato che aveva identificato una grave falla nel sistema che l’azienda di spionaggio israeliano NSO Group stava usando per installare programmi spia sugli smartphone delle persone.

Il documentario riservato di Al Jazeera sulla lobby israeliana, reso pubblico l’anno scorso da The Electronic Intifada nonostante gli sforzi per censurarlo, ha rivelato che diversi gruppi lobbistici con sede negli USA stanno lavorando in segreto in coordinamento con il Ministero israeliano per gli Affari Strategici per spiare e monitorare cittadini statunitensi impegnati nel sostegno di cause legittime.

Il documentario ha mostrato che uno di quei gruppi lobbistici, ‘Il Progetto Israele’, ha condotto un’importante campagna segreta di condizionamento su Facebook.

Ma, in contrasto con la sua pronta azione di interruzione dell’operazione Archimede, Facebook ha detto a The Electronic Intifada di non aver riscontrato alcuna violazione nel modo in cui ‘Il Progetto Israele’ stava utilizzando segretamente la sua piattaforma.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Germania ha votato per definire antisemita il BDS

Middle East Monitor

17 maggio 2019

Oggi la Germania ha votato per definire antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), diventando il primo importante parlamento europeo a farlo.

Questo pomeriggio il parlamento tedesco – noto come Bundestag – ha votato per accettare una mozione che definisce antisemita il BDS. Questa mozione, “Resistere al movimento BDS – lottare contro l’antisemitismo”, è stata promossa dai due maggiori partiti del Bundestag – l’Unione Cristiano Democratica della cancelliera Angela Merkel e il Partito Socialdemocratico – così come dal Partito Verde e dal Partito Liberal-Democratico.

Il testo della mozione afferma che “il Bundestag tedesco è risoluto nel suo impegno a condannare e combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme,” sottolineando che si opporrà “a chiunque diffami le persone per la loro identità ebraica (…) [e] metta in discussione il diritto dello Stato ebraico e democratico di Israele ad esistere o il diritto di Israele a difendersi.”

In particolare, sul movimento BDS la mozione sostiene che “gli argomenti, le caratteristiche e i metodi del movimento BDS sono antisemiti.” Come prova di ciò la mozione sostiene che gli adesivi “non comprare” del BDS – che intendono identificare prodotti di origine israeliana in modo che i consumatori possano evitare di comprarli – “risvegliano reminiscenze dello slogan nazista “non comprare dagli ebrei” e “ricordano il periodo più orribile della storia tedesca.”

Benché la mozione non sia vincolante, la sua importanza sia all’interno della Germania che in tutta Europa sarà probabilmente notevole.

In termini concreti, il giornale tedesco “Algemeiner” [giornale tedesco filoisraeliano on line, ndtr.] spiega che l’odierna approvazione della mozione “impedirà a ‘organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto all’esistenza di Israele’ l’uso di ‘locali e strutture che dipendono dall’amministrazione del Bunderstag’”. Imporrà anche al Bundestag di “non finanziare organizzazioni che non rispettino il diritto di Israele ad esistere.”

A livello europeo la mozione potrebbe rappresentare un precedente perché altri parlamenti definiscano antisemita il BDS. Negli scorsi anni parecchi Paesi europei hanno cercato di reprimere il movimento, in particolare la Spagna che, su richiesta di Israele, ha trascinato in tribunale una serie di consigli comunali perché avevano annunciato che avrebbero appoggiato un boicottaggio.

L’iniziativa potrebbe anche aprire la strada al fatto che altri gruppi vengano etichettati come antisemiti per le loro critiche contro Israele. Sostenendo che “lo Stato di Israele può anche essere inteso come una collettività ebraica,” l’approvazione della mozione restringerà ulteriormente lo spazio di critica al governo israeliano e alle sue politiche confondendolo con la retorica antisemita.

Oggi il Bundestag ha anche votato su altre due risoluzioni contro il BDS: la prima che è stata presentata dal [partito di] estrema destra “Alternativa per la Germania” (AfD), in cui si chiede che il governo tedesco metta fuorilegge il BDS nel suo complesso, mentre la seconda, proposta dal partito di sinistra “Die Linke” [La Sinistra], chiede al governo di condannare “l’antisemitismo all’interno del” movimento BDS.

Quella dell’AfD [Alternative fur Deutchland, ndtr.], chiede che il governo tedesco “proibisca” il BDS e “riconosca l’ingiustizia commessa contro i coloni ebrei in Palestina dall’appello arabo per il boicottaggio, in cooperazione e coordinamento con il regime nazista.”

Denuncia la distinzione tra Israele e le sue colonie illegali, compresa l’etichettatura da parte dell’Unione Europea (UE) dei prodotti israeliani delle colonie in Cisgiordania. Sostiene che, con l’etichettatura dei prodotti come tali, l’UE ha creato un “riconoscimento economico di fatto” di uno Stato palestinese indipendente “senza che questo sia stato in alcun modo legittimato.”

Al momento della stesura di questo articolo il risultato del voto sulla risoluzione proposta dall’AfD non è ancora stato reso noto [non è stata approvata, ndtr.]. La mozione della Linke, comunque, è stata respinta.

La Germania ha condotto a lungo una campagna contro il BDS. “Algemeiner” ha informato che, lo scorso mese, membri del Bundestag hanno chiesto che “la banca tedesca GLS – la banca di investimenti etici più antica del Paese – chiuda i conti di un gruppo a favore del BDS che si chiama ‘Voce Ebraica’”.

In marzo tre attivisti BDS sono stati processati per accuse inventate di violazione di domicilio e aggressione dopo che avevano protestato contro la politica israeliana Aliza Lavie [del partito di centro Yesh Atid, ndtr.], che nel 2017 aveva parlato all’università Humboldt di Berlino. Gli Humboldt3, come sono stati definiti – l’attivista palestinese Majid Abusalama e gli attivisti israeliani Ronnie Barkan e Stavit Sinai – hanno affermato che “lanciare accuse penali contro attivisti è una pratica comune e costante in Germania.”

Hanno aggiunto: “Tuttavia noi siamo determinati a utilizzare il nostro relativo privilegio per capovolgere la situazione e denunciare Israele in tribunale. Non ci preoccupiamo delle conseguenze per noi, ma dell’opportunità di sfidare Israele e la complicità della Germania in crimini contro l’umanità.”

La maggior parte di questa repressione avviene su richiesta di Israele, con cui la Germania ha storicamente mantenuto stretti rapporti. A ottobre il ministro israeliano per Gerusalemme, Ze’ev Elkin, ha partecipato a una conferenza nella capitale belga Bruxelles nel tentativo di convincere i partiti politici europei a definire antisemita il BDS. L’iniziativa è stata vista come un’escalation della guerra di Israele contro il BDS, per cui avrebbe stanziato un fondo di guerra di 72 milioni di dollari e che ha visto numerose campagne di calunnia lanciate contro attivisti affiliati al movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Editoriale di un autore esterno: la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni e il dibattito pubblico

Mark Ayyash

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

In Canada buona parte del dibattito pubblico sulla campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è superficiale, vuoto e assolutamente strategico. Quando, nel febbraio 2016, i parlamentari canadesi hanno dibattuto una mozione sul BDS, la discussione non è stata altro che una ripetizione pappagallesca di argomenti rivolti contro la campagna fin da quando è nata nei Territori Palestinesi Occupati. Questi argomenti sono ben noti a chiunque abbia dato anche solo un rapido sguardo al dibattito pubblico su BDS: per citare le affermazioni principali, sarebbe antisemita, danneggia i palestinesi e prende di mira in modo scorretto Israele. In questo articolo affronterò brevemente alcune di queste questioni, ma è sufficiente dire che sono state tutte prese in considerazione e criticate in modo esaustivo da accademici di fama mondiale e da importanti intellettuali (si veda per esempio “The Case for Sanctions Against Israel” [La questione delle sanzioni contro Israele], raccolta pubblicata da Lim nel 2012). Questi argomenti non hanno molto, se non alcun fondamento sostanziale, invece dovrebbero essere visti per quello che sono: se considerate insieme, queste posizioni costituiscono uno strategico attacco verbale al BDS.

Il famoso filosofo tedesco del XX° secolo Hans-Georg Gadamer ci ha spiegato che ci sono due tipi di dialogo. In primo luogo c’è quello che definisce un dialogo “autentico”, in cui i partecipanti si impegnano in una discussione onesta e aperta su un argomento, lasciando perdere i propri desideri e interessi, nel tentativo collettivo di comprendere l’oggetto in questione approfondendone le varie dimensioni, esplorandolo in profondità e illustrando le implicazioni della nostra comprensione dell’argomento.

Poi c’è quello che chiama dialogo “inautentico”, in cui i partecipanti non sono interessati a seguire l’argomento in sé, ma solo a vincere la discussione in modo da favorire i propri desideri ed interessi.

Sfortunatamente il discorso sul BDS è stato prevalentemente inautentico. Non fraintendetemi. Certamente non condanno quelli che intendono vincere la discussione e affermare i propri interessi nel panorama politico. I difensori e i sostenitori di Israele sicuramente hanno il diritto di farlo. E, per essere chiaro, lo Stato canadese è strategicamente allineato con Israele sul piano politico ed economico, il che spiega perché i parlamentari canadesi stiano sostenendo argomenti che sono in linea con gli interessi strategici di Israele e rafforzino i tentativi di Israele di sconfiggere il BDS. Di nuovo, è un diritto dei canadesi e dei loro rappresentanti, i cui interessi politici ed economici sono schierati con quelli dello Stato di Israele, dichiararsi tali.

Tuttavia quello che io chiedo è onestà. Cerchiamo di non fingere che questa discussione si interessi dei diritti umani, della libertà e della liberazione dei palestinesi. Non è così. Il parlamento canadese ha approvato senza problemi la mozione di condanna del BDS e dei suoi sostenitori con un voto di 229 a 51. La mozione non introduce alcuna sanzione legale per chi partecipa ai gruppi e alle attività BDS, ma non dovremmo qui essere tentati di pensare che si tratti di una reazione “leggera”, tipica della “moderazione” canadese in politica estera. La condanna del BDS manda un chiaro segnale, non solo ai sostenitori canadesi del BDS ma anche alla società civile palestinese: il governo canadese non è interessato a impegnarsi con quello che la società civile palestinese ha da dire sul dramma del popolo palestinese e, soprattutto, sulle sue aspirazioni.

Dal punto di vista del parlamento canadese, i palestinesi hanno diritto solo all’educazione, al lavoro e alla salute. Per la maggioranza dei parlamentari canadesi – per lo più deputati liberali e conservatori – queste necessità di base costituiscono il modo in cui intendono i diritti umani dei palestinesi, e da qui il loro appoggio alla soluzione dei due Stati, che creerebbe non uno Stato palestinese nel pieno senso di uno Stato-Nazione indipendente, ma piuttosto una struttura amministrativa il cui compito sarebbe di provvedere a queste necessità fondamentali, oltre a reprimere la resistenza palestinese contro Israele. Qualunque campagna palestinese che esprima l’aspirazione del popolo palestinese a una vita sociale e politica libera ed emancipata è considerata nel dibattito politico canadese come pericolosa e al di fuori dell’ambito di quella che viene accettata come una “legittima” rivendicazione dei diritti dei palestinesi.

Il BDS non vuol solo dire la richiesta di servizi fondamentali come l’educazione e il lavoro. Opera su una duplice base: diritti per tutti i palestinesi indipendentemente da dove si trovino nel mondo e la necessità di prendere di mira lo Stato israeliano precisamente perché impedisce la realizzazione dei diritti dei palestinesi alla libertà.

Questi principi base sono stati stabiliti dal gruppo dirigente palestinese, il Comitato Nazionale del BDS (BNC), che è stato creato nel 2007. Ogni gruppo BDS è tenuto a seguire quei principi base.

Tuttavia il BDS è anche una campagna transnazionale che incoraggia le proprie propaggini transnazionali ad agire autonomamente una volta che abbiano aderito alle sue basi costitutive. Qui il ragionamento è semplice: ogni gruppo conosce meglio il contesto in cui opera e potrebbe di conseguenza sviluppare meglio le proprie tattiche e strategie per promuovere gli obiettivi fondativi del BDS.

L’insistenza della campagna BDS nell’affrontare la questione palestinese in modo complessivo, prendendo in considerazione i rifugiati palestinesi e la questione del loro ritorno, è ciò che ha attirato la reazione ostile contro di sé, la prevalenza di un dialogo inautentico e la questione dei diritti dei palestinesi.

Ci sono due argomenti interconnessi che sono più comunemente utilizzati per contrastare il BDS in un dialogo inautentico: l’accusa di antisemitismo e il fatto di prendere di mira in modo scorretto Israele.

La tesi è più o meno questa: ci sono molti regimi oppressivi e violenti al mondo, per cui perché il BDS sta prendendo di mira Israele più degli altri? La risposta sostenuta in un dialogo inautentico è che il BDS attacca Israele solo perché è uno Stato ebraico, ed è quindi presentata come una prova dell’“antisemitismo” della campagna BDS. In effetti questa è stata una tecnica discorsiva piuttosto efficace, che molti della destra e del centro, così come alcuni della sinistra, trovano convincente. Ma se dobbiamo impegnarci in un dialogo autentico possiamo averne una comprensione diversa. La campagna BDS è nata nei Territori Palestinesi Occupati, è stata progettata, sviluppata e lanciata dalla società civile palestinese. Quindi, perché i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana avrebbero dovuto lanciare una campagna contro l’oppressione in altre parti del mondo quando sono a malapena in grado di sopravvivere alle strutture oppressive sotto le quali vivono? Solo quando il BDS viene visto come una questione “occidentale”, in seno al contesto “occidentale”, la domanda “perché Israele’” diventa sconcertante e persino convincente. I palestinesi non hanno scelto Israele semplicemente perché è uno Stato ebraico, ma prendono di mira Israele perché è lo Stato che prende continuamente di mira loro. Non è così complicato.

È certamente possibile che il BDS sia coinvolto in un dialogo inautentico con i sostenitori di Israele quando viene attaccato. Ma penso che sia più fruttuoso collocare invece il BDS in un dialogo autentico. Questa potrebbe benissimo essere una posizione ingenua, ma non riesco a vedere un altro modo per andare oltre un semplice scambio di insulti. Come dovrebbe essere un dialogo autentico? Uno dei principi fondamentali del BDS è l’antirazzismo. Di conseguenza il BDS in Canada (e credo che ciò valga anche per gli USA e per la Gran Bretagna) dovrebbe affrontare la questione dell’antisemitismo come parte integrante dello spazio in cui la campagna dovrebbe agire. L’antisemitismo è ancora reale, concreto, molto pericoloso e persino in crescita e in espansione. È possibile che alcune delle persone che appoggiano il BDS in Canada (e in qualunque altra parte), soprattutto in rete, abbiano opinioni antisemite? Sicuramente è possibile. I militanti e i gruppi BDS dovrebbero quindi essere attenti e cercare di espellere questa gente dai loro gruppi, che siano sostenitori digitali o siano fisicamente presenti agli eventi BDS. Possiamo e dobbiamo avere più discussioni approfondite sull’antisemitismo, così come sulla natura della resistenza palestinese contro Israele, radicata nell’espulsione e nelle sofferenze dei palestinesi per mano dello Stato di Israele.

Non so cosa riservi il futuro alla campagna BDS, ma so che non è che l’ultima manifestazione di un tipo di resistenza palestinese che non cesserà mai. Se il BDS viene sconfitto, allora la storia suggerisce che un’altra campagna o attività prenderà il suo posto. Indipendentemente da quello che Israele, gli USA, la Gran Bretagna, il Canada o il resto del mondo desiderano, una resistenza palestinese che intenda affrontare le sofferenze del popolo palestinese in modo complessivo non finirà nella pattumiera della storia. Continuerà a comparire e riapparire finché non verrà fatta giustizia. Prima ognuno si renderà conto di ciò e lo accetterà, prima potremo intavolare un dialogo autentico sui diritti dei palestinesi ed affrontare in modo corretto le aspirazioni di tutto il popolo in Palestina/Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di feriti nella marcia dei palestinesi alla barriera di Gaza nel Giorno della Nakba.

MEE and agencies

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno ferito decine di palestinesi a Gaza, quando migliaia di manifestanti si sono radunati vicino alla barriera di confine tra Gaza e Israele per commemorare il giorno della Nakba.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che mercoledì sono stati feriti almeno 65 manifestanti, compresi 15 che hanno presentato ferite da armi da fuoco.

La protesta è stata organizzata per commemorare il Giorno della Nakba (catastrofe), l’anniversario dell’espulsione forzata di circa 750.000 palestinesi nel 1947-48, prima e durante la fondazione dello Stato di Israele.

Mercoledì un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye che almeno 10.000 palestinesi hanno preso parte ai “disordini” nei dintorni della barriera.

Il portavoce ha detto che vi sono stati “molti tentativi” di infrangere la barriera e che le forze israeliane hanno reagito con “mezzi antisommossa”.

Quest’anno le manifestazioni per il Giorno della Nakba si svolgono due settimane dopo che un’offensiva aerea israeliana ha ucciso oltre 20 palestinesi a Gaza e ne ha feriti molti di più.

Il 6 maggio Israele e le fazioni palestinesi hanno raggiunto un cessate il fuoco.

Ogni anno, il 15 maggio, i palestinesi di tutto il mondo commemorano la Nakba, organizzando manifestazioni e chiedendo una soluzione alla loro grave situazione in modo che possano tornare alle case da cui sono stati espulsi.

Si stima che 15.000 palestinesi siano stati uccisi durante la fondazione dello Stato di Israele 71 anni fa. Vennero anche distrutti quasi 500 villaggi palestinesi.

L’agenzia di informazioni Reuters ha riferito che Khader Habib, un membro della fazione palestinese Jihad Islamica, parlando in uno dei siti della protesta a Gaza, ha chiamato i palestinesi a “sollevarsi” e “affermare i propri diritti in Palestina.”

“La Palestina è nostra. Il mare è nostro, la terra è nostra e gli stranieri devono essere cacciati”, ha detto.

Lo scorso anno la Nakba ha coinciso con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, una contestata decisione dell’amministrazione Trump che è stata accolta con generale rabbia e frustrazione.

In seguito al trasferimento dell’ambasciata, circa 40.000 palestinesi hanno manifestato l’anno scorso a Gaza e le forze israeliane hanno ucciso almeno 60 persone e ne hanno ferite più di 1.000.

Associazioni per i diritti umani e ricercatori delle Nazioni Unite hanno criticato l’esercito israeliano per uso eccessivo della forza nel reagire alle manifestazioni prevalentemente non violente a Gaza.

Nelle frequenti proteste presso la barriera di confine sono stati uccisi quasi 300 palestinesi e alcune migliaia sono rimasti feriti.

Tali proteste, note come la “Marcia del Ritorno”, sono iniziate nel marzo 2018. Chiedono che i palestinesi possano tornare alle loro case in quello che oggi è Israele.

Per decenni Israele ha respinto quella richiesta, nonostante la Risoluzione 194 dell’ONU [del 1948, ndtr.] sancisca il diritto al ritorno dei palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Adolescente omicida agli arresti domiciliari

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

Oggi l’adolescente che ha ucciso Aisha Al-Rabi, una madre, è stato rilasciato e mandato agli arresti domiciliari.

Ieri il tribunale israeliano del distretto di Lod ha deciso di rilasciare e inviare agli arresti domiciliari il ragazzo, imponendogli di indossare un braccialetto elettronico. È stato rilasciato oggi dopo che lo Stato aveva avuto un giorno di tempo per decidere se ricorrere alla Corte Suprema contro la decisione.

Il sedicenne – di cui non può essere fatto il nome per un ordine di riservatezza imposto dal tribunale – a gennaio è stato accusato di omicidio colposo, lancio di pietre aggravato e danneggiamento intenzionale di un veicolo “nel contesto di un atto terroristico” compiuto per uccidere Al-Rabi in ottobre. In un primo tempo si pensava che il ragazzo avrebbe trascorso “un considerevole periodo di carcerazione” con il massimo di condanna a 20 anni, anche se ha evitato le accuse di omicidio che lo avrebbero condotto a passare la vita in prigione.

Tuttavia all’inizio di questo mese il giudice israeliano Hagai Tarsi ha annunciato che “il Servizio di Libertà Vigilata esaminerà la possibilità di mandare il minore agli arresti domiciliari, con un dispositivo di monitoraggio elettronico, presso la casa dei suoi nonni a Kfar Saba”, a nordest di Tel Aviv. Tarsi ha detto che il sospettato “sarà per 24 ore al giorno sotto la sorveglianza dei genitori, dei nonni e di altri membri della famiglia designati e che gli sarà impedito di contattare altre persone”. Inoltre al momento Haaretz ha riferito che il giudice stabilirà una cauzione per il sospettato di 100.000 shekel (circa 25.000 euro).”

Secondo un rapporto di oggi di Arutz Sheva [rete mediatica israeliana, legata al sionismo religioso, ndtr.], la decisione del tribunale di rilasciare il ragazzo è stata presa in seguito ad un parere inviato dal direttore del Centro Nazionale di Medicina Forense, Dr. Chen Kugel. Egli ha affermato che le ferite riscontrate alla testa di Al-Rabi “non corrispondono ad un colpo procurato da una pietra”, che è il modo in cui sarebbe stata uccisa la 47enne madre di otto figli.

Kugel ha aggiunto: “Due medici mi hanno dato ragione, affermando che le ferite sul cranio della defunta erano compatibili con un danno provocato da una forza molto grande e non da un colpo di pietra. Uno di questi medici ha anche appoggiato la mia tesi secondo cui sembrano esserci almeno due punti di impatto.”

Haaretz ha tuttavia aggiunto che altri professionisti non hanno concordato con l’interpretazione di Kugel, aggiungendo che “hanno ritenuto che una pietra potesse aver provocato questo tipo di ferita.”

Il vedovo di Aisha, Yaqoub Al-Rabi, oggi ha detto a Haaretz di aver appreso degli arresti domiciliari al sospettato dal giornale israeliano e che “nessun funzionario israeliano lo ha aggiornato sugli sviluppi del caso.”

Al-Rabi ha aggiunto: “Tramite voi chiedo agli israeliani: se le cose fossero andate al contrario, pensate che un sospettato palestinese sarebbe stato rilasciato se la vittima fosse stata israeliana? Penso che la risposta per voi sia del tutto chiara, ma per noi palestinesi mi dispiace dire che non c’è nessuna speranza.”

Nell’atto d’accusa presentato contro il ragazzo sono stati rivelati parecchi dettagli sull’uccisione di Al-Rabi. La corte ha potuto apprendere che lui e diversi altri studenti il 12 ottobre sono partiti dalla Pri Haaretz yeshiva (seminario religioso) nella colonia illegale di Rehelim, situata sulla Route 60 a sud di Nablus nella Cisgiordania occupata.

Poi il gruppo è salito sulla collina vicino all’incrocio di Tapuah (Za’atara) della Route 60, dove il ragazzo ha afferrato una grossa pietra del peso di circa due chili e si è preparato a scagliarla contro un veicolo palestinese, ‘per una motivazione ideologica di razzismo e ostilità nei confronti degli arabi ovunque’. Dopo aver identificato la targa palestinese dell’auto di Al-Rabi, ha lanciato la grossa pietra che ha infranto il finestrino del lato del passeggero ed ha colpito alla testa Al-Rabi.

Nel corso dell’indagine che ne è seguita, il DNA del ragazzo è stato trovato sulla pietra che ha ucciso Al-Rabi. Nella sua deposizione il ragazzo ha sostenuto che ciò poteva essere dovuto al fatto che lui “stava passeggiando a lungo in quella zona e potrebbe avere sputato colpendo la pietra.”

Il giovane colono era rappresentato da Adi Keidar, un avvocato appartenente all’associazione di aiuto legale Honenu, che fornisce assistenza legale agli israeliani sospettati di terrorismo. Keidar attualmente rappresenta Amiram Ben-Uliel, uno dei due coloni accusati di aver ucciso la famiglia Dawabsheh nell’ incendio doloso nella loro casa nel villaggio di Duma in Cisgiordania nel luglio 2015. Tre membri della famiglia Dawabsheh – il padre Saad, la madre Riham e il loro figlio Ali di 18 mesi – sono morti nell’incidente, lasciando orfano Ahmed che allora aveva cinque anni.

Mentre Ben-Uliel è ancora sotto indagine, in questo fine settimana il suo giovane complice ha confessato e verrà incriminato per cospirazione nell’appiccare l’incendio avendo commesso un crimine con una motivazione razziale. Ha confessato dopo che è stato raggiunto un patteggiamento, in base al quale “la procura ha acconsentito a non chiedere una condanna a più di cinque anni e mezzo di prigione.”

In aprile si è saputo che attivisti di estrema destra avevano fatto pressione sul ragazzo perché non accettasse il patteggiamento. Shmuel Eliyahu, il rabbino di Safed, nel nord di Israele, sarebbe stato chiamato a mediare tra l’ufficio del Procuratore di Stato, il ragazzo e gli attivisti di destra.

Eliyahu è un personaggio controverso, che ha detto ai ragazzi sospettati dell’uccisione di Al-Rabi che non dovevano temere la prigione perché “è lì che inizia la strada per il potere politico”. Eliyahu sostiene di aver detto ai ragazzi: “Quale è il problema? Di che cosa siete accusati? Avete tirato una pietra. Sapete quante pietre vengono lanciate nella Cisgiordania occupata per le quali l’esercito israeliano non fa niente?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 23 aprile – 6 maggio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza e in Israele, tre giorni di intense ostilità hanno provocato l’uccisione di 25 palestinesi (tra cui tre minori e due donne incinte) e quattro civili israeliani. Tra i feriti 153 palestinesi e 123 israeliani.

Lo scontro ha raggiunto il culmine tra il 3 e il 6 maggio, in seguito al ferimento di due soldati israeliani durante le proteste settimanali per la “Grande Marcia di Ritorno” (GMR) del 3 maggio. A quanto riferito, il ferimento sarebbe stato opera di un cecchino palestinese, al quale ha fatto seguito l’attacco dell’aeronautica israeliana contro le postazioni di Hamas e l’uccisione di due suoi membri. Nei giorni successivi, le forze israeliane hanno colpito circa 320 obiettivi in Gaza, mentre gruppi armati palestinesi hanno sparato quasi 700 tra missili e proiettili di mortaio contro Israele. Secondo prime valutazioni, a Gaza sono state distrutte 41 abitazioni e altre 16 sono state gravemente danneggiate e rese inabitabili. Sono state danneggiate anche 13 strutture scolastiche, un centro sanitario e varie reti elettriche. Un accordo informale per il cessate il fuoco, raggiunto attraverso mediazione egiziana e delle Nazioni Unite, è entrato in vigore nella prima mattina del 6 maggio e risulta rispettato al momento della pubblicazione del presente rapporto.

Inoltre, in proteste svolte il 26 aprile ed il 3 maggio vicino alla recinzione israeliana di Gaza nell’ambito delle manifestazioni per la GMR, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi, ferendone altri 370 circa. Secondo fonti mediche palestinesi, di tutti i palestinesi feriti durante proteste tenute nel periodo di riferimento [del presente rapporto] , 237 sono stati ricoverati in ospedale; 91 di questi presentavano ferite da armi da fuoco.

Il 30 aprile, in risposta al lancio di missili da Gaza verso il mare, effettuato da gruppi armati palestinesi, le autorità israeliane hanno ridotto da 15 a 6 miglia nautiche la zona di pesca consentita lungo la costa meridionale di Gaza. Il 4 maggio, in un contesto di crescenti ostilità, le autorità israeliane hanno proibito tutte le attività di pesca al largo della costa di Gaza. Inoltre, il valico pedonale di Erez e il valico per le merci di Kerem Shalom, entrambi controllati da Israele, sono stati chiusi al transito di persone e merci; fanno eccezione determinati viaggiatori (internazionali) e l’importazione di carburante per la Centrale Elettrica di Gaza.

Il 20 aprile, al checkpoint di Za’tara (Nablus), le forze israeliane hanno sparato e ferito un 20enne palestinese che, presumibilmente, aveva tentato di pugnalare un soldato israeliano; per le ferite riportate, l’aggressore è deceduto il 27 aprile in un ospedale israeliano e il suo corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Nessun israeliano risulta ferito nell’episodio. Ciò porta a sei, dall’inizio del 2019, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in attacchi e presunti attacchi. In un altro episodio, avvenuto il 29 aprile, vicino al villaggio di Ya’bad (Jenin), un palestinese è stato colpito e ferito dalle forze israeliane, presumibilmente dopo aver aperto il fuoco contro una postazione militare israeliana.

In aree [di terra, interne alla Striscia e] adiacenti alla recinzione perimetrale ed [in aree di mare,] al largo della costa di Gaza, in circa 30 occasioni estranee alle proteste per la GMR, le forze israeliane, in applicazione delle restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di tre palestinesi. In uno degli episodi, due pescatori palestinesi sono stati arrestati e le loro imbarcazioni sono state confiscate dalle forze navali israeliane.

In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, in numerosi scontri con le forze israeliane, complessivamente sono rimasti feriti 63 palestinesi. Ciò rappresenta una riduzione significativa di circa il 63%, rispetto alla media quindicinale di 170 feriti registrata, fino ad ora, nel 2019. 17 palestinesi [dei 63] sono stati feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane che stavano accompagnando coloni israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe. Altri due palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) durante scontri scoppiati nel corso della protesta settimanale contro le restrizioni all’accesso e l’espansione degli insediamenti. Altri 40 feriti si sono avuti ad Al ‘Eizariya, nella città di Abu Dis, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) e nella città di Qalqiliya, in scontri seguiti a cinque operazioni di ricerca-arresto condotte da forze israeliane. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 141 di queste operazioni, il 4% delle quali ha provocato scontri.

A Gerusalemme Est e nella zona C della Cisgiordania, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 41 strutture di proprietà palestinese, sfollando 38 persone e creando danno ad altre 121. 37 strutture [delle 41 citate] erano a Gerusalemme Est e 4 nella Zona C. Nella sola giornata del 29 aprile, le autorità israeliane hanno demolito 31 strutture in diversi quartieri di Gerusalemme Est, segnando il maggior numero di strutture demolite in un solo giorno a Gerusalemme Est da quando, nel 2009, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori palestinesi occupati (OCHAoPt) ha avviato sistematicamente il monitoraggio delle demolizioni. Il 3 maggio, il Coordinatore Umanitario Jamie Mc Goldrick, insieme ai Capi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Profughi della Palestina nel Vicino Oriente (UNRWA) e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che invita Israele al rispetto del diritto internazionale e a porre fine alla distruzione di proprietà palestinesi a Gerusalemme Est.

Il 25 aprile, le autorità israeliane hanno demolito una casa nel villaggio di Az Zawiya (Salfit), nella zona B, con motivazione “punitiva”, sfollando una famiglia di sette persone, di cui cinque minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese di 19 anni accusato di aver ucciso, il 17 marzo 2019, vicino all’insediamento israeliano di Ariel (Salfit), un soldato israeliano e un colono israeliano, oltre ad aver ferito un altro soldato. Il giovane fu ucciso da forze israeliane in un successivo episodio. Dall’inizio del 2019, questa è la quinta demolizione del genere. Nel 2018 tali demolizioni furono sei e nove nel 2017.

In Cisgiordania sono stati registrati tredici attacchi attribuiti a coloni israeliani, con conseguente ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah), un gruppo di coloni israeliani, alcuni dei quali armati, hanno aggredito fisicamente e ferito tre palestinesi che stavano misurando terreni. Inoltre, in cinque episodi verificatesi nelle ultime due settimane, coloni israeliani, accompagnati dall’esercito israeliano, hanno vandalizzato proprietà palestinesi nella zona della sorgente di Ein Harrasheh, ed un parco pubblico nella zona B del villaggio Al Mazra’a Al Qibliya (Ramallah); secondo fonti della comunità locale, i coloni hanno lanciato pietre contro due case, hanno molestato palestinesi ed hanno vandalizzato tubature dell’acqua e infrastrutture del parco. Nel villaggio di ‘Urif (Nablus), dopo che coloni avevano lanciato pietre contro una scuola per ragazzi e contro le case circostanti, sono scoppiati scontri che hanno visto palestinesi contrapposti ai coloni ed alle forze israeliane che li accompagnavano. In altri cinque episodi verificatisi a Burqa (Ramallah), Isla (Qalqiliya), Huwwara (Nablus) ), al Ganoub (Hebron) e nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno vandalizzato 51 ulivi, hanno bucato le gomme di dodici veicoli palestinesi, hanno spruzzato scritte “questo è il prezzo” su quattro case palestinesi e danneggiato un negozio. Dall’inizio del 2019, la media bisettimanale [14 giorni] di attacchi di coloni (con vittime palestinesi o danni alle proprietà) ha registrato un aumento del 40% rispetto alla media bisettimanale [14 giorni] del 2018, e del 133% rispetto al 2017.

Media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani; una colona israeliana è stata ferita e diversi veicoli sono stati danneggiati.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è rimasto aperto per tre giorni in entrambe le direzioni e quattro giorni in una direzione. Un totale di 2.662 persone, tra cui 1.451 pellegrini, sono entrati a Gaza e 2.466 ne sono usciti, tra cui 1.603 pellegrini.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Rapporto sulla Protezione dei Civili nei Territori Palestinesi occupati

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Storie di sofferenza tragicamente normale a Gaza

Tania Hary

6 maggio 2019 +972

Ho ricevuto una mail da un uomo che mi chiedeva se avrei potuto aiutare lui e la sua famiglia a scappare da Gaza se fosse scoppiata una guerra. Sembra così ragionevole, finché non ti rendi conto che non ci sono precedenti di evacuazione di civili palestinesi in tempo di guerra.

Ieri un personaggio di Gaza popolare nei social media ha twittato che se avesse dovuto scegliere un film che assomigliasse di più alla vita nella Striscia sarebbe stato Groundhog’s Day [Ricomincio da capo]. Nella commedia del 1993 il protagonista è obbligato a rivivere in continuazione lo stesso giorno. Potrebbe sembrare un’osservazione superficiale, dato che ieri è stato il giorno più sanguinoso dello scontro tra Israele e Gaza dall’operazione militare del 2014 [“Margine protettivo”], con 27 palestinesi uccisi dalle forze israeliane e quattro cittadini israeliani uccisi dal lancio di razzi da Gaza. La morte, la distruzione e la fosca previsione di un’altra guerra vissuta da milioni di persone sono cose troppo dure per essere prese alla leggera.

  • La considerazione ovviamente riguardava qualcosa di molto più sinistro – una sensazione pervasiva di esserci già passati prima, di vedere lo stesso film. Ci alziamo, c’è un’escalation, persone (per lo più palestinesi) vengono uccise, un cessate il fuoco i cui dettagli non vengono mai del tutto resi noti entra in vigore proprio nel momento in cui pare che le cose possano scappare di mano, e poi un taglio, il film finisce.

Tuttavia, come hanno osservato giustamente molti analisti, gli accordi raggiunti in questi oscuri cessate il fuoco non sono stati posti in essere, spingendo quindi le fazioni palestinesi a prendere le armi e a rafforzare la propria posizione negoziale. Ci alziamo, c’è un’escalation, le persone (per lo più palestinesi) vengono uccise, ecc. ancora e ancora, si sa già la dinamica.

Anch’io sto guardando quel film, dalla mia prospettiva fuori dalla Striscia, per lo più dall’ufficio di Tel Aviv in cui lavoro come direttrice di un’organizzazione israeliana per i diritti umani che promuove la libertà di movimento per i palestinesi. Ma ovviamente non si tratta di un film, e le persone a Gaza stanno vivendo la vita reale – quando i media informano e quando non lo fanno.

Ieri ho sentito molte storie dai nostri amici, clienti, partner e altri contatti a Gaza. Non erano necessariamente le storie più drammatiche, non sono arrivate ai notiziari della notte. Erano le storie devastanti ma normali delle esperienze di vita di moltissime persone a Gaza. Erano le storie della normalità da “Groundhog Day” a Gaza.

Una mail con oggetto “Evacuazione in caso di guerra”, in cui un uomo chiedeva se “Gisha” [Ong israeliana per i diritti umani, ndtr.] potesse aiutare lui e la sua famiglia a scappare. Sembra così ragionevole, finché non ti rendi conto che non ci sono precedenti di evacuazione di civili palestinesi durante le ultime tre principali operazioni militari. Le uniche persone evacuate sono state alcune centinaia di possessori di passaporti stranieri e solo dopo che gli scontri erano finite.

Il nostro operatore sul campo a Gaza ha confidato di aver cercato di dire ai suoi figli che le esplosioni che sentivano non erano niente, o che erano lontane, e che non rappresentavano una minaccia, ma ha lamentato (quasi con orgoglio) che i suoi figli piccoli la sapevano troppo lunga per credergli.

Un giovane uomo di soli 29 anni, ci ha mandato foto, prima e dopo, del suo negozio di vestiti distrutto. Ha raccontato che aveva investito i risparmi della sua misera vita nel negozio e aveva ordinato vestiti per Eid-al-Fitr, la festa che segna la fine del Ramadan, quando la gente che può permetterselo si compra vestiti nuovi. Il negozio a piano terra era ridotto a un cumulo di macerie e tutte le merci erano rimaste distrutte in uno degli attacchi che hanno demolito l’intero edificio. Un attacco missilistico ha tolto il lavoro a lui e ai suoi due dipendenti e in una frazione di secondo lo ha precipitato nell’abisso di debiti insostenibili. Forse sono stati fortunati ad esserne usciti vivi, rendendo la loro storia praticamente insignificante. Non sono neanche riusciti a risultare nel macabro conteggio dei “loro” morti contro i “nostri” nei notiziari della sera.

Così tanti civili hanno pagato, stanno pagando e pagheranno il prezzo della follia di leader moralmente senza remore che ci precipitano in guerra, e poi all’improvviso ce ne allontanano. Non ci sono solo “due parti” in questa storia, ci sono molteplici modi in cui può finire e non tutti promettono guerra contro milioni di persone.

Siamo bloccati in un circolo vizioso non solo perché gli accordi di cessate il fuoco non vengono messi in pratica, ma perché Israele e molti dei suoi alleati rifiutano di comprendere che i civili rappresentano la grandissima maggioranza della popolazione della Striscia. Le loro vite e ogni aspetto della vita nella Striscia sono stati ridotti a merce di scambio – il limite della zona di pesca sarà di sei miglia o di dodici o di quindici o di nuovo di sei? La prossima stagione le fragole arriveranno in Cisgiordania? Riuscirai a vedere tuo padre malato in Cisgiordania?

Israele è il principale attore che decide se i palestinesi di Gaza vivranno o moriranno durante ogni determinata escalation, ma anche come vivranno tra una violenta escalation e l’altra – se il loro negozio otterrà i suoi prodotti, se riceveranno le cure di cui hanno bisogno, se possono pescare o coltivare la terra in sicurezza. Anche altri attori – Hamas, altre fazioni palestinesi, l’Autorità Nazionale Palestinese, l’Egitto, il Qatar e il resto della comunità internazionale – stanno giocando un ruolo.

Ma se Israele volesse uscire dal circolo vizioso potrebbe, in qualunque momento, compiere una serie di passi per cambiare rotta a Gaza e riconoscere le vite normali di civili normali che hanno il diritto di vivere – cioè, non solo sopravvivere, ma di prosperare. Le armi tacciono, per modo di dire, ma non è il momento di guardare altrove. Non si tratta di applicare o non applicare il cessate il fuoco, si tratta di spezzare la maledizione di ripetere in continuazione lo stesso copione.

Tania Hary è la direttrice esecutiva di Gisha – Centro Legale per la Libertà di Movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




No, l’escalation non inizia con i razzi su Israele

Orly Noy

5 maggio 2019 , + 972

Israele può raccontare a sé stesso e al resto del mondo la storia di essere una vittima. In realtà da un decennio sta facendo violenza a due milioni di abitanti di Gaza assediati.

Mentre il numero delle vittime da entrambe le parti del confine di Gaza continua a crescere, i politici israeliani sono impegnati nella loro annosa questione: dobbiamo distruggere Gaza? Cancellarla? Oppure dobbiamo ricacciarla all’età della pietra? Propongo di trarre una lezione diversa dalla terribile violenza che, finora, è già costata la vita a 16 palestinesi e 4 israeliani: noi israeliani dobbiamo imparare l’arabo.

Mi rendo conto che la mia proposta è molto meno allettante per la maggior parte degli israeliani della “soluzione” che comporta più violenza e spargimento di sangue, ma a lungo termine potrebbe essere proprio la più efficace. Dopotutto, imparare l’arabo è l’unico modo per superare la nostra ignoranza riguardo a ciò che accade dall’altra parte tra un’“escalation” e l’altra, che secondo Israele inizia sempre con la prima vittima israeliana.

La prima cosa che si impara in ogni corso introduttivo di storia è che la storia è scritta dai vincitori. Può essere vero, ma questo non cancella il ruolo dei vinti. Forse la storia è scritta dai vincitori, ma è fatta da tutti i soggetti coinvolti.

Israele può raccontare a sé stesso e al mondo la storia che vuole. Può parlare di “escalation” solo quando cadono razzi nel sud, o di terrorismo solo quando i suoi cittadini ne pagano il prezzo. Può cancellare il feroce blocco di Gaza, l’indigenza senza fine della sua popolazione, i cecchini che uccidono manifestanti disarmati, gli spari contro i pescatori, la mancanza di acqua potabile, di elettricità, di infrastrutture, l’economia e la disoccupazione.

Però nulla di tutto ciò cesserà di far parte della storia dell’occupazione e della violenza. Con il dovuto rispetto, una narrazione non può sostituire la realtà e nella realtà Israele ha maltrattato due milioni di gazawi per oltre un decennio. Che cosa pensavamo che sarebbe successo? Che poiché i più forti hanno il potere di raccontare la storia i deboli semplicemente sarebbero scomparsi?

Coloro che seguono le trasmissioni in lingua araba in mezzo ai vari attacchi coi razzi sul sud di Israele scopriranno un universo parallelo che i media ebraici difficilmente prendono in considerazione. Per loro, “escalation” non vuol dire lancio di razzi sul sud (di Israele) – è vita quotidiana. E non solo a Gaza, ovviamente. Aprite qualunque sito di informazioni palestinese durante questi cosiddetti periodi di “calma” e scoprirete che la guerra non finisce mai davvero. I bambini palestinesi continuano a essere arrestati, le case palestinesi continuano ad essere demolite e i palestinesi continuano ad essere espulsi dalla loro terra.

E’ impossibile comprendere la nostra realtà senza comprendere la loro. Se non per umanità basilare, almeno per la consapevolezza che i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania fanno anch’essi parte della storia che stiamo vivendo. Nessuna propaganda israeliana può cambiare questo.

Un’analoga ignoranza ammorba il discorso pubblico nei confronti degli abitanti del sud di Israele, che sono stati pesantemente colpiti dai razzi negli ultimi quindici anni. Non è neppure questione di condiscendenza e ‘schadenfreude’ [dal tedesco: rallegrarsi della sfortuna altrui, ndtr.] (“Hanno votato Netanyahu? Si meritano i razzi”): il problema principale è che questo modo di pensare riduce le loro esperienze all’essere dei bersagli. Ad essere delle vittime.

Questo atteggiamento verso gli abitanti di quella che viene comunemente chiamata “la periferia” nasce non solo nel contesto dei lanci di razzi, ma caratterizza la posizione prevalente in Israele rispetto a tutto ciò che non fa parte dell’area di Tel Aviv. Il ruolo della periferia nel discorso politico israeliano è quello della vittima. Dopotutto, anche Tel Aviv è stata in precedenza colpita da razzi da Gaza, eppure nessuno si aspetta che i suoi abitanti adeguino il proprio modo di votare alla loro nuova situazione. E’ sufficiente sapere che questo non sarebbe avvenuto nemmeno se gli abitanti di Tel Aviv avessero continuato ad essere bombardati.

Personalmente credo che chiunque voti per Netanyahu non solo prende una decisione immorale, ma vota contro i propri interessi personali come cittadino di questo Stato. Capisco anche che agli occhi dei suoi elettori questo non è semplicemente un capriccio. Il primo ministro offre ai suoi sostenitori la promessa di un costante e violento dominio sui palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, incrementando al contempo la supremazia ebraica all’interno di Israele. Non si può ignorare la logica di queste priorità, a prescindere da quanto siano immorali.

Gli abitanti del sud di Israele che hanno votato per Netanyahu non lo hanno fatto a causa del ruolo che l’Israele che conta ha disegnato per “i poveri abitanti di una periferia sotto il tiro dei razzi”. Lo fanno perché sono cittadini ebrei in uno Stato suprematista ebraico.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call.

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Sono un’attivista politica, un tempo all’interno della ‘Coalition for Peace’ e di ‘Mizrahi Democratic Rainbow’, ed attualmente come membro del comitato esecutivo di ‘B’Tselem’, e sono attivista del partito politico Balad [partito arabo ed ebraico israeliano antisionista, ndtr.]. Mi occupo delle linee che attraversano e definiscono la mia identità come mizrahi [ebrei di origine araba o degli altri Paesi del Medio Oriente, ndtr.], femminista di sinistra, donna, migrante temporanea che vive all’interno di una continua migrazione e del costante dialogo tra di esse. Traduco poesia e prosa dal farsi [lingua parlata in Iran, ndtr.] e il mio sogno è di costruire, se non un’intera biblioteca, almeno un semplice scaffale di libri persiani in ebraico, come atto politico nella lotta contro l’emarginazione della cultura mizrahi nel dibattito israeliano.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)