Intervista al Coordinatore della Grande Marcia per il diritto al Ritorno

Patrizia Cecconi

23 febbraio 2019, Pressenza

Il 22 febbraio si è svolto a Milano un incontro pubblico con l’avvocato Salah Abdel Ati, residente a Gaza, che ha portato la sua testimonianza sulla Grande Marcia del Ritorno e sulla situazione nella Striscia.

Alla fine dell’incontro Patrizia Cecconi ha fatto alcune domande all’avvocato S. A. Ati che riteniamo interessante proporre anche nel nostro sito. L’articolo integrale con la cronaca della serata milanese è stato pubblicata su Pressenza.

D. Lei è un giovane avvocato ma ha già molti anni di esperienza nelle lotte per i diritti umani in Palestina. Vuole raccontarci un po’ della sua vita a Gaza?

R. Veramente non sono tanto giovane, ho 44 anni e due dei miei quattro figli sono già all’università. Il ragazzo studia ingegneria e la ragazza è al primo anno di farmacia. Noi vogliamo che i nostri figli studino e tutte le famiglie a Gaza vogliono questo. Non tutti però possono date le condizioni economiche, ma la percentuale di iscritti all’Università, maschi e femmine, è molto alta. 

D. Lei fa parte delle famiglie arrivate a Gaza in seguito alla cacciata dovuta alla Nakba o è originario della Striscia? 

R. Sono uno di quel 75% di gazawi che vive in un campo profughi in quanto la mia famiglia è arrivata a Gaza dopo essere stata cacciata dalla Palestina storica. Da allora viviamo nel campo profughi di Jabaliya, al nord della Striscia.

D. Jabaliya è il luogo da cui partì la prima intifada, cioè la rivolta delle pietre, come venne chiamata, dopo l’uccisione di alcuni palestinesi investiti da un camion dell’esercito israeliano nel dicembre del 1987, è così? 

R. Sì, la rivolta partì da Jabaliya. La situazione era già carica e quella fu l’occasione che fece esplodere la rabbia palestinese. Inoltre, il giorno dopo l’investimento, gli israeliani spararono, uccidendolo, a un bambino che aveva lanciato delle pietre e da Jabaliya la rivolta si allargò e si espanse in tutti i territori occupati. Io ero un ragazzino e, come tutti gli altri ragazzini, partecipai alla rivolta. La mia gamba destra porta ancora i segni lasciati da Israele. 

D. Durante e dopo la prima intifada si occupò di politica in modo sistematico o rimase nelle fila della rivolta spontanea?

R. Mi occupai di politica. Entrai nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e venni eletto rappresentante degli studenti. Sono rimasto nel Fronte popolare fino ad alcuni anni fa. 

D. Il PFLP ha sempre rappresentato l’anima laica e di sinistra della Palestina, è vero?

R. Sì, il PFLP è stato il primo partito ad avere delle donne tra i suoi massimi dirigenti, però ora non faccio più parte dell’organizzazione politica, ma continuo a svolgere le attività in cui ho sempre creduto e per le quali ho lavorato anche nel Fronte Popolare.

D. Per esempio?

R. Per esempio la formazione politica e sociale dei giovani, i tavoli di formazione e di dialogo con le donne. Lo studio dei diritti umani e le violazioni che Israele, ma anche le autorità che governano la Palestina, sebbene in forma e numero diversi, commettono. Tutti i programmi che svolgiamo nel sociale. Insomma tutto ciò che dovrebbe preparare alla vita in una società libera, quella per la quale lavoriamo e per la quale abbiamo iniziato l’esperienza della Grande Marcia del Ritorno.

D. Lei è coordinatore per gli aspetti legali della Grande Marcia del Ritorno. Ci può dire come e da chi è nata l’idea di questa marcia che finora ha visto circa 250 martiri e oltre 25.000 feriti? E chi realmente la porta avanti? Le faccio questa domanda perché i nostri media, a parte quelli “di nicchia” ne parlano come di un progetto imposto da Hamas alla popolazione gazawa. Un progetto crudele che manda a morire tanti innocenti. 

R. No, non è un progetto di Hamas. Io ho molti contatti con l’Occidente e so bene come vengono manipolate le notizie. Intanto diciamo che in questo modo la colpa delle uccisioni non si dà agli assassini ma si scarica su una parte della società gazawa, quella che ne rappresenta il governo di fatto. Hamas può essere accusato di restrizioni e di una visione reazionaria rispetto ai valori della sinistra laica, ma non può essere accusato degli omicidi israeliani. Israele uccide manifestanti inermi, si è accanita su due dei giornalisti più competenti e conosciuti anche all’estero, due reporter che mandavano foto inequivocabili alle agenzie internazionali. Non è un caso. I suoi cecchini colpiscono il personale sanitario mentre presta soccorso. Sparano sui bambini. Sono tutti crimini contro l’umanità e se il diritto internazionale non sanziona Israele per questi numerosi e continui crimini, Israele continuerà a commetterli e queste violazioni peseranno anche sulle vostre democrazie. Comunque la grande marcia non è un progetto di Hamas, ma il movimento di Hamas partecipa, al pari di membri di Fatah, del Fronte Populare, del Fronte Democratico, degli altri movimenti politici e delle organizzazioni della società civile che hanno aderito in grande numero alla marcia.

D. Le ripeto la domanda che le avevo fatto e alla quale già mi ha risposto, ma solo in parte. Abbiamo capito che non è nata da Hamas e che non è governata da Hamas, ma come è nata l’idea della Grande Marcia?

R. È nata alla fine del 2017 discutendo sulla situazione che ci vede schiacciati sotto l’assedio. Acqua quasi totalmente non potabile, elettricità somministrata a piacere di Israele tre, quattro ore a caso durante il giorno o la notte col chiaro intento di rendere più difficile possibile la vita dei gazawi. Campi continuamente distrutti o dalle ruspe o dagli aerei che spargono diserbanti. Bombardamenti israeliani a piacere. Disoccupazione altissima. Salari tagliati anche dall’Anp. Il grado di esasperazione dei giovani e degli adulti che si alterna a fenomeni di depressione per mancanza di futuro. Insomma una situazione insostenibile. Discutendo veniva fuori che in questi 70 anni in tutta la Palestina e, in particolare, in questi 12 anni di assedio a Gaza, nessuna lotta è mai riuscita vincente. 

La resistenza è un nostro legittimo diritto ma né la resistenza armata, né la non violenza hanno mai portato all’ottenimento dei diritti spettanti al nostro popolo. Allora abbiamo pensato, discutendo e anche litigando, che un vero movimento popolare, un movimento di massa, senza uso di violenza, avrebbe potuto aiutarci ad ottenere quel che ci è dovuto. Abbiamo pensato che un diritto riconosciutoci dall’ONU già nell’anno della Nakba rappresentava tutti i palestinesi, la Risoluzione 194, cioè il nostro diritto al ritorno nelle terre, nelle case da cui siamo le nostre famiglie sono state cacciate. Così abbiamo pensato, organizzandoci in comitati, a organizzare questa grande marcia, ricreando lungo il confine dell’assedio, gli accampamenti in cui le tende portavano il nome dei villaggi e delle città da cui siamo stati cacciati. Sarebbe stato un grande movimento e forse il mondo delle istituzioni ci avrebbe finalmente dato ascolto. La grande marcia non vuole divisioni tra fazioni politiche e questo è un altro nostro importante obiettivo. 

D. Ma non avete messo in conto che Israele avrebbe potuto fare una carneficina? 

R. Israele ci ammazza ogni giorno e il mondo sta in silenzio. I nostri giovani hanno ideato il fumo nero degli pneumatici per coprire la vista ai cecchini, ma il mondo non ferma Israele, anzi lo protegge e addirittura abbiamo letto sui vostri giornali che i nostri giovani sono violenti perché incendiano gli pneumatici! Il nostro popolo ama la vita, non vuole morire, ma la morte è messa in conto. Lei ha visto durante la proiezione dei filmati [presentati durante l’incontro di Milano] che abbiamo adottato la vostra canzone “Bella ciao”? Ebbene l’ultima strofa della vostra canzone è quella che ci porta a lottare a rischio della vita, morire per la libertà. 

D. Caro avvocato, è eroico e mi azzarderei a dire commovente quel che mi sta dicendo, ma il mondo delle istituzioni non sembra capirlo.

R. È per questo che sto facendo questo viaggio. Domani sarò a Bruxelles perché abbiamo bisogno di lobbies politiche che ci aiutino a imporre a Israele le giuste sanzioni secondo la normativa giuridica internazionale. Senza sanzioni che costringano Israele al rispetto dei diritti umani non ci saranno né giustizia né pace. 

D. Lei a Gaza dirige il centro Masarat, giusto? Qual è l’attività di questo centro?

R. Il Masarat – Palestinian Center for Policy Research & Strategic Studies  segue una filosofia di apertura in tutte le direzioni e l’obiettivo prioritario su cui stiamo lavorando da molti anni è quello di raggiungere la riconciliazione tra le due fazioni più importanti, i cui leader governano rispettivamente la Cisgiordania (Fatah) e la Striscia di Gaza (Hamas). Noi siamo convinti che senza unificazione tra tutte le forze politiche non ci sarà alcuna possibilità di battere l’occupazione. Sul fronte interno, dal punto di vista politico, lavoriamo per questo. Sul fronte esterno lavoriamo per ottenere il rispetto dei diritti umani da parte di Israele, ma se cogliamo violazioni dei diritti umani da parte delle autorità palestinesi non esitiamo a denunciarle e a chiedere che vengano ripristinati i diritti violati. Recentemente abbiamo denunciato come violazione dei diritti umani anche il taglio degli stipendi agli impiegati di Gaza da parte dell’ANP.

D. Questo tipo di denunce non può acuire le distanze tra Fatah e Hamas?

R. No, perché noi non denunciamo per conto dell’una o dell’altra fazione politica, ma in nome del rispetto del popolo palestinese che è un dovere rispettare, quale che sia l’orientamento politico dei singoli cittadini. Noi abbiamo un programma con obiettivi precisi e strategie precise. Critichiamo i comportamenti che ledono il popolo palestinese e sono quelli che acuiscono le intolleranze politiche. Il nostro obiettivo finale è la fine dell’occupazione perché è da questa lunghissima occupazione che genera la corruzione, l’esasperazione e sfiducia.

Abbiamo un numero altissimo di diritti riconosciuti sulla carta ma mai applicati. Domani a Bruxelles, dove speriamo di poter avere presto una sede, e nei giorni successivi a Ginevra (Commissione dei diritti umani) andrò con questo compito, quello di segnare un passo concreto verso la fine dell’occupazione.

D. E se l’obiettivo interno per cui lavorate da anni non si realizzerà?

R. Se si realizzerà avremo una chance, non la certezza, ma una chance di abbattere l’occupazione. Se invece non si realizzerà resteremo in una situazione continuamente precaria, Israele seguiterà a mangiarsi la Cisgiordania e seguiterà lo stillicidio di vite palestinesi sia lì che a Gaza. Ma a Gaza potrebbe anche prendere forma la sempre minacciata nuova guerra di aggressione, e allora non sarà solo Gaza a pagarne le conseguenze. Noi vogliamo l’unificazione, ma sappiamo che in realtà non abbiamo delle leadership democratiche. In Palestina abbiamo delle figure di grande intelligenza, ma non si riesce a uscire dalla logica del personalismo, mentre avremmo bisogno di una struttura democratica. Noi lavoriamo per questo ed è per questo che operiamo in tutte le direzioni che poi è il significato che ha il nome dell’associazione che presiedo, “Masarat”, cioè “in ogni direzione”.

D. Vorrei farle un’ultima domanda. Vedo che ormai è notte fonda e domattina presto dovrà partire, ma può dirmi cosa pensa dei Paesi arabi rispetto alla situazione di Gaza e della Cisgiordania?

R. Sarò necessariamente sintetico. I Paesi arabi sono l’essenza della conflittualità poliedrica. Prendiamo ad esempio il Qatar. Il Qatar ha interessi sia in Cisgiordania che nella Striscia, offre finanziamenti, ricostruisce interi quartieri distrutti dai bombardamenti ma, al tempo stesso, collabora con Israele. Questa è una situazione che in modo più o meno evidente ritroviamo in quasi tutti i Paesi arabi. Non abbiamo altri alleati credibili che noi stessi, per questo il nostro obiettivo è l’unità dei palestinesi e quindi la riconciliazione. 

D. Bene, la ringrazio e le auguro buona fortuna a Bruxelles e a Ginevra.

R. Vorrei chiudere affidandole un messaggio per il popolo italiano. Al popolo italiano vorrei dire: potete sostenerci boicottando Israele affinché capisca che la società civile non sostiene i suoi crimini, e potete sostenerci chiedendo alle vostre istituzioni di esprimersi a favore della nostra causa, cioè a favore della giustizia.

 




Gaza sotto i droni israeliani

Angelo Stefanini

18 febbraio Salute Internazionale.info

Nella Striscia di Gaza non c’è scampo ai droni israeliani. Oltre che nei conflitti armati sono usati a scopo di sorveglianza, per compiere “assassini mirati” (o “uccisioni extra-giudiziarie) o per disperdere manifestazioni al confine con Israele con il lancio di gas lacrimogeni e liquido nauseante. L’impatto psicologico di queste armi è ovunque; dalla famiglia che, dopo aver perso un figlio colpito da un drone, si chiude in casa ogni volta che sente un ronzio in cielo, al bambino che torna a casa da scuola riferendo di come la classe non riesce a concentrarsi sui compiti a causa di un fastidioso ronzio nel cielo.

Un recente studio[1] condotto su 254 pazienti amputati dell’Artificial Limb and Polio Centre (ALPC) di Gaza mostra come la causa più comune delle lesioni che hanno condotto alla amputazione di uno o più arti era dovuta ad attacchi con droni armati.[2] Rispetto ad altri tipi di arma i droni hanno provocato le amputazioni più traumatiche nei palestinesi sopravvissuti durante le incursioni militari israeliane e periodi di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza dal 2006 al 2016. In particolare, le ferite causate da droni hanno richiesto amputazioni più prossimali che sono state seguite, dopo l’iniziale intervento d’emergenza, da un numero maggiore di operazioni chirurgiche rispetto alle amputazioni traumatiche causate da altre armi. L’aumentato carico di lavoro medico che ciò ha comportato si è aggiunto agli oneri pressoché insostenibili che gravano sul sistema sanitario di Gaza provocati dagli oltre undici anni di blocco illegale che Israele sta imponendo a quella popolazione: insufficienti forniture mediche ed energetiche, mancanza di acqua pulita e condizioni di lavoro insicure per il personale sanitario.

Gli autori dello studio, norvegesi e palestinesi, affermano che il crescente uso di droni armati telecomandati a distanza non deve essere passivamente accettato dalla comunità internazionale ma affrontato criticamente all’interno di una specifica cornice legale ed etica. La loro ricerca contribuisce a colmare una lacuna nella nostra conoscenza sulle conseguenze della guerra moderna sui civili. Oltre a documentare la maggiore prevalenza di amputazioni correlate ai droni rispetto a quelle causate da altre armi nei palestinesi di Gaza, questo studio contribuisce a confutare la tesi che i droni armati riducano al minimo i danni collaterali, una delle principali giustificazioni addotte al loro uso.[3]

 

Gaza sotto i droni

Nella Striscia di Gaza non c’è scampo ai droni israeliani. Soprannominati in arabo “zenana” (“il fastidioso rimbrottare della moglie” nell’accezione egiziana) per il molesto ronzio che emettono, i droni sono onnipresenti. Oltre che nei conflitti armati sono usati a scopo di sorveglianza, per compiere “assassini mirati” (o “uccisioni extra-giudiziarie) o per disperdere manifestazioni al confine con Israele con il lancio di gas lacrimogeni e liquido nauseante. Il fatto che dal 2005 Israele abbia ritirato i suoi coloni e non abbia una presenza evidente all’interno della Striscia non significa che l’occupazione non sia ancora una brutale realtà quotidiana, in gran parte gestita a distanza dai cieli. Paragonando a David e Goliath (ovviamente a parti invertite) il divario di forza tra i manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano, in questo caso il Goliath israeliano non ha nemmeno bisogno di entrare nel campo di battaglia.

Dai primi attacchi di droni israeliani nel 2004 fino al 2014, secondo il Centro Al Mezan, Israele con quest’arma a Gaza ha ucciso circa 2.000 persone.[4] Hamushim, gruppo israeliano per i diritti umani, sostiene che la guerra dei droni è stata responsabile di quasi un terzo delle 1543 vittime civili nella guerra del 2014.[5] Parlando con la gente di Gaza è chiaro, tuttavia, che il numero preoccupante di morti e feriti dovuti ai droni non racconta tutta la storia. L’impatto psicologico di queste armi è ovunque; dalla famiglia che, dopo aver perso un figlio colpito da un drone, si chiude in casa ogni volta che sente un ronzio in cielo, al bambino che torna a casa da scuola riferendo di come la classe non riesce a concentrarsi sui compiti a causa di un fastidioso ronzio nel cielo.[6] Gli abitanti di Gaza si sono in qualche modo abituati al rumore insidioso del drone. Lo racconta in modo suggestivo il Dr. Atef Abu Saif, professore di scienza politica alla Al-Azhar University di Gaza, nel suo diario del conflitto del 2014, The Drone Eats With Me (“Il Drone Mangia Con Me”). Sembra così vicino che “potrebbe essere qui accanto a noi“. E aggiunge “È come se volesse unirsi a noi per la serata aggiungendo una sedia invisibile“. Questa “familiarità” con i droni, tuttavia, non attenua le terribili incognite che accompagnano la loro presenza: perché si trovino là fuori, se stiano sorvegliando cosa, se siano armati o se stiano per colpire chi.

Etica del drone

Nel 2009 Daniel Reisner, ex capo del dipartimento legale dell’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano Haaretz: “Se fai qualcosa per abbastanza tempo, il mondo lo accetta … Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni.”[7] I rappresentanti israeliani, in questo modo, si sono apertamente vantati di aver aperto la strada a una delle pratiche più controverse della guerra moderna: uccidere con un telecomando. Nel recensire lo sconcertante libro Rise And Kill First -The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations [“Alzati e uccidi per primo: la storia segreta degli assassinii mirati di Israele”], un ex-agente della CIA scrive: “Una delle prime cose che mi è stata insegnata quando sono entrato nella C.I.A. è che noi non commettiamo omicidi. […] Per questa politica abbiamo trovato un eufemismo. Non li chiamiamo più assassinii. Ora, sono ‘uccisioni mirate’, il più delle volte eseguite da droni che sono diventati l’arma d’avanguardia americana nella guerra al terrore.”[8] Una triste eredità lasciata dal presidente Barak Obama è stata un tremendo aumento dell’uso dei droni soprattutto in Pakistan, Somalia e Yemen causando la morte di circa 3.797 persone, tra cui 324 civili.[9]Molti sostengono che la combinazione di moderna tecnologia e intelligence sofisticata fa sì che l’uso di droni sia il modo più efficace a disposizione dell’antiterrorismo operativo. In effetti, in teoria cos’è più attraente che uccidere i “terroristi” dall’aria con una tecnologia elegante minimizzando il rischio per le forze di terra? Siamo in un’epoca in cui una tecnologia brillante che consente la raccolta e l’analisi apparentemente raffinata delle informazioni consente di rimuovere l’elemento umano – e l’umanità – dal processo decisionale.

In un’analisi inquietante di come i droni stanno cambiando il mondo, il filosofo Grégoire Chamayou[10] descrive come per la prima volta nella storia uno Stato possa rivendicare il diritto di condurre la guerra in un campo di battaglia mobile che potenzialmente si estende su tutto il mondo. Quello che stiamo vedendo è una trasformazione fondamentale delle leggi della guerra che nella storia umana hanno definito il conflitto militare tra i combattenti (lo “Ius in Bello”) racchiuse nel Diritto Umanitario. Mentre l’uso dei droni armati diventa sempre più la norma, i conflitti moderni hanno ora il potenziale per trasformarsi in una pratica di omicidii segreti e mirati, di là della vista e del controllo non solo dei potenziali nemici ma anche dei cittadini delle stesse democrazie. Utilizzare droni armati (“uccidere anziché catturare”) è divenuto emblematico della dottrina della “lotta al terrore” condotta dagli Stati Uniti e Israele.

Le nostre complicità

Nonostante l’uso israeliano di droni contro individui, luoghi pubblici, istituzioni accademiche e scuole palestinesi sia più frequente del loro uso in qualsiasi altro luogo al mondo da parte di qualsiasi altro esercito, questo “dettaglio” non appare nella maggior parte degli studi pubblicati.[11] La letteratura specializzata si limita a riportare che Israele produce e usa droni, mentre le conseguenze di tale uso a Gaza, giorno e notte, sono sottostimate e quasi assenti. L’aspetto più sorprendente dell’impiego israeliano dei droni a Gaza è che esso intensifica l’occupazione e la rende più redditizia. Israele non fa mistero di usare le guerre a Gaza per commercializzare i suoi droni. Benjamin Ben Eliezer, ex ministro della difesa israeliano, ha allegramente elogiato la vendita di armi israeliane usate nei territori occupati dichiarando che “alla gente piace comprare cose che sono state testate. Se Israele vende armi, sono state testate, provate. Possiamo dire che lo stiamo facendo da 10-15 anni.“[12]

È evidente quindi che la comunità internazionale, e principalmente l’Europa, Italia inclusa, commerciando in armi con Israele, sta partecipando in molti modi diversi alla guerra dei droni israeliani, offrendo un sostegno diretto all’aggressione contro i palestinesi e inviando un chiaro messaggio di approvazione per le politiche criminali di Israele. Un interessante sviluppo che sta emergendo nell’uso dei droni è nella sorveglianza e repressione dell’immigrazione verso l’Europa. Nel settembre scorso, l’Agenzia Frontex della guardia di frontiera e costiera dell’UE ha annunciato[13] l’inizio dei voli di prova di droni in Italia, Grecia e Portogallo. Il dettaglio che il comunicato di Frontex omette è che il tipo di droni in fase di test è stato in precedenza utilizzato per attaccare Gaza. Il già citato Dr. Atef Abu Saif prende in esame una serie di modalità con cui ci rendiamo complici dei misfatti compiuti dai droni israeliani. In primo luogo, Israele addestra i suoi clienti nell’uso dei droni in basi militari all’interno del territorio israeliano probabilmente a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza, mentre quello stesso drone sulla cui tecnologia e vantaggi gli alunni sono ammaestrati si aggira sopra la Gaza. Secondo, gli istruttori israeliani che addestrano le forze armate europee sull’uso di questi droni sono le stesse persone che li hanno usati per uccidere decine di civili palestinesi a Gaza. In terzo luogo, gran parte delle informazioni che i militari europei ricevono sui droni che i loro paesi stanno per acquistare si basa sull’esperienza di quei droni nei cieli di Gaza. Quarto, i fabbricanti israeliani di droni sono beneficiari di progetti di ricerca dell’UE. Ciò significa che i contribuenti europei contribuiscono a finanziare nuovi strumenti per uccidere. Infine, alcuni stati membri dell’UE stanno cercando alacremente di partecipare a progetti congiunti di sviluppo di droni con Israele.[14]

Ciò che sembra un approccio orientato al business ha gravi implicazioni per la violazione dei diritti di una popolazione sotto occupazione. “Se da una parte alcuni paesi in Europa o Asia ci deplorano per aver ucciso civili”ha affermato Yoav Galant, capo del comando meridionale dell’esercito israeliano durante l’operazione Piombo Fuso “dall’altra, inviano i loro ufficiali a partecipare ai miei seminari.”  “C’è molta ipocrisia”,  ha continuato “ti condannano politicamente, ma poi ti chiedono dove sta il trucco di voi israeliani che sapete trasformare il sangue in denaro”.  Secondo Mamoun Swidan, un diplomatico residente a Gaza, “l’UE agevola i crimini di Israele contro l’umanità.”[15] L’antropologo israeliano Jeff Halper sostiene che i territori occupati sono cruciali come laboratorio, non solo in termini di sicurezza interna israeliana, ma perché hanno permesso a Israele di diventare il leader internazionale dell’industria della “National Security”. Il suo successo nel vendere il suo know-how agli stati potenti lo rende sempre più restio a restituire i territori occupati ai palestinesi.[16] Mentre Stati Uniti e Israele hanno svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo e nell’uso di sistemi d’arma senza equipaggio, oggi esiste una “seconda generazione” di produttori e operatori, statali e non-statali, di droni armati. Secondo l’Osservatorio Diritti, l’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dopo che nel 2015 il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense, ora, rivela l’Osservatorio sulle spese militari italiane, quasi 20 milioni di Euro sarebbero a disposizione a tale scopo. Sono di questi ultimi mesi le notizie di un’intensificazione delle commesse militari (droni e jet) fra Italia e Israele. [17, 18]

Conclusioni

L’amministrazione Obama ha giustificato l’aumento straordinario di attacchi con droni armati nella sua “guerra al terrore” con il fatto che sono “eccezionalmente chirurgici e precisi da colpire i sospetti terroristi senza mettere ‘in pericolo’ uomini, donne e bambini innocenti”.[19] Un rapporto della polizia militare israeliana fino ad ora tenuto nascosto al pubblico rivela come l’uccisione di quattro bambini palestinesi che giocavano sulla spiaggia nella guerra di Gaza nel 2014 sia stata opera di un drone israeliano.  I quattro cugini furono scambiati per combattenti di Hamas.[20] “Se solo sapessero per un attimo cosa può fare un’arma, il costo che ci fa pagare, penso che si fermerebbero. Penso che non abbiano un’anima. Quando guardano la TV e vedono le notizie, vedono le persone uccise da questi droni, come si sentono? Se venissero qui per una notte e sentissero i bombardamenti, gli aerei e i droni – non so cosa proverebbero – penso che dovrebbero venire qui e vivere la nostra esperienza della guerra e così capirebbero.”[21]  (Ridda Abu Znaid, testimone dell’uccisione della sorella e del cugino in un attacco israeliano di droni nella striscia di Gaza nel 2009, parlando di chi produce e commercia droni.)

Angelo Stefanini, medico volontario del PCRF (Palestine Children’s Relief Fund)

Bibliografia

  1. Hanne Heszlein-Lossius et al. Traumatic amputations caused by drone attacks in the local population in Gaza- a retrospective cross-sectional study. The Lancet Planetary Health 2019;3(1): e40-e47.
  2. Wikipedia.org: Aeromobile a pilotaggio remoto: “Un aeromobile a pilotaggio remoto o APR, comunemente noto come drone, è un apparecchio volante caratterizzato dall’assenza del pilota a bordo. Il suo volo è controllato dal computer a bordo del mezzo aereo oppure tramite il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo. […]Gli APR utilizzati per scopi bellici possono essere attrezzati con armamenti o, più semplicemente, con sensori di ripresa che permettono l’invio in tempo reale, notte/giorno, alla stazione di controllo che è posta a decine di chilometri di distanza…”
  3. Byman D. Why drones work: the case for Washington’s weapon of choice. Foreign Affairs 2013; 92: 32–43.
  4. Why has Israel censored reporting on drones?  Electronicintifada.net 18.o4.2016
  5. The Gaza Laboratory — Protective Edge
  6. Gaza: Life beneath the drones
  7.  Consent and Advise. Haaretz.com, 29.01.2009
  8. Kenneth M. Pollack. Learning From Israel’s Political Assassination Program. Nytimes.com, 07.03.2018
  9.  Obama’s Final Drone Strike Data https://www.cfr.org/blog/obamas-final-drone-strike-data
  10. Grégoire Chamayou (2014) Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere. DeriveApprodi.
  11. Sleepless in Gaza. Israeli drone war on the Gaza Strip 
  12. Citato in Cook, Jonathan “Israel’s booming secretive arms trade: New documentary argues success of country’s weapons industry relies on exploiting Palestinians,” Al Jazeera, 16.08.2013
  13. Frontex begins testing unmanned aircraft for border surveillance.  Frontex.europa.eu
  14. Ibid.
  15. Jeff Halper: Questa guerra è contro di noi. Nena-news.it, 0812.2008
  16. Droni militari, l’Italia spende 20 milioni per armarli.  Osservatoriodiritti.it, 08.06.2018
  17. Droni e jet, si intensificano  le commesse militari  fra Italia ed Israele. Italiaisraeletoday.it, 22.11.2018
  18. Obama’s covert drone war in numbers: ten times more strikes than Bush. Thebureauinvestigates.com, 17.01.2017
  19. Secret Israeli Report ‘Reveals Armed Drone Killed’ Four Children Playing on Gaza Beach in 2014. Haaretz.com, 12.08.2018
  20. Resist drone wars: the impact of drone attacks on Gaza. Waronwant.org, 24.03.2014



La strategia anti-BDS di Israele alimenta miti e falsità

Mohammad Makram Balawi

Middle East Monitor15 Febbraio, 2019

Il ministero degli Affari Strategici israeliano ha pubblicato un rapporto dal titolo Terrorists in Suits: The Ties Between NGOs promoting BDS and Terrorist Organizations [Terroristi in cravatta: i legami tra ONG pro-BDS e organizzazioni terroristiche]. L’inchiesta ha i toni del melodramma, specialmente quando raffigura immagini di attivisti pro-BDS affisse su una bacheca in sughero e collegate le une alle altre da tratti rossi, come in una scena di un film giallo.

L’uomo dietro l’inchiesta è il ministro per la Pubblica Sicurezza e degli Affari Strategici Gilad Erdan; senza dubbio ha una fervida immaginazione. Un guazzabuglio di nomi, luoghi, date, eventi, assemblee e immagini mischiati insieme per presentare uno scenario che si presume dissuada la gente dall’appoggiare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e spazzi via tutti i crimini di Israele nei confronti del popolo palestinese. Così facendo, non fa che spacciare miti e falsità.

Nel rapporto si asserisce che tutti gli attivisti pro-Palestina e a favore della giustizia che vi sono menzionati non siano in realtà ciò che sembrano. Viene ad esempio citata una descrizione fatta dalla Corte Suprema di Israele nel 2007 a proposito di Shawan Jabarin, direttore generale della Al-Haq Foundation, una delle più antiche organizzazioni per i diritti umani della Cisgiordania, come di una personalità alla “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. Per “rilevanti questioni di sicurezza”, il tribunale ha appoggiato la decisione dell’esercito di vietargli di lasciare il Paese. Anche la vicedirettrice dell’organizzazione per i diritti Addameer, Khalida Jarrar, è stata descritta in modo analogo; dal 2017 si trova in stato di detenzione amministrativa per il suo ruolo come importante membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e per le sue presunte attività terroristiche. La detenzione amministrativa consente a Israele di mantenere persone – guarda caso sempre palestinesi – dietro le sbarre senza alcuna accusa né processo, per periodi di sei mesi rinnovabili.

Una sezione del rapporto punta a presentare un atto di pirateria in mare aperto come una sorta di gesto eroico contro il terrorismo, ovvero quando nel 2010 le truppe israeliane attaccarono la Mavi Marmara, un’imbarcazione battente bandiera turca che faceva parte di un convoglio di navi che portava aiuti umanitari nella Striscia di Gaza assediata. In acque internazionali e nell’assoluto disprezzo del diritto internazionale e della vita umana, gli israeliani sequestrarono il convoglio e uccisero nove attivisti turchi: İbrahim Bilgen, Çetin Topçuoğlu, Furkan Doğan, Cengiz Akyüz, Ali Heyder Bengi, Cevdet Kılıçlar, Cengiz Songür, Fahri Yaldız, Necdet Yıldırım. Un decimo, Ugur Suleyman Soylemez, fu così gravemente ferito da morire dopo un coma di quattro anni. Israele alla fine ha accettato di pagare un risarcimento di più di 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. I propagandisti israeliani al servizio del ministro Erdan sono ancora oggi impegnati a infangare l’immagine dei martiri e distorcere la realtà riguardo l’accaduto. Difatti, chiunque abbia mai avuto un qualsiasi legame con la Mavi Marmara e il suo convoglio viene ancora accusato di “terrorismo”, compreso l’allora capo della Campagna Britannica di Solidarietà per la Palestina Sarah Colborne, Ismail Patel dell’associazione Amici di Al-Aqsa e i leader palestinesi esiliati Muhammad Sawalha e Zaher Birawi.

Le accuse contro tali attivisti includono: apparire su canali televisivi di Al-Aqsa, di proprietà di Hamas; incoraggiare le flottiglie di liberazione a rompere l’assedio di Gaza; chiedere la fine della vendita di armi ad Israele e organizzare manifestazioni in favore del legittimo diritto al ritorno dei palestinesi e le proteste nell’ambito della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il rapporto di Erdan, sarebbe già sufficiente andare a Gaza per offrire supporto umanitario e morale ai palestinesi, o descrivere Israele come uno Stato di apartheid, per essere additati come terroristi, nonostante Israele rientri perfettamente nei criteri per essere definita tale.

In tutto il testo di Terroristi in cravatta… c’è uno sfrontato disprezzo per il diritto internazionale, per le risoluzioni dell’ONU e anche per il puro e semplice buonsenso, e rispecchia lo spregio che Israele mostra nei confronti di quelle leggi e convenzioni mirate a proteggere chi è più vulnerabile e a offrire loro giustizia. In nessun punto del testo pare che i suoi autori siano anche solo lontanamente consapevoli della brutale occupazione militare di Israele, a cui sono asserviti i tribunali del Paese e le sue agenzie di sicurezza. Il rapporto cita infatti sentenze e inchieste di Shin Bet, l’agenzia per la sicurezza interna, come se fossero documenti indipendenti e completamente imparziali, cosa del tutto irragionevole. Qualsiasi opposizione o resistenza all’occupazione illegale e belligerante viene classificata come terrorismo, e guai a chi la pensi diversamente.

Secondo Erdan e il suo staff, nessuno è immune a tali gravi accuse, siano essi organizzazioni di società civile, fazioni di palestinesi, intellettuali o attivisti. L’inchiesta sostiene che 42 fra le principali ONG su quasi 300 organizzazioni internazionali promuovano la “delegittimazione di Israele” e la campagna BDS contro lo Stato sionista. Anche solo questo, insiste il reportage, è ragione sufficiente per classificarli come “terroristi” e per screditarli, insieme al loro considerevole lavoro. Tale attivismo, agli occhi del ministero degli Affari Strategici, sarebbe accettabile solo quando ciò avvantaggia Israele, altrimenti è bollato come “terrorismo”.

Esattamente come quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in seguito agli eventi dell’11 settembre, affermò che “chiunque non è con noi è con i terroristi”, non viene lasciato alcuno spazio alla via di mezzo, nonostante sia perfettamente ragionevole essere sia contro gli Stati Uniti che anche contro il terrorismo. Israele ha adottato la stessa filosofia, per cui o sei pro-Israele o sei un terrorista, non si può essere a favore della giustizia se quella giustizia va a vantaggio delle popolazioni della Palestina occupata.

Quando, mi chiedo, Israele e i suoi sostenitori si accorgeranno che l’attivismo a favore della giustizia e pro-Palestina non sono un problema, bensì che è l’occupazione israeliana a costituire il nocciolo della questione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)




Storia e politica dei beduini. Rivisitazione del nomadismo nella Palestina moderna

Middle East Monitor

The History and Politics of the Bedouin. Reimagining Nomadism in Modern Palestine [Storia e politica dei beduini. Rivisitazione del nomadismo nella Palestina moderna]

Autore : Seraj Assi

Data di pubblicazione: aprile 2018 Editore : Routledge, 222 pagine

Recensione di Ramona Wadi – 31 gennaio 2019

Lo studio di Seraj Assi sul nomadismo fa chiarezza sulle precedentemente nascoste interpretazioni che hanno contribuito al fatto che si sia discusso dei beduini da un punto di vista colonialista. The History and Politics of the Bedouin –Reimagining nomadism in Modern Palestine [Storia e politica dei beduini. Rivisitazione del nomadismo nella Palestina moderna] (Routledge, 2019) esplora la storia che sta dietro le imposizioni dall’esterno sulla popolazione. Le prime narrazioni, per lo più di rappresentanti dell’impero britannico, hanno influenzato la politica e la retorica contro i beduini “radicate nella visione sedentaria del nomadismo.”

Ispirato alla teoria post-coloniale riguardo a come la rappresentazione di soggetti colonizzati abbia fornito una “giustificazione morale” alla dominazione europea, il libro di Assi è una critica antropologica che gradualmente costruisce una complessa immagine su come il potere definisca ciò che compete allo Stato e, di conseguenza, cosa manipolare e chi escludere.

Il libro esplora cinque temi principali: l’eredità etnologica del “Palestine Exploration Fund” [Fondo di Esplorazione della Palestina, società orientalista britannica fondata nel 1865, ndtr.]; la percezione britannica del nomadismo; l’eredità dell’amministrazione britannica nel sud della Palestina; la percezione araba del nomadismo; come la storiografia sionista ha rappresentato il nomadismo.

Assi inizia con una domanda importante: “Perché Israele, che si vanta del proprio carattere democratico, continua a respingere i diritti dei beduini sulla terra come ‘invasioni tribali’ su terre dello Stato?” La sua ricerca mostra che i britannici rappresentavano gli arabi come nomadi, dando quindi inizio all’individuazione di una tendenza che con il tempo trova un terreno comune con la propaganda sionista riguardo alla terra desolata.

Recuperare le narrazioni dei beduini e sfidare i concetti colonialisti prevalenti, afferma Assi, richiede uno spostamento del centro dell’attenzione e dell’analisi storica. Egli identifica tre problemi principali che ostacolano tali narrazioni: concentrarsi su periodi in cui è emersa la coscienza nazionale palestinese; l’attenzione sulla Palestina urbana, che marginalizza i gruppi subalterni; scarso interesse nei confronti del dominio britannico in Palestina, dovuto al fatto che la maggior parte degli studi si concentra sul contrasto tra Palestina e sionismo.

Il libro ci ricorda che una classificazione storica lineare del nomadismo non è efficace. Il periodo del Mandato britannico, per altro verso, fornisce il punto di partenza per studiare concetti sul nomadismo e su come questi abbiano influenzato sia la narrazione coloniale che nazionale. Assi descrive il nomadismo come un’“eredità condivisa”. Analizza come “nazionalismo e colonialismo siano ugualmente coinvolti nel duplice processo di negazione e di invenzione, di cancellazione e riscatto, associazione e assimilazione, che plasmano la percezione e gli atteggiamenti colonialisti verso il nomadismo.”

La ricerca di Assi mostra che attribuire il nomadismo ai beduini servì in origine agli interessi imperialisti in Palestina. La categorizzazione e le attribuzioni razziali da parte degli esploratori britannici nella Palestina ottomana crearono discordanze sul diritto alla terra. I beduini vennero classificati come una razza pura, diversi dai “fellahin” [contadini, ndtr.] e dalla “gente di città”, ma ritenuti anche invasori che, con il loro nomadismo, “rendevano desolata la terra.”

Questi primi pregiudizi vennero inseriti nelle ambizioni politiche britanniche e gettarono le basi della dominazione coloniale in Palestina. Assi cita il colonnello F. R. Conder [un esploratore inglese, ndtr.] il quale affermò che “a me sembra che il miglior futuro che possa toccare alla Palestina sia di essere occupata da una forte potenza europea, che possa individuare il valore delle (sue) risorse naturali.”

Ai beduini venne anche attribuita una lealtà tribale che, secondo gli esploratori britannici, escludeva caratteri nazionali. Tuttavia, dati i tentativi di limitare le possibilità del nazionalismo in Palestina, queste caratteristiche devono essere lette all’interno del contesto coloniale. Classificandoli come nomadi, tribali ed estranei alla Palestina, i beduini vennero automaticamente esclusi da qualunque nozione di formazione di uno Stato.

Assi afferma chiaramente che i concetti britannici di nomadismo servivano agli scopi colonialisti. L’esclusione della proprietà beduina sulla terra con l’imposizione del sistema britannico portò a una conferma delle originarie caratteristiche nomadiche. La situazione economica dei beduini era etichettata come “un’economia primitiva della povertà…a cui manca il tipo di economia che esiste tra le popolazioni sedentarie.” Facendo ricorso alla superiorità per evitare di riconoscere in modo costruttivo la politica e la società beduine, i britannici dissociarono i beduini dalla causa nazionale palestinese.

Le tre principali caratteristiche imposte sui beduini dai britannici li resero una etnia separata, distinta dagli altri gruppi etnici in Palestina, estranei alla Palestina raffigurandoli come una tribù di conquistatori privi di Stato a causa della definizione coloniale di nomadismo.

Benché ci siano stati tentativi dei palestinesi di integrare i beduini nella lotta nazionale, gli sforzi iniziali portavano con sé un punto di partenza simile a quello dei colonialisti britannici, in termini di attribuzione di purezza razziale. Assi tratteggia i tentativi dello storico palestinese Aref Al-Aref, un funzionario del Mandato britannico che agiva contro gli interessi sionisti e britannici e il cui lavoro sui beduini è considerato una narrazione storica che “rasenta l’antropologia politica.” Al-Aref, tuttavia, tentò di ribaltare i parametri di esclusione britannici e sionisti, mostrando come i beduini “non fossero fuori dalla storia, ma gli attori del ritorno degli arabi alla storia.”

L’autore descrive anche come Al-Aref abbia tentato di coinvolgere i beduini nel fondare diritti tribali sulla terra attraverso la proprietà privata piuttosto che collettiva. A questo proposito, afferma Assi, “nella sua mente persisteva il concetto che regolamentare la proprietà equivalesse a formare uno Stato-Nazione.”

Per i sionisti conquistare il deserto del Naqab [in ebraico Negev, ndtr.] equivaleva alla “concretizzazione finale del sionismo.” Assi descrive come i primi coloni inizialmente si siano assimilati con i beduini, ma fu una fase transitoria nella rivendicazione ebraica sulla terra che inaugurò i legami sionisti tra il nazionalismo agrario e il colonialismo di insediamento.

Riguardo alla strategia di colonizzazione sionista l’autore cita Ben Gurion: “Se lo Stato non mette fine al deserto, il deserto rischia di mettere fine allo Stato.”

Questa citazione del primo capo del governo di Israele è analizzata meglio se contrapposta all’analisi di Assi delle opinioni di Al-Aref sui beduini e sul nomadismo. Al-Aref afferma che i beduini non possono essere considerati come estranei e nomadi, in quanto i loro spostamenti avvengono nel loro stesso territorio, regolato dalla proprietà beduina. Il colonialismo intendeva eliminare la tradizionale proprietà della terra dei beduini, da cui l’assunzione degli originari concetti britannici di nomadismo per descrivere la comunità beduina.

Il dettagliato studio di Assi accresce la consapevolezza riguardo ai legami tra la percezione imperialista e le imposizioni sioniste e a come questa abbia modellato la narrazione esterna sui beduini e sul nomadismo. Inventare il nomadismo serviva agli interessi britannici e sionisti per fondare il lungo processo di colonizzazione. In un momento in cui l’espulsione forzata della comunità beduina rimane una priorità per il governo israeliano, questo libro è una lettura obbligata per comprendere l’invenzione politica della narrazione degli autoctoni.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Palestina: una storia di quattromila anni

Palestine: A Four Thousand Year History [Palestina: una storia di quattromila anni]

Autore: Nur Masalha

Data di pubblicazione: agosto 2018, Editore: Zed Books, 458 pagine

Recensione di Ramona Wadi – 30 ottobre 2018, Middle East Monitor

L’ultimo libro di Nur Masalha, “Palestine: A Four Thousand Year History” [Palestina: una storia di quattromila anni] (Zed Books, 2018) presenta un’accurata distinzione tra il ritorno dei palestinesi alla storia e la pretesa rivendicazione sionista – quest’ultima fallita nei suoi sforzi volti a giustificare le proprie pretese dal punto di vista storico. Nell’esame della ricca storia della Palestina, vengono evidenziati i limiti del sionismo e della sua concretizzazione colonialista.

Il fatto di privilegiare narrazioni artificiose sulla storia palestinese documentata ha forgiato la colonizzazione della Palestina. La prima menzione rilevata della Palestina risale a più di 3.200 anni fa. Eppure la maggior parte dell’antica storia della Palestina è ignorata, in linea con l’approccio colonialista che fornisce una visibilità selettiva alla Palestina solo per fondare la cancellazione sionista della popolazione indigena. A sua volta la cancellazione sionista è stata responsabile anche dell’eliminazione, tra le altre sparizioni, della minoranza ebraica di lingua araba in Palestina, per spianare la strada, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, all’identità razziale ed eliminare le varie identità regionali della Palestina. Nella conquista coloniale la cancellazione della Palestina e di tutta la sua eredità da parte del movimento sionista è stata essenziale.

Masalha identifica tre tipologie di scritti sulla Palestina e quello che hanno ottenuto riguardo alla conservazione o alla cancellazione della memoria palestinese. La prima è quella che viene definita come geografia delle sacre scritture, legata agli scritti del colonialismo di insediamento israeliano ed è diffusa dalle élite di potere. Nei nuovi scritti storiografici, la storia palestinese è trattata come un’appendice di quella di Israele e per lo più attribuita agli storici sionisti che confondono colonialismo di insediamento e democrazia. La terza è la storia subalterna della Palestina che privilegia le necessità della Palestina di articolare se stessa.

Attraverso il suo libro, Masalha mostra che la storia dettagliata della Palestina virerebbe certamente verso le narrazioni subalterne. I resoconti cronologici, supportati da molti riferimenti che menzionano la Palestina, preparano il lettore al successivo contrasto con la falsa rappresentazione orientalista e sionista; la prima fornisce a quest’ultima ampio spazio per prosperare, avendo iniziato a sostituire la storia dei nativi con una fantasia auspicata e conveniente.

Nel libro ci sono due principali premesse che mostrano come i concetti palestinesi e sionisti della terra siano fondati rispettivamente su attaccamento e cancellazione. In Palestina, afferma Masalha, “la lotta tra colonizzatore e colonizzato sulla terra, sulla demografia, sul potere e sulla proprietà si è centrata anche sulla rappresentazione, sulla falsa rappresentazione e sull’autorappresentazione.” La rappresentazione palestinese della terra aveva tutta una storia su cui basarsi – non aveva nessuna necessità di inventare qualcosa di nuovo. D’altra parte il mito sionista del ritorno era “costruito sulla cancellazione, sulla non esistenza di un popolo indigeno della Palestina, sulla effettiva espulsione fisica dei palestinesi e sulla loro separazione dalla storia.”

Masalha mostra che, a differenza delle congetture sioniste, la Palestina aveva una moneta propria, un’amministrazione collaudata, un’autonomia provinciale e militare, così come aveva definito propri legami commerciali. Attraverso i diversi periodi storici viene evidenziato che, mentre la Palestina ha subito parecchie trasformazioni – religiose, economiche e sociali –, c’è stata continuità per quanto riguarda la conservazione del territorio palestinese e la sua diffusione nella letteratura, negli scritti di viaggio e nella cartografia. Si potrebbe affermare che la memoria sociale e la geografia politica della Palestina rimangano costanti e la storia documentata attesta questo fatto. Oltretutto c’è la prova della consapevolezza collettiva dei nativi e dell’autorappresentazione tra i palestinesi che, negli anni successivi, avrebbe resistito all’imperialismo britannico e al colonialismo sionista.

Nel libro la discussione su terra, concezioni e false concezioni rivela un graduale contrasto che è messo in luce dall’esame da parte di Masalha del quadro orientalista e dell’imposizione di una narrativa immaginaria della Palestina “come una terra non tanto di storie vissute e memorie condivise di persone comuni, quanto piuttosto di una commemorazione della cristianità occidentale.” L’inesistente storia sionista in Palestina cercava di ignorare una storia documentata. Da qui il nesso tra recupero biblico e intervento colonialista, fino al punto che i palestinesi vennero intenzionalmente rappresentati in modo distorto in Occidente, “come qualcosa che potesse essere compreso e gestito secondo modalità specifiche.”

Le imposizioni che portarono alla colonizzazione sionista erano di natura coercitiva, che negava l’identità locale palestinese e l’emergere della “nuova coscienza territoriale” della Palestina. Masalha si riferisce agli scritti del poeta palestinese Mahmoud Darwish, le cui opere si basano sulla diversa storia dell’essere palestinese e concepiscono l’identità palestinese come “il prodotto di tutte le potenti culture che sono passate attraverso la terra di Palestina.”

Masalha afferma che le narrazioni colonialiste hanno confuso la storia della Palestina con i miti biblici che hanno eliminato la comprensione storica della Palestina e del suo status come entità geopolitica definita fin dall’Età del Bronzo. Una lettura della Palestina da un punto di vista autoctono mostra una sequenza ininterrotta in cui la terra è stata arricchita da diverse culture e nessun tentativo di annullare gli abitanti originari e i loro spazi. Linguisticamente e territorialmente c’è stata una continuità. L’eredità culturale e la coscienza storica palestinesi sono state essenziali anche per formare la sua coscienza nazionale.

Sotto il Mandato britannico e nel periodo successivo, scrive Masalha, “la resistenza attiva alla minaccia esistenziale posta dall’immigrazione sionista e la colonizzazione di insediamento della Palestina durante il periodo mandatario diventarono centrali nella lotta nazionalista palestinese.”

Leggendo il libro ci si rende conto di come l’intricata storia della Palestina, che copre la maggior parte del libro, sia stata rapidamente distrutta dal progetto coloniale sionista; quest’ultimo è presentato negli ultimi capitoli e riecheggia la frenetica colonizzazione del territorio e la sostituzione della popolazione autoctona con coloni di insediamento. Le tre tipologie di scritti identificate da Masalha all’inizio di questo saggio figurano tutte quando la discussione si rivolge alla più recente analisi storica su come il sionismo cristiano abbia rappresentato la narrazione del colonialismo di insediamento e quindi abbia reso la storia subalterna di fondamentale importanza, nonostante lo squilibrio di potere dovuto all’egemonia sionista.

La cancellazione da parte dei sionisti non manca di contraddizioni. Il mito della terra desolata, che Masalha estende per includere la narrazione colonialista della terra i cui abitanti non meritano di essere consultati, si è imbattuta in ostacoli che hanno evidenziato i limiti dello stesso sionismo, come il fatto di dover ebraicizzare i nomi dei villaggi arabi in quanto la tradizione biblica era inadeguata per tener conto delle alterazioni della toponomastica palestinese. Quello che non si poté distruggere è stato alterato o ce ne si è appropriati, quest’ultimo caso inquadrato come eventi naturali o manipolato in un processo selettivo di ricostruzione utile alle politiche di insediamento sionista.

Come per tutti i libri di Masalha, l’attenzione ai dettagli, così come la rigorosa spiegazione, è impeccabile. Ogni lettura o rilettura di questo libro provocherà nuove riflessioni dovute ai diversi temi e alle relative analisi, in particolare riguardanti la separazione, imposta dal sionismo per soddisfare il progetto colonialista, degli autoctoni dalla loro storia. La Palestina è sempre stata in grado di autodefinirsi, mentre il sionismo e Israele si sono sostenuti a vicenda con la rapina, la modificazione, l’appropriazione e la sostituzione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come il dominio dei rabbini sta alimentando una guerra santa in Israele

Jonathan Cook

13 febbraio 2019, Middle East Eye

Palestinesi, laici e donne devono far fronte a un contesto più ostile in quanto si sono consolidate tendenze teocratiche

In quale Paese la scorsa settimana un importante religioso stipendiato dallo Stato ha invitato i propri fedeli a diventare “guerrieri” e a emulare un gruppo di giovani uomini che hanno assassinato una donna di un’altra fede? Il religioso lo ha fatto nella più totale impunità. Di fatto stava solo facendo eco ad altri suoi colleghi di alto rango che hanno approvato un libro che – di nuovo nella più totale impunità – esorta i discepoli ad uccidere bambini di altre religioni.

Dove il capo del clero può chiamare “scimmie” le persone di colore e invocare l’espulsione di altre comunità religiose?

Dove un’élite religiosa esercita così tanto potere da decidere da sola chi può sposarsi o divorziare – ed è appoggiata da una legge che può condannare al carcere chi tenti di sposarsi senza la sua approvazione? Possono persino far chiudere il sistema ferroviario nazionale senza preavviso. Dove ci sono uomini santi talmente temuti che le donne sono cancellate dai cartelloni pubblicitari, i campus universitari adottano la segregazione in base al genere per accontentarli e le donne si ritrovano letteralmente spinte in fondo agli autobus?

Questo Paese è l’Arabia Saudita? O il Myanmar? O forse l’Iran?

No. Questo è Israele, l’unico Stato al mondo autoproclamatosi Stato ebraico.

Quali “valori condivisi”?

C’è almeno un politico a Washington che intenda essere eletto che non abbia a un certo punto dichiarato un “legame indissolubile” tra gli Stati Uniti e Israele, o sostenuto che entrambi difendono “valori condivisi”? Pochi, a quanto pare, hanno una qualche idea di quali valori Israele effettivamente rappresenti. Ci sono molti motivi per criticare Israele, compresa la sua brutale oppressione dei palestinesi sotto occupazione e il suo sistema di segregazione e discriminazione istituzionalizzate contro il quinto della sua popolazione che non è ebreo – la sua minoranza palestinese.

Ma chi critica ha totalmente ignorato le crescenti tendenze teocratiche di Israele. Ciò non si è dimostrato semplicemente regressivo per la popolazione ebraica di Israele, in quanto i rabbini esercitano un controllo anche maggiore sulle vite sia degli ebrei religiosi che laici, soprattutto donne. Ciò ha anche allarmanti implicazioni per i palestinesi, sia per quelli sotto occupazione che per quelli che vivono in Israele, in quanto il conflitto nazionale con risapute origini coloniali si è gradatamente trasformato in una guerra santa, alimentata da rabbini estremisti con l’implicita benedizione dello Stato.

Controllo della condizione personale

Nonostante i padri fondatori di Israele fossero dichiaratamente laici, la separazione tra Stato e religione in Israele è sempre stato quantomeno tenue – e ora sta crollando a un ritmo sempre più rapido.

Dopo la fondazione di Israele, David Ben Gurion, il primo capo del governo israeliano, decise di subordinare importanti aspetti della vita degli israeliani ebrei alla giurisdizione di un rabbinato ortodosso, che rappresenta la corrente più rigida, tradizionalista e conservatrice dell’ebraismo. Fino ad ora altre correnti più liberali non hanno un riconoscimento ufficiale in Israele.

La decisione di Ben Gurion rifletteva in parte un desiderio di garantire che il nuovo Stato accogliesse due diverse concezioni dell’ebraismo: sia di quelli che si identificavano come ebrei in senso laico, etnico o culturale, che di quelli che conservavano le tradizioni religiose dell’ebraismo. Sperava di fonderle in una nuova nozione di “nazionalità” ebraica.

Per questa ragione ai rabbini ortodossi venne concesso il controllo esclusivo su importanti aspetti della sfera pubblica – questioni di condizione personale, come la conversione, la nascita, la morte e il matrimonio.

Giustificazioni bibliche

Rafforzare il potere dei rabbini era una necessità urgente dei dirigenti laici di Israele per nascondere le origini del colonialismo di insediamento dello Stato. Ciò avrebbe potuto essere ottenuto utilizzando l’educazione per sottolineare le giustificazioni bibliche dell’usurpazione delle terre della popolazione autoctona palestinese da parte degli ebrei.

Come ha osservato il defunto attivista per la pace Uri Avnery, la rivendicazione sionista era “basata sulla storia biblica dell’Esodo, della conquista di Canaan, del regno di Saul, David e Salomone…le scuole israeliane insegnano la Bibbia come una storia reale.”

Tale indottrinamento, insieme a un tasso di natalità molto maggiore tra gli ebrei religiosi, ha contribuito a un’esplosione nel numero di persone che si identificano come religiose. Esse ora costituiscono metà della popolazione.

Oggi circa un quarto degli ebrei israeliani appartiene alla corrente ortodossa, che interpreta la Torah [libro sacro che contiene le leggi e le norme di condotta degli ebrei, ndtr.] in modo letterale, e uno su sette a quella ultra-ortodossa, o Haredim, la più fondamentalista delle correnti religiose ebraiche. Alcune stime suggeriscono che in 40 anni questi ultimi rappresenteranno un terzo della popolazione ebraica del Paese.

Conquistare il governo”

In Israele sia il crescente potere che l’estremismo degli ortodossi sono stati evidenziati nell’ultima settimana di gennaio quando uno dei loro più influenti rabbini, Shmuel Eliyahu, è intervenuto pubblicamente in difesa di cinque studenti accusati dell’uccisione di Aisha Rabi, una palestinese madre di otto figli. In ottobre essi hanno lanciato pietre contro la sua auto nei pressi di Nablus, nella Cisgiordania occupata, facendola uscire di strada.

Eliyahu è il figlio dell’ex rabbino capo di Israele, Mordechai Eliyahu, ed egli stesso siede nel Consiglio Rabbinico Supremo, che controlla molti aspetti della vita degli israeliani. È anche rabbino comunale di Safed, una città che nell’ebraismo ha lo stesso status di Medina per l’Islam o Betlemme per la Cristianità, per cui le sue parole hanno una grande importanza per gli ebrei ortodossi.

All’inizio del mese è apparso un video del discorso che ha tenuto presso il seminario in cui studiano i cinque accusati nella colonia illegale di Rehelim, a sud di Nablus.

Eliyahu non solo ha lodato i cinque come “guerrieri”, ma ha detto agli studenti che essi dovrebbero abbattere il “corrotto” sistema dei tribunali laici. Ha detto loro che era vitale anche “conquistare il governo”, ma senza fucili o carrarmati. “Dovete occupare le posizioni chiave dello Stato,” li ha esortati.

Giudici che violano la legge

In realtà questo processo è già molto avanzato.

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che avrebbe dovuto essere la prima a denunciare le affermazioni di Eliyahu, è totalmente allineata con i coloni religiosi. Significativamente lei e altri ministri del governo hanno mantenuto uno scrupoloso silenzio.

Ciò perché i rappresentanti politici delle comunità ebraiche religiose di Israele, compresi i coloni, sono ora diventati il fulcro delle coalizioni governative israeliane. Hanno molto potere e possono estorcere ad altri partiti cospicue concessioni. Da tempo Shaked ha utilizzato la propria posizione per inserire giudici più esplicitamente nazionalisti e religiosi nel sistema giudiziario, compreso il tribunale più importante del Paese, la Corte Suprema.

Due dei suoi attuali 15 giudici, Noam Sohlberg e David Mintz, hanno trasgredito apertamente alla legge, in quanto vivono in colonie della Cisgiordania in violazione del diritto internazionale. Molti altri giudici nominati membri della corte da Shaked sono religiosi e conservatori.

Questa è una significativa vittoria per i religiosi ortodossi e per i coloni. La Corte è l’ultima linea di difesa per i laici contro l’assalto alla loro libertà religiosa e all’uguaglianza di genere.

E la Corte offre l’unica risorsa ai palestinesi che cercano di mitigare i peggiori eccessi delle politiche violente e discriminatorie del governo, dell’esercito e dei coloni israeliani.

Popolo eletto

Un altro ideologo del movimento dei coloni, Naftali Bennett, collega di Shaked, è da quattro anni ministro dell’Educazione nel governo di Netanyahu. Questo incarico è stato a lungo fondamentale per gli ortodossi, perché forma la prossima generazione di israeliani.

Dopo decenni di concessioni ai rabbini, il sistema scolastico israeliano è già pesantemente incentrato sulla religione. Uno studio del 2016 ha mostrato che il 51% degli alunni ebrei frequentava scuole religiose segregate in base al sesso, che enfatizzavano dogmi biblici – rispetto al 33% solo 15 anni prima.

Ciò può spiegare come mai un recente sondaggio ha evidenziato che il 51% crede che gli ebrei abbiano un diritto che gli viene da dio sulla terra di Israele, e qualcuno in più – il 56% – crede che gli ebrei siano un “popolo eletto”.

È probabile che questi risultati peggiorino ulteriormente nei prossimi anni. Bennett ha dato molta più importanza nel curriculum all’identità tribale ebraica, agli studi biblici e alle rivendicazioni religiose sul Grande Israele, compresi i territori palestinesi – che vuole annettere.

Al contrario scienze e matematica sono sempre più ridimensionate nel sistema educativo e totalmente assenti nelle scuole degli ultra-ortodossi. L’evoluzionismo, ad esempio, è stato per lo più eliminato dal programma, persino in scuole laiche.

Nessuna pietà” per i palestinesi

Un altro ambito fondamentale del potere dello Stato di cui si sono impadroniti i religiosi, e soprattutto i coloni, sono i servizi di sicurezza. Il capo della polizia Roni Alsheikh ha vissuto per anni in una colonia ben nota per i suoi violenti attacchi contro i palestinesi, e anche l’attuale rabbino capo del corpo, Rahamim Brachyahu, è un colono.

Entrambi hanno attivamente promosso un progetto che recluta più ebrei religiosi nelle forze di polizia. Nahi Eyal, il fondatore del programma, ha affermato che la sua intenzione è di aiutare la comunità dei coloni a “farsi strada nei ranghi di comando.”

La tendenza è ancora più forte nell’esercito israeliano. I dati mostrano che la comunità nazional-religiosa, da cui vengono i coloni – benché sia solo il 10% della popolazione – rappresenta la metà di tutti i nuovi allievi ufficiali. Metà delle accademie militari israeliane ora è religiosa.

Ciò si è tradotto in un crescente ruolo dei rabbini ortodossi estremisti nel motivare i soldati sul campo di battaglia. Durante l’invasione di terra israeliana di Gaza nel 2008-09 [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.] i soldati hanno ricevuto pamphlet del rabbinato militare che utilizzavano precetti biblici per convincerli a “non dimostrare pietà” per i palestinesi.

Istigazione ad uccidere bambini

Al contempo la popolazione ultra-ortodossa in rapida crescita è stata incoraggiata dal governo a spostarsi nelle colonie della Cisgiordania, costruite apposta per loro, come Modi’in Illit e Beitar Illit. Ciò a sua volta sta alimentando l’emergere di un nazionalismo aggressivo tra i giovani.

Una volta gli Haredim erano apertamente ostili, o quanto meno ambivalenti, nei confronti delle istituzioni statali, convinti che uno Stato ebraico fosse sacrilego, finché non arriverà il Messia a governare sugli ebrei.

Ora per la prima volta giovani Haredim stanno facendo il servizio militare nell’esercito israeliano, mettendo sotto pressione il comando militare perché si adegui alla loro ideologia fondamentalista. È stato coniato un nuovo termine per questi aggressivi soldati haredi: vengono chiamati “Hardal” [crasi di “haredì” e “datì leumì”, cioè nazional religiosi, ndtr.].

Brachyahu e rabbini Hardal sono tra gli importanti rabbini che hanno appoggiato un libro terrificante, la “Torah del Re”, scritto da due rabbini coloni, che invita gli ebrei a trattare senza pietà i non-ebrei, e specificamente i palestinesi.

Fornisce la benedizione di dio al terrorismo ebraico – non solo contro i palestinesi che cercano di resistere alla loro espulsione da parte dei coloni, ma contro tutti i palestinesi, persino i bambini, in base al principio che “è chiaro che cresceranno per farci del male.”

Si estende la segregazione per genere

La notevole crescita della religiosità ha creato problemi interni anche alla società israeliana, soprattutto per la popolazione laica in calo e per le donne.

In alcune parti del Paese manifesti per le imminenti elezioni – come più in generale per gli annunci pubblicitari – sono stati “ripuliti” da volti femminili per evitare di oltraggiare [la sensibilità religiosa, ndtr.].

Lo scorso mese la Corte Suprema ha criticato il Consiglio Israeliano per l’Educazione Superiore per aver consentito che la separazione tra uomini e donne nelle aule dei college si diffondesse nel resto dei campus, comprese le biblioteche e le zone comuni. Le studentesse e le docenti si stanno confrontando con norme per un abbigliamento “pudico”.

Il consiglio ha persino annunciato di avere intenzione di estendere la separazione perché si è dimostrato difficile persuadere gli ebrei religiosi a frequentare l’educazione superiore.

Violenza della folla

Israele è sempre stata una società profondamente strutturata per tenere separati ebrei e palestinesi, sia fisicamente che in termini di diritti. Ciò è altrettanto vero per la numerosa minoranza palestinese di Israele, un quinto della popolazione, che vive quasi totalmente separata dagli ebrei in comunità segregate. I loro bambini sono tenuti lontani da quelli ebrei in scuole separate.

Ma in Israele la maggiore sottolineatura della definizione religiosa di ebraicità significa che i palestinesi ora non solo devono affrontare la fredda violenza strutturale concepita dai fondatori laici di Israele, ma anche un’ostilità “calda”, autorizzata dalla Bibbia, da parte di estremisti religiosi.

Ciò è soprattutto evidente nella rapida crescita di aggressioni fisiche contro i palestinesi e le loro proprietà, così come contro i loro luoghi di culto, in Israele e nei territori occupati. Tra gli israeliani questa violenza è legittimata in quanto attacchi del “prezzo da pagare”, come se i palestinesi si provocassero danno da soli.

Ora su Youtube ci sono tanti video di coloni armati di fucili o bastoni che attaccano palestinesi, in genere quando questi ultimi cercano di accedere ai loro uliveti o sorgenti, mentre i soldati israeliani stanno lì senza intervenire o collaborano.

Incendi dolosi si sono estesi dagli uliveti alle case dei palestinesi, a volte con terribili risultati, in quanto alcune famiglie sono state bruciate vive.

Rabbini come Eliyahu hanno alimentato questa nuova ondata di attacchi con giustificazioni bibliche. Il terrorismo di Stato e la violenza della folla si sono fuse.

Distruggere al-Aqsa

Il maggior punto critico potenziale è nella Gerusalemme est occupata, in cui il crescente potere simbolico e politico di questi rabbini messianici rischia di esplodere nel complesso della moschea di al-Aqsa.

A lungo politici laici hanno giocato col fuoco in questo luogo santo islamico, utilizzando rivendicazioni di carattere archeologico per cercare di trasformarlo in un simbolo dello storico diritto ebraico sulla terra, compresi i territori occupati.

Ma la loro affermazione secondo cui la moschea è stata costruita su due templi ebraici, l’ultimo dei quali distrutto due millenni fa, è stata rapidamente riconfigurata per scopi incendiari della politica attuale.

La crescente influenza di ebrei religiosi in parlamento, nel governo, nei tribunali e nei servizi di sicurezza significa che le autorità diventano ancora più sfrontate nell’adottare rivendicazioni materiali per la sovranità su al-Aqsa.

Ciò comporta anche un’indulgenza persino maggiore verso gli estremisti religiosi che chiedono più di un controllo concreto sul sito della moschea. Vogliono distruggere al-Aqsa e sostituirla con il Terzo Tempio.

La guerra santa che si prepara

Lentamente Israele sta trasformando un progetto di colonizzazione di insediamento contro i palestinesi in una battaglia con il più complessivo mondo islamico. Sta trasformando un conflitto territoriale in una guerra santa.

La crescita demografica della popolazione religiosa di Israele, il fatto che il sistema scolastico coltivi un’ideologia ancora più estremista basata sulla Bibbia, l’occupazione dei centri di potere fondamentali dello Stato da parte dei religiosi e l’emergere di una classe di influenti rabbini che predicano il genocidio contro i vicini di Israele ha preparato il terreno per una tempesta perfetta nella regione.

Ora la questione è quando gli alleati di Israele, negli USA e in Europa, finalmente si accorgeranno della catastrofica direzione verso cui Israele sta andando – e troveranno la forza di prendere l’iniziativa necessaria per bloccarla.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook, giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il “Martha Gellhorn Special Prize for Journalism”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Guerra contro la natura: il colonialismo sionista ha distrutto l’ambiente in Palestina

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

11 febbraio 2019, Middle East Monitor

Le ultime vittime della guerra contro l’ambiente in Palestina sono stati 450 ulivi distrutti la scorsa settimana da bulldozer dell’esercito israeliano. La distruzione di alberi di proprietà palestinese ha avuto luogo nei villaggi di Bardala, nella valle del Giordano, e di Yatta, nel sud della Cisgiordania. Anche altre decine sono state distrutte da coloni ebrei illegali.

È un mito che solo l’Israele sionista abbia “fatto fiorire il deserto.” Al contrario, da quando è stato fondato sulle rovine di più di cinquecento villaggi e cittadine palestinesi che distrusse e cancellò dalla carta geografica, Israele ha fatto l’esatto contrario. Nel lasso di qualche decennio la terra abitata da palestinesi musulmani, cristiani ed ebrei da migliaia di anni è stata sfigurata al di là di ogni immaginazione.

La Palestina contiene un ampio potenziale per la colonizzazione di cui gli arabi non hanno necessità né sono in grado di sfruttare,” scrisse uno dei padri fondatori di Israele e primo capo del governo, David Ben Gurion a suo figlio Amos nel 1937.

Tuttavia l’Israele sionista ha fatto di più che “sfruttare” semplicemente quel “potenziale per la colonizzazione”: ha anche sottoposto la Palestina storica a un’incessante e crudele campagna di distruzione che continua tuttora. È probabile che essa continui finché prevarrà il sionismo, in quanto ideologia razzista, egemonica e sfruttatrice.

Fin dai suoi inizi, a metà e alla fine del XIX^ secolo, il sionismo politico ha ingannato i suoi seguaci con la descrizione della Palestina storica. Per incoraggiare la migrazione ebraica in Palestina e per fornire un simulacro di giustificazione etica per la colonizzazione ebraica, il sionismo ha costruito miti che rimangono tuttora un tema centrale. Secondo i primi sionisti, per esempio, la Palestina era una “terra senza popolo per un popolo senza terra”. Venne anche detto che si trattava di un deserto arido, che attendeva i coloni ebrei dall’Europa e da altre parti con l’urgente missione di “farlo fiorire”.

Tuttavia quello che i sionisti hanno fatto alla Palestina invece è incompatibile con il loro discorso teorico, in quanto razzista, colonialista ed esclusivista, come è sempre stato. La terra di Palestina, circa 16.000 km2 dal fiume Giordano a est fino al mar Mediterraneo, diventò l’oggetto di un crudele esperimento, iniziato nel 1948 con la pulizia etnica del popolo palestinese e con la distruzione dei suoi villaggi, della sua terra e delle sue coltivazioni. Questo sfruttamento della terra e del suo popolo è cresciuto con intenso fervore nelle generazioni successive.

Sradicare alberi, bruciare coltivazioni

Le colonie ebraiche illegali a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate sono state costruite su terre agricole e da pascolo palestinesi confiscate. L’ impatto immediato di queste azioni è stato lo sradicamento di milioni di ulivi e di alberi da frutto, e la conseguente erosione del suolo in molte parti della Palestina occupata.

Coloni armati aggrediscono contadini palestinesi in tutta la Cisgiordania, spesso con la protezione dell’esercito israeliano. Una delle loro principali missioni è sradicare gli alberi palestinesi e dare alle fiamme le coltivazioni, nel tentativo di obbligare i palestinesi ad andarsene, come primo passo prima di rubare la terra e costruire altre colonie illegali.

Per avere un’idea di quello che ciò significhi a livello locale, si legga parte della testimonianza del contadino palestinese Hussein Abu Alia, pubblicata in uno studio dell’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati (UNOCHA OPT): “All’inizio abbiamo sorpreso i coloni che rubavano le olive dai nostri alberi. Poi hanno iniziato a spezzare i rami, ma quelli ricrescevano e abbiamo anche piantato nuovi alberi per sostituire quelli danneggiati. Allora tre anni fa, quando siamo andati a raccogliere le nostre olive, siamo rimasti scioccati nel trovare gli alberi tutti gialli e secchi…I coloni hanno forato i tronchi e hanno iniettato una sostanza velenosa che ha ucciso gli alberi fin dalle radici.”

Prosciugare il fiume Giordano

Le colonie ebraiche illegali consumano grandi quantità delle già impoverite risorse idriche palestinesi. Di fatto il controllo dell’acqua è stato una delle prime politiche messe in atto da Israele dopo l’inizio della sua occupazione militare nel 1967. Le politiche discriminatorie di Israele riguardo all’uso e abuso dell’acqua sono note come “apartheid idrico”. Lo sconsiderato consumo di acqua da parte di Israele e l’irregolare uso delle dighe hanno un esteso e forse irreversibile impatto ambientale, alterando profondamente l’ecosistema idrico.

A causa delle nuove dighe costruite nel nord per fornire ai contadini (cioè ai coloni ebrei illegali) accesso all’acqua”, ha informato l’israeliano Ynet News [sito informativo in rete, ndtr.], “la portata del fiume Giordano è significativamente diminuita.”

Queste informazioni dei media sull’impatto distruttivo di Israele sul Giordano sono state per anni importanti notizie.

Spianare il paesaggio

La costruzione per abitazioni, per l’agricoltura e per le infrastrutture da parte e per i coloni ebrei è di per sé un disastro ambientale. C’è un significativo impatto sulla biodiversità locale della Cisgiordania.

Il livellamento del terreno e gli scavi alterano il suolo e hanno un notevole impatto sull’agricoltura. Oltretutto interrompono anche l’uniformità del paesaggio e il rapporto organico tra gli esseri umani e l’ambiente naturale.

Israele non dimostra alcun rispetto per la Palestina e la sua gente. Lo Stato colonialista sionista sta distruggendo l’habitat locale, gli animali e le specie uniche della regione.

 

La spazzatura di Israele

Secondo uno studio condotto dall’Ufficio per l’Ambiente dell’Amministrazione Civile [l’istituzione militare che governa i territori palestinesi occupati, ndtr.] in Cisgiordania, giornalmente vengono prodotte dai coloni israeliani circa 145.000 tonnellate di rifiuti domestici. Come prevedibile, molta di questi rifiuti, comprese le acque reflue, vengono scaricati su terra palestinese senza tenere in alcun conto l’ambiente palestinese o le persone e gli animali che vi vivono.

Nel solo 2016 sono stati sversati in Cisgiordania 83 milioni di m3 di acque di scarico. Questa quantità sta aumentando costantemente e rapidamente.

Strade solo per ebrei

Per di più, i danni inflitti all’ambiente dalle colonie ebraiche vanno oltre lo spazio fisico di quelle colonie illegali. Negli anni Israele ha costruito una fitta rete di strade che uniscono le colonie illegali tra loro e con Israele. Lo scopo è fornire un “transito sicuro” per i coloni ebraici. Queste strade di comunicazione sono solo per l’uso degli ebrei, ai palestinesi è vietato utilizzarle per qualunque ragione.

I cosiddetti “percorsi sicuri” circondano completamente molti villaggi palestinesi nella Cisgiordania occupata e la loro costruzione ha comportato la confisca di centinaia di ettari di terra palestinese fertile. Oltretutto col tempo le fattorie palestinesi situate all’interno di queste strade di collegamento diventano inaccessibili ai loro proprietari e sono quindi lasciate incustodite o occupate da Israele per ragioni “di sicurezza”.

Avvelenare la Striscia di Gaza

La guerra di Israele contro la natura va oltre le colonie ebraiche illegali. L’uso da parte dello Stato sionista di uranio impoverito, fosforo bianco e altri tipi di armi tossiche ha ucciso e ferito migliaia di palestinesi, per lo più civili, nella Striscia di Gaza assediata. Oltretutto esso ha distrutto anche l’ambiente in modo quasi irrimediabile.

Le massicce offensive militari contro i palestinesi a Gaza nel corso dello scorso decennio hanno lasciato terribili ferite sulle persone e sul loro ambiente. L’incalcolabile numero di bombe e missili lanciati da Israele nei bombardamenti del 2008-09, del 2012 e del 2014 ha lasciato nel suolo un’alta concentrazione di metalli tossici.

Secondo il “New Weapons Research Group” [Gruppo di Ricerca sulle Nuove Armi] – un gruppo di scienziati indipendenti e medici con sede in Italia – frammenti metallici lasciati da armi israeliane includono tungsteno, mercurio, molibdeno, cadmio e cobalto. Sono tutti elementi tossici che si sostiene provochino tumori, infertilità e serie malformazioni congenite.

Raccolti rovinati

All’ambiente di Gaza non viene risparmiato un destino terribile neppure quando finiscono le offensive e le incursioni militari, seppur di solito in modo temporaneo. Anzi, l’esercito israeliano spruzza regolarmente erbicidi nei pressi della barriera che separa il territorio assediato da Israele. L’erbicida più comunemente utilizzato è il glifosato.

La Croce Rossa ha avvertito che il danno causato dal frequente uso di erbicidi nelle zone di confine da parte di Israele va al di là della distruzione delle coltivazioni palestinesi. Provoca alle persone che vivono nella Striscia di Gaza anche complicazioni a lungo termine per la salute.

Il prezzo del muro dell’apartheid

Mentre il muro dell’apartheid, che Israele ha costruito sulla terra palestinese nella Cisgiordania occupata, è spesso preso in considerazione da un punto di vista politico o dei diritti umani, il suo impatto sull’ambiente è raramente affrontato.

Tuttavia, perché venisse costruito, sono stati sradicati dai bulldozer israeliani decine di migliaia di ulivi, alcuni vecchi di 600 anni. Il fatto che alcuni di questi alberi fossero protetti dalla legge sul patrimonio culturale internazionale ha semplicemente fatto rallentare l’esercito israeliano. La distruzione continua tuttora.

Per fare posto al muro, anche migliaia di ettari di terra palestinese sono stati bruciati, insieme agli alberi e all’habitat che li circondava. Al loro posto Israele ha costruito un muro alto otto metri massicciamente fortificato, totalmente estraneo al paesaggio palestinese e accompagnato da tutto l’armamentario dell’occupazione, comprese torri di guardia, recinzioni elettrificate e telecamere di sorveglianza.

È questo il “vasto potenziale per la colonizzazione” di cui si vantava Ben Gurion più di 80 anni fa? La verità è che i palestinesi hanno dimostrato di essere molto più “qualificati” a coesistere con la natura piuttosto che a “sfruttarla”, come hanno fatto i sionisti. Il costo di questo sfruttamento, tuttavia, non è solo pagato dal popolo palestinese, ma anche dall’ ambiente. Le prove davanti ai nostri occhi mettono ulteriormente l’accento sulla natura colonialista ed egocentrica del progetto sionista e dei suoi fondatori, totalmente privi di prospettiva.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Palestina: Femminismi e resistenza

DWF (Donna Woman Femme)

Rivista trimestrale, giugno 2018, (pag.136)

Edizioni UTOPIA, Roma

Saggi, articoli, interviste a cui hanno collaborato:

Rana Awad, Giada Bonu, Patrizia Cacioli, Federica Castelli, Ingrid Colanicchia, Noemi Ciarniello, Cecilia Dalla Negra, Teresa Di Martino, Serena Fiorletta, Paola Masi, Roberta Paoletti

Recensione di Cristiana Cavagna

L’editoriale di questo particolare e interessante numero monografico della storica rivista femminista (dedicato alla giovane infermiera Razan Al Nijjar, uccisa a Gaza durante le manifestazioni per il ritorno) esplicita ciò che è al centro di questo lavoro: la doppia resistenza delle donne palestinesi, all’occupazione israeliana e a alla società patriarcale palestinese.

Le autrici la articolano in un percorso che vede le donne protagoniste, da quelle rifugiate nei campi profughi, a quelle detenute nelle prigioni israeliane, alle donne della resistenza nonviolenta, alle attiviste delle tante, più o meno note, associazioni per i diritti, alle poetesse, alle scrittrici, alle musiciste, alle artiste (una sezione specifica della rivista è dedicata proprio alla rappresentazione artistica come atto politico e forma di resistenza).

Va segnalata, in apertura, un’utile sintetica cronologia, che va dal 1897, data di fondazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale, al 2018, con lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e con le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, a Gaza, nel 70^ anniversario della Nakba.

Particolarmente interessante, e in certo modo propedeutico a tutto il lavoro, è il primo saggio, di Cecilia Dalla Negra: “Palestina, Storia, Terra, Lotta di donne” che, pur non ignorando la fondamentale partecipazione degli uomini, sottolinea il ruolo giocato dalle donne fin dagli albori della lotta contro la colonizzazione sionista.

Femminile è la Palestina, femminile è la terra, la resistenza e la parola che la esprime – muqàwama – , femminili sono le olive, e se gli alberi sono uomini, donne sono le radici….e femminile è la Storia, che racconta come, nel 1893, le donne organizzarono la loro prima manifestazione nella cittadina di Afula, opponendo i propri corpi alla costruzione di un insediamento ebraico sulla loro terra….”

Corpi che ritornano sempre nella narrazione al femminile della storia della Palestina: il 1917, anno della Dichiarazione Balfour, in cui le attiviste contestano la creazione di un ‘focolare ebraico’ in Palestina; il 1921, in cui viene fondata la prima organizzazione politica femminile, la ‘Palestinian Arab Women’s Union’; la ribellione al dominio britannico nella Grande Rivolta del 1936-39, che parte dalle campagne dove la partecipazione femminile è altissima, anche per la ridotta divisione di genere nel lavoro agricolo; gli anni ’60 con la lotta armata e la maggior politicizzazione delle donne, anche se la leadership del movimento resta maschile; la prima Intifada, la nascita dei Comitati di Resistenza Popolare con l’autorganizzazione e l’autoproduzione, con le donne in primo piano, per boicottare l’economia dell’occupante; la seconda Intifada del 2000 e poi il ripiegamento della società su sé stessa e la nascita della militanza delle donne islamiste, che si impongono all’interno delle strutture istituzionali e politiche della Striscia di Gaza.…Fino al volto della resistenza di oggi, quello di Ahed Tamimi, la sedicenne del villaggio di Nabi Saleh, incarcerata per aver schiaffeggiato un soldato israeliano entrato nel suo cortile.

Proprio a una donna, Manal Tamimi, di Nabi Saleh, villaggio famoso per la sua resistenza nonviolenta, è dedicata una delle tante interviste: “Non sono una supermamma, sono una mamma palestinese, un’attivista e una combattente….per me la cosa più difficile è essere normale quando ho due figli in prigione, e non a casa.”

Sono tante, stimolanti, le testimonianze.

Sawsan Shunnar, ex detenuta politica: “La cultura era parte integrante della nostra quotidianità: leggevamo poesie, letteratura e discutevamo persino di cinema…le detenute politiche utilizzavano le canzoni militanti come codice per comunicare tra loro… Vi sono differenze nette con le detenute di oggi…nella visione del proprio ruolo e anche nell’aspetto estetico….e la visione politica della maggioranza delle detenute di oggi non è chiara…”

Tamar Zeevi è una giovane ‘refusenik’: dopo 115 giorni in una prigione militare, è stata rilasciata dall’esercito, che l’ha riconosciuta formalmente come obiettrice di coscienza a causa dell’opposizione all’occupazione israeliana.

Significative le parole di una giovane palestinese dei territori occupati, membro della più antica organizzazione femminista israeliana,’Isha l’Isha’, dove operano insieme donne israeliane e palestinesi: “Le donne israeliane bianche credono di dovermi liberare, in quanto vittima di una società tradizionale e patriarcale…ma posso liberarmi da sola: abbiamo bisogno di alleate, non di insegnanti”.

Non si possono non menzionare le due lunghe e ricche interviste a Meri Calvelli, attivista a Gaza dal 1987, che puntualizza la drammatica situazione della Striscia, e alla scrittrice Susan Abulawa, nei cui ormai famosi romanzi emerge la capacità delle donne di coltivare il ‘sumud’, la resilienza..

Quasi a conclusione, un articolo dell’organizzazione “Palestinian Working Women Society for Development” esprime forti critiche e richieste ai responsabili politici palestinesi: “…scarsa volontà politica di denunciare lo stato occupante per crimini di guerra contro i palestinesi, specialmente contro le donne; assenza di volontà politica di cambiare la condizione delle donne secondo le convenzioni internazionali, inclusa la CEDAW (Convenzione ONU contro la discriminazione delle donne, del 1979);….la Palestina deve fare i passi necessari per incorporare la CEDAW nella legislazione nazionale….”

Ma è ancora nell’editoriale che troviamo forse una conclusione, forse un’ipotesi di speranza: “La lotta femminile e femminista palestinese è stata una costante che si è sempre intrecciata a quella per la liberazione nazionale…con la consapevolezza che il gioco del ‘prima la liberazione nazionale, poi quella sessuale’ è stato smascherato….”

Cioè, con le parole di una delle più note autrici del mondo arabo, Fadwa Tuqan (definita dal più famoso e importante poeta palestinese Mahmoud Darwish la poetessa della Palestina): “Come posso mettere la mia penna al servizio della liberazione nazionale, se non sono libera io stessa?”.




Rapporto OCHA del periodo 29 gennaio – 11 febbraio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante le proteste della “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno ucciso due minori palestinesi; 530 i feriti registrati.

Altri due palestinesi sono morti per le ferite precedentemente riportate. I due ragazzi, di 14 e 17 anni, sono stati uccisi, venerdì 8 febbraio, con armi da fuoco, in due episodi verificatisi nei pressi della recinzione perimetrale. Secondo le Associazioni per i diritti umani, entrambi gli episodi si sono verificati ad una distanza compresa fra tra i 60 e i 250 metri dalla recinzione e i due ragazzi non rappresentavano una minaccia per le forze israeliane. Lo stesso giorno, secondo fonti israeliane, i palestinesi hanno lanciato ordigni esplosivi contro le forze israeliane ed hanno tentato di violare la recinzione con Israele, ma non vi sono stati ferimenti di israeliani. Gli altri due morti, entrambi uomini, non sono sopravvissuti alle ferite riportate nelle precedenti manifestazioni del 18 e 29 gennaio: uno era stato ferito con arma da fuoco e l’altro era stato colpito da una bomboletta di gas lacrimogeno. Una delle manifestazioni si era svolta sulla spiaggia per protestare contro il blocco navale. Dopo questi ultimi fatti, salgono a 263 le uccisioni di palestinesi nel contesto delle proteste tenute a Gaza dal marzo 2018; nel numero sono compresi 49 minori. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, delle 530 persone ferite durante il periodo di riferimento 248 sono state ricoverate; tra queste 64 erano state colpite con armi da fuoco. I rimanenti sono stati assistiti sul campo.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 40 occasioni non riconducibili alle proteste [di cui sopra]. In uno degli episodi un palestinese è rimasto ferito. Inoltre, cinque ragazzi palestinesi sono stati arrestati, secondo quanto riferito, mentre tentavano di infiltrarsi in Israele. In altre tre occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza e, nelle vicinanze del recinto perimetrale, hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

Il 10 febbraio, a sud-est di Rafah, in seguito all’inalazione di un gas tossico, effuso dagli egiziani all’interno di un tunnel per il contrabbando, due palestinesi (un lavoratore e un membro delle forze di sicurezza palestinesi) sono morti e altri due membri della sicurezza sono rimasti feriti. Dal 2013 la maggior parte dei tunnel per contrabbando sono stati distrutti o bloccati dalle autorità egiziane, tuttavia alcuni restano ancora operativi.

In Cisgiordania, in due presunte aggressioni avvenute nei pressi di checkpoint israeliani, due palestinesi, tra cui una ragazza, sono stati uccisi dal fuoco delle forze israeliane ed un altro ragazzo è rimasto ferito. Nel primo caso, il 30 gennaio, al posto di controllo di Az Zaayyem (Gerusalemme), una guardia di sicurezza privata israeliana ha sparato e ucciso una ragazza palestinese di 16 anni che, presumibilmente, aveva tentato di effettuare una aggressione con coltello; il suo corpo è stato trattenuto dalle forze israeliane. Nel secondo caso, avvenuto il 4 febbraio vicino al checkpoint di Al Jalama (Jenin), le forze israeliane hanno sparato e ucciso un 20enne e ferito un ragazzo di 16 anni. Secondo i media israeliani, le vittime avevano lanciato un congegno esplosivo artigianale da una motocicletta in transito. In entrambi i casi non è stato riferito alcun ferimento di israeliani. Dall’inizio del 2019, in attacchi o presunti attacchi effettuati in Cisgiordania, sono stati uccisi dalle forze israeliane tre palestinesi, tra cui un minore.

Il 7 febbraio, in un bosco alla periferia di Gerusalemme Ovest, una 19enne israeliana, proveniente dall’insediamento [colonico] di Teqoa, è stata violentata e accoltellata a morte. È accusato dell’omicidio un palestinese arrestato dalle forze israeliane a Ramallah il giorno seguente, nel corso di una operazione [di polizia].

In Cisgiordania, 35 palestinesi, tra cui almeno undici minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. Quasi la metà dei ferimenti (16) sono stati registrati nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante la dimostrazione settimanale contro l’espansione degli insediamenti colonici su terra palestinese. In questo villaggio, durante il precedente periodo di riferimento (26 gennaio), coloni israeliani avevano ucciso un residente e ferito altre nove persone. Altri 13 palestinesi sono rimasti feriti in scontri verificatisi durante operazioni di ricerca-arresto tenute nei villaggi di Biddu e Al ‘Eizariya (entrambi a Gerusalemme), nel Campo profughi di Jenin e nei villaggi di Al Bireh e Abu Shukheidim (entrambi a Ramallah). Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 117 palestinesi, tra cui nove minori. Delle lesioni registrate durante il periodo di riferimento, il 34% è stato causato da armi da fuoco, il 31% da inalazioni di gas lacrimogeno richiedenti cure mediche, il 31% da proiettili di gomma e il restante 4% da altri mezzi.

Sempre in Cisgiordania, le forze israeliane hanno predisposto almeno 68 checkpoint “volanti” e, in almeno 80 occasioni, hanno effettuato controlli tramite “checkpoint parziali” (checkpoint non presidiati in modo continuo), aumentando ritardi e tempi di percorrenza, e rendendo difficoltoso l’accesso delle persone ai servizi e ai luoghi di lavoro. Questi provvedimenti rappresentano un incremento del 110% rispetto alla media settimanale del 2018. In un caso, le forze israeliane, hanno negato a tre donne, insegnanti palestinesi, l’accesso alla loro scuola attraverso l’unico checkpoint di accesso al villaggio di Beit Iksa (Gerusalemme): la motivazione addotta era che i loro nomi non comparivano nell’elenco corrispondente al checkpoint.

A Gerusalemme Est e nella Zona C, a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate quindici strutture: 39 palestinesi sono stati sfollati e sono stati [variamente] compromessi i mezzi di sussistenza di altri 70 circa. Secondo quanto riferito, sette delle dieci strutture prese di mira a Gerusalemme Est, tutte residenziali, sono state demolite dai proprietari al ricevimento delle ordinanze definitive di demolizione; questo ha evitato di incorrere in ulteriori multe. Le altre cinque strutture erano situate in Area C. Nel complesso, in Cisgiordania, dall’inizio del 2019 sono state demolite o sequestrate da Israele 48 strutture.

Il 6 febbraio, nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire all’esercito israeliano le esercitazioni di addestramento, le forze israeliane hanno sfollato circa 400 palestinesi, per tempi fino a 14 ore. Ciò ha interrotto le attività lavorative e l’accesso ai servizi di due Comunità di pastori, Khirbet ar Ras al Ahmar e Hammamat al Maleh, situate in un’area designata [da Israele] come “zona per esercitazioni a fuoco”. Le Comunità situate in tali zone vivono in un contesto coercitivo e sono sottoposte al rischio di trasferimento forzato.

Sempre in Area C, nella Valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno sradicato circa 500 alberi, hanno spianato 4.000 m2 di terra coltivata e danneggiato una rete di irrigazione; la motivazione è che l’area è dichiarata [da Israele] “terra di stato”. L’episodio è avvenuto il 6 febbraio, nel villaggio di Bardala (Tubas) e ha colpito i mezzi di sostentamento di sette famiglie. In un episodio simile, accaduto il 22 gennaio durante il precedente periodo di riferimento, nel villaggio di Safa (Hebron), vicino all’insediamento di Bat Ayin, le autorità sradicarono 1.250 alberi di proprietà palestinese.

Altri 425 alberi e 14 veicoli sono stati vandalizzati e un palestinese è rimasto ferito, in aggressioni ad opera di coloni israeliani [segue dettaglio]. Nei pressi del villaggio di Jibiya (Ramallah), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese di 20 anni. Secondo fonti locali palestinesi, in tre diversi episodi accaduti in At Tuwani e Sa’ir (entrambi a Hebron) e Jalud (Nablus), un totale di 425 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati dai coloni israeliani. Inoltre, in altri quattro episodi separati accaduti nei villaggi di Al Lubban ash Sharqiya, Huwwara (entrambi a Nablus), Al Khalayleh e a Gerusalemme, coloni israeliani hanno forato le gomme di 14 veicoli palestinesi ed hanno spruzzato scritte offensive, mentre nel Villaggio di Deir Dibwan (Ramallah) hanno cercato di incendiare una moschea. La tendenza all’aumento delle violenze dei coloni registrata negli ultimi anni è continuata nel 2019 con una media di sette attacchi settimanali risultanti in lesioni o danni materiali, rispetto ai cinque nel 2018 e tre nel 2017.

Su strade prossime a Ramallah e Gerusalemme, secondo quanto riferito dai media israeliani, durante vari episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi, sono rimasti feriti due coloni israeliani e almeno tre veicoli sono stati danneggiati.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è rimasto aperto in entrambe le direzioni. 1.125 persone sono entrate a Gaza e 3.191 ne sono uscite. Dall’inizio dell’anno, il valico è rimasto aperto per 28 giorni.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Falsa giustizia: le responsabilità dell’Alta Corte israeliana per la demolizione di case di palestinesi e la loro spoliazione

B’Tselem

Pubblicazione , Sintesi, febbraio 2019

All’inizio del settembre 2018, dopo anni di azioni legali, i giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana (ACG) hanno deciso che non sussistevano ostacoli giuridici per la demolizione degli edifici nella comunità di Khan al-Ahmar – situata a circa 2 chilometri a sud della colonia di Kfar Adumim – in quanto le costruzioni del centro abitato erano “fuorilegge”.

La decisione della sentenza, secondo cui la distruzione della comunità non è altro che una questione di “applicazione della legge”, riflette fedelmente il modo in cui Israele ha elaborato per anni la sua politica riguardo alle costruzioni dei palestinesi in Cisgiordania. A livello di dichiarazioni formali, le autorità israeliane considerano la demolizione di case palestinesi in Cisgiordania come una semplice questione di abusi edilizi, come se Israele non avesse obiettivi a lungo termine in Cisgiordania e se la materia non avesse implicazioni di vasta portata per i diritti umani di centinaia di migliaia di individui, compresa la loro possibilità di sopravvivere, guadagnarsi da vivere e gestire la propria vita quotidiana.

La Corte Suprema ha totalmente accolto questo punto di vista. In centinaia di sentenze e decisioni stilate nel corso degli anni sulla demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania i giudici hanno considerato la politica urbanistica israeliana come legale e legittima, concentrandosi quasi sempre solo sulla questione tecnica se i ricorrenti avessero permessi edilizi. Di volta in volta i giudici hanno ignorato l’intenzione sottintesa nelle politiche israeliane e il fatto che, in pratica, queste politiche impongono un divieto generalizzato di costruzione per i palestinesi. Hanno anche ignorato le conseguenze di queste politiche per i palestinesi: condizioni di vita più dure – a volte decisamente terribili – per il fatto di essere obbligati a costruire case senza permessi, e l’assoluta incertezza riguardo al futuro.

A. Politica di pianificazione in Cisgiordania

L’apparato che si occupa di pianificazione istituito da Israele in Cisgiordania è al servizio della sua politica di promozione ed espansione dell’appropriazione israeliana della terra in tutta la Cisgiordania. Quando si tratta della pianificazione per i palestinesi, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndtr.] cerca di ostacolare l’ampliamento, riducendo al minimo la dimensione delle comunità e incentivando la densità delle costruzioni, con lo scopo di impadronirsi di quanto più terreno possibile a beneficio degli interessi israeliani, soprattutto per l’espansione delle colonie. Ma quando pianifica per le colonie, la cui stessa fondazione è in primo luogo illegale, l’Amministrazione Civile agisce esattamente al contrario: la pianificazione riflette le necessità attuali e future delle colonie, e mira ad includere quanta più terra possibile nel piano generale in modo da impossessarsi di quante più risorse della terra possibili. Questa pianificazione porta a uno sviluppo dispendioso di infrastrutture, alla perdita di zone rurali naturali e alla rinuncia di spazi aperti.

Israele ottiene questi risultati con vari mezzi. Primo, proibisce ai palestinesi di costruire su circa il 60% dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.], che equivale a circa il 36% di tutta la Cisgiordania. Lo fa applicando una serie di definizioni giuridiche per vaste aree (con classificazioni che ogni tanto si sovrappongono): “terre dello Stato” (circa il 35% dell’Area C), “zone per l’addestramento militare” (circa il 30% dell’Area C), o “competenza delle colonie” (circa il 16% dell’Area C). Queste classificazioni sono utilizzate per ridurre in modo significativo l’area a disposizione per lo sviluppo dei palestinesi.

Secondo, Israele ha modificato la legge giordana di pianificazione che si applica alla Cisgiordania, sostituendo molte delle sue disposizioni con quelle di un’ordinanza militare che trasferisce ogni potere di pianificazione in Cisgiordania al Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile ed elimina la rappresentanza palestinese nelle commissioni urbanistiche. Di conseguenza, l’Amministrazione Civile è diventata l’unica ed esclusiva autorità per la pianificazione e lo sviluppo in Cisgiordania, sia per le comunità palestinesi che per le colonie.

Terzo, Israele sfrutta il proprio potere esclusivo sul sistema di pianificazione allo scopo di impedire di fatto ogni sviluppo dei palestinesi e incrementare la densità abitativa persino sul rimanente 40% della terra, in cui non vieta a priori la costruzione da parte dei palestinesi. Nell’ottobre 2018, durante un incontro alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], il capo dell’Amministrazione Civile ha detto che, in conformità con le istruzioni di funzionari del governo, attualmente non c’è nessun piano regolatore per i palestinesi.

Tuttavia, per mantenere la parvenza di un sistema di pianificazione che funzioni correttamente, lo Stato sostiene che i piani regolatori per le comunità palestinesi devono rispettare gli schemi stilati dalle autorità del Mandato britannico negli anni ’40 – che definivano la suddivisione in zone per l’uso dei terreni per l’intera Cisgiordania – anche se questi piani sono ad anni luce di distanza dalle attuali necessità della popolazione. Indubbiamente l’Amministrazione Civile ha stilato centinaia di piani schematici speciali per le comunità palestinesi. Ma, mentre l’obiettivo dichiarato era di sostituire i piani del periodo del Mandato, anche quelli nuovi sono stati concepiti per ridurre l’edificazione. Non sono altro che piani di delimitazione, che sostanzialmente tracciano una linea attorno al perimetro delle zone edificate dei villaggi sulla base di fotografie aeree.

I dati illustrano chiaramente i risultati di questa politica:

  • Richieste per ottenere permessi edilizi: secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal gennaio 2000 a metà del 2016 i palestinesi hanno presentato 5.475 richieste per avere una concessione edilizia. Solo 226 (circa il 4%) sono state accolte.

  • Ordini di demolizione: nel corso degli anni, l’Amministrazione Civile ha emesso migliaia di ordini di demolizione per strutture palestinesi. Secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal 1988 al 2017 sono stati emanati 16.796 ordini di demolizione; 3.483 (circa il 20%) sono stati messi in atto e 3.081 (circa il 18%) sono ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Fino al 1995 l’Amministrazione Civile ha emesso meno di 100 ordini di demolizione all’anno. Tuttavia, dal 1995 – l’anno in cui è stato firmato l’accordo ad interim [degli accordi di Oslo, ndtr.] – il loro numero è costantemente aumentato. Dal 2009 al 2016 l’Amministrazione Civile ha emesso annualmente una media di 1.000 ordini di demolizione.

  • Demolizioni: secondo i dati di B’Tselem, dal 2006 (l’anno in cui B’Tselem ha iniziato a registrare la demolizione di case) fino al 2018, Israele ha demolito almeno 1.401 unità abitative palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), provocando il fatto che almeno 6.207 persone – compresi almeno 3.134 minorenni – abbiano perso le proprie case. Nelle comunità palestinesi non riconosciute dallo Stato, molte delle quali devono affrontare la minaccia di espulsione, Israele distrugge ripetutamente case. Dal 2006 al 2018 Israele ha demolito più di una volta le case di almeno 1.014 persone – compresi 485 minori – che vivono in queste comunità.

La pianificazione per le colonie israeliane è l’esatto contrario della situazione nelle comunità palestinesi. Con la sola eccezione delle colonie nella città di Hebron, tutte le colonie sono state fondate in spazi aperti. Inoltre sono stati predisposti piani regolatori generosi e molto dettagliati praticamente per tutte le colonie, sostituendo gli antiquati piani dell’epoca del Mandato britannico che erano in vigore lì. I nuovi piani includono una nuova definizione delle aree coerente con le necessità di comunità moderne. Includono terre per uso collettivo, spazi verdi e terreni per l’espansione e lo sviluppo, ben oltre quanto necessario in base al tasso di incremento normale della popolazione. L’Amministrazione Civile ha anche costruito una nuova rete di strade per collegare le varie colonie le une con le altre e queste con l’altro lato della Linea Verde (il confine tra il territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania), che restringe e limita lo sviluppo dei palestinesi.

B. Le sentenze dell’ACG: totale approvazione del sistema di pianificazione

Nel corso degli anni i palestinesi hanno presentato centinaia di ricorsi all’ACG, chiedendo la revoca degli ordini di demolizione dell’Amministrazione Civile. Nella maggioranza dei casi l’ACG ha emesso provvedimenti inibitori provvisori che proibiscono allo Stato di demolire strutture in attesa di sentenza. Tuttavia c’è un alto prezzo da pagare per questa situazione di stallo. La Corte spesso emette ordini temporanei che non solo vietano le demolizioni da parte di Israele, ma non consentono neanche agli abitanti palestinesi di costruire case o edifici pubblici, collegarsi ai servizi ed effettuare riparazioni, neppure quelle essenziali, su edifici esistenti, condannandoli a un prolungato stato di limbo e all’incertezza riguardo al loro futuro.

Molti ricorsi sono stati bocciati dai giudici, che hanno rigettato ogni argomentazione di principio riguardo alla politica di pianificazione che Israele mette in atto in Cisgiordania. A volte la Corte non ha neppure esaminato le argomentazioni. Altri ricorsi sono stati ritirati dai ricorrenti, a volte dopo che lo Stato ha affermato di non aver intenzione a quel punto di mettere in pratica gli ordini di demolizione e si è impegnato a fornire ai ricorrenti un preavviso nel caso in cui dovesse modificare la propria posizione. Tuttavia, per quanto ne sa B’Tselem, non c’è stato neppure un caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro una demolizione della propria casa.

1. Accettazione dello spossessamento di palestinesi in vaste zone della Cisgiordania

I giudici non hanno trovato niente da ridire nel fatto che la terra della Cisgiordania sia stata dichiarata “terra dello Stato” o “zona di addestramento”. Nonostante abbia ascoltato le argomentazioni che mettono in discussione la legittimità di questo modo di procedere, in ognuno di questi casi la Corte ha accettato gli argomenti dello Stato secondo cui le costruzioni dei palestinesi sono illegali e di conseguenza le strutture devono essere demolite.

La Corte Suprema ha sempre accettato la posizione dello Stato secondo cui i palestinesi, a differenza dei coloni, non hanno il permesso di costruire su “terre dello Stato”. In ricorsi in cui lo Stato ha sostenuto che la costruzione in questione si trova su terre dichiarate “zona di addestramento militare”, la Corte non ha neppure affrontato la reale questione del fatto che la zona sia stata dichiarata area chiusa. Persino quando i ricorrenti hanno esplicitamente sollevato questa argomentazione, non ha neppure preso in esame se questa designazione sia stata giusta o legittima. Al contrario, in questi casi le udienze si sono limitate alla questione se i ricorrenti fossero di fatto “residenti permanenti” delle zone di tiro. In base agli ordini militari solo quella condizione avrebbe consentito loro di stare lì. In tutti i casi in cui finora è stata presa una decisione, i giudici hanno accettato l’argomentazione dello Stato secondo cui i ricorrenti non sono “residenti permanenti” e ha approvato la demolizione delle loro case.

2. Riconoscere ragionevole e legittimo il sistema di pianificazione

I giudici dell’ACG hanno considerato legittimi e necessari i cambiamenti fatti da Israele alla legge di pianificazione giordana, nonostante la proibizione stabilita dalle leggi internazionali contro la potenza occupante di realizzare cambiamenti alle leggi locali, salvo rare eccezioni che non si applicano a questo caso. Nel prendere questa decisione hanno ignorato il fatto che i cambiamenti hanno consentito a Israele di consolidare e prendere il controllo di tutto il sistema di pianificazione, di escludere i palestinesi da ogni commissione e impedire loro di avere un ruolo nel decidere del proprio futuro. Questo cambiamento ha aperto la strada alla successiva istituzione di due sistemi di pianificazione paralleli: uno per i palestinesi e l’altro per i coloni.

Inoltre i giudici hanno stabilito che il sistema di pianificazione per i palestinesi riflette le necessità degli abitanti. I giudici sono stati assolutamente disposti ad accettare che piani regolatori antiquati – disegnati oltre ottant’anni fa dal Mandato britannico – siano ancora applicati ai villaggi palestinesi, ma non alle colonie israeliane; hanno stabilito che gli schemi che l’Amministrazione Civile ha stilato per le comunità palestinesi sono ragionevoli e corrispondono alle necessità degli abitanti. I giudici non hanno dato alcuna importanza al fatto che i piani regolatori siano identici, inflessibili, non presentino alcuno spazio pubblico e che ogni futuro sviluppo debba essere realizzato all’interno dell’area già edificata del villaggio. I giudici hanno anche stabilito che le commissioni edilizie dell’Amministrazione Civile prendono in considerazione in modo corretto e professionale le domande di licenza edilizia dei palestinesi, benché non ci siano rappresentanti dei palestinesi nelle commissioni, e non hanno prestato la minima attenzione allo scarsissimo numero di richieste approvate.

Dato questo punto di partenza, i giudici esaminano i ricorsi come se l’applicazione delle leggi per la pianificazione e la costruzione fosse l’unico problema in questione. Di conseguenza non accettano i ricorsi, come se il problema non fosse altro che una questione di applicazione di leggi edilizie. Chiedono che i ricorrenti esauriscano tutte le inutili procedure che il sistema offre e sono inorriditi quando i ricorrenti “si fanno giustizia da soli” e – in assenza di qualunque altra alternativa – costruiscono senza permesso.

3. Riconoscimento implicito della politica israeliana

La Corte fornisce anche un implicito timbro di approvazione legale alla politica israeliana. Lo fa attraverso due metodi principali.

A. Nasconde le differenze tra i vari schemi di pianificazione: nelle loro sentenze sulla costruzione nelle comunità palestinesi i giudici della Corte Suprema hanno anche citato sentenze che trattano la pianificazione delle colonie o all’interno stesso di Israele. Hanno fatto lo stesso anche nei casi contrari: in sentenze riguardanti la pianificazione per colonie o all’interno di Israele, i giudici hanno citato sentenze riguardanti piani regolatori per la popolazione palestinese. Il rimando a precedenti giuridici è tipico del sistema giudiziario israeliano. Tuttavia i vari sistemi di pianificazione sono sostenuti da valori diversi e sono destinati a salvaguardare interessi in conflitto. Un sistema il cui obiettivo è pianificare a favore della popolazione – come quello applicato alle colonie e alle comunità ebraiche in Israele – non è affatto come uno schema il cui obiettivo è di iniziare, portare avanti e legalizzare la sistematica spoliazione della popolazione, come quello in vigore per le comunità palestinesi. Mettere tutto quanto insieme elimina le differenze, rendendo apparentemente etico e valido un sistema palesemente illegittimo.

B. Riferimenti selettivi alle disposizioni delle leggi internazionali: l’ACG ha anche riconosciuto valido il sistema di pianificazione trasmettendo il messaggio che la pianificazione attuata per i palestinesi rispetta quanto previsto dalle leggi umanitarie internazionali (LUI). Ciò viene ottenuto principalmente citando in modo selettivo le LUI, in modo da creare l’impressione che la politica israeliana sia in linea con esse, e ignorando altre disposizioni, come la proibizione di addestramento militare o di fondazione di colonie nella zona occupata.

È particolarmente evidente l’indifferenza dei giudici rispetto al fatto che la messa in pratica della politica di pianificazione israeliana implica la violazione della proibizione assoluta di trasferimento forzato, benché siano state portate davanti alla Corte denunce riguardanti la violazione di questa norma. La proibizione rimane persino se le persone lasciano le proprie case non per propria libera scelta, per esempio a causa di condizioni di vita insopportabili provocate dalle autorità impedendo loro l’accesso alle reti idrica ed elettrica, trasformando la zona in cui vivono in area per l’addestramento militare o con la ripetuta distruzione delle loro case. La violazione di questo divieto è un crimine di guerra.

C. Una giustizia illusoria.

Nonostante le enormi differenze tra il sistema di pianificazione che Israele ha definito per la popolazione palestinese in Cisgiordania e quello per i coloni, l’ACG le ha considerate identiche. Durante una delle sessioni dell’ACG tenuta nel 2018 sulla questione di ricorsi contro la demolizione di Khan al-Ahmar, il giudice Hanan Melcer ha persino detto – riguardo all’applicazione di leggi di pianificazione per palestinesi e coloni – che “a tutti si applica la stessa legge.”

Eppure la politica di pianificazione ed edificazione di Israele per i coloni è l’esatto contrario di quella applicata ai palestinesi. Nonostante a volte i coloni facciano le vittime – lupi vestiti di agneli – è sufficiente guardare semplicemente alla situazione sul terreno per vedere l’immenso divario tra la pianificazione per i coloni e per i palestinesi. Dall’occupazione della Cisgiordania oltre cinquant’anni fa, Israele ha costruito quasi 250 nuove colonie – la cui stessa fondazione è vietata dalle leggi internazionali – e solo una comunità palestinese. E quest’unica comunità è stata costruita per trasferirvi beduini che vivevano su terre che Israele ha destinato all’espansione di una colonia. In altre parole, persino la fondazione di quest’unica comunità era destinata a rispondere a necessità israeliane. Allo stesso tempo Israele ha fondato un sistema che non consente ai palestinesi di ottenere permessi edilizi e dedica notevoli sforzi per imporre e applicare rigide restrizioni su qualunque costruzione o ampliamento per la popolazione palestinese.

È inimmaginabile il divario tra questa situazione e quella descritta in migliaia di decisioni dell’ACG – in cui i giudici hanno scritto di “mani pulite” e di “faticose misure correttive”, hanno accettato qualunque argomento dello Stato riguardo alla pianificazione per la popolazione palestinese e hanno fatto una sintesi consentendo allo Stato di demolire le case dei ricorrenti e di consegnarli a condizioni di vita disastrose. Mentre la Corte non scrive le leggi, determina le politiche o le applica, i giudici hanno sia l’autorità che il dovere di stabilire che le politiche di Israele sono illegali e di proibire la demolizione delle case. Invece, ripetutamente, hanno scelto di dare alle politiche la loro approvazione e di convalidarle pubblicamente e giuridicamente.

Così facendo non solo i giudici della Corte Suprema non hanno assolto ai loro doveri, hanno anche giocato un ruolo fondamentale nel consolidare ancor di più l’occupazione e l’impresa di colonizzazione e nello spogliare ulteriormente i palestinesi delle loro terre.

È ragionevole pensare che i giudici siano ben consapevoli, o lo dovrebbero essere, delle fondamenta giuridiche che stanno consolidando con le loro sentenze e delle devastanti implicazioni di queste sentenze, comprese le violazioni del divieto delle Leggi Umanitarie Internazionali di trasferimento forzato. Quindi anche loro – insieme al presidente del consiglio, ai ministri, al capo di stato maggiore e ad altri alti gradi dell’esercito – hanno una responsabilità personale nella perpetrazione di tali crimini.

Per Israele, il principale vantaggio di conservare un “sistema di pianificazione” per la popolazione palestinese è che ciò conferisce al sistema una parvenza di correttezza e funzionalità, operando in apparenza in base alle leggi internazionali e israeliane. Ciò consente allo Stato di affermare che i palestinesi scelgono di costruire “illegalmente” e di farsi giustizia da soli – come se avessero alternative – giustificando così la demolizione delle case e le continue restrizioni nella pianificazione. Tuttavia il tentativo di mascherare il sistema di pianificazione nei territori occupati come se fosse corretto non è altro che uno stratagemma propagandistico. Un sistema di pianificazione dovrebbe riflettere gli interessi degli abitanti ed essere al servizio delle loro necessità. Ma per definizione l’equilibrio di potere sotto un regime di occupazione è ineguale. I funzionari del regime di occupazione non rappresentano la popolazione occupata, che non può partecipare al sistema che regola e governa la sua vita, né ai processi di pianificazione e legislativi, né all’emanazione di ordini militari, né alla commissione che nomina i giudici.

A volte pare che lo Stato stesso ne abbia avuto abbastanza dello sforzo insito nel conservare le apparenze. Mappare edifici, passare per le procedure della commissione, scrivere risposte ai ricorsi ecc. ecc., tutto ciò porta via tempo, impegno e risorse preziosi, anche se Israele ha a sua disposizione legioni di avvocati, enormi risorse finanziare, sistemi di pianificazione per fare il suo volere e un sistema giudiziario volontariamente votato alla farsa. Contrapposta a questa potenza congiunta c’è una popolazione con scarsa rappresentanza e poche risorse, persone che hanno vissuto per oltre mezzo secolo sotto un regime militare in cui libertà e sopravvivenza sono precarie. Tuttavia i dirigenti dello Stato sono insoddisfatti del ritmo e del tasso di spoliazione, trovando frustrante dover aspettare mesi e anni perché i tribunali raggiungano il verdetto a cui lo Stato mira.

Pertanto negli ultimi anni Israele ha intensificato i suoi tentativi di evitare – o persino cancellare – le procedure giuridiche relative alla demolizione di strutture palestinesi. La volontà di Israele di fare a meno dell’apparenza testimonia soprattutto la sua sicurezza che non sarà chiamato a dover subire significative conseguenze interne o internazionali per aver violato la legge. La legittimità dei nuovi ordini è stata discussa dall’ACG proprio in questi giorni. Ciò significa che, paradossalmente, alla Corte Suprema viene ora chiesto di considerare la cancellazione della finzione nella cui creazione ha giocato un importante ruolo.

Indipendentemente dal fatto che i giudici dell’ACG scelgano di avallare la cancellazione della finzione, essi hanno costruito un solido edificio per supportare la legittimazione giuridica della spoliazione della terra del popolo palestinese. Quanta cura si prenderanno nell’aggiungere una bella mano di vernice a questa struttura nei prossimi giorni? Insisteranno nel mantenere la finzione? In fin dei conti, questa è una questione di immagine secondaria. Ciò non dovrebbe sviare l’attenzione dalla situazione di furto e spoliazione che Israele ha creato e che i giudici continuano a consentire, giustificare e avvallare.

(traduzione di Amedeo Rossi)