Netanyahu promette “attacchi massicci” a Gaza mentre sale il numero di morti

Al Jazeera

5 maggio 2019

Nove palestinesi e tre israeliani uccisi, mentre le forze israeliane si ammassano sul confine di Gaza, alimentando il timore di un’invasione di terra.[ i dati aggiornati sono 27 palestinesi uccisi e 4 israeliani ndt]

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato “attacchi massicci” contro la Striscia di Gaza dopo un’escalation di due giorni che ha portato all’uccisione di nove palestinesi e tre israeliani.

Domenica aerei da guerra e cannoniere israeliani hanno continuato a colpire la Striscia di Gaza mentre combattenti nell’enclave assediata hanno sparato una raffica di razzi sul sud di Israele.

Un comandante di Hamas di 34 anni è stato ucciso in quello che l’esercito israeliano ha descritto come un attacco mirato. Un comunicato dell’esercito ha accusato Hamad al-Khodori di “aver trasferito grandi somme di denaro” dall’Iran alle fazioni armate di Gaza.

È stato il quinto palestinese che si dice sia stato ucciso domenica. Altre vittime palestinesi hanno incluso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, uccise sabato a Gaza.

Nella città israeliana di Ashkelon un cinquantottenne israeliano è stato ucciso dopo essere stato colpito dalle schegge per un attacco con i razzi. Altri due israeliani, gravemente feriti domenica pomeriggio in diversi attacchi con i razzi contro una fabbrica, in seguito sono morti.

Questa mattina ho dato istruzioni alle IDF (l’esercito israeliano) di continuare con massicci attacchi contro i terroristi nella Striscia di Gaza,” ha detto domenica in un comunicato Netanyahu, che ha anche l’incarico di ministro della Difesa, dopo aver consultato il gabinetto di sicurezza.

Ha detto di aver anche ordinato che “carri armati, artiglieria e forze di fanteria” rinforzino le truppe già schierate nei pressi di Gaza, un’iniziativa che suscita timori di un’invasione di terra.

Hamas è responsabile non solo per i suoi attacchi contro Israele, ma anche per quelli della Jihad Islamica, e sta pagando un prezzo molto alto per questo,” ha aggiunto Netanyahu.

Sabato a Gaza fazioni armate, altrimenti note come “Joint Operations Room” [Sala Operativa Unitaria], che include il braccio armato di Hamas e quello del Movimento della Jihad Islamica in Palestina, hanno giurato di “estendere la propria risposta” se l’esercito israeliano continua a prendere di mira la Striscia.

La nostra risposta sarà più vasta e più dolorosa nel caso in cui (Israele) estenda l’aggressione, e continueremo ad essere lo scudo protettivo del nostro popolo e della nostra terra,” ha affermato in un comunicato la Joint Operations Room.

Harry Fawcett, che informa dal lato israeliano del confine con Gaza per Al Jazeera, ha affermato che l’escalation è “tutt’altro che finita”.

È potenzialmente una grave escalation militare pericolosa e lunga,” dice. “I mezzi di informazione israeliani hanno citato importanti fonti della difesa, che hanno detto di aspettarsi che questo scontro durerà alcuni giorni.”

I media israeliani hanno informato che negli ultimi due giorni i combattenti di Gaza hanno lanciato più di 400 razzi verso città e cittadine nella parte meridionale di Israele e che il sistema antimissile israeliano Iron Dome ne ha intercettati più di 250.

L’ufficio stampa del governo a Gaza ha detto che aerei da guerra israeliani hanno condotto circa 150 raid, oltre ai bombardamenti dell’artiglieria che hanno preso di mira 200 luoghi di interesse civile nella Striscia di Gaza, compresi edifici residenziali, moschee, negozi e mezzi d’informazione.

Secondo il ministero della Salute di Gaza circa 70 palestinesi sono rimasti feriti negli attacchi.

In seguito ai raid aerei l’abitante di Gaza Um Alaa Abu Absa ha passato la domenica a raccogliere pezzi di vetro e detriti nella sua proprietà.

Ci sono stati molti bombardamenti, i vicini sono stati molto colpiti, la scena per strada era indescrivibile, la gente aveva paura, era terrorizzata e correva, e ognuno si occupava dei propri figli, nessuno era nelle condizioni di vedere gli altri,” ha detto Abu Absa.

Uno degli edifici distrutti ospitava l’ufficio dell’agenzia ufficiale di notizie dello Stato turco Anadolu a Gaza.

Chiediamo alla comunità internazionale di agire prontamente per allentare le tensioni che si sono accentuate a causa delle azioni sproporzionate di Israele nella regione,” ha affermato un comunicato del ministero degli Esteri turco.

Domenica l’esercito israeliano ha negato che Falastine Abu Arar, madre incinta di 37 anni, e la sua nipotina di 14 mesi, Siba, siano state uccise dalle forze israeliane. Ha invece incolpato un errore nel lancio di un razzo palestinese.

Sabato notte anche due palestinesi, Imad Nseir, di 22 anni, e Khaled Abu Qaleeq, di 25, sono stati uccisi da attacchi aerei israeliani.

Il gruppo della Jihad Islamica palestinese ha detto che i due uomini uccisi durante la notte di domenica, Mahmoud Issa, di 26 anni, e Fawzi Bawadi, di 23, erano membri del suo braccio armato.

Il ministero della Salute ha affermato che nel primo pomeriggio altri due palestinesi sono stati uccisi dopo che un raid aereo israeliano ha preso di mira un gruppo di persone nel quartiere orientale di Gaza City di Shujayea,. Gli uomini sono stati identificati come Bilal Mohammed al-Banna e Abdullah Abu Atta, pare entrambi sui vent’anni.

Poco dopo, in quello che i palestinesi hanno definito il primo assassinio mirato dal 2014, a Gaza City un attacco aereo israeliano ha colpito l’auto di al-Khoudary, comandante di Hamas. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti nell’attacco.

Pericolosa escalation”

Il Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha chiesto a tutte le parti di “ridurre immediatamente la tensione e di tornare alle intese degli ultimi mesi.”

Sono profondamente preoccupato di un’ennesima pericolosa escalation a Gaza e della tragica perdita di vite umane,” ha detto.

I miei pensieri e le mie preghiere vanno alle famiglie e agli amici di tutti quelli che sono stati uccisi, e auguro una rapida guarigione ai feriti.”

L’ultima crisi è arrivata dopo che venerdì altri quattro palestinesi sono rimasti uccisi in due diversi incidenti.

Due di loro sono stati colpiti a morte durante le proteste settimanali della Grande Marcia del Ritorno nei pressi del confine orientale di Gaza, mentre un raid aereo che ha preso di mira un avamposto di Hamas ha ucciso due membri del braccio armato del movimento.

L’esercito israeliano ha affermato che il raid aereo era una risposta a una sparatoria che ha ferito due suoi soldati nei pressi del confine.

Il nostro corrispondente ha detto che un attacco israeliano con un drone nei pressi di un veicolo, che ha ferito tre palestinesi, ha preceduto il lancio di una raffica di razzi.

Da quando Hamas ha preso il controllo del territorio nel 2007 Israele ed Egitto hanno mantenuto un blocco asfissiante contro Gaza.

Dopo pesanti scontri, alla fine di marzo Israele ha accettato di alleggerire il blocco in cambio di un’interruzione del lancio di razzi. Ciò ha incluso l’estensione della zona di pesca lungo le coste di Gaza, un aumento delle importazioni a Gaza e il permesso al Qatar, Stato del Golfo, di consegnare aiuti all’immiserito territorio.

Tuttavia Israele non ha rispettato gli accordi su questi temi e alla fine di aprile ha ridotto l’estensione della zona di pesca.

Varie intese rese note riguardo all’alleggerimento delle restrizioni economiche, alla creazione di lavoro e all’intenzione di aumentare la fornitura di elettricità a Gaza – non c’è stato niente del genere,” ha detto Harry Fawcett.

Circa due milioni di palestinesi vivono a Gaza, la cui economia ha sofferto per anni di blocco così come per il recente taglio agli aiuti. Secondo la Banca Mondiale la disoccupazione arriva al 52% e la povertà è dilagante.

Dal dicembre 2008 Israele ha scatenato tre offensive contro Gaza.

L’ultima guerra, nel 2014, ha gravemente danneggiato le già carenti infrastrutture di Gaza, inducendo le Nazioni Unite ad avvertire che la Striscia sarà “inabitabile” entro il 2020.

Fonte: Al Jazeera e agenzie di notizie

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le uccisioni a Gaza si impennano alla vigilia dell’Eurovision

Ali Abunimah

4 maggio 2019 Electronic Intifada

Tra sabato e domenica i cecchini israeliani e gli attacchi aerei hanno ucciso otto palestinesi [ al momento di pubblicare i palestinesi uccisi sono risultati 27 ndt] nell’ambito di una acuta escalation di violenza nei giorni che precedono il festival musicale Eurovision, che Israele spera di usare come vetrina propagandistica.

Sabato sera il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato la morte della bambina di 14 mesi Saba Mahmoud Abu Arar, dopo che un attacco aereo israeliano ha colpito la casa della sua famiglia ad est di Gaza City.

Più tardi nella stessa sera il Ministero della Salute ha comunicato che la madre [in realtà la zia, ndtr.] della bambina, la trentasettenne incinta Filastin Salih Abu Arar, è morta in seguito alle ferite riportate nell’attacco.

Secondo il Ministero della Salute un altro bambino presente nella casa è stato lievemente ferito.

Sabato notte un attacco aereo israeliano nel nord di Gaza ha ucciso Muhammad Hilmi Abu Qleiq, di 25 anni.

Circa 40 persone sono state ferite negli attacchi israeliani tuttora in corso.

Quando è scesa la notte di sabato le esplosioni causate dai bombardamenti aerei israeliani hanno continuato a riecheggiare in tutta Gaza, senza che si vedesse la fine di due giorni di crescente violenza.

L’agenzia di notizie turca Anadolu ha riferito che aerei da guerra israeliani hanno attaccato l’edificio di uffici nel centro di Gaza, dove si trova la sua sede, con almeno cinque razzi, senza causare feriti. Nelle foto pubblicate dall’agenzia l’edificio appare totalmente distrutto.

Questo ha provocato la dura condanna su twitter da parte del Ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu.

Venerdì due militanti delle Brigate Qassam, l’ala militare di Hamas, sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano in una struttura della resistenza nel centro di Gaza.

Il Ministero della Salute li ha identificati come Abdallah Ibrahim Abu Mallouh, di 33 anni, del campo profughi di Nuseirat, e Alaa Ali Hasan al-Boubli, di 29 anni, del campo profughi di al-Maghazi. Nell’attacco aereo israeliano altre due persone sono state gravemente ferite.

Foto di al-Boubli e Abu Mallouh sono circolate nei social media.

Gli attacchi aerei di venerdì sono avvenuti dopo che Israele ha affermato che due suoi soldati sono stati feriti da colpi d’arma da fuoco vicino alla barriera di confine con Gaza. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz i soldati, tra cui un ufficiale, sono stati feriti leggermente.

I gruppi di resistenza palestinesi hanno risposto sabato con il lancio di oltre 200 razzi e colpi di mortaio verso Israele, uno dei quali avrebbe danneggiato una casa vicino a Ashkelon.

Una donna israeliana di 80 anni e un quarantanovenne israeliano sarebbero stati feriti dalle schegge.

Entrambi sono stati portati all’ospedale Barzilai di Ashkelon. Haaretz ha riferito che la donna era gravemente ferita, ma che entrambi erano in condizioni stabili.

Sui media locali sono circolate foto dei danni.

Come riportato dal Times of Israel, le autorità sanitarie israeliane hanno detto che “un ragazzino di 15 anni è stato leggermente ferito mentre correva verso un rifugio e due persone hanno subito uno shock”.

Haaretz ha riferito che un altro uomo israeliano è stato ferito mentre correva verso un rifugio.

Sabato l’esercito israeliano ha lanciato attacchi aerei e con carri armati su oltre 120 luoghi a Gaza.

Secondo il Ministero della Salute del territorio, all’inizio della giornata di sabato un attacco aereo israeliano nel nord di Gaza ha ucciso il 22enne Imad Muhammad Nuseir e gli attacchi israeliani di sabato hanno ferito almeno altre sette persone.

Israele si ritira dalle intese

Analisti israeliani rilevano la volontà di Hamas e delle altre fazioni di rispondere con la forza ad Israele come reazione alla sua indisponibilità a rispettare gli accordi di alleggerire il soffocante blocco della Striscia di Gaza e consentire i trasferimenti finanziari dal Qatar.

Nei mesi scorsi funzionari dell’intelligence egiziana hanno tentato di mediare un cessate il fuoco a lungo termine e in quel contesto Hamas ha concordato di allentare la tensione, specialmente in prossimità delle elezioni generali israeliane del 9 aprile.

Il corrispondente di Haaretz Amos Harel commenta: “Alla vigilia delle elezioni e alla luce delle promesse fatte dal governo di Benjamin Netanyahu nella speranza di evitare il conflitto mentre gli israeliani si recavano a votare, Hamas ha sospeso le ostilità. Ma non ha ottenuto in cambio vantaggi soddisfacenti per i palestinesi.”

Le concessioni sugli spostamenti attraverso il confine sono state solo di breve durata. E il principale ostacolo per i palestinesi è stato il ritardo nel trasferimento del denaro del Qatar, 30 milioni di dollari al mese, e la quota di questo mese è particolarmente importante poiché la prossima settimana inizia il Ramadan e di conseguenza aumentano le spese.”

Mentre nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità della sparatoria di venerdì che ha ferito i due soldati israeliani, Harel ha affermato che sembrava “opera della Jihad islamica”, con lo scopo di fare pressione su Israele.

Hamas sa che la tempistica dell’impennata di violenza è particolarmente inopportuna per Israele alla vigilia del Giorno della Memoria e del Giorno dell’Indipendenza e in vista del festival musicale Eurovision, previsto a Tel Aviv per fine maggio”, aggiunge Harel.

In questa situazione sembra che ci siano buone probabilità che l’escalation possa terminare con un compromesso e concessioni per i palestinesi.”

Israele ha già dei problemi con la vendita dei biglietti e con l’attrarre turisti, nonostante abbia investito milioni di dollari per organizzare ciò che spera sarà un successo propagandistico a livello internazionale.

Una fonte diplomatica di Gaza, di cui il giornale non ha fatto il nome, ha detto a Haaretz che “Israele non può sottrarsi alla responsabilità per la situazione in cui ci troviamo.”

La fonte ha messo in guardia rispetto ad un’ulteriore escalation provocata da ritardi nell’applicazione degli accordi.

Come ha riferito Haaretz, nelle scorse settimane ufficiali dell’esercito israeliano avrebbero anch’essi avvertito i leader politici “che se non verranno compiuti passi significativi per applicare le intese con Hamas, l’organizzazione che controlla la Striscia di Gaza faticherà ad impedire ad altre organizzazioni nell’enclave costiera di agire contro Israele.”

Eppure, nonostante gli avvertimenti, “non vi è stato un incremento di aiuti o beni in ingresso nella Striscia”.

L’inviato delle Nazioni Unite nel Medio Oriente Nickolay Mladenov sabato notte ha scritto su twitter che l’ONU “sta lavorando con tutte le parti in causa per calmare la situazione.”

Ha chiesto un immediato allentamento delle tensioni e “il ritorno alle intese dei mesi scorsi”, avvertendo che “coloro che cercano di vanificarle si assumeranno la responsabilità di un conflitto che avrà gravi conseguenze per tutti.”

La settimana scorsa Israele ha ridotto a 6 miglia nautiche la zona concessa in uso ai pescatori di Gaza al largo della costa, come punizione collettiva dopo che, ha affermato, è stato sparato un razzo dalla costa nord di Gaza verso il mare lungo la costa di Israele.

Il primo aprile Israele aveva ampliato la zona di pesca fino a 15 miglia nautiche.

Provocare deliberatamente danno ad un gruppo di civili in risposta ad un’azione sulla quale essi non hanno controllo è crudele e indifendibile”, ha dichiarato l’associazione israeliana per i diritti umani Gisha. “Costituisce una misura illegale di punizione collettiva.”

Nessuno ha rivendicato la responsabilità del razzo, che non ha provocato feriti, ma i gruppi della resistenza sono soliti sparare razzi in mare per testarli.

Sabato sera Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas, ha detto che l’organizzazione ritiene Israele responsabile per l’escalation in corso, accusando l’occupante di non rispettare i precedenti accordi e di mantenere l’assedio di Gaza.

Barhoum ha aggiunto che il messaggio da parte dei gruppi della resistenza è che non permetteranno a Israele di continuare a versare sangue palestinese e che essi rimarranno “lo scudo protettivo” per il popolo palestinese e per i manifestanti pacifici.

Barhoum ha invitato Israele a “prendere sul serio e valutare questo messaggio.”

Uccidere manifestanti disarmati

Venerdì i cecchini israeliani hanno sparato su manifestanti disarmati a Gaza, quando migliaia di palestinesi si sono radunati lungo la barriera di confine con Israele per la 57ma settimana, nel quadro della Grande Marcia del Ritorno.

Durante le proteste ad est di Khan Younis nel sud di Gaza i soldati israeliani hanno colpito a morte all’addome Raed Khalil Mahmoud Abu Teir, di 19 anni.

Secondo l’associazione per i diritti umani Al Mezan, quando è stato colpito Abu Teir era con le stampelle in seguito alle ferite riportate una settimana prima quando i cecchini israeliani gli hanno sparato al bacino.

È stato portato all’ospedale europeo vicino a Khan Younis dove è morto a causa delle ferite. Dopo la sua morte, fotografie di Abu Teir sono circolate sui social media.

Il Ministero della Salute di Gaza ha dichiarato che vicino a al-Bureij le forze israeliane hanno colpito a morte il trentunenne Ramzy Rawhi Hasan Abdo con una pallottola in testa.

Secondo Al-Mezan, durante le proteste sono state ferite dall’esercito israeliano più di altre 100 persone, di cui 35 con proiettili veri.

Più di 30 persone sono state colpite direttamente con candelotti lacrimogeni – una prassi israeliana di prendere di mira [i manifestanti] che ha ucciso quattro palestinesi solo quest’anno.

Uno di quelli colpiti alla testa venerdì da un candelotto lacrimogeno era un paramedico. Nello stesso giorno sono stati feriti altri tre paramedici e un fotogiornalista.

Le uccisioni del fine settimana hanno portato a quasi 50 il numero dei palestinesi uccisi quest’anno dalle forze israeliane e da coloni armati.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Razzi sparati da Gaza il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro palestinesi

4 maggio 2019 ore 16  Al Jazeera

Incursione israeliana uccide un palestinese a Gaza nel contesto di una crisi il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro persone in due incidenti separati.

Secondo il ministero della Salute di Gaza un palestinese è rimasto ucciso durante un raid aereo israeliano nel nord della Striscia di Gaza, nel contesto di una nuova escalation tra l’esercito israeliano e i combattenti di Gaza.

Imad Nseir, di 22 anni, è stato ucciso a Beit Hanoun dopo che sabato mattina aerei da guerra israeliani hanno preso di mira varie zone nell’enclave assediata dopo che decine di razzi sono stati sparati da Gaza verso il sud di Israele.

L’ultima crisi è arrivata dopo che venerdì le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in due diversi incidenti.

Harry Fawcett, inviato di Al Jazeera da Gerusalemme, ha detto che la raffica di razzi sparati da Gaza è avvenuta dopo l’attacco nel nord della Striscia di un drone israeliano, che sabato mattina ha ferito tre persone.

Stiamo assistendo a un’altra escalation militare, la prima da quella del mese scorso in cui abbiamo visto un altro scambio di incursioni aeree e lancio di razzi da Gaza, che sembrava essere terminato con qualche speranza riguardo a una sorta di soluzione a lungo termine,” ha detto.

C’è stato un buon accordo riguardo a colloqui tra Israele e Hamas mediati dall’Egitto con un ulteriore alleggerimento della situazione da parte di Israele che probabilmente sarebbe avvenuto,” ha continuato.

Hamas dice che finora tutto quello che hanno visto è la riduzione dei controlli marittimi, che consente di pescare fino al limite di 15 miglia nautiche rispetto a 6, che ora è stato di nuovo ridotto.”

Razzi lanciati

L’esercito israeliano ha affermato che il sistema missilistico Iron Dome ha intercettato decine di razzi, aggiungendo che circa 90 razzi sono stati lanciati dalla Striscia. Ha anche detto che non ci sono notizie di vittime dal lato israeliano.

Secondo agenzie di notizie palestinesi, in seguito al lancio di razzi aerei da guerra israeliani hanno preso di mira una zona agricola a Beit Hanoun, una città del nord della Striscia, con molti raid.

Anche forze israeliane presso la barriera con Gaza hanno bombardato una serie di postazioni di osservazione a Khan Younis, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Fonti mediche ufficiali di Gaza hanno anche detto che quattro palestinesi sono rimasti feriti in uno degli attacchi israeliani.

Le sirene hanno suonato nelle città israeliane di Ashdod e Ashkelon ed è stata chiusa anche la vicina spiaggia di Zikim, situata a due chilometri a nord della Striscia di Gaza.

Non c’è stata nessuna rivendicazione immediata per il razzo lanciato da Gaza.

Secondo il “Centro Palestinese di Informazione” il portavoce di Hamas, Abdullatif Al-Qanou’, ha affermato: “La resistenza rimarrà pronta a rispondere ai crimini dell’occupazione e non le consentirà di versare il sangue del nostro popolo.”

Anche il movimento della Jihad Islamica ha rilasciato un comunicato simile, dicendo che “la resistenza sta facendo il proprio dovere di proteggere e difendere il nostro popolo,” aggiungendo che “risponderà con tutte le sue capacità militari all’aggressione (israeliana).”

Nel contempo nella Cisgiordania occupata il movimento Fatah ha condannato l’escalation nella Striscia di Gaza ed ha chiesto che la comunità internazionale “contrasti l’aggressione.”

Venerdì quattro palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due diversi incidenti: due di loro sono stati colpiti a morte durante le settimanali proteste della Grande Marcia del Ritorno nei pressi della barriera israeliana a est di Gaza, mentre un attacco aereo ha preso di mira un avamposto di Hamas, uccidendo due membri del braccio armato del movimento.

L’esercito israeliano ha detto di aver colpito la base di Hamas dopo che due dei suoi soldati sono stati feriti da Gaza presso la barriera israeliana da colpi di arma da fuoco.

Un cessate il fuoco tra Israele e Hamas mediato dall’Egitto e dalle Nazioni Unite aveva portato a una relativa calma nel periodo delle elezioni politiche israeliane del 9 aprile.

Ma martedì, dopo che dal territorio è stato sparato un razzo, Israele ha ridotto il limite di pesca che impone alle imbarcazioni che operano al largo di Gaza.

L’esercito israeliano ha incolpato la Jihad Islamica del razzo, caduto nel Mediterraneo.

Giovedì Israele ha affermato che la sua aviazione ha colpito un complesso militare di Hamas, dopo che palloni aerostatici con bombe incendiarie ed esplosivi sono stati lanciati attraverso il confine.

Dopo l’attacco aereo l’esercito israeliano ha detto che due razzi sono stati lanciati da Gaza verso Israele, facendo suonare le sirene in alcune zone del sud.

Con il cessate il fuoco a rischio, giovedì una delegazione di Hamas guidata dal capo di Gaza Yahya Sinwar ha lasciato l’enclave per recarsi al Cairo per colloqui con funzionari egiziani per negoziare una tregua.

Il cessate il fuoco ha visto Israele consentire al Qatar di fornire milioni di dollari in aiuti per Gaza al fine di pagare i salari e finanziare la fornitura di combustibile e ridurre la grave carenza di elettricità.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu è attualmente impegnato in negoziati per formare un nuovo governo in seguito alle elezioni dello scorso mese, mentre dal 14 al 18 maggio Israele ospiterà a Tel Aviv la competizione canora “Eurovision”.

Da più di un anno palestinesi hanno partecipato a periodiche manifestazioni e scontri lungo il confine di Gaza, chiedendo ad Israele di alleggerire il suo asfissiante blocco dell’enclave.

Dall’inizio delle proteste nel marzo 2018 almeno 270 palestinesi, in maggioranza lungo il confine, sono stati uccisi da fuoco israeliano.

Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

Israele accusa Hamas di utilizzare le proteste come copertura per condurre attacchi e afferma che le sue azioni sono necessarie per difendere il confine e bloccare le infiltrazioni.

I risultati di un’inchiesta ONU diffusi alla fine di febbraio hanno stabilito che Israele potrebbe aver commesso crimini contro l’umanità in risposta alle proteste sul confine, in quanto i cecchini hanno “intenzionalmente” sparato a civili, compresi minorenni, a giornalisti e a un disabile.

Israele ha respinto “totalmente” il rapporto, mentre Hamas ha chiesto che Israele venga chiamato a rispondere delle sue azioni.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La riduzione della zona di pesca di Gaza è “una punizione collettiva illegale”

Maram Humaid

30 aprile 2019,  Al Jazeera

La mossa arriva pochi giorni dopo che Israele ha esteso la zona di pesca a 15 miglia nautiche come parte di un accordo di cessate il fuoco

Per i 4.000 pescatori dell’enclave la decisione da parte dell’esercito israeliano di ridurre la zona di pesca accessibile nella Striscia di Gaza assediata non è “una sorpresa”.

Non è arrivata inaspettata. L’occupazione viola sempre gli accordi che riguardano i pescatori della Striscia,” ha detto ad Al Jazeera Zakaria Bakr, capo dell’Unione dei pescatori di Gaza.

Citando un presunto attacco con i razzi, martedì l’esercito israeliano ha detto che fino a nuovo avviso la pesca a Gaza sarà consentita solo fino a 6 miglia nautiche (11 km).

L’iniziativa arriva dopo che il 1 aprile Israele ha esteso la zona fino a un massimo di 15 miglia nautiche, come parte di un cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e Hamas, il gruppo che governa la Striscia di Gaza.

Martedì in un comunicato l’esercito israeliano ha detto che la decisione è stata la risposta a un razzo lanciato dal gruppo Jihad Islamica lunedì sera, un’affermazione che il gruppo palestinese nega. “Le accuse di Israele sono parte della campagna di menzogne contro il movimento della Jihad Islamica,” ha detto ad Al Jazeera il portavoce della Jihad Islamica Mosaab al-Breim.

Fa anche parte della guerra psicologica che ha condotto a lungo contro il popolo palestinese…Il braccio armato della Jihad Islamica non ha confermato il lancio di un razzo verso l’occupazione (israeliana),” ha detto.

Bakr, dell’Unione dei pescatori, ha affermato che la decisione di Israele arriva in un momento critico e che l’accordo di cessate il fuoco non è riuscito ad alleviare l’opprimente blocco di Israele contro la Striscia.

Lo scopo dell’estensione era di migliorare l’economia di Gaza, che si basa molto sul settore ittico.

Molti pescatori hanno manifestato la propria soddisfazione per il gesto insolito, soprattutto in quanto il mese santo del Ramadan è imminente. Ma oggi, dicono, è una situazione “molto triste e difficile”.

Israele inventa sempre dei pretesti (per ridurre la zona di pesca consentita), soprattutto quando si avvicina la stagione della pesca,” dice Bakr.

Le barche nella Striscia di Gaza sono “più attive” durante la primavera che in qualunque altro periodo dell’anno, afferma, sottolineando che la mossa è una continuazione della “sistematica oppressione” di Israele contro i pescatori di Gaza, così come contro i quasi due milioni di abitanti.

Barche disperse

Oltre ai 4.000 pescatori che dipendono dal settore in quanto rappresenta una delle poche opportunità a disposizione per lavorare a Gaza, ci sono almeno altre 1.500 persone che beneficiano della vendita e dell’esportazione del pesce pescato là.

Ma le esportazioni si sono ridotte nel corso degli anni e il declino del settore della pesca a Gaza è tra le molte conseguenze della politica israeliana.

Nel 2007, in seguito alla vittoria di Hamas nelle elezioni che le hanno dato il controllo del territorio assediato, Israele ha imposto un rigido blocco terrestre, aereo e navale.

L’iniziativa ha anche ridotto l’ingresso di materie prime, lasciando la maggior parte delle barche senza le necessarie riparazioni per operare al massimo delle loro potenzialità.

Il limite sempre modificato da Israele riguardante fin dove i pescatori hanno il permesso di navigare nel Mediterraneo ha posto molte barche – e vite – in pericolo.

La barca di Omar Mounir è stata tra le 50 imbarcazioni salpate dalla costa di Gaza martedì mattina.

Questa mattina eravamo in mare, cercando di pescare come al solito,” dice a Al Jazeera il cinquantunenne.

Afferma che le barche erano arrivate al segnale delle 11 miglia nautiche quando hanno visto imbarcazioni della marina militare israeliana arrivare nella loro direzione.

Hanno sparato con cannoni ad acqua per disperdere le barche – alcune si sono rotte e altre più piccole sono affondate,” dice Mounir.

Ci hanno obbligati a girare e a tornare verso la riva, affermando che il limite era stato riportato indietro a sei miglia nautiche…Non abbiamo avuto il tempo di ritirare le nostre reti che avevamo sistemato nell’acqua.”

In base agli accordi di Oslo firmati nel 1993 Israele è obbligato a consentire di pescare fino a 20 miglia marine, ma ciò non è mai stato messo in pratica.

Israele nell’ultimo decennio ha lanciato tre grandi attacchi contro Gaza, che hanno pesantemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture della città. Durante questi attacchi la pesca è stata totalmente vietata.

I pescatori con cui Al Jazeera ha parlato hanno affermato che fare una spedizione di pesca al largo delle coste di Gaza potrebbe arrivare a costare 400 dollari.

Benché la zona consentita fosse stata estesa a 15 miglia nautiche, molti dei pescatori non hanno l’equipaggiamento adeguato o il combustibile per fare tutto il percorso.

Miriam Marmur di “Gisha”, un’organizzazione israeliana per i diritti, ha detto a Al Jazeera che l’ultima mossa israeliana costituisce “una punizione collettiva illegale”.

Israele restringe ed estende regolarmente la zona di pesca di Gaza, spesso come misura punitiva, provocando una grande incertezza e insicurezza,” dice Marmur.

Secondo lei le restrizioni israeliane contro Gaza sono state messe in atto come parte di una politica ufficiale di “guerra economica” contro la Striscia e hanno “poco” a che vedere con la sicurezza.

Dal 30 marzo 2018 i palestinesi della Striscia di Gaza hanno chiesto una fine del blocco e anche il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie sono state espulse durante la fondazione di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza almeno 6.500 manifestanti sono stati colpiti da cecchini israeliani, che hanno ucciso più di 250 persone tra cui minorenni, giornalisti e medici.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ora Gaza ha una “biosfera di guerra” tossica a cui nessuno può sfuggire

Mark Zeitoun e Ghassan Abu Sitta

27 aprile 2019, The Conversation

Gaza è spesso stata invasa per la sua acqua. Ogni esercito che ha lasciato o è entrato nel deserto del Sinai, che sia quello dei babilonesi, di Alessandro Magno, degli Ottomani o degli inglesi, ha cercato là un sollievo. Ma oggi l’acqua di Gaza evidenzia una situazione tossica che sta aumentando vertiginosamente fuori controllo.

Una combinazione di ripetuti attacchi israeliani e la chiusura dei suoi confini da parte di Israele ed Egitto hanno lasciato il territorio nell’impossibilità di trattare la propria acqua o i propri rifiuti. Ogni goccia di acqua ingerita a Gaza, come ogni sciacquone del bagno o antibiotico assorbito torna nell’ambiente in uno stato di degrado.

Per esempio, l’acqua del gabinetto di un ospedale quando scorre filtra senza essere trattata attraverso la sabbia nell’acquifero. Lì si mescola con l’acqua avvelenata dai pesticidi delle fattorie, con metalli pesanti delle industrie e con il sale del mare. Poi viene pompata di nuovo su da pozzi comunali o privati, unita a una piccola percentuale di acqua potabile fornita da Israele e riciclata nei rubinetti delle abitazioni private. Ciò determina una diffusa contaminazione e acqua da bere non potabile, circa il 90% della quale supera le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per salinità e cloruro.

Incredibilmente le condizioni sono peggiorate a causa dell’emergere di “supermicrobi”. Questi organismi resistenti a molteplici farmaci si sono sviluppati in seguito a un’eccessiva prescrizione di antibiotici da parte di medici disperati per trattare le vittime di tali attacchi senza fine. Più ci sono danni, più ci sono possibilità di nuovi danni. Meno accessibilità regolare all’acqua potabile significa che le infezioni si diffonderanno più rapidamente, i microbi si rinforzeranno, più antibiotici verranno prescritti – e le vittime saranno ulteriormente indebolite.

Il risultato è quella che è stata denominata un’ecologia tossica o “biosfera di guerra”, di cui il ciclo dell’acqua nociva è solo un aspetto. Una biosfera si riferisce all’interazione di ogni essere vivente con le risorse naturali che le permette di sopravvivere. Il punto è che le sanzioni, i blocchi e lo stato permanente di guerra colpiscono ogni cosa di cui gli esseri umani hanno bisogno per vivere, mentre l’acqua diventa contaminata, l’aria inquinata, il suolo perde la sua fertilità e gli animali d’allevamento muoiono per le malattie. La gente di Gaza che è sfuggita alle bombe o al fuoco dei cecchini non ha vie di scampo dalla biosfera.

Chirurghi di guerra, antropologi della salute e ingegneri idraulici – compresi noi – hanno osservato questa situazione che si sviluppa ovunque incombano lunghi conflitti armati o sanzioni economiche, come i sistemi idrici a Bassora e quelli sanitari in Iraq o in Siria. È ormai giunto il momento di fare chiarezza.

C’è acqua – per qualcuno

Non è che non ci sia acqua potabile nei pressi di Gaza per alleviare la situazione. Solo a qualche centinaio di metri dal confine si sono fattorie israeliane che usano acqua potabile pompata dal lago di Tiberiade (il Mare di Galilea) per coltivare ortaggi destinati ai supermercati europei. Dato che il lago si trova a circa 200 km a nord e a 200 metri sotto il livello del mare, per pompare tutta quell’acqua viene utilizzata una grande quantità di energia. L’acqua del lago è anche tenacemente contesa da Libano, Giordania, Siria e dai palestinesi della Cisgiordania, ognuno dei quali rivendica la sovranità sul bacino del fiume Giordano.

Nel contempo Israele sta desalinizzando talmente tanta acqua di mare che in questi giorni i Comuni la stanno rifiutando. L’eccesso di acqua desalinizzata viene usato per irrigare le coltivazioni e l’autorità idrica del Paese sta persino progettando di usarla per riempire lo stesso lago di Tiberiade – un ciclo bizzarro e irrazionale, considerando che l’acqua del lago continua ad essere pompata in direzione contraria, nel deserto. Ora c’è così tanta acqua prodotta artificialmente che alcuni ingegneri israeliani possono dichiarare che “oggi nessuno in Israele patisce per mancanza d’acqua”.

Ma non si può dire altrettanto per i palestinesi, soprattutto non per quelli di Gaza. Là la gente ha fatto ricorso a vari filtri ingegnosi, a bollitori o apparecchi di desalinizzazione sotto il lavello o a livello di quartiere per trattare l’ acqua. Ma queste fonti non sono regolamentate, spesso piene di germi e proprio un ulteriore ragione per cui ai bambini vengono prescritti antibiotici – continuando quindi il modello di danno e ripetizione del danno. Nel contempo dottori, infermieri ed équipe per la manutenzione dell’acqua cercano di fare l’impossibile con l’equipaggiamento sanitario minimo a loro disposizione.

Le implicazioni per tutti quelli che investono nell’acqua ripetutamente distrutta e nei progetti sanitari di Gaza sono chiare. Fornire più ambulanze o serbatoi per l’acqua – la strategia “camion e cibo” – può funzionare quando i conflitti sono nel loro stadio più acuto, ma non sono altro che palliativi. Sì, le cose andranno meglio a breve termine, ma molto presto Gaza si ritroverà con la prossima generazione di antibiotici e dovrà fare i conti con super microbi rivestiti di teflon.

I donatori devono invece disegnare programmi che si adattino a una incessante biosfera di guerra che pervade tutto. Ciò significa addestrare molti più dottori e infermieri, fornire più medicine e infrastrutture di supporto per i servizi medici ed idrici. Cosa ancora più importante, i donatori dovrebbero costruire una “protezione” politica per difendere i propri investimenti (se non i bambini del posto), magari chiedendo a quelli che distruggono le infrastrutture di pagare le spese per le riparazioni.

E c’è un messaggio ancora più importante per tutti noi. La nostra ricerca mostra che la guerra è qualcosa di più di eserciti e geopolitica – si estende agli ecosistemi nel loro complesso. Se l’ideologia deumanizzante che sta dietro il conflitto venisse affrontata e se l’acqua in eccesso fosse deviata verso la gente piuttosto che nei laghi, allora i ripetuti danni facilmente evitabili sofferti dalla popolazione a Gaza diventerebbero una cosa del passato. I palestinesi troverebbero presto la loro biosfera molto più sana.

Su Mark Zeitoun

Mark Zeitoun è professore di Sicurezza Idrica all’università dell’East Anglia [in Gran Bretagna, ndt.] ed ex ingegnere per l’aiuto umanitario in Africa e in Medio Oriente.

Su Ghassan Abu Sitta

Ghassan Abu Sitta è fondatore del programma di medicina dei conflitti presso l’università Americana di Beirut ed è stato medico di guerra in Europa e in Medio Oriente.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’appoggio ai leader di estrema destra di Netanyahu espone gli ebrei al rischio di antisemitismo

Rachel Shenhav-Goldberg

1 maggio 2019, +972 Magazine

Allineandosi ai leader nazionalisti che promuovono il suprematismo bianco, Netanyahu ha abbandonato la comunità ebraica mondiale con l’intento di rafforzare le sue manovre nazionaliste.

Da alcuni anni ormai, il primo ministro Benjamin Netanyahu sta stringendo relazioni diplomatiche forti con i leader nazionalisti di estrema destra del mondo. Tale allineamento potrebbe favorire il piano di Netanyahu di rafforzare il nazionalismo ebraico in Israele, ma allo stesso tempo esso indebolisce gli ebrei della diaspora e li rende più vulnerabili ai crimini di odio antisemita nei loro paesi.

Negli ultimi cinquant’anni l’antisemitismo è stato un fenomeno in declino, specialmente negli Stati Uniti. Oggi gli ebrei negli Stati Uniti occupano posizioni politiche di rilievo, svolgono ruoli chiave nel mondo degli affari e dell’intrattenimento e sono ben integrati nella società americana: sono americani in tutto e per tutto. Ciononostante, come dimostra amaramente l’orrendo atto terroristico in una sinagoga di San Diego la scorsa settimana, i suprematisti e nazionalisti bianchi non hanno mai accettato gli ebrei come loro pari o nemmeno come bianchi.

Il suprematismo bianco di certo esiste ancora: distruggere 500 anni di strutture istituzionalizzate e l’interiorizzazione dello status di privilegiati non è facile. Addirittura l’elezione del presidente Obama è stato sotto molti aspetti solo un progressivismo di facciata, una falsa speranza. Studi hanno dimostrato che il razzismo verso gli afroamericani era di fatto aumentato durante la presidenza Obama. Inoltre, la promessa del presidente Trump di “rendere l’America di nuovo grande” ha dato ai nazionalisti e suprematisti bianchi un segnale di assenso ad alzare la testa e agire.

La Anti Defamation League ha registrato nello scorso anno un totale di 1.879 atti di molestie, vandalismo e aggressione fisica commessi contro gli ebrei negli Stati Uniti. Questo rappresenta il terzo numero più alto di crimini registrati dagli anni 70 a oggi.

Le politiche di Netanyahu e la sua visione di Israele, unite al suo narcisismo e all’ambizione a rimanere al potere per sempre, hanno creato delle divisioni non solo all’interno della società israeliana, ma anche tra Israele e gli ebrei americani. L’idea di Israele che ha Netanyahu non è quella di una nazione ebraica con uguali diritti per tutti, bensì di una nazione israelo-ebraica, lasciando soli quindi sia gli israeliani non ebrei sia gli ebrei non israeliani.
Inoltre, la filosofia di Netanyahu del “si fa come dico io altrimenti quella è la porta” trasforma in traditori tutti quegli ebrei americani che si oppongono all’occupazione o che non supportano a pieno le politiche di Israele. Per rimpiazzare il mancato supporto, previsto o reale, Netanyahu si è cercato alleati altrove, in coloro che si sentono a proprio agio con le sue stesse idee nazionaliste.

Il comun denominatore tra tutti questi leader (Viktor Orban in Ungheria, Jair Bolsonaro in Brasile e Donald Trump) è il supporto, spesso solo accennato ma a tratti anche esplicito, al suprematismo bianco. Essi appoggiano e impiegano retoriche dell’odio, usano termini razzisti, minano i diritti LGBTQ e delle donne. Il loro vero scopo è la promozione dell’ “ancien régime” discriminando e svilendo la posizione delle minoranze, categoria in cui inevitabilmente e ripetutamente rientrano anche gli ebrei.

La supremazia nazionale che questi leader promuovono nei rispettivi paesi è sotto molti aspetti indistinguibile dalle politiche di Netanyahu in Israele. Netanyahu è un uomo intelligente, qualsiasi sua mossa è perfettamente e strategicamente studiata. Allineandosi con i nazionalisti dell’estrema destra che promuovono il suprematismo bianco, l’antisemitismo e la conseguente violenza da essi provocata, ha deciso di abbandonare gli ebrei di tutto il mondo in cambio del supporto diplomatico e della legittimazione delle sue manovre nazionaliste.

Israele è diventato uno Stato ebraico a cui interessano solo i cittadini israeliani ebrei, infrangendo così la sua promessa di proteggere gli ebrei della diaspora, senza contare i suoi obblighi verso tutti i non-ebrei che vivono sotto il governo israeliano.

Rachel Shenhav-Goldberg è una cittadina israeliana residente in Nord America. Ha conseguito un dottorato in lavoro sociale all’università di Tel Aviv e un post-dottorato all’Università di Toronto. La sua attività di ricerca si concentra prevalentemente sull’antirazzismo in Israele e l’antisemitismo nel Nord America. È anche una mediatrice, fa lavoro sociale e volontariato per il New Israeli Fund (Nuovo Fondo Israeliano) in Canada.

(Traduzione di Maria Monno)




L’esercito israeliano ha ucciso un paramedico palestinese, poi ha distribuito un video ingannevole

Middle East Monitor1 maggio 2019

Le forze di occupazione israeliane hanno colpito e ucciso un volontario paramedico durante un’incursione in un campo di rifugiati, dopo di che l’esercito ha diffuso un ingannevole video di propagandistico.

Secondo un’inchiesta del gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, Sajed Mizher, di 17 anni, è stato colpito all’addome mentre accorreva in aiuto di un abitante ferito. Il 27 marzo, alle 2,30 circa, soldati hanno fatto incursione nel campo profughi di Dheisheh, che si trova a sud di Betlemme, nella parte meridionale della Cisgiordania occupata. I soldati hanno arrestato un abitante, poi si sono ritirati.

Poche ore dopo decine di soldati israeliani hanno di nuovo fatto un raid nel campo e si sono scontrati con abitanti del posto che hanno lanciato pietre contro le forze di occupazione.

Durante questa incursione”, nota B’Tselem, “tre abitanti sono rimasti feriti da proiettili veri – uno alla spalla, un altro a una mano e il terzo a una gamba. Durante entrambe le incursioni era presente un’equipe di paramedici e volontari del campo affiliati alla Palestinian Medical Relief Society [Società Palestinese di Soccorso Medico] (PMRS).”

Mentre i soldati israeliani si stavano ritirando “uno di loro ha sparato a M.J., 20 anni, un abitante del campo, ferendolo a una gamba.” Sajed Mizher, “che portava un giubbotto dell’equipe medica e si trovava poche decine di metri dietro al ferito,” è corso in suo aiuto.

A quel punto un soldato israeliano ha sparato a Sajed all’addome. Portato d’urgenza all’ospedale, un’ora dopo il ricovero Sajed è spirato in conseguenza delle ferite.

Più tardi lo stesso giorno il portavoce dell’esercito israeliano ha reso pubblico un filmato in arabo “che mostrava un paramedico che si toglieva il giubbotto d’identificazione, portava una maglietta bianca e lanciava pietre da un tetto.” Come ha notato B’Tselem, “il video intendeva presumibilmente giustificare il fatto di aver colpito Mizher.”

Tuttavia “l’inchiesta di B’Tselem ha chiaramente scoperto che la persona ripresa nel filmato non era Sajed Mizher, che era stato colpito in un luogo diverso, sulla strada principale del campo di rifugiati.”

Quindi,” aggiunge l’ong, “persino per scopi propagandistici il video che ha pubblicato l’esercito è per lo meno di dubbio valore. Sicuramente non costituisce una spiegazione o una giustificazione per il fatto di aver colpito a morte un volontario paramedico di 17 anni.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Da Israele al Brasile: dichiarazione di guerra alle popolazioni indigene

Ahmad Moussa

28 aprile 2019, Middle East Eye

Sotto la presidenza Bolsonaro, il Brasile sta perpetuando il razzismo e l’oppressione sionista-colonialista

Le recenti affermazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro sul “perdonare l’Olocausto” hanno innescato le critiche da parte di Israele, ma ciò che non bisogna dimenticare sono i rapporti e l’identità sionisti del Brasile.

Gli osservatori internazionali sono rimasti turbati dalle recenti vittorie elettorali, in Brasile e Israele, dei candidati di estrema destra Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, che hanno entrambi sostenuto e messo in atto apertamente politiche genocide contro le popolazioni indigene.

Il Brasile ha rivelato la propria anima nera, riflettendo l’israelizzazione del Paese ai giorni nostri.

La recente dichiarazione di Bolsonaro, secondo cui l’Olocausto può essere “perdonato ma mai dimenticato”, potrebbe sembrare una rottura nell’orientamento sionista, ma ciò è tutt’altro che vero.

Favoreggiamento della Nakba

Al di là della decisione di Bolsonaro di trasferire l’ambasciata brasiliana a Gerusalemme, e delle foto dei suoi due figli che indossano magliette dell’esercito israeliano e del Mossad – facendo pubblicità ai servizi segreti israeliani, noti per terrorizzare i palestinesi – la storia politica del Brasile dimostra una profonda lealtà all’ideologia sionista.

Il Brasile porta avanti il razzismo colonialista e l’oppressione sionista attraverso l’annichilimento della cultura indigena. È stato uno dei primi Paesi a riconoscere lo Stato di Israele, contribuendo e collaborando quindi alla Nakba – o “catastrofe”, l’espulsione, nel 1948, dei palestinesi dalle loro case – e alla pulizia etnica della Palestina tutt’ora in corso.

Il diplomatico brasiliano Ozvaldo Aranha, ex presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1947 è stato determinante nel garantire la creazione di Israele.

Aranha promosse la divisione della Palestina in favore del movimento sionista e contro la volontà del popolo palestinese, rinviando per tre giorni la votazione per far sì che si arrivasse all’approvazione con il sostegno della maggioranza.

Vinse poi il Nobel per la Pace per il suo impegno a sostegno degli interessi sionisti.

Il Piano di Partizione dell’ONU ha fornito il precedente giuridico per giustificare la pulizia etnica della Palestina nel 1948, cioè la Nakba, che continua ancora oggi.

Questa procedura irregolare riecheggia oggi in Brasile, con gli attacchi alla popolazione indigena del Paese.


Occultamento di atrocità

La condivisione della linea contro gli indigeni tra Israele e il Brasile ha iniziato ad emergere più chiaramente negli ultimi anni, con la cooperazione per la sicurezza di alto livello durante i Mondiali di calcio in Brasile nel 2014 e le Olimpiadi del 2016.

Il Brasile ha realizzato questi due grandi eventi mondiali a spese della propria popolazione emarginata.

Ha voluto garantire sicurezza e protezione da un potenziale “terrorismo” nascondendo le atrocità e le conseguenze della repressione di stato e della violenza contro i brasiliani emarginati, soprattutto persone indigene nelle favelas ghettizzate e sovrappopolate, simili ai bantustan palestinesi creati da Israele.

Gli attivisti hanno lanciato l’allarme: Israele sta esportando il “modello di sicurezza a Gaza” in Brasile, dove la popolazione indigena è sotto costante minaccia di furto e sfruttamento dei propri territori tradizionali per fini politici ed economici.

Il motivo di questa relazione speciale è che il Brasile vuole imparare dalle tattiche israeliane contro i palestinesi. Tattiche che Israele sta esportando in tutto il mondo.

Campagna memoricida

Il “risanamento”, o “pulizia”, delle aree da parte della polizia brasiliana attraverso meccanismi repressivi è una strategia insegnata dagli agenti della sicurezza israeliani. Promuovere la colonizzazione e la cancellazione delle aree indigene è particolarmente interessante per il Brasile, nello stesso modo in cui Israele opprime la propria popolazione palestinese.

Questi eventi recenti sono utili a ricordarci l’inquietante identità del Brasile e quale strada sta imboccando il Paese.

Con i proclami fermamente pro-israeliani e anti-indigeni di Bolsonaro sull’appropriazione della terra, l’assimilazione e lo sterminio, in Brasile continua l’esportazione israeliana della cancellazione degli indigeni.

Le popolazioni indigene dei due Stati stanno fronteggiando una campagna di cancellazione della memoria; un tentativo di far loro dimenticare il passato, cosicché non possano avere un futuro.

È questo che non può essere perdonato né dimenticato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa


Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, nonché collaboratore fisso ed editorialista freelance per varie agenzie stampa internazionali. È docente di questioni indigene e mediorientali e attivista per i diritti umani con un Master in Diritto Internazionale e Diritti Umani. Moussa è attualmente impegnato in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Elena Bellini)




Venezuela: perché Israele vuole che Maduro venga rovesciato *

Ahmad Moussa

Lunedì 11 febbraio 2019 , Middle East Eye

Il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive nel quadro di un più complessivo progetto regionale che prende di mira la solidarietà con la Palestina

*Nota redazionale: Abbiamo deciso di tradurre questo articolo, benché risalga al febbraio scorso, in quanto la crisi venezuelana è diventata di drammatica attualità in questi giorni e il testo che segue offre interessanti indicazioni sul rapporto tra quanto avviene nel Paese latinoamericano e le vicende mediorientali.

Diversi fattori e importanti elementi hanno alimentato l’attuale disastrosa situazione in Venezuela, ma l’ingerenza israeliana negli affari latino-americani è raramente citata.

Dopo la morte del presidente venezuelano Hugo Chávez il suo successore, Nicolás Maduro, ha rapidamente dovuto affrontare le sfide di un’economia sull’orlo del naufragio, di un’iperinflazione e di una mancanza di medicine e prodotti alimentari dovuta alla caduta del prezzo del barile di petrolio nonostante le notevoli riserve del Paese.

Le manifestazioni contro l’aggravamento della situazione socio-economica hanno portato a una polarizzazione e a un’impasse politica. I campi pro e contro il governo si scontrano senza una terza opzione alternativa né speranza di riconciliazione interna.

La comparsa dell’autoproclamato presidente ad interim, Jaun Guaidó, sostenuto da Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e Israele – anche se le Nazioni Unite, la più alta carica giudiziaria del Paese e i militari rifiutano la sua leadership e Maduro ha chiesto elezioni anticipate – pone questa domanda: quali interessi rappresenta?

Lotta a favore dell’autodeterminazione

Il caos politico in Venezuela è il risultato di una combinazione tra l’estrema vulnerabilità di uno Stato petrolifero e le conseguenze delle politiche imperialiste e delle iniziative che alimentano la corruzione interna. Ciononostante il sostegno americano-israeliano al rovesciamento di Maduro si iscrive in un programma più vasto che intende consolidare una campagna antipalestinese in America latina a spese del popolo venezuelano.

Benché nel 1947 la maggioranza dei Paesi dell’America latina abbia appoggiato il piano di partizione [della Palestina] delle Nazioni Unite, che costituì ufficialmente lo Stato di Israele e portò alla Naqba [l’espulsione della popolazione palestinese, ndt.], la regione è stata nettamente favorevole ai palestinesi, e accoglie la più grande presenza palestinese al di fuori del mondo arabo.

La solidarietà con la lotta palestinese a favore dell’autodeterminazione ha raggiunto il suo apogeo durante gli anni di Chávez fino ad oggi, in quanto i dirigenti hanno apertamente criticato le flagranti violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Il Venezuela ha rotto i suoi rapporti diplomatici con Israele nel 2009, in seguito alla sua campagna militare contro Gaza [operazione “Piombo Fuso”, ndt.].

L’Alleanza Bolivariana per i Popoli della nostra America (ALBA) è stata creata dal Venezuela e da Cuba durante l’era di Chávez. Gli Stati Uniti e Israele restano i soli Paesi ad aver votato contro la risoluzione annuale dell’ONU intesa a mettere fine al blocco di più di mezzo secolo contro Cuba. Inoltre il recente voto dell’ONU a favore della creazione di uno Stato palestinese, così come i tentativi fatti dalla Palestina per ottenere il riconoscimento internazionale, beneficiano di un consistente appoggio in America latina, soprattutto in Venezuela.

Sotto l’amministrazione Trump si assiste a un lento e constante cambiamento per imporre delle politiche antipalestinesi, come la riduzione dell’aiuto americano all’agenzia per i rifugiati dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi nei campi profughi, ndt.] e all’Autorità Nazionale Palestinese, e l’adozione dell’“accordo del secolo” che distrugge ogni speranza per le aspirazioni nazionali palestinesi.

Ideologia neoconservatrice

L’amministrazione Trump ha rafforzato l’estrema destra politica diffondendo l’ideologia neoconservatrice del sionismo cristiano in tutta l’America Latina. Il voto dell’ONU di condanna dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è stato respinto dal Guatemala, dall’Honduras e dal Brasile in un contesto regionale di rafforzamento dei legami “per la sicurezza” con Israele. Paesi come il Cile, il Brasile, l’Argentina, il Costa Rica, la Colombia, il Perù, il Paraguay e l’Ecuador hanno riconosciuto Guaidó.

È estremamente indicativo che l’amministrazione Trump abbia fatto di Elliot Abrams il suo nuovo inviato americano per il Venezuela, rafforzando l’idea che gli Stati Uniti e Israele vedano in questa situazione un’occasione per rovesciare Maduro e instaurare un regime filo-israeliano nel Paese.

Abrams è stato condannato per il suo ruolo nello scandalo Iran-Contra, che implicava un piano americano-israeliano inteso a fornire segretamente armi all’Iran, in un contesto di embargo sulle armi in nome della liberazione degli ostaggi [dell’ambasciata americana a Teheran, ndt.]. Il fine ultimo era finanziare la contro-insurrezione e i guerriglieri, sostenuti dagli Stati Uniti, che lottavano contro il socialismo o il comunismo [del governo sandinista in Nicaragua, ndt.].

Abrams è stato anche implicato nella massiccia violazione dei diritti umani perpetrata da regimi filo-americani nel Salvador e in Guatemala, come dai ribelli nicaraguensi della Contra negli anni ’80, che hanno fatto decine di migliaia di morti.

Prospettive per il futuro

Abrams è stato in seguito graziato dall’amministrazione Bush e nominato consigliere aggiunto alla sicurezza nazionale in vista della promozione di una strategia dell’ex-presidente George H. W. Bush che consisteva nell’ “adozione di un approccio democratico all’estero”, sulla falsariga del ruolo giocato nel fallito tentativo di colpo di Stato contro Chavez.

Abrams è al contempo ferocemente filo-israeliano. Ha criticato l’amministrazione Obama per aver penalizzato l’illegale espansione delle colonie di insediamento nei territori palestinesi, il che fa di lui il candidato ideale per il programma antipalestinese in America latina.

La direzione che sta prendendo il Venezuela non è di buon auspicio per la regione, soprattutto dal punto di vista della solidarietà con la Palestina, vista la storica e attuale ingerenza sionista.

La presa del potere riuscita del Venezuela da parte delle forze filo-americane implicherà il rafforzamento della politica antipalestinese con una strategia interventista che cancelli e “tolga di mezzo” la Palestina da questa regione.

La speranza è nelle mani del popolo venezuelano, della società civile e dei movimenti di base latino-americani. Solo il futuro ci dirà se potranno mettere fine a questo progetto, sostenuto da Israele, di porre fine alla solidarietà con la Palestina nel continente.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ahmad Moussa è uno studioso e attivista per i diritti umani, e collaboratore regolare ed editorialista di numerose agenzie di notizie internazionali. È professore di questioni indigene e mediorientali. È anche attivista per i diritti umani con un master in Diritto internazionale e Diritti umani. Moussa è attualmente coinvolto in una ricerca per un dottorato in Studi sulla guerra.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un palestinese in sciopero della fame: ‘Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Fayha Shalash e Ramzy Baroud

23 aprile 2019,  Al Jazeera

Ingiustizia e violenza hanno spinto molti prigionieri palestinesi a disperati e rischiosi scioperi della fame.

Uno dei tanti modi in cui Israele cerca di opprimere e controllare la popolazione palestinese è incarcerare chi guida la resistenza contro l’occupazione e il progetto coloniale di insediamento.

In Palestina un prigioniero palestinese in un carcere israeliano viene definito “aseer”, cioé recluso, perché lui o lei non è un criminale. Ciò che conduce i palestinesi nelle carceri israeliane sono atti di resistenza – dallo scrivere una poesia sulla lotta contro l’occupazione al compiere un’aggressione contro soldati israeliani nella terra palestinese occupata. Per l’occupazione israeliana, comunque, ogni atto di resistenza o provocazione palestinese è catalogato come una forma o di “terrorismo” o di “incitamento” [all’odio], che non può essere tollerata.

Attualmente ci sono 5.450 prigionieri nelle carceri israeliane, 205 dei quali sono minori e 48 donne. In base ad alcune stime, dall’occupazione israeliana di Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza nel giugno 1967, oltre 800.000 palestinesi sono stati imprigionati nelle carceri israeliane.

Superfluo dirlo, come Israele cerca di mantenere tutta la popolazione palestinese in continua miseria e oppressione, lo stesso fa nei confronti dei prigionieri palestinesi.

Nei mesi scorsi le già terribili condizioni in queste carceri sono ulteriormente peggiorate dopo che il governo israeliano ha annunciato che avrebbe adottato rigide misure nelle prigioni come tecnica di “deterrenza” – una iniziativa che in Israele è stata vista come propaganda elettorale.

“Compaiono in continuazione immagini irritanti di persone che cucinano nelle sezioni dei terroristi. Questa festa è finita”, ha detto a inizio gennaio il ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan. I suoi progetti comprendono limitazioni all’uso dell’acqua da parte dei prigionieri, il divieto di cucinare in cella e l’installazione di dispositivi di interferenza per bloccare il presunto uso di cellulari entrati di contrabbando.

Quest’ultima misura, in particolare, ha provocato l’indignazione dei prigionieri, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a gravi dolori alla testa, svenimenti e disturbi duraturi.

A fine gennaio il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) ha compiuto nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, un raid che ha provocato il ferimento di oltre 140 prigionieri palestinesi, alcuni dei quali colpiti da proiettili veri.

A fine marzo anche le prigioni di Naqab, Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel sono state oggetto di incursioni, che hanno causato molti feriti tra i prigionieri palestinesi. La rabbia è esplosa e il 7 aprile centinaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno lanciato uno sciopero della fame di massa che è terminato otto giorni dopo in seguito a un accordo tra i prigionieri palestinesi e l’IPS.

In mezzo al baccano preelettorale in Israele, questa notizia è stata ampiamente ignorata dai media internazionali, che si sono invece focalizzati sulla dichiarazione del presidente USA Donald Trump sulle Alture del Golan e sulla promessa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di annettere la Cisgiordania.

Invece per i palestinesi, la maggior parte dei quali soffre per avere un parente nelle carceri israeliane, tenuto in condizioni che violano i requisiti minimi del diritto internazionale e umanitario, questo è stato un grave motivo di preoccupazione e anche di rabbia. I palestinesi sanno che dietro ai numeri e alla propaganda israeliana che definisce questi uomini, donne e minori come “terroristi” vi sono tragiche storie umane di sofferenza e tenacia.

Una di queste storie è quella del giornalista palestinese Mohammed al-Qiq, marito della coautrice di questo articolo, Fayha Shalash.

Al-Qiq lavorava come corrispondente della rete di informazioni saudita Al-Majd, occupandosi della Cisgiordania. I suoi reportage televisivi relativi all’esecuzione da parte dell’esercito israeliano di presunti aggressori palestinesi nel corso di quella che è stata chiamata la rivolta di Al-Quds hanno ricevuto molta attenzione in tutto il Medio Oriente e gli hanno procurato molta ammirazione tra i palestinesi.

A causa del suo lavoro è stato giudicato una “minaccia” dallo Stato israeliano e nel novembre 2015 è stato arrestato. Questa è la sua storia.

Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Sabato 21 novembre 2015, un mese e mezzo dopo l’inizio della rivolta di Al- Quds, i soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa nostra. Hanno sfondato la porta d’ingresso della nostra modesta casa e sono entrati. È stata la scena più spaventosa che si possa immaginare. Nostra figlia di un anno, Lour, si è svegliata e ha incominciato a piangere. Mentre Mohammed veniva bendato e ammanettato, Lour continuava ad abbracciarlo e accarezzarlo.

Per fortuna Islam, che allora aveva tre anni, dormiva ancora. Sono felice di questo perché non volevo che vedesse suo padre portato via dai soldati in un modo così violento.

Al mattino ho dovuto dirgli che suo padre era stato portato via; mentre cercavo di spiegargli, gli tremavano le labbra e il suo viso aveva una smorfia di paura e di dolore che nessun bambino dovrebbe mai provare.

Era la quarta volta che Mohammed veniva arrestato. Il primo arresto fu nel 2003, quando è stato detenuto per un mese; poi nel 2004 è stato nuovamente arrestato e detenuto per 13 mesi e nel 2008 è stato condannato da un tribunale israeliano a 16 mesi di prigione per le sue attività politiche e per il suo impegno nel Consiglio studentesco dell’università di Birzeit.

Poi Mohammed è stato portato nel famigerato centro di detenzione Al-Jalameh per l’interrogatorio. Non gli è stato permesso di vedere un avvocato fino al ventesimo giorno di detenzione. È stato torturato fisicamente e psicologicamente e gli è stato ripetutamente chiesto di firmare una falsa confessione [in cui ammetteva] di essere impegnato in “istigazione attraverso mezzi di informazione”, cosa che ha rifiutato di fare.

Abbiamo saputo che la sua detenzione è stata prorogata diverse volte, ma non avevamo nessun’altra notizia da lui. Le nostre richieste di visita in quanto familiari sono state respinte e tutto ciò che potevamo fare era aspettare e pregare.

A inizio dicembre mi sono imbattuta in una notizia riportata online, secondo cui mio marito aveva iniziato uno sciopero della fame. Ho immediatamente telefonato all’Associazione dei Prigionieri, una Ong nata nel 1993 per sostenere i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, e per pura fortuna sono riuscita a contattare un avvocato di nome Saleh Ayoub che aveva visto Mohammed in tribunale. Mi ha detto che mio marito veniva processato a porte chiuse, il che significa che né la sua famiglia né il suo avvocato erano stati informati del processo.

Mentre Mohammed veniva riportato in cella, si è avvicinato a Ayoub ed è riuscito a dirgli queste parole: “Sono il prigioniero Mohammed al-Qiq. Dite alla mia famiglia e ai media che sto facendo uno sciopero della fame. Attualmente sono in arresto a Al-Jalameh.”

Quando ho sentito ciò, mi sono molto spaventata. Nella mia famiglia non abbiamo mai fatto questa esperienza. Non comprendevo del tutto le conseguenze di una tale decisione, ma ho deciso di appoggiare mio marito. 

Per mesi ho seguito ogni associazione per i diritti umani che potesse aiutarmi a ottenere qualche informazione sulla salute mentale e fisica di Mohammed. Gli israeliani non avevano prove contro di lui, ma continuavano a trattenerlo, nonostante la sua salute andasse peggiorando. Quando ha incominciato ad avere emorragie e a non reggersi più in piedi è stato trasferito all’ospedale del carcere di Ramleh.

A nessuno è stato permesso di visitarlo nell’ospedale del carcere, né a noi né alla Croce Rossa. Il caso di Mohammed non è l’unico, in quanto Israele consente il completo isolamento di ogni prigioniero che faccia uno sciopero della fame.

Mohammed è diventato ancor più determinato a portare avanti il suo sciopero della fame quando il tribunale israeliano lo ha condannato a sei mesi di “detenzione amministrativa”, che significa che loro non avrebbero potuto sostenere le accuse contro mio marito con alcuna prova tangibile, ma rifiutavano di liberarlo. L’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile fino a tre anni.

Per me è stata una corsa contro il tempo. Dovevo fare in modo che il mondo mi ascoltasse, ascoltasse la storia di mio marito, perché si facesse sufficiente pressione su Israele perché lo liberasse. Temevo che potesse essere troppo tardi, che Mohammed morisse prima che quel messaggio risuonasse in tutta la Palestina e nel mondo.

Dato che la sua salute continuava a peggiorare, è stato portato all’ospedale di Afouleh, dove hanno cercato di alimentarlo a forza. Lui si è rifiutato. Quando hanno tentato di alimentarlo con una flebo, si è strappato l’ago dal braccio e lo ha gettato a terra. Conosco mio marito, per lui la vita senza libertà non vale la pena di essere vissuta.

Dopo un mese di sciopero della fame Mohammed ha cominciato a vomitare bile gialla e sangue. Il dolore al ventre e alle articolazioni e le continue emicranie erano insopportabili. Nonostante tutto questo, continuavano a legarlo al letto d’ospedale. Il suo braccio destro ed entrambi i piedi erano bloccati agli angoli del letto da pesanti ferri. È stato lasciato così per tutto il tempo.

Sentivo che Mohammed stava per morire. Ho cercato di spiegare a mio figlio che suo padre rifiutava il cibo per lottare per la sua libertà. Islam continuava a ripetere: “Quando crescerò, lotterò contro l’occupazione”. Lour sentiva la mancanza del padre ma non capiva niente. Quando combattevo per la libertà del loro papà, non avevo altra scelta che stare lontana da loro per lunghi periodi. La nostra famiglia era spezzata.

Il 4 febbraio 2016 Mohammed è entrato nel 77mo giorno di sciopero della fame. In seguito alla pressione popolare ed internazionale, ma soprattutto a causa dell’irremovibile volontà di Mohammed, l’occupazione israeliana è stata costretta a sospendere l’ordine di “detenzione amministrativa”. Ma per Mohammed non era abbastanza.

Con questa mossa, l’occupazione israeliana intendeva mandare un segnale che la crisi era stata scongiurata, nel tentativo di ingannare i media e il popolo palestinese. Ma Mohammed non ne voleva sapere, voleva essere lasciato libero, perciò ha proseguito lo sciopero per altre settimane.

In quel momento mi è stato dato il permesso di fargli visita, ma ho deciso di no, per non dare l’impressione che tutto adesso andasse bene, giocando inavvertitamente a favore della propaganda israeliana.

È stata la decisione più difficile che abbia mai dovuto prendere, stare lontana dall’uomo che amo, dal padre dei miei figli. Ma sapevo che se lui avesse visto me o i bambini si sarebbe troppo emozionato, o peggio ancora avrebbe potuto avere un crollo fisico ancor più grave. Ho mantenuto l’impegno di sostenerlo nella sua decisione fino alla fine.

A un certo punto ho pensato tra me che Mohammed non sarebbe mai più tornato e sarebbe morto in prigione.

Era così legato ai nostri figli. Li amava con tutto il cuore e cercava di passare il maggior tempo possibile con loro. Giocava con loro, li portava entrambi a passeggiare intorno alla casa o nei dintorni. Perciò quando la sua morte è diventata una reale possibilità, mi sono chiesta che cosa avrei detto loro, come avrei risposto alle loro domande quando fossero cresciuti senza un padre e come avrei potuto andare avanti senza di lui.

Quando è arrivato all’ottantesimo giorno di sciopero della fame, il suo corpo ha cominciato ad avere convulsioni. Ho saputo in seguito che questi spasmi involontari erano molto dolorosi. Ogni volta che sopraggiungevano, lui recitava la Shahada [la professione di fede nell’Islam, ndtr.] – “Non c’è altro dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” – in previsione della sua morte.

Consapevole di ciò che sembrava essere la sua inevitabile morte, Mohammed ha scritto un testamento di cui io non ero a conoscenza. Mi è crollato il mondo addosso quando ho ascoltato le parole del suo testamento lette in televisione:

“Mi piacerebbe vedere mia moglie e i miei bambini, Islam e Lour, prima di morire. Voglio solo essere sicuro che stiano bene. Vorrei anche che l’ultima preghiera per il mio corpo fosse recitata nella moschea Durra. Per favore seppellitemi nella tomba di mia madre, in modo che lei possa prendermi in braccio come faceva quando ero bambino. Se questo non si può fare, per favore seppellitemi il più vicino possibile a lei.”

Durante il suo sciopero della fame le fotografie dei bambini sono rimaste accanto al letto d’ospedale di Mohammed. “I miei bambini si ricordano di me?”, soleva chiedere a chiunque lo andasse a trovare.

Alla fine, la sua determinazione si è dimostrata più forte dell’ingiustizia dei suoi aguzzini. Il 26 febbraio 2016 è stato annunciato che era stato raggiunto un accordo tra il Comitato dei Prigionieri Palestinesi che rappresentava Mohammed e l’amministrazione penitenziaria israeliana. Mio marito sarebbe stato rilasciato il 21 maggio dello stesso anno.

Mohammed ha ottenuto la libertà dopo 94 giorni di sciopero della fame. Ha dimostrato al mondo di non essere un terrorista come sostenevano gli israeliani e di essere stato punito per aver semplicemente informato il mondo delle sofferenze del suo popolo. Grazie alla sua inflessibile resistenza le autorità militari israeliane sono state costrette a cancellare tutte le accuse contro di lui.

L’incarcerazione di Mohammed rimane un ricordo doloroso, ma anche una grande vittoria per i palestinesi di ogni luogo. Quando è entrato in carcere Mohammed pesava 99 chili; quando ha terminato lo sciopero della fame ne pesava solo 45. Il suo corpo era ridotto a pelle ed ossa. La sua struttura atletica era collassata su sé stessa, ma il suo spirito ha continuato a crescere, come se più fisicamente debole si sentisse, più diventasse forte la sua volontà.

Quando sono andata a trovarlo coi nostri figli una settimana dopo la fine del suo sciopero, non l’ho riconosciuto. Ho pensato di essere entrata nella stanza sbagliata, ma quando mi sono avvicinata ho visto i suoi begli occhi amorevoli, l’ ho abbracciato e ho pianto.

Mohammed è stato rilasciato alla data concordata, ma è stato nuovamente arrestato otto mesi dopo. Ha immediatamente iniziato un altro sciopero della fame che è durato 33 giorni.

Oggi Mohammed è libero, ma parla ancora della prigione e la nostra famiglia non ha ancora superato il trauma che abbiamo subito. Islam è preoccupato che suo padre possa essere nuovamente arrestato di notte. Gli dico di non preoccuparsi, ma io stessa sono terrorizzata da quella possibilità. Sogno il giorno in cui non avrò più paura di poter perdere mio marito.

Rivivo anche quella straziante esperienza tutte le volte che un prigioniero palestinese inizia un altro sciopero della fame. So che non è una decisione facile mettere in gioco la propria vita, rischiare tutto per ciò in cui si crede. Gli scioperi della fame non comportano solo un alto prezzo per i corpi e le menti dei prigionieri. Anche le loro famiglie e le loro comunità devono sopportare gran parte di quel pesante fardello.

Mi sento accanto a tutti loro e prego dio che tutti i nostri prigionieri vengano presto liberati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Fayha Shalash è una giornalista palestinese che vive nella città di Birzeit in Cisgiordania.

Ramzy Baroud è un giornalista noto a livello internazionale, consulente di media e scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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