Amnesty International: ‘La demolizione di Khan al-Ahmar è un crimine di guerra’

3 ottobre 2018, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Martedì Amnesty International ha dichiarato che la demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, ad est di Gerusalemme occupata, ed il trasferimento dei suoi abitanti da parte delle forze israeliane come parte di un piano illegale israeliano di espansione delle colonie è un “crimine di guerra”. Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nordafrica, ha denunciato la programmata demolizione israeliana di Khan al-Ahmar ed ha sottolineato che “questa azione non solo è spietata e discriminatoria, ma è illegale.”

La demolizione del villaggio porterebbe al trasferimento di 181 abitanti, il 53% dei quali sono minori e il 95% rifugiati registrati presso l’UNRWA, Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi. A settembre l’Alta Corte israeliana ha respinto un appello contro la demolizione del villaggio ed ha sentenziato a favore della sua evacuazione e demolizione, concedendo ai residenti un periodo fino al 1 ottobre perché se ne vadano.

L’Alta Corte israeliana ha deciso la demolizione sulla base della mancanza dei permessi di costruzione israeliani, quasi impossibili da ottenere, cosa che le Nazioni Unite hanno detto essere la conseguenza del regime urbanistico e di pianificazione discriminatorio praticato nell’area C – l’oltre 60% della Cisgiordania occupata sotto completo controllo israeliano.

Gli accordi di Oslo del 1995 tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e le autorità israeliane hanno diviso la Cisgiordania in tre settori: le aree A, B e C. L’area A, comprensiva delle popolose città palestinesi e che rappresenta il 18% della Cisgiordania, sarebbe stata sotto il controllo dell’appena costituita Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre l’area B sarebbe rimasta sotto il controllo dell’esercito israeliano, e all’ANP sarebbe spettato quello per l’amministrazione civile.

Invece l’area C, la maggior parte della Cisgiordania, è stata posta sotto il completo controllo militare israeliano e include la maggioranza delle risorse naturali e degli spazi liberi sul territorio palestinese. In base agli accordi di Oslo, era previsto che la terra sotto controllo israeliano sarebbe stata gradualmente trasferita all’ANP entro un periodo di 5 anni.

Tuttavia, circa due decenni dopo, la terra continua ad essere sotto il controllo israeliano.

L’area C, insieme a Gerusalemme est – considerata la capitale di un futuro Stato palestinese come parte di una soluzione a due Stati – è stata terreno della rapida espansione degli insediamenti, mentre il muro israeliano di separazione ha ulteriormente diviso le comunità palestinesi ed ha posto restrizioni ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza anche rispetto alla possibilità di andare a visitare quella che doveva essere la loro capitale.

Lunedì Amnesty International, insieme a Jewish Voice for Peace (Voci Ebraiche per la Pace, organizzazione ebraica statunitense contraria all’occupazione, ndtr.), ha lanciato una campagna sui social media nei confronti del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori [occupati], un’unità del ministero della Difesa israeliano che è responsabile di attuare la politica del governo nell’area C.

La campagna afferma che “le politiche di Israele di insediamento di civili israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, di arbitrarie distruzioni delle proprietà e di trasferimenti forzati di palestinesi che vivono sotto occupazione, costituiscono violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra e sono crimini di guerra previsti dallo Statuto della Corte Penale Internazionale.”

Aggiunge che dal 1967 Israele ha espulso e trasferito con la forza intere comunità e demolito più di 50.000 case e strutture palestinesi.

Amnesty International ha dichiarato: “Dopo circa un decennio di tentativi di combattere l’ingiustizia di questa demolizione, i residenti di Khan al-Ahmar vedono ora avvicinarsi il giorno terribile in cui vedranno le loro case, possedute da generazioni, crollare davanti ai loro occhi.”

Ha sottolineato che “il trasferimento forzato di Khan al-Ahmar si configura come un crimine di guerra”, specificando che “Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle case e delle esistenze palestinesi per fare spazio alle colonie.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Gli ultimi sei mesi a Gaza sono stati come un’altra guerra

Mohammed Abu Mughaiseeb

1 Ottobre 2018 Al Jazeera

Sono un medico di Gaza e non ho mai visto niente di simile prima d’ora

Come medico che vive e lavora a Gaza da tutta la vita, pensavo di avere visto tutto. Avevo la sensazione di aver visto il massimo di ciò che Gaza può sopportare.

Ma gli ultimi sei mesi sono stati i più difficili che io ho trascorso durante i miei 15 anni di lavoro con Medici Senza Frontiere a Gaza. Eppure ho vissuto e lavorato durante tre guerre: nel 2008, 2012 e 2014.

La sofferenza e la devastazione umana che ho visto negli ultimi mesi hanno raggiunto un altro livello. L’incredibile quantità di feriti ci ha distrutto.

Non dimenticherò mai lunedì 14 maggio. Nell’arco di 24 ore le autorità sanitarie locali hanno registrato un totale di 2.271 feriti, comprese 1.359 persone colpite da proiettili veri. Quel giorno ero di turno nell’equipe chirurgica dell’ospedale Al-Aqsa, uno dei principali ospedali di Gaza.

Alle 3 del pomeriggio abbiamo iniziato a ricevere il primo ferito proveniente dalla manifestazione. In meno di quattro ore ne sono arrivati più di 300. Non avevo mai visto così tanti pazienti in vita mia.

A centinaia erano in fila per entrare in sala operatoria; i corridoi erano pieni; tutti piangevano, gridavano e sanguinavano.

Per quanto lavorassimo duramente, non riuscivamo a far fronte all’enorme numero di feriti. Era troppo. Ferito dopo ferito, la nostra equipe ha lavorato per 50 ore di seguito cercando di salvare vite.

Ci tornava alla memoria la guerra del 2014. Ma in realtà niente avrebbe potuto prepararci a ciò che abbiamo visto il 14 maggio. Ed a ciò che ancor oggi stiamo vedendo.

Ogni settimana continuano ad arrivare nuovi casi di traumatizzati, per la maggior parte giovani con ferite di arma da fuoco alle gambe con alto rischio di disabilità a vita. La massa di pazienti di MSF continua a crescere e al momento stiamo curando circa il 40% di tutti i feriti da arma da fuoco a Gaza, che sono oltre 5000.

Ma più procediamo a curare queste ferite da arma da fuoco, più constatiamo la complessità di quanto deve essere fatto. E’ difficile, dal punto di vista medico e logistico. Le strutture sanitarie a Gaza stanno cedendo sotto la forte domanda di servizi medici e i continui tagli; un’alta percentuale di pazienti necessita di interventi chirurgici specialistici di ricostruzione degli arti, il che significa molteplici interventi. Alcune di queste procedure non sono attualmente possibili a Gaza.

Ciò che mi spaventa di più è il rischio di infezioni. L’osteomielite è un’infezione profonda dell’osso. Se non viene curata può causare la non cicatrizzazione delle ferite, con aumento del rischio di amputazione. Queste infezioni devono essere curate immediatamente, perché peggiorano in fretta se non si interviene con farmaci.

Ma l’infezione non è facile da diagnosticare ed attualmente a Gaza non ci sono strutture per analizzare campioni di ossa in modo da identificarla. MSF sta lavorando per impiantare qui un laboratorio di microbiologia, che fornisca prestazioni e formazione e sia in grado di analizzare i campioni di ossa per testare l’osteomielite. Ma una volta che riuscissimo a identificare l’infezione, la cura richiederebbe un lungo e complesso ciclo di antibiotici per ogni paziente e successivi interventi chirurgici.

Come medico viaggio per tutta la Striscia di Gaza e vedo sempre più giovani sulle stampelle con tutori esterni alle gambe o in sedia a rotelle. Sta diventando sempre più una vista normale. Molti di loro cercano di mantenere la speranza e perseverano, ma io, in quanto medico, so che il loro futuro è nero.

Una delle cose più difficili nel mio lavoro è dover parlare a pazienti, in maggioranza giovani, sapendo che potrebbero perdere le gambe in conseguenza di un proiettile che ha frantumato le loro ossa e il loro futuro. Molti di loro mi chiedono: “Sarò di nuovo in grado di camminare normalmente?”

Trovarmi davanti questa domanda è molto duro per me perché so che, a causa delle condizioni in cui lavoriamo, molti di loro non saranno più in grado di camminare normalmente. Ed è mia responsabilità dire loro che noi stiamo facendo del nostro meglio, ma che il rischio che perdano la gamba ferita è alto.

Dire una cosa simile ad un ragazzo che ha tutta la vita davanti a sé è veramente difficile. Ed è un discorso che ho dovuto fare molte volte negli ultimi mesi.

Ovviamente noi continuiamo a cercare di trovare il modo di curare queste persone nonostante le difficoltà che affrontiamo: ospedali sovraffollati e, a causa del blocco, quattro ore di corrente elettrica al giorno, carenza di combustibile, ridotte attrezzature sanitarie, mancanza di chirurghi e di medici specialistici, infermiere e medici stremati che non vengono pagati a salario pieno per mesi, restrizioni alla possibilità per pazienti che escono da Gaza di ricevere cure mediche altrove, e l’elenco può continuare.

E questo mentre la situazione socioeconomica intorno a noi continua a deteriorarsi di giorno in giorno. Adesso vediamo bambini che chiedono l’elemosina per strada – una cosa che non capitava mai uno o due anni fa.

MSF affronta enormi sfide e non possiamo farlo da soli. Ci proviamo. Insistiamo. Dobbiamo andare avanti. Per me è una questione di etica professionale. I feriti devono ricevere le cure di cui hanno bisogno.

Ora come ora, a Gaza, guardare al futuro è come guardare dentro a un tunnel buio e non sono certo di poter vedere una luce in fondo ad esso.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Mohammed Abu Mughaiseeb

Il dottor Mohammed Abu Mughaiseeb è un medico palestinese e referente medico di Medici Senza Frontiere a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’agonia di Khan al Ahmar

Patrizia Cecconi

30/ 09/ 2018, Pressenza

Una delle ultime illegali prepotenze israeliane sta per avere, quasi certamente, il suo epilogo. Si tratta del villaggio beduino di Khan Al Ahmar a est di Gerusalemme, esattamente tra le due colonie – illegali come tutte le altre – di Ma’ale Adumin e Kfar Adumin.

La storia del villaggio non differisce molto da quella di altri villaggi rasi al suolo, in piena illegalità, da Israele, ma qui c’è qualcosa di speciale. C’è una scuola di gomme, cioè un’idea fantastica avuta dall’Associazione Vento di Terra che l’ha costruita e che ha richiamato l’attenzione, finalmente, anche delle istituzioni internazionali. Ma Israele, convinto di essere al di sopra di ogni legge che non sia la propria, dopo l’ultima sentenza della “sua” Corte suprema, ha deciso che la scuola e il villaggio vanno demoliti. Il perché è gravissimo, ma ce lo faremo spiegare da uno dei rappresentanti  nonché fondatore dell’associazione che al momento si trova nel villaggio a rischio demolizione: Massimo Annibale Rossi al quale abbiamo chiesto un’intervista.

La prima cosa che sembra normale chiedere a Massimo A. Rossi è come nasce l’idea di costruire una scuola di gomme e perché proprio lì.  Questa storia è la storia di una lunga battaglia e Massimo ci sta mettendo l’anima per riuscire a vincerla, ma mentre inizia a raccontare lo interrompo per chiedergli qualcosa di sé.

Non intendo una biografia ma almeno qualche notizia che faccia capire ai nostri lettori cosa c’è dietro tanto impegno.

La richiesta è accolta e Massimo dice di potersi definire “un figlio della rivoluzione basagliana”. Basaglia, lo psichiatra capace di far aprire i manicomi negli anni ’70, “era un grande innovatore e un grande rivoluzionario” mi dice e aggiunge “l’abbattimento dei muri di segregazione è una vera rivoluzione e i muri non sono solo quelli manicomiali, ma quelli discriminatori del ‘diverso’ in genere” e questa consapevolezza sarà un po’ l’imprinting del suo impegno sul sociale. Anche la sua tesi di laurea in Letteratura moderna riguarderà una ricerca sull’alterità. Quindi a pieno titolo può definirsi un figlio della rivoluzione basagliana.

Prima di arrivare in Palestina Massimo ha lavorato nelle periferie milanesi, poi in America Latina. Ha sempre scelto di fare lavoro in rete e ricorda la prima Cooperazione allo sviluppo come un ottimo strumento per operare nelle situazioni di svantaggio sociale. Non sarà più così quando la Cooperazione italiana inizierà una diversa metodologia operativa rifacendosi al modello anglosassone e “a quel punto nasce l’idea di formare una piccola ong indipendente che sia assolutamente radicata nella realtà, senza avere l’imprinting aziendalistico delle ong anglosassoni”.

Insomma, abbiamo davanti, o meglio “in linea” un uomo che una dozzina di anni fa, con un piccolo gruppo di amici, tra cui la sua compagna di vita Barbara Archetti, attuale presidente di VdT, costituisce un’associazione che ha come filosofia di fondo l’abbattimento della discriminazione sociale.

Vento di Terra verrà costituita nel 2006, ma già nel 2002 era avvenuto l’incontro con la Palestina, dice Massimo, “Inizialmente si trattava di interesse giornalistico. Osservare, descrivere e comunicare” poi però avverrà il coinvolgimento con “il mondo palestinese vero e il passaggio dal descrivere all’intervenire.”  Lavorerà con i progetti educativi con i centri Rousseau nel campo profughi di Shuafat in Cisgiordania e porterà in Italia, in sei anni di summer camp, 150 bambini accolti da una ventina di Comuni del milanese. “Ormai eravamo considerati come parte della comunità e in quel periodo Barbara (n.d.r. l’attuale presidente dell’associazione) gestì anche un asilo nido nel campo. Ma i beduini erano degli ‘invisibili’. Fu la coordinatrice del campo di Shuafat a farci conoscere la comunità beduina di Khan Al Ahmar, una tribù cacciata dalla propria terra, nel deserto del Negev nel 1952 e sistematasi in questo pezzetto di terra a est di Gerusalemme”.

Infatti, la comunità beduina degli Jahalin rappresenta uno dei casi di profughi nella loro stessa terra, ma Israele sta mettendo in pratica, totalmente fuori da tutte le leggi internazionali, il cosiddetto piano D già elaborato prima della sua autoproclamazione come stato nel maggio del “48 e cioè l’annessione di tutta la Palestina storica “rosicchiando” con le sue colonie illegali i territori palestinesi dell’area C, praticando quella che viene definita colonizzazione da insediamento e che va contro il Diritto internazionale.

Quindi la piccola comunità beduina deve sparire perché Israele deve unire le due colonie e tagliare in due la Palestina impedendo la nascita di uno Stato palestinese per mancanza, tra l’altro, di continuità territoriale.

Ma perché Khan al Ahmar ha pensato di fare una scuola proprio qui? Massimo A. Rossi risponde che “il lavoro di VdT in Palestina, compresa anche la Striscia di Gaza, riguarda sempre progetti educativi proprio per quell’esserci – alla base dell’associazione – del discorso di abbattimento muri discriminatori. Abbiamo deciso di fare qui la scuola perché la comunità infantile di Khan al Ahmar non aveva accesso ad altre scuole se non attraversando una pericolosissima autostrada scavalcando il guard rail. Quei bambini avevano il diritto di accedere all’istruzione, ma Israele non consentiva costruzioni che avessero delle fondamenta e così, con gli architetti dell’associazione Arcò di Milano, collegata con l’Università di Pavia si pensò di costruire una struttura già sperimentata in New Mexico. Le vecchie gomme di auto in Palestina non mancano, vengono usate come forma di riciclo un po’ ovunque. Venne preparato il progetto e la costruzione coinvolse tutta la comunità. Realizzammo la scuola, senza fondamenta in modo che Israele non potesse accampare giustificazioni per demolirla, in 14 giorni e 14 notti. Era il giugno del 2009”.

Ma conoscendo la storia di quella scuola sappiamo che Israele tentò da subito di abbatterla, dichiarandola illegale. Non potendo dire apertamente al mondo quale fosse il motivo dell’abbattimento e l’intenzione di demolire l’intero villaggio, la destra filoisraeliana in Italia mostrò la faccia buona di Israele e disse che la scuola era dannosa per la salute dei bambini. Chiedo se ricordo bene e Massimo mi conferma che sì, ricordo bene “in Italia i filoisraeliani  dissero che il ‘nero-fumo’ cioè una sostanza rilasciata dagli pneumatici, era dannosa per la salute dei bambini. Ma gli pneumatici erano coperti dalla malta e quindi la scusa venne abbandonata” poi continua dicendo che Israele non poteva neanche accampare il diritto di uso di suolo pubblico, comunque pretestuoso, perché il terreno era di proprietà privata della famiglia Anata e questa sembrava un’ottima forma cautelativa.

Dopo anni di dispute, di ricorsi al Tribunale e infine alla Corte suprema di Giustizia – l’organo giuridico israeliano che mette l’ultima parola alle sentenze dei precedenti tribunali – dopo l’intervento di parlamentari italiani ed europei, si sperava di potercela fare ma ormai la Corte Suprema – la cui composizione negli anni è cambiata seguendo l’andamento governativo sempre più a destra – ha dato il suo parere favorevole alla distruzione della scuola e del villaggio e il governo israeliano ha offerto uno spazio vicino a una discarica o un altro in prossimità di fognature per spostare tutta la comunità.

L’Alto rappresentante per gli affari esteri della UE, Federica Mogherini, su sollecitazione del direttore di B’Tselem, ha preso posizione dichiarando che abbattimento e deportazione potrebbero configurarsi come crimini di guerra e creare seri problemi ad Israele. B’Tselem è stata la prima  associazione israeliana democratica ad esprimersi in tal senso e seguita a dare il suo supporto sapendo che  domani, 1° ottobre, le ruspe dovrebbero entrare in azione.

Chiedo a Massimo A. Rossi cosa faranno loro di VdT e mi risponde “noi saremo accanto alla comunità comunque. A noi questo progetto ha cambiato la vita, non possiamo abbandonare bambini e famiglie  all’arbitrio israeliano. Peraltro, la sentenza della Corte Suprema parla di demolizione e non di deportazione degli abitanti.” In effetti il capo villaggio ha inviato una lettera aperta alle autorità israeliane ed all’esercito dicendo che da lì loro non si sposteranno e che chiunque agirà contro di loro, dall’ultimo conducente di ruspa al primo generale, sarà ritenuto responsabile di crimini contro l’umanità e si chiederà contro ognuno di loro l’intervento delle organizzazioni giuridiche internazionali.

Domani, 1° ottobre, sarà pure giorno di sciopero nazionale in tutta la Palestina, proclamato dall’Anp contro la legge che trasforma, anche giuridicamente, lo Stato israeliano in Stato ebraico rendendo di fatto e di diritto Israele uno Stato di apartheid. Cosa succederà domani al villaggio di Khan Al Akhmar? Si spera nel miracolo, visto che lo strapotere di Israele va al di sopra dell’Onu al punto di permettersi di non far entrare in Palestina parlamentari e rappresentanti Onu, in quanto, sia chiaro, tutta la Palestina è assediata, anche se Gaza lo è in modo più esasperato, tutta la Palestina è assediata e le chiavi d’entrata e d’uscita per il fondo chiuso e occupato chiamato Palestina le tiene l’assediante.

Si spera nel miracolo.

Intanto Vento di Terra non cede come non ha ceduto dopo che l’esercito israeliano ha demolito con precisione certosina quello che Massimo A. Rossi chiama il “nostro vero gioiello, la ‘Terra dei bambini’ di Um al Naser nella Striscia di Gaza, costruita in un posto in cui c’era solo liquame, un gioiello di architettura biodinamica. Il nostro materiale di base erano sacchi di sabbia. La costruimmo nel 2011, offriva educazione e gioia a 150 bambini. A inaugurarla fu Laura Bodrini. Quando l’esercito israeliano invase la Striscia di Gaza, nel 2014, La terra dei bambini fu il primo edificio ad essere demolito”.

Chi scrive lo sa bene e visitò quel che ne restava un anno dopo il massacro israeliano detto “margine protettivo”. Non c’era più niente se non qualche pezzo di tondino di ferro sfuggito ai bulldozer.  Massimo racconta della distruzione “del loro gioiello” con un tono profondamente amaro ma poco dopo aggiunge “Ora però la stiamo ricostruendo. Non è proprio la stessa cosa ma il nuovo asilo ha preso già a funzionare e poi abbiamo il progetto Zeina per le donne. No, ormai non ci fermiamo. Le nostre scuole, i nostri centri sono tutti costruiti con i parametri della bio-architettura, leghiamo insieme ambiente e istruzione in un progetto che vede la pace e il rispetto per la vita come percorso e come obiettivo”.

Chi ha visitato i centri di Umm Al Naser sa che non c’è una parola di troppo in queste affermazioni, e la ex-direttrice della Terra dei bambini che ora dirige il nuovo asilo e che è a sua volta membro di una famiglia beduina, è una delle giovani donne più determinate e intelligenti incontrate nella Striscia di Gaza.

Da questa conversazione con il co-fondatore di VdT emerge quanto affermato nelle prime battute : un figlio della rivoluzione basagliana che vede nell’abbattimento dei muri di segregazione la propria mission che VdT realizza come e dove può.

Israele probabilmente domani metterà in pratica quel che rappresenterà, per il momento, la sua ultima vergogna oltre che il suo ultimo crimine, ma Israele cammina esattamente come i suoi bulldozer: distrugge tutto ciò che confligge col suo piano di annessione illegale della Palestina, sapendo che finora ha potuto contare sulla tolleranza delle istituzioni internazionali ed ora può addirittura contare sul sostegno immediato, totale e dichiarato senza pudore del presidente degli USA, l’uomo che si pone come padrone del mondo e che, nella sua rozzezza politica oltre che umana, ha affermato la sua intenzione di sostenere Israele al di là di ogni legalità internazionale.

Sappiamo che Khan Al Ahmar non è che l’ennesimo passo di pulizia etnica, del resto il colonialismo da insediamento non può sopportare un’interruzione “araba” nella sua continuità etnicamente “ebraica” ma, come gli abitanti di altri villaggi, distrutti e immediatamente ricostruiti per tre, quattro, dieci  volte o addirittura, come Al Aragib per oltre 130 volte, anche Khan Al Ahmar verrà ricostruito una, due, dieci volte a meno che Israele non si macchi ancora una volta del crimine di deportazione caricando gli abitanti a forza sui  camion, come ci ricordano antiche e tristi immagini in cui i caricati erano ebrei, per allontanarli definitivamente dalla loro terra.

Il portavoce della comunità Jahalin ha detto chiaramente che accetteranno di essere spostati solo a patto che possano tornare nella loro terra, cioè solo a patto che venga data almeno parziale attuazione alla Risoluzione Onu 194. Cosa che Israele con farà.

Faccio un’ultima domanda a Massimo chiedendogli cosa faranno domani se il miracolo non si avvererà e arriveranno i bulldozer. Mi risponde che “faremo resistenza passiva, non offriremo la possibilità di sparare e, come ti ho già detto, noi non abbandoneremo la comunità e la sosterremo ovunque, ma soprattutto contiamo su quanto esposto dall’associazione B’Tselem e dall’Alto commissario Federica Mogherini sul piano giuridico: questa volta, forse per la prima volta, Israele avrà qualcosa da perdere. Se Israele seguiterà a non subire sanzioni, seguiterà ad applicare la legge della giungla. Contiamo su questo”.

Chiudiamo così l’intervista telefonica, noi, osservatori a distanza e con il compito di informare, e Massimo A. Rossi da Khan Al Ahmar, in mezzo a “tanta energia, tanta volontà …ma poco realismo” come mi dice con un po’ di amarezza salutandomi e aggiungendo di essere, ovviamente, molto preoccupato.

Chiudiamo augurandoci che avvenga “il miracolo” e che Israele per una volta capisca che deve arrendersi al Diritto e accantonare la legge del più forte.  Lo capirà solo se realmente scatteranno le sanzioni previste dal Diritto internazionale, quelle di cui, fino ad oggi, ha potuto farsi beffe sapendo che alle enunciazioni non seguiva altro che un inutile quanto ridicolo rimprovero.




Giudice USA blocca una legge contro il boicottaggio in Arizona

Ali Harb

venerdì 28 settembre 2018, Middle East Eye

Più di 20 Stati hanno approvato leggi contro il BDS, ma in gennaio una normativa simile è stata sospesa da un giudice nel Kansas.

Giovedì un giudice statunitense ha sospeso una legge dell’Arizona che vieta allo Stato di mantenere rapporti con collaboratori esterni che boicottano Israele.

La sentenza è stata il secondo colpo alle leggi contro il boicottaggio a livello statale, dopo che in gennaio un giudice aveva bloccato una norma simile in Kansas.

Mikkel Jordahl, un avvocato che gestisce un proprio ufficio legale e ha un contratto con lo Stato come legale dei detenuti, lo scorso anno ha fatto causa all’Arizona rifiutandosi di firmare una dichiarazione in cui diceva di non essere impegnato nel boicottaggio di Israele.

Giovedì la giudice Diane Humetewa ha sentenziato a favore di Jordahl, imponendo un provvedimento inibitorio sulla legge, che secondo lei viola il diritto costituzionale a “boicottaggi politici collettivi”.

Humetewa ha affermato che chiedere a chi ha un contratto con lo Stato di dichiarare che non boicotta Israele “lede il carattere significativo dei boicottaggi politici collettivi, congelando la possibilità del querelante di unirsi alla più complessiva richiesta di un cambiamento politico.”

Jordahl aveva detto di essere stato indotto al boicottaggio di imprese che appoggiano l’occupazione israeliana dei territori palestinesi dalla campagna “Peace Not Walls” [Pace Non Muri] della Chiesa luterana evangelica in America.

Citando una serie di precedenti, Humetewa ha sentenziato che i boicottaggi politici che intendono raggiungere un fine comune riguardano la libertà di parola.

Una restrizione della possibilità di un singolo di partecipare a un appello collettivo per opporsi a Israele indiscutibilmente rappresenta un limite per imprese che desiderano impegnarsi in un simile boicottaggio ad esprimersi, come garantito [dalla legge],” ha scritto la giudice. “Il tipo di azione collettiva presa di mira dalla legge riguarda specificamente i diritti di riunione e associazione di cui gli americani e i cittadini dell’Arizona usufruiscono ‘per promuovere cambiamenti politici, sociali ed economici.’”

Jordahl ha affermato che le politiche dello Stato devono essere valutate in base alla Costituzione USA, che concede una totale protezione alla libertà di parola.

Non penso che i nostri legislatori abbiano il diritto di derogare dai diritti del nostro Primo Emendamento,” ha detto a Middle East Eye.

L’Arizona ha approvato la sua legge contro il boicottaggio nel 2016. Jordahl dice di aver firmato controvoglia la dichiarazione quell’anno. Ma dopo un viaggio in Israele e nei territori palestinesi ha rifiutato di acconsentire alla dichiarazione contro il boicottaggio per rinnovare il suo contratto.

Quando sono tornato e mi è stato chiesto di firmare di nuovo questa certificazione, semplicemente non l’avrei potuto fare perché per me sarebbe stata una vergogna,” ha detto l’avvocato. “Non ha niente a che fare con i miei contratti locali. Ma qui lo Stato dell’Arizona mi sta obbligando a dire come non posso spendere il mio denaro. Semplicemente non voglio sostenere affari che traggano profitto dall’occupazione in Cisgiordania. Spetta me [deciderlo], non a loro.”

L’“Unione Americana per le Libertà Civili” [Ong Usa che si occupa di diritti civili e individuali, ndtr.], che ha appoggiato Jordahl nel contenzioso, ha accolto favorevolmente la sentenza di Humetewa.

I boicottaggi politici sono una forma di protesta non violenta difesa dalla Costituzione,” ha detto giovedì in un comunicato Kathy Brody, responsabile giuridica dell’ACLU in Arizona. “La sentenza di oggi sostiene il concetto che il governo non ha il diritto di dire alle persone – neanche a quelle contrattate dallo Stato – quali cause possano o non possano appoggiare.”

Più di 20 Stati USA hanno approvato leggi che limitano il boicottaggio di Israele nel tentativo di lottare contro il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Chi critica queste leggi dice che i governi degli Stati stanno cercando di mettere a tacere il dibattito sulla Palestina, violando la libertà di espressione e la costituzione USA.

L’avvocato dell’ACLU Brian Hauss ha detto che la decisione dell’Arizona dovrebbe mandare un “messaggio forte” ai legislatori in tutti gli USA.

Il diritto al boicottaggio è vivo e vegeto negli Stati Uniti e i governi degli Stati non dovrebbero cercare di utilizzare i propri mezzi finanziari nei confronti di chi ha contratti con lo Stato per impedire la libertà di parola,” ha detto Hauss in un comunicato.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Palestina: diario di un bambino dell’UNRWA

Ramzy Baroud

22 settembre 2018, Al-Jazeera

Nonostante il livello scadente della scuola ed il pane raffermo, noi palestinesi vediamo l’UNRWA come un simbolo del nostro inalienabile diritto al ritorno.

Conservare la propria dignità quando si conduce una triste esistenza in un campo profughi non è un’impresa facile. I miei genitori hanno combattuto duramente per risparmiarci le quotidiane umiliazioni che implica il vivere a Nuseirat – il più grande campo profughi di Gaza. Ma quando ho compiuto sei anni e sono entrato nella scuola elementare maschile di Nuseirat, gestita dall’UNRWA [Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.], non c’è stato scampo.

Non ero un rifugiato solo nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite, ma lo ero anche in pratica, proprio come tutti i miei compagni.

Essere un rifugiato palestinese significa vivere costantemente in un limbo – senza la possibilità di reclamare ciò che è stato perduto, l’amata patria, né di concepire un futuro alternativo ed una vita in libertà, giustizia e dignità.

Come possiamo ricostruire la nostra identità che è stata distrutta da decenni di esilio, quando i nostri potenti aguzzini hanno collegato la nostra stessa esistenza e il nostro ritorno in patria alla loro scomparsa? Nella logica israeliana la nostra semplice richiesta di attuazione del diritto al ritorno sancito a livello internazionale equivale ad un appello al “genocidio”.

In base a quella stessa logica perversa, il fatto che il mio popolo viva e si riproduca è una “minaccia demografica” ad Israele. Quando Israele ed i suoi amici nel mondo sostengono che il mio popolo è “un’invenzione”, non solo stanno cercando di annichilire la nostra identità collettiva, ma stanno giustificando nelle loro menti le continue uccisioni e mutilazioni di palestinesi, senza che alcuna considerazione morale o etica le ostacoli.

Io sono cresciuto a Gaza resistendo a questo tentativo di Israele di cancellare noi palestinesi. “Ramzy Mohammed Baroud: rifugiato palestinese”, stava stampato su ogni pezzo di carta che io ho posseduto dal giorno in cui ho aperto gli occhi.

Con un sempre crescente numero di rifugiati in uno spazio sempre più ridotto a Gaza, il nostro linguaggio corrente è stato dominato da un vocabolario a cui quattro generazioni di rifugiati sono dolorosamente abituati: soldati assassini, barriere, aerei da guerra, una costante sensazione di morte incombente, fame, coprifuoco militari, resistenza, martiri e UNRWA.

Sempre l’UNRWA. L’ United Nations Relief and Works Agency [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro] per i rifugiati palestinesi ha accompagnato la nostra via dell’esilio fin dal primo momento. Pochi mesi dopo la Nakba – la catastrofica distruzione della patria palestinese e l’esilio di circa 750.000 palestinesi nel 1948 – l’UNRWA è diventata sinonimo del nostro esodo e della nostra odissea ancora in atto.

Molto si può dire sulle circostanze sottese alla creazione dell’UNRWA da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1949, sulle sue operazioni, sull’efficienza ed efficacia del suo lavoro, che cerca di soddisfare le esigenze di cinque milioni di rifugiati.

Ma per me, per la mia famiglia e per molti palestinesi, l’UNRWA non è stata meramente un’organizzazione di soccorso o assistenza. Essere registrati come rifugiati presso l’UNRWA ci ha fornito una temporanea identità che ci ha permesso di trascorrere 70 anni di esilio, vagando senza una casa o neppure un piano per tornare in quella che è stata, per un migliaio di anni e più, la nostra storica patria palestinese.

È come se il timbro di “rifugiato” su ogni certificato che possedessimo – nascita, morte e tutto quello che vi è in mezzo – fosse una bussola, che segnava i luoghi da dove provenivamo: il mio distrutto villaggio di Beit Daras e non il campo profughi di Nuseirat; non Jabaliya, Shati’, Yarmouk [in Siria, ndtr.] o Ein El-Hilweh [in Libano, ndtr.], ma le 600 cittadine e villaggi che furono distrutti durante l’attacco sionista alla Palestina.

L’esistenza di questi villaggi può essere stata cancellata, poiché un nuovo Paese è stato costruito per intero sulle loro rovine, ma i rifugiati palestinesi sono rimasti – sono sopravvissuti ed hanno progettato il loro ritorno a casa. Lo status di rifugiato dell’UNRWA era il riconoscimento internazionale dei nostri diritti.

Sinceramente quando avevo sei anni non mi importava nulla di tutto ciò. Mi mettevo in fila a scuola come tutti gli altri bambini; tutte le mattine scandivo gli slogan di routine che ci dicevano di recitare; prendevo il mio posto dietro il decrepito banco che portava i segni di generazioni di bambini rifugiati che incidevano i loro nomi e i riferimenti a passate guerre e tragedie; e facevo tutto quello che dovevo fare per essere un bravo bambino UNRWA.

E nel primo anno, quando arrivò il primo acquazzone invernale, imparai anche a sistemare il mio banco in modo da schivare l’acqua che pioveva dal soffitto.In tutti i soffitti di tutte le aule Unrwa in cui sono stato c’erano perdite d’acqua quando pioveva.

Infatti, uno dei miei più bei ricordi della scuola è quando, in terza classe, la nostra aula fu allagata e il nostro insegnante di storia, arabo e matematica, Mohammed Diab, ci disse di sederci sopra i nostri banchi mentre lui proseguiva la lezione. Morivamo di freddo nelle nostre fruste giacchette fornite dall’UNRWA, indossate da molti altri prima di noi. Ci accalcavamo insieme eccitati mentre l’acqua invadeva il pavimento dell’aula e il professor Diab continuava a raccontare le storie della passata grandezza araba dalla Palestina all’Andalusia.

Fu in quella scuola dell’UNRWA che disegnai la mia prima bandiera palestinese e provai l’esperienza della mia prima incursione da parte dell’esercito israeliano. Mentre gli studenti, accecati dai gas lacrimogeni e dal fumo, correvano in tutte le direzioni senza sapere come raggiungere il cancello principale per scappare, ricordo che quelli della sesta classe tornarono indietro per soccorrere i bambini più piccoli. Fu allora e là che compresi che cosa significa il coraggio palestinese.

Disegnare una gran quantità di bandiere era un rituale che si ripeteva nella prima settimana di ogni anno. Non era una prassi prevista ufficialmente dall’UNRWA, poiché l’amministrazione militare israeliana di Gaza arrestava i bambini, multava pesantemente i genitori e chiudeva le scuole a causa di ciò che presumevano essere un atto illecito. Sventolare o persino possedere una bandiera palestinese era un reato a Gaza. Lo facevamo lo stesso.

A volte, nei primi giorni di scuola, un grosso camion blu si fermava nella nostra scuola, accolto dalle grida di eccitazione di centinaia di bambini. Entro poche ore ogni allievo avrebbe ricevuto diversi libri usati, due quaderni nuovi, una serie di matite, un quaderno bianco da disegno e quattro pastelli.

Quelli abbastanza fortunati da possedere i pastelli verdi, rossi e neri li avrebbero condivisi con gli altri, in modo che tutti correvamo a disegnare il maggior numero possibile di bandiere palestinesi.

I soldati israeliani sapevano sempre in anticipo della nostra azione di ribellione collettiva e ci aspettavano come avvoltoi nelle strade. Molti bambini UNRWA venivano ammanettati e trascinati nelle “tende” militari – un enorme accampamento dell’esercito che separava Nuseirat dal campo profughi di Buraij – mentre molti invocavano piangendo i genitori e supplicavano pietà a dio.

Una volta ho gettato la mia borsa in un cespuglio di spine per sfuggire alla furia dei soldati israeliani. Recuperarla è stato come essere punto contemporaneamente da un centinaio di aghi.

Gli israeliani ci terrorizzavano anche con i loro continui raid nelle scuole dell’UNRWA. Migliaia di bambini e ragazzi furono uccisi e feriti in quel modo, soprattutto durante la prima intifada palestinese del 1987. Spesso le nostre proteste iniziavano nelle scuole UNRWA ed era in quelle stesse scuole che ci incontravamo per consolarci l’un l’altro per il ferimento e il martirio dei nostri compagni di scuola.

No, la guerra di Israele non prendeva di mira l’UNRWA in quanto organo dell’ONU, ma in quanto organizzazione che ci consentiva di mantenere la nostra identità di rifugiati con diritti inalienabili, che chiedono giustizia e ritorno alle nostre case. L’UNRWA alimentava in noi la speranza che un giorno ci saremmo liberati di ciò che doveva essere un’identità temporanea, per riprenderci la nostra vera identità, tornando ad essere nuovamente noi stessi, il popolo palestinese, un’antica Nazione che è esistita per secoli prima di Israele.

È in gran parte a causa di queste esperienze che l’UNRWA è una parte essenziale della mia identità come rifugiato palestinese. Questa intrinseca relazione non è fondata sui servizi che l’UNRWA fornisce o non fornisce, ma piuttosto sui principi politici e giuridici su cui si basa la sua esistenza.

Quando entrai nella scuola dell’UNRWA ottenni anche la mia prima tessera alimentare. La usavo raramente alla “tu’meh” (letteralmente “alimentazione”) – il centro alimentare dell’UNRWA nel nostro campo profughi. Fin da molto piccolo detestavo quell’esperienza. Non ci tenevo a una fettina di pane secco, mezzo uovo e mezza mela. Stare in coda in quella lunga fila di bambini poveri alla ‘tu’meh’ – un posto che puzzava di migliaia di uova sode – non era mai un’ esperienza piacevole.

Qualche settimana dopo diedi di nascosto la mia tessera alimentare ad un altro compagno povero, un ragazzo beduino che si chiamava Hamdan, la cui famiglia non aveva ottenuto lo status di rifugiati. Non fu un gesto virtuoso da parte mia; il cibo dell’UNRWA era semplicemente disgustoso.

Si, nonostante i tetti della scuola che perdono acqua ed il pane raffermo, l’UNRWA è stata e rimane fondamentale ed insostituibile. Per quanto riguarda Israele, i rifugiati dovevano essere “imprecisati” – in effetti, era quello il termine preciso scritto sul mio lasciapassare emesso da Israele nello spazio riservato alla nazionalità. I fondatori di Israele preconizzavano un futuro in cui i rifugiati palestinesi alla fine sarebbero svaniti, scomparendo all’interno della vasta popolazione del Medio Oriente. Settant’anni dopo, gli israeliani si cullano ancora in quella stessa illusione.

Ora, con l’aiuto dell’amministrazione USA di Donald Trump ostile ai palestinesi, stanno programmando campagne ancor più sinistre per far sì che i rifugiati palestinesi svaniscano, attraverso la distruzione dell’UNRWA e la ridefinizione dello status di rifugiati di milioni di palestinesi. Negando all’UNRWA gli stanziamenti di cui ha urgente bisogno, Washington intende imporre una nuova realtà, in cui né i diritti umani né il diritto internazionale o l’etica contano qualcosa.

Che cosa ne sarà dei rifugiati palestinesi sembra non avere importanza per Trump, per il suo genero e consigliere Jared Kushner e per gli altri dirigenti USA. Gli americani stanno ora a guardare con insolenza, sperando che la loro cinica strategia costringa alla fine in ginocchio i palestinesi, in modo che si sottomettano definitivamente ai dictat del governo israeliano.

Gli israeliani vogliono che i palestinesi rinuncino al loro diritto al ritorno per raggiungere la “pace”. La “visione” condivisa tra israeliani e americani per i palestinesi significa sostanzialmente l’imposizione dell’apartheid. Il mio popolo non l’accetterà mai.

L’ultima follia di USA e Israele si dimostrerà vana. In passato, le successive amministrazioni USA hanno fatto tutto quel che potevano per sostenere Israele e punire gli intransigenti palestinesi. Tuttavia il diritto al ritorno è rimasto la forza trainante dietro la resistenza palestinese, come ha dimostrato all’inizio di quest’anno la ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza.

Tutto il denaro che c’è nei forzieri di Washington non estirperà mai ciò che ora è una fede profondamente radicata nei cuori e nelle menti di milioni di rifugiati in tutta la Palestina, nel Medio Oriente e nel mondo.

Molti anni dopo essere entrato nel sistema educativo dell’UNRWA, ancora mi identifico con il bambino UNRWA che sono stato. Mi chiedo che cosa ne sia stato del mio vecchio banco nella mia prima aula della scuola. È crollato sotto il peso degli anni e delle successive guerre?

Se esiste ancora, spero davvero che i miei scarabocchi ci siano ancora. Ho inciso una mappa della Palestina storica, l’ho circondata di una corona di fiori e vi ho scritto sotto: Ramzy Baroud. Palestina. Libertà. Giustizia. Resistenza. Raed Muanis. Raed era un mio amico, vicino di casa e anche lui bambino UNRWA, ucciso dai soldati israeliani che lo avevano visto correre con una piccola bandiera palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, esperto di media, scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Rapporto OCHA del periodo 11- 24 settembre (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante gli eventi legati alla “Grande Marcia del Ritorno”, nove palestinesi, tra cui tre minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 829 sono rimasti feriti.

Quattro delle vittime, tre uomini e un ragazzo, sono stati uccisi durante le manifestazioni che si sono svolte venerdì 14 e venerdì 21 settembre, vicino alla recinzione; manifestazioni che hanno visto un aumento significativo del numero complessivo di partecipanti. Le altre vittime palestinesi sono state registrate durante eventi aggiuntivi che hanno iniziato a tenersi con regolarità: manifestazioni notturne vicino alla recinzione (un uomo e un ragazzo uccisi); tentativi di rompere il blocco navale [israeliano] (un uomo ucciso); dimostrazioni vicino al valico pedonale di Erez con Israele (un uomo ucciso). Un altro ragazzo di 16 anni è morto per le ferite riportate durante una precedente manifestazione svolta all’inizio di agosto (non incluso nel totale). Secondo il Ministero della Salute di Gaza, delle 829 persone ferite durante il periodo di riferimento, 629 sono state ricoverate in ospedale; fra queste, 261 (41%) sono state colpite da armi da fuoco, mentre le rimanenti sono state curate sul campo. Tra i feriti, 97 erano minori, 59 dei quali colpiti da armi da fuoco, e 6 donne, di cui tre colpite da armi da fuoco.

Sempre durante le manifestazioni del 14 settembre, un soldato israeliano è rimasto ferito e una scuola dell’UNRWA è stata danneggiata. Secondo fonti israeliane, i palestinesi hanno lanciato una serie di bottiglie incendiarie e due granate contro le forze israeliane dispiegate lungo la recinzione, ferendo un soldato. In una zona ad est di Khan Younis, forze israeliane hanno sparato con cannone da carro: il proiettile ha colpito il muro di una scuola dell’UNRWA, danneggiando due aule; non sono stati segnalati feriti, ma le lezioni sono state sospese per un giorno.

Altri due palestinesi, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati uccisi da un attacco aereo israeliano contro un gruppo di palestinesi che, di notte, si erano avvicinati alla recinzione di sicurezza. L’episodio è avvenuto il 17 settembre, a nord-est di Khan Younis.

Nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare al largo della costa di Gaza, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 33 casi non collegati alle dimostrazioni. Non sono state segnalate vittime, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In due casi distinti sono stati arrestati tre pescatori e un ragazzo che, secondo quanto riferito, stava tentando di infiltrarsi in Israele. Inoltre, in quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, nel corso di due aggressioni con coltello di cui si è avuta notizia, sono rimasti uccisi un presunto aggressore palestinese e un colono israeliano. Il 16 settembre, presso il raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron), un ragazzo palestinese di 17 anni ha accoltellato e ucciso un colono israeliano; successivamente il giovane è stato colpito con arma da fuoco e poi arrestato dalle forze israeliane. Nel secondo caso, il 18 settembre, a Gerusalemme Est, un palestinese di 26 anni è stato colpito a morte dalle forze israeliane dopo aver tentato, a quanto riferito, di pugnalare un israeliano con cui aveva avuto un alterco; in questa circostanza non sono stati segnalati israeliani feriti. Il corpo del presunto aggressore è stato trattenuto dalle autorità israeliane, insieme ai corpi di almeno altri 16 uccisi nei mesi precedenti, in circostanze simili. Dall’inizio del 2018, durante attacchi e presunti attacchi palestinesi, sono stati uccisi sette israeliani e sette aggressori e presunti aggressori palestinesi.

Sempre in Cisgiordania, in diversi episodi, sono stati feriti dalle forze israeliane 103 palestinesi, tra cui 56 minori. Quattordici dei ferimenti, tra cui quello di due minori, sono avvenuti a Ras Karkar (Ramallah) durante le manifestazioni contro la costruzione su proprietà privata palestinese di una nuova strada destinata ai coloni; durante le dimostrazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni all’accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya), e contro la Barriera e l’espansione degli insediamenti a Bil’in (Ramallah). Nell’area controllata da Israele della città di Hebron, per la seconda settimana consecutiva, le forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni nel cortile di una scuola, creando lesioni a 49 minori ed un insegnante. Secondo fonti israeliane, questo fatto è stato conseguente al lancio di pietre, provenienti dal complesso scolastico, contro le forze israeliane. In seguito all’ingresso di israeliani in siti religiosi della Cisgiordania, altri 19 palestinesi sono rimasti feriti in tre scontri con le forze israeliane.

Il 18 settembre, un palestinese di 24 anni è morto in custodia israeliana dopo essere stato presumibilmente picchiato durante l’arresto avvenuto nello stesso giorno in casa sua, nel villaggio di Beit Rima (Ramallah). Non sono ancora stati resi noti i risultati dell’autopsia effettuata dalle autorità israeliane. Nel complesso, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 132 operazioni di ricerca, sei delle quali hanno provocato scontri e 15 dei 103 feriti indicati nel paragrafo precedente. Sono stati arrestati un totale di 128 palestinesi, tra cui 15 minori. Il governatorato di Hebron ha registrato il maggior numero di operazioni.

In Area C e Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto i proprietari a demolire, dieci strutture. Cinque delle strutture prese di mira erano state costruite da attivisti in solidarietà con la comunità beduina di Khan al Ahmar-Abu al-Helu, a rischio di demolizioni di massa e trasferimento forzato (vedi sotto); quattro strutture, non residenziali, si trovavano nel villaggio di Rantis (Ramallah). A Gerusalemme Est, una famiglia palestinese è stata costretta ad autodemolire un ampliamento della propria casa, provocando lo sfollamento di quattro minori. Con le stesse motivazioni, sono stati emessi ordini di demolizione e di blocco-lavori per almeno altre otto strutture situate in tre comunità dell’Area C.

Il 23 settembre, le autorità israeliane hanno avvertito ufficialmente i residenti della comunità di Khan al Ahmar-Abu al-Helu (35 famiglie: 188 persone, metà minori) che dovranno autodemolire le loro case e altre strutture entro il 1° ottobre; in caso contrario lo faranno le autorità. L’avvertimento segue una sentenza definitiva dell’Alta Corte di Giustizia israeliana, del 5 settembre, che consente [alle autorità israeliane] di procedere alle demolizioni. La comunicazione informa inoltre i residenti che le autorità forniranno assistenza (compreso il trasporto verso un sito di trasferimento) a coloro che rispetteranno l’ordinanza. Nel frattempo, il 14 settembre, le autorità hanno bloccato la principale strada sterrata che porta alla Comunità, innescando scontri con attivisti, mentre il 21 settembre, hanno impedito che una clinica sanitaria mobile potesse accedere alla Comunità.

Nove attacchi da parte di coloni e di altri israeliani hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi. Nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno aggredito con spray al peperoncino un ragazzo palestinese di 11 anni che giocava vicino alla propria casa. Nei pressi del villaggio di Jamma’in (Salfit), altri due palestinesi sono stati colpiti con pietre e feriti da coloni israeliani. Circa 200 ulivi, a quanto riferito, sono stati vandalizzati da coloni israeliani in tre diversi episodi accaduti in At Tuwani (Hebron) e Al Mania (Betlemme). In altri quattro separati episodi, a Khallet Sakariya (Betlemme) e Jalud (Nablus), coloni israeliani hanno vandalizzato veicoli palestinesi, tra cui imbrattamenti con scritte tipo: “questo è il prezzo [che dovete pagare]” e la foratura dei pneumatici di cinque veicoli. La violenza dei coloni è in aumento dall’inizio del 2018, con una media settimanale di cinque attacchi risultanti in ferimenti o danni a proprietà, rispetto ad una media di tre nel 2017 e di due nel 2016.

In Cisgiordania, vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, secondo fonti israeliane, in almeno quattro occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni ad almeno quattro veicoli privati; a Gerusalemme, in uno di questi episodi, un colono israeliano è rimasto ferito.

In occasione delle festività ebraiche, tra il 24 settembre e il 2 ottobre, le autorità israeliane hanno annunciato l’interdizione del transito di persone attraverso il valico di Erez (tra Israele e la Striscia di Gaza). Il provvedimento avrà effetto per tutti i palestinesi possessori di permessi, con esclusione dei casi di emergenza.

Il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, ha aperto in entrambe le direzioni per nove giorni, e in una direzione (verso Gaza) solo per un giorno. Un totale di 1.946 persone sono state autorizzate a entrare a Gaza e altre 2.966 persone sono uscite.

þ

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Venerdì di sangue mentre Gaza segna sei mesi di proteste

Maureen Clare Murphy

29 settembre 2018, The Electronic Intifada

Venerdì ha segnato quella che il ministro della Salute di Gaza ha definito come la singola giornata più sanguinosa delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” dal 14 maggio, quando le forze di occupazione israeliane hanno ferito a morte più di 60 palestinesi.

Venerdì sette palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi, a due giorni dal compimento di sei mesi dall’inizio delle proteste.

I due bambini sono stati identificati come Nasir Azmi Musbah, 11 anni, colpito alla testa a est di Khan Younis, e Muhammad Nayif Yusif al-Hawm, 14 anni, colpito al petto a est di Bureij.

A Bureij, nel centro di Gaza, è stato ucciso anche un adulto, Muhammad Ashraf al-Awawdeh, 25 anni, colpito al petto da un proiettile vero. E nel sud, a Khan Younis, Muhammad Ali Muhammad Inshasi, 18 anni, è stato colpito allo stomaco.

Altri tre sono stati uccisi a est di Gaza City: Iyad Khalil Ahmad al-Shaer, 18 anni, colpito al petto; Muhammad Bassam Muhammad Shakhsa, 24 anni, colpito alla testa; Muhammad Walid Haniyeh, 32 anni, colpito al volto.

Secondo l’associazione per i diritti umani “Al Mezan”, con sede a Gaza, durante le proteste di venerdì più di 250 palestinesi sono rimasti feriti, 163 dei quali da pallottole vere, compresi 20 minori.

Secondo “Al Mezan” tra i feriti ci sono un paramedico e quattro operatori dei media, compreso il giornalista Haneen Mahmoud Suleiman Baroud, 23 anni, colpito direttamente alla testa da un candelotto lacrimogeno.

Un video pubblicato da mezzi di informazione palestinesi mostra i momenti successivi al ferimento di un uomo alla nuca durante le proteste a est di Gaza City venerdì.

L’uomo era insieme a un gruppo che comprendeva anche donne e bambini che sventolavano bandiere nei pressi della barriera lungo il confine tra Gaza e Israele.

Non è risultato subito chiaro se l’uomo ferito fosse tra quanti sono morti in seguito alle ferite riportate.

I media palestinesi hanno anche reso pubblico un video che mostra un’infermeria che si dispera sul corpo di suo fratello Nasir Azmi Misbah, il bambino ucciso, nella sala mortuaria di un ospedale.

Al Mezan” condanna il “persistente silenzio della comunità internazionale” che incoraggia la prosecuzione delle uccisioni “senza nessun timore di conseguenze.”

Dopo la sua morte, le foto dell’undicenne Nasir Azmi Musbah sono state diffuse nelle reti sociali.

150 uccisi durante le proteste

L’uso di forza letale contro manifestanti disarmati di venerdì da parte di Israele è tipico delle sue azioni nel corso della “Grande Marcia del Ritorno”, durante la quale più di 150 palestinesi sono stati uccisi, compresi 28 minori, 3 persone con disabilità, 3 paramedici e 2 giornalisti.

Oltre a quanti sono morti durante le proteste, dal 30 marzo altri 52 palestinesi di Gaza sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane e Israele sta trattenendo i corpi di 10 di essi.

Il fuoco letale contro manifestazioni di massa a Gaza è oggetto di una continua indagine avviata dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, a cui questa settimana è stato detto da gruppi per i diritti umani che non ci sono prove che neppure un solo dimostrante ucciso da Israele durante la “Grande Marcia del Ritorno” fosse armato.

La violenza israeliana ha anche provocato un avvertimento senza precedenti da parte della procura generale della Corte Penale Internazionale, che ha affermato che i dirigenti israeliani potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di manifestanti disarmati.

La procuratrice, Fatou Bensouda, questa settimana a New York, durante l’Assemblea Generale dell’ONU, si è incontrata con il ministro degli Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese Riyad al-Maliki.

L’economia di Gaza “in caduta libera”

Questa settimana la Banca Mondiale ha affermato che l’economia di Gaza è “in caduta libera” in seguito a più di un decennio di blocco, ad una serie di attacchi militari israeliani e alla divisione interna tra le fazioni palestinesi.

L’economia di Gaza ha subito una contrazione del 6% nel primo trimestre di quest’anno, “con indicazioni di un ulteriore peggioramento da allora.”

Il risultato è una situazione allarmante, con una persona su due che vive in povertà e il tasso di disoccupazione a più del 70% della sua popolazione giovanile, che rappresenta la maggioranza,” ha aggiunto la Banca Mondiale.

La situazione economica e sociale a Gaza è andata peggiorando per oltre un decennio, ma è crollata negli ultimi mesi ed ha raggiunto un punto critico,” ha sostenuto Marina Wes, direttrice [della Banca Mondiale] per la Cisgiordania e Gaza.

Una crescente frustrazione sta alimentando maggiori tensioni che hanno già iniziato a sfociare in rivolta e a riportare indietro lo sviluppo umano della vasta popolazione giovanile della regione.”

L’inviato dell’ONU per il Medio Oriente Nickolay Mladenov la scorsa settimana ha detto al Consiglio di Sicurezza che “la crisi energetica a Gaza sta arrivando a un punto critico” in quanto le ultime riserve di carburante per tenere in funzione la sanità d’urgenza e le strutture idriche e fognarie fornite a Gaza si sono esaurite, con una mancanza di elettricità di circa 20 ore al giorno.

Ha aggiunto che medicine indispensabili “sono ad un livello minimo critico, con circa metà dei farmaci essenziali con scorte di meno di un mese e il 40% totalmente esaurite.”

Nel contempo il commissario generale dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, martedì ha detto che l’ente ha fondi sufficienti per tenere aperti scuole e ambulatori solo fino a metà ottobre.

Abbiamo ancora bisogno di circa 185 milioni di dollari per riuscire a garantire che tutti i nostri servizi, il sistema educativo, le cure mediche, i servizi di sostegno e sociali e il nostro lavoro d’emergenza, soprattutto in Siria e a Gaza, possano continuare fino alla fine dell’anno,” ha aggiunto Pierre Krähenbühl.

Due terzi dei due milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati da terre dall’altra parte del confine con Israele. Più di metà degli abitanti di Gaza riceve aiuti alimentari dall’UNRWA, il cui bilancio per questi aiuti entro la fine dell’anno sarà esaurito.

Attualmente l’ONU fornisce aiuti alimentari a 1,3 milioni di persone a Gaza, rispetto alle sole 130.000 del 2005.

Lo scorso mese gli USA hanno annunciato che avrebbero smesso di finanziare l’UNRWA dopo aver congelato 300 milioni di dollari in aiuti a gennaio, facendo precipitare l’agenzia in una crisi finanziaria senza precedenti.

Gli USA hanno anche deciso di tagliare di altri 200 milioni di dollari l’aiuto bilaterale per la Cisgiordania e Gaza.

Nel contempo venerdì è stato avviato un procedimento contro gli USA presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia in merito allo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, che l’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah afferma essere una violazione della Convenzione di Vienna [sulle relazioni diplomatiche e consolari, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il mattino seguente

Edward Said

21.10.1993  The London Review of Books

Ora che è svanita parte dell’euforia, possiamo riesaminare l’accordo Israele-OLP con il dovuto buonsenso. E ciò che emerge da questa analisi è un accordo più lacunoso e più sfavorevole, almeno per la maggior parte della popolazione palestinese, di quello che in molti si aspettavano. La volgarità mondana della cerimonia alla Casa Bianca, lo spettacolo degradante offerto da un Yasser Arafat che ringraziava tutti per aver sospeso la maggior parte dei diritti del suo popolo e la fatua solennità della performance di Bill Clinton, che sembrava un imperatore romano del ventesimo secolo mentre guida due re vassalli a rituali di riconciliazione e di rispetto: tutto questo ha oscurato solo temporaneamente le proporzioni davvero sorprendenti della capitolazione palestinese.

Quindi, prima di tutto, chiamiamo l’accordo con il suo vero nome: uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese. Ciò che lo rende peggiore è che, almeno negli ultimi quindici anni, l’OLP avrebbe potuto negoziare un accordo ben migliore di questo piano Allon modificato, senza così tante concessioni unilaterali a Israele. Per ragioni che la leadership conosce bene, tutte le precedenti aperture sono state rifiutate. Per citare solo un esempio di cui sono personalmente a conoscenza: alla fine degli anni Settanta, il Segretario di Stato americano Cyrus Vance mi chiese di convincere Arafat ad accettare la Risoluzione ONU 242 con una clausola, accettata dagli Stati Uniti e formulata dall’OLP, che avrebbe insistito sui diritti nazionali del popolo palestinese e sulla sua autodeterminazione. Vance promise che gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto immediatamente l’OLP e avrebbero inaugurato negoziati con Israele. Arafat rifiutò categoricamente l’offerta, come fece con altre offerte simili. Poi c’è stata la Guerra del Golfo e, a causa delle disastrose posizioni assunte in quel periodo, l’OLP perse ancora più terreno. Le conquiste dell’intifada erano state gettate al vento e oggi i sostenitori del nuovo documento dicono: “Non avevamo alternative”. Il modo corretto di frasare il concetto è: “Non avevamo scelta perché abbiamo perso o buttato via molte altre alternative, lasciandoci solo questa”.

Per poter avanzare verso l’autodeterminazione palestinese – che ha un significato solo se ha come obiettivo la libertà, la sovranità e l’uguaglianza, piuttosto che la perenne sottomissione a Israele – dobbiamo riconoscere onestamente dove siamo adesso, ora che l’accordo temporaneo sta per essere negoziato. Ciò che appare particolarmente mistificante è il modo in cui così tanti leaders palestinesi e gli intellettuali al loro seguito continuino a parlare dell’accordo come di una “vittoria”. Nabil Shaath l’ha definita una “completa parità” tra israeliani e palestinesi. Ma rimane il fatto che Israele non ha concesso nulla, come ha affermato anche l’ex Segretario di Stato americano James Baker in un’intervista televisiva, tranne, in modo blando, il riconoscimento dell’esistenza dell’ OLP come rappresentante del popolo palestinese. Come sostenuto dalla “colomba” israeliana Amos Oz nel corso di un’intervista alla BBC, “questa è la seconda più grande vittoria nella storia del sionismo”.

Invece, il riconoscimento da parte di Arafat del diritto all’esistenza di Israele porta con sé tutta una serie di rinunce: alla Carta dell’OLP; alla violenza e al terrorismo; a tutte le risoluzioni ONU pertinenti, eccezion fatta per la 242 e la 338 che non dicono una parola sui diritti e le aspirazioni dei palestinesi. Di conseguenza, l’OLP ha accantonato numerose altre risoluzioni ONU (che, insieme ad Israele e agli Stati Uniti, sembra ora voler tentare di modificare o rescindere) che, dal 1948, hanno riconosciuto ai palestinesi lo status di rifugiati, compresi il diritto al rimpatrio o ad essere indennizzati. I palestinesi avevano vinto numerose risoluzioni internazionali – approvate, tra gli altri, dalla Comunità Europea, dal movimento dei paesi non allineati, dalla Conferenza Islamica e dalla Lega Araba, così come dall’ONU – risoluzioni che vietavano o condannavano gli insediamenti, le annessioni e i crimini israeliani contro il popolo sotto occupazione.

Sembrerebbe quindi che l’OLP abbia posto fine all’intifada, che non incarnava il terrorismo o la violenza ma il diritto palestinese alla resistenza, anche se Israele continua ad occupare la Cisgiordania e Gaza. Nel documento, la considerazione principale riguarda la sicurezza di Israele, mentre non si parla della sicurezza dei palestinesi dalle incursioni israeliane. Nella sua conferenza stampa del 13 settembre, Rabin è stato molto esplicito sul fatto che Israele avrebbe mantenuto il controllo. E inoltre, che Israele si sarebbe tenuta il fiume Giordano, i confini con l’Egitto e la Giordania, il mare, la terra tra Gaza e Gerico, Gerusalemme, gli insediamenti e le strade. Nel documento c’è ben poco che faccia pensare ad una rinuncia israeliana alla violenza contro i palestinesi o, come è stato costretto a fare l’Iraq dopo il suo ritiro dal Kuwait, ad un risarcimento alle vittime delle sue politiche degli ultimi 45 anni.

Né Arafat né gli altri leaders palestinesi che hanno incontrato gli israeliani ad Oslo hanno mai visto un insediamento israeliano. Ne esistono oltre duecento, principalmente su colline, promontori e punti strategici in tutta la Cisgiordania e a Gaza. Molti probabilmente si ridurranno fino a morire, ma i più grandi sono progettati per essere permanenti. Un sistema indipendente di strade li collega ad Israele, creando una discontinuità invalidante tra i principali centri della popolazione palestinese. La terra occupata da questi insediamenti, più la terra destinata all’esproprio, ammonta – si calcola – ad oltre il 55 per cento della superficie totale dei Territori Occupati. La sola “grande Gerusalemme”, annessa ad Israele, comprende un’enorme fetta di terra virtualmente rubata, pari ad almeno il 25 per cento del totale. Gli insediamenti di Gaza nel nord (tre), nel centro (due) e nel sud, lungo la costa fra il confine egiziano fino a Khan Yunis (12), costituiscono almeno il 30% della Striscia. Inoltre, Israele ha sfruttato tutte le falde acquifere della Cisgiordania e ora utilizza circa l’80% dell’acqua per gli insediamenti e per Israele. (Probabilmente ci sono simili installazioni idrauliche anche nella “zona di sicurezza” libanese occupata da Israele.) Quindi negli accordi di Oslo la questione del dominio (se non il furto definitivo) della terra e delle risorse idriche passa inosservato nel caso dell’acqua, o, nel caso della terra, viene rimandato ad una soluzione futura.

Ciò che peggiora ulteriormente le cose è che tutte le informazioni sugli insediamenti, la terra e l’acqua sono detenute da Israele, che le ha condivise solo in minima parte con i palestinesi, così come non ha condiviso le entrate generate dalle tasse spropositate che ha imposto su di loro per 26 anni. Tavoli tecnici di ogni tipo (ai quali hanno partecipato palestinesi non residenti in Palestina) sono stati istituiti dall’OLP nei territori per prendere in considerazione tali questioni, ma ci sono poche prove che i risultati delle commissioni, se ce ne sono stati, siano stati utilizzati dalla delegazione palestinese a Oslo. Quindi rimane l’impressione di un’enorme discrepanza tra ciò che Israele ha ottenuto e ciò che i palestinesi hanno concesso o trascurato.

Dubito che ci sia un solo palestinese che, assistendo alla cerimonia della Casa Bianca, non abbia sentito che un secolo di sacrificio, privazione e lotta eroica stava finendo nel nulla. E la cosa che disturbava di più e che mentre Rabin ha pronunciato un discorso, Arafat ha pronunciato parole che suonavano come un accordo di affitto. Lungi dall’essere visti come vittime del sionismo, i palestinesi sono stati presentati agli occhi del mondo come i suoi aggressori pentiti: come se le migliaia di vittime dei bombardamenti israeliani sui campi profughi, gli ospedali e le scuole in Libano; l’espulsione da Israele di 800.000 persone nel 1948 (i cui discendenti ora sono circa tre milioni, molti dei quali privi di nazionalità); la conquista della loro terra e della loro proprietà; la distruzione di oltre quattrocento villaggi palestinesi; l’invasione del Libano; le devastazioni di 26 anni di brutale occupazione militare – come se tutte queste sofferenze fossero state riassunte nell’essere un popolo di terroristi e violenti, rinunciando a rivendicarle e facendole passare sotto silenzio. Israele ha sempre descritto la resistenza palestinese come terrorismo e violenza, e quindi anche nella formulazione dell’accordo ha ricevuto uno storico dono morale.

Ed in cambio, cosa si è ottenuto esattamente? Il riconoscimento israeliano dell’OLP – indubbiamente un significativo passo avanti. Oltre a ciò, anche accettando che le questioni sulla terra e la sovranità vengano rimandate ai “negoziati sullo status finale”, i palestinesi hanno in effetti rinunciato alla loro rivendicazione unilaterale e internazionalmente riconosciuta sulla Cisgiordania e su Gaza: questi sono ora diventati “territori contesi”. Così, con l’assistenza palestinese, a Israele è stata riconosciuta almeno una rivendicazione alla pari su questi territori. Il calcolo israeliano sembra puntare sul fatto che accettando di fare i poliziotti a Gaza – un lavoro che Begin cercò già di far fare a Sadat quindici anni fa – l’OLP cadrà presto in disgrazia in favore dei concorrenti locali, Hamas fra gli altri. E inoltre, piuttosto che diventare più forti durante il periodo provvisorio, i palestinesi potrebbero indebolirsi, diventare più succubi di Israele, e quindi essere meno in grado di opporsi alle rivendicazioni israeliane quando inizierà l’ultima serie di trattative. Ma sulla questione di come, con quale specifico meccanismo, passare dallo stato provvisorio ad uno successivo, il documento è intenzionalmente reticente. Questo significa, minacciosamente, che lo stato provvisorio potrebbe essere quello definitivo?

I commentatori israeliani hanno suggerito che entro, diciamo, sei mesi l’OLP e il governo di Rabin negozieranno un nuovo accordo che rinvierà ulteriormente le elezioni, consentendo così all’OLP di continuare a governare. Vale la pena ricordare che almeno due volte durante la scorsa estate Arafat ha affermato che la sua esperienza di governo si basa sui dieci anni durante i quali ha “controllato” il Libano, un pensiero non confortante per i molti libanesi e palestinesi che hanno un ricordo molto amaro di quel periodo. E al momento non esiste una procedura di svolgimento delle elezioni, anche se fossero programmate. L’imposizione del potere dall’alto e il lungo retaggio dell’occupazione non hanno contribuito alla crescita delle istituzioni democratiche e di base. Indiscrezioni della stampa araba indicano che l’OLP avrebbe già nominato i ministri fra la sua cerchia ristretta di Tunisi, e i vice ministri fra residenti fidati della Cisgiordania e di Gaza. Ci saranno mai istituzioni veramente rappresentative? Non si può essere molto ottimisti, dato il totale rifiuto di Arafat di condividere o delegare il potere, per non parlare delle risorse finanziarie che lui solo conosce e controlla.

Sulle questioni di sicurezza interna e di sviluppo economico Israele e l’OLP sembrano ora allineati. Membri e consulenti dell’OLP hanno incontrato funzionari del Mossad sin dallo scorso ottobre per discutere dei problemi di sicurezza, compresa la sicurezza di Arafat. E questo nel periodo della peggiore repressione israeliana sui palestinesi sotto occupazione militare. Il pensiero alla base della collaborazione è che impedirà a qualsiasi palestinese di manifestare contro l’occupazione. Nonostante il fatto che Israele non si ritirerà, ma si limiterà a un ridispiegamento. Inoltre, i coloni israeliani resteranno dove sono sempre stati, sotto una giurisdizione diversa da quella dei palestinesi. L’OLP diventerà quindi spalleggiatore di Israele, una prospettiva infelice per la maggior parte dei palestinesi. È interessante notare che l’African National Congress di Mandela si rifiutò sempre di fornire funzionari di polizia al governo sudafricano finché il potere non sarebbe stato condiviso, proprio per evitare di apparire come spalleggiatori del governo bianco. Alcuni giorni fa si è saputo che ad Amman 170 membri dell’esercito di liberazione della Palestina, addestrati in Giordania per il lavoro di polizia a Gaza, si sono rifiutati di cooperare proprio per la stessa ragione. Con circa 14.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane – alcuni dei quali saranno forse rilasciati da Israele – c’è una contraddizione intrinseca, per non dire incoerenza, con le nuove disposizioni sulla sicurezza. Ci sarà più spazio per la sicurezza palestinese?

L’unico argomento su cui la maggior parte dei palestinesi è d’accordo è lo sviluppo economico, descritto nei termini più ingenui che si possano immaginare. Ci si aspetta che la comunità mondiale dia alle aree semi-autonome un sostegno finanziario su larga scala; dalla diaspora palestinese ci si attende lo stesso. Tuttavia, tutti i finanziamenti per la Palestina dovranno essere convogliati attraverso il “Comitato congiunto di cooperazione economica israelo-palestinese”, anche se, secondo il documento, “entrambe le parti coopereranno sia congiuntamente che unilateralmente con attori regionali e internazionali per sostenere questi obiettivi”. Israele è il potere economico e politico dominante nella regione – e il suo potere è naturalmente rafforzato dalla sua alleanza con gli Stati Uniti. Oltre l’80 per cento dell’economia della Cisgiordania e di Gaza dipende da Israele, che probabilmente controllerà le esportazioni, la produzione e la manodopera palestinesi nel prossimo futuro. A parte la piccola classe imprenditoriale e borghese, la grande maggioranza dei palestinesi è impoverita e priva di terra, soggetta ai capricci della produzione israeliana e della comunità commerciale che impiega i palestinesi come manodopera a basso costo. La maggior parte dei palestinesi, dal punto di vista economico, rimarrà quasi certamente nella stessa situazione, anche se ora dovrà lavorare nel settore privato, in parte nel settore di servizi controllati dai palestinesi, tra cui resort, piccoli impianti di assemblaggio, fattorie e simili.

Un recente studio del giornalista israeliano Asher Davidi cita Dov Lautman, presidente dell’Associazione israeliana dei produttori: “Non è importante se ci sarà uno Stato palestinese, un’autonomia o uno stato palestinese-giordano. I confini economici tra Israele e i territori devono rimanere aperti”. Con le sue istituzioni ben sviluppate, le strette relazioni con gli Stati Uniti e la sua economia aggressiva, Israele in pratica incorporerà i territori economicamente, mantenendoli in uno stato di dipendenza permanente. Israele si rivolgerà poi al resto del mondo arabo, usando i benefici politici dell’accordo palestinese come trampolino per irrompere nei mercati arabi, che sfrutterà e probabilmente dominerà.

Ad inquadrare tutto questo sono gli Stati Uniti, l’unica potenza globale, la cui idea di Nuovo Ordine Mondiale si basa sul dominio economico di poche corporazioni gigantesche e sulla pauperizzazione, se necessario, delle popolazioni subalterne (anche quelle nei paesi sviluppati). Gli aiuti economici per la Palestina sono supervisionati e controllati dagli Stati Uniti, scavalcando di fatto le Nazioni Unite, le cui agenzie UNRWA e UNDP sarebbero di gran lunga in miglior posizione per farlo. Prendi il Nicaragua e il Vietnam. Entrambi sono ex nemici degli Stati Uniti; Il Vietnam ha effettivamente sconfitto gli Stati Uniti, ma ora ne ha bisogno economicamente. Il boicottaggio contro il Vietnam continua e i libri di storia vengono scritti in modo tale da mostrare come i vietnamiti abbiano peccato e “maltrattato” gli Stati Uniti per il suo gesto idealistico di aver invaso, bombardato e devastato il loro paese. Il governo sandinista del Nicaragua è stato attaccato dal movimento Contra finanziato dagli Stati Uniti; i porti del paese sono stati minati, la sua gente devastata da carestie, boicottaggi e ogni forma immaginabile di insicurezza. Dopo le elezioni del 1991, che portarono al potere un candidato sostenuto dagli Stati Uniti, la signora Chamorro, gli Stati Uniti promisero molti milioni di dollari in aiuti, di cui solo 30 milioni si sono materializzati. A metà settembre tutti gli aiuti furono interrotti. Ci sono ora carestia e guerra civile in Nicaragua. Non meno sfortunati sono stati i destini di El Salvador e Haiti. Gettarsi fra le braccia, come ha fatto Arafat, della tenera misericordia degli Stati Uniti significa quasi certamente subire lo stesso destino che gli Stati Uniti hanno riservato ai popoli ribelli o “terroristi” del Terzo mondo, dopo che questi hanno promesso di non resistere più agli Stati Uniti.

Di pari passo con il controllo economico e strategico dei paesi del Terzo mondo che sono in possesso di risorse necessarie agli Stati Uniti come il petrolio, o che capitano nei paraggi, viene il controllo del sistema dei media, la cui presa sul pensiero è davvero sbalorditiva. Per almeno venti anni, Yasser Arafat era stato considerato l’uomo meno attraente e moralmente repellente sulla terra. Ogni volta che appariva nei media, o che si parlava di lui, veniva presentato come se avesse un solo pensiero in testa: uccidere ebrei, in particolare donne e bambini innocenti. Nel giro di pochi giorni, i “media indipendenti” hanno completamente riabilitato Arafat. Ora è diventato una figura accettata e amabile il cui coraggio e il cui realismo hanno concesso a Israele i suoi diritti. Si è pentito, è diventato un ‘amico’, e lui e il suo popolo sono ora dalla “nostra” parte. Chiunque si opponga o critichi il suo operato è un fondamentalista come i coloni del Likud o un terrorista come i membri di Hamas. È diventato quasi impossibile dire qualsiasi cosa tranne che l’accordo israelo-palestinese – di solito senza leggerlo o esaminarlo, oppure parlandone in modo poco chiaro, senza dozzine di dettagli cruciali – è il primo passo verso l’indipendenza palestinese.

Per quanto riguarda i critici e gli analisti veramente indipendenti, il problema è come possono liberarsi dal sistema ideologico presentato dall’accordo e dai media. Ciò di cui necessitiamo adesso sono la memoria e lo scetticismo, se non addirittura il sospetto. Anche se è palesemente ovvio che la libertà palestinese in senso reale non sia stata raggiunta, e chiaramente non si pianifica che questo possa avvenire al di là dei limiti angusti imposti da Israele e dagli Stati Uniti, la celebre stretta di mano diffusa in tutto il mondo non è pensata solo per simboleggiare un grande momento di successo, ma anche per cancellare le realtà passate e presenti.

I palestinesi con un minimo di onestà dovrebbero essere in grado di vedere che la grande maggioranza delle persone che l’OLP dovrebbe rappresentare non trarrà veramente vantaggi dall’accordo, se non sul piano cosmetico. È vero, i residenti della Cisgiordania e di Gaza sono giustamente lieti di vedere che alcune truppe israeliane si ritireranno, e che potrebbero iniziare a entrare grosse somme di denaro. Ma è palese disonestà non rendersi conto di ciò che l’accordo comporta in termini di ulteriore occupazione, controllo economico e profonda insicurezza. Poi c’è il gigantesco problema dei palestinesi che vivono in Giordania, per non parlare delle migliaia di profughi apolidi in Libano e in Siria, stati arabi “amichevoli” che hanno sempre avuto una legge per i palestinesi e una per i nativi. Questi doppi standard si sono già rafforzati, come testimoniano le spaventose scene di ritardo e di molestie che si sono verificate sul ponte Allenby da quando è stato annunciato l’accordo.

Quindi cosa si deve fare, se piangere sul latte versato è inutile? La prima cosa è mettere in chiaro non solo le virtù dell’essere riconosciuti da Israele e accettati alla Casa Bianca, ma anche le mancanze veramente gravi. Prima il pessimismo della ragione, poi l’ottimismo della volontà. Non si può migliorare una situazione negativa che è in gran parte dovuta all’incompetenza tecnica dell’OLP – che ha negoziato in inglese, una lingua che né Arafat né il suo emissario a Oslo conoscono, senza alcun consulente legale – finché almeno a livello tecnico non sono coinvolte persone che possono pensare con la loro testa e non essere meri strumenti di quella che è ormai una unica autorità palestinese. Trovo straordinariamente scoraggiante che tanti intellettuali arabi e palestinesi, che una settimana prima si lamentavano dei modi dittatoriali di Arafat, del suo controllo unilaterale sul denaro, della cerchia di cortigiani e parassiti che lo hanno circondato a Tunisi negli ultimi anni, dell’assenza di responsabilità e di riflessione, almeno dalla Guerra del Golfo, abbiano improvvisamente fatto una giravolta di 180 gradi, iniziando ad applaudire il suo genio tattico e la sua vittoria finale. La marcia verso l’autodeterminazione può essere intrapresa solo da un popolo con aspirazioni e obiettivi democratici. Altrimenti non ne vale la pena.

Dopo tutto il trambusto per celebrare “il primo passo verso uno stato palestinese”, dovremmo ricordare a noi stessi che molto più importante che avere uno stato è il tipo di stato che abbiamo. La storia del mondo postcoloniale è sfigurata da tirannie di partiti unici, oligarchie rapaci, dislocazione sociale causata da “investimenti” occidentali e pauperizzazione su larga scala causata da carestie, guerre civili o rapine a titolo definitivo. Più che un fondamentalismo religioso, il semplice nazionalismo non è, e non potrà mai essere, la “risposta” ai problemi delle nuove società secolari. Purtroppo si possono già vedere nella potenziale statualità della Palestina i lineamenti di un matrimonio tra il caos del Libano e la tirannia dell’Iraq.

Se ciò non dovesse accadere, è necessario affrontare una serie di problemi specifici. Uno è la diaspora palestinese, che è all’origine dell’ascesa al potere di Arafat e dell’OLP, che li ha mantenuti lì finora, e che adesso è relegata in esilio permanente o con status di rifugiato. Poiché i palestinesi della diaspora costituiscono almeno la metà della popolazione totale palestinese, i loro bisogni e aspirazioni non sono trascurabili. Una piccola parte della comunità di esuli è rappresentata dalle varie organizzazioni politiche “ospitate” dalla Siria. Un numero significativo di indipendenti (alcuni dei quali, come Shafik al-Hout e Mahmoud Darwish, si sono dimessi in segno di protesta dall’OLP) hanno ancora un ruolo importante da svolgere, non semplicemente applaudendo o condannando a margine, ma sostenendo specifiche modifiche alla struttura dell’OLP, cercando di cambiare l’atmosfera trionfalistica del momento in qualcosa di più appropriato, mobilitando il sostegno e costruendo un’organizzazione all’interno delle varie comunità palestinesi in tutto il mondo per continuare la marcia verso l’autodeterminazione. Queste comunità sono rimaste disilluse, prive di leaders e indifferenti da quando è iniziato il processo di Madrid.

Uno dei primi compiti è un censimento palestinese, che deve essere considerato non solo come un esercizio burocratico, ma come l’affrancamento dei palestinesi ovunque essi siano. Israele, Stati Uniti e stati arabi – tutti loro – si sono sempre opposti ad un censimento: darebbe ai palestinesi un profilo troppo alto nei paesi in cui dovrebbero essere invisibili, e prima della Guerra del Golfo avrebbe reso chiara ai vari governi del Golfo al loro dipendenza da una comunità ‘ospite’ impropriamente grande, di solito sfruttata. Soprattutto, l’opposizione al censimento deriva dal rendersi conto che, se i palestinesi fossero contati tutti insieme, nonostante la dispersione e l’espropriazione, tramite quell’esercizio potrebbero avvicinarsi a costituire una nazione piuttosto che una semplice raccolta di persone. Ora più che mai, tenere un censimento e forse, in seguito, elezioni mondiali – dovrebbe essere un elemento chiave nell’agenda dei palestinesi ovunque. Sarebbe un atto di autorealizzazione storica e politica al di fuori dei limiti imposti dall’assenza di sovranità. E darebbe corpo al bisogno universale di partecipazione democratica, ora apparentemente limitato da Israele e dall’OLP in un’alleanza prematura.

Certamente un censimento dovrebbe sollevare ancora una volta la questione del ritorno per quei palestinesi che non sono in Cisgiordania e a Gaza. Questo problema deve essere sollevato ora, anche se è stato compresso nella formula generale del “rifugiato”, rinviata alle trattative finali da tenersi in un indefinito futuro. Il governo libanese, ad esempio, ha pubblicamente scaldato la retorica contro la cittadinanza e la naturalizzazione per i 350-400.000 palestinesi in Libano, la maggior parte dei quali sono apolidi, poveri, permanentemente in stallo. Una situazione simile si verifica in Giordania e in Egitto. Queste persone, che hanno pagato il prezzo più pesante di tutti i palestinesi, non possono né essere lasciate a marcire né sbattute da qualche altra parte contro la loro volontà. Israele è in grado di offrire il diritto al ritorno ad ogni ebreo nel mondo: i singoli ebrei possono diventare cittadini israeliani e vivere in Israele in qualsiasi momento. Questa straordinaria iniquità, intollerabile per tutti i palestinesi da quasi mezzo secolo, deve essere rettificata. È impensabile che tutti i rifugiati del 1948 vogliano o siano in grado di tornare in un posto così piccolo come uno stato palestinese: d’altra parte, è inaccettabile che a tutti venga detto di trasferirsi altrove, o di abbandonare qualsiasi idea di rimpatrio o risarcimento.

Una delle cose che l’OLP e i palestinesi indipendenti dovrebbero quindi fare è sollevare una questione non affrontata dagli Accordi di Oslo – per svuotare di contenuti in anticipo i colloqui sullo status finale – ovvero chiedere il risarcimento ai palestinesi che sono stati vittime di questo terribile conflitto. Sebbene secondo il desiderio del governo israeliano (espresso con forza da Rabin alla sua conferenza stampa di Washington) l’OLP dovrebbe chiudere “le sue cosiddette ambasciate”, questi uffici dovrebbero essere mantenuti aperti selettivamente in modo che le richieste di rimpatrio o risarcimento possano essere sottomesse.

In sintesi, dobbiamo passare dallo stato di supina abiezione in cui gli accordi di Oslo sono stati negoziati (“accetteremo qualsiasi cosa se ci riconoscete”) ad uno che ci consenta di perseguire accordi paralleli con Israele e gli arabi in merito alle aspirazioni nazionali palestinesi, piuttosto che a quelle municipali. Ma ciò non esclude la resistenza contro l’occupazione israeliana, che continua indefinitamente. Finché esistono occupazione e insediamenti, legittimati o meno dall’OLP, i palestinesi e tutti quanti devono denunciarli. Una delle questioni non sollevate, né dagli Accordi di Oslo, né dallo scambio di lettere OLP-Israele o dai discorsi di Washington, è se la violenza e il terrorismo a cui l’OLP rinuncia includano la resistenza non violenta, la disobbedienza civile e così via. Questi sono diritti inalienabili di qualsiasi popolo a cui si neghi la piena sovranità e l’indipendenza, e devono essere sostenuti.

Come tanti governi arabi impopolari e antidemocratici, l’OLP ha già iniziato ad appropriarsi dell’autorità definendo “terroristi” e “fondamentalisti” i suoi oppositori. Questa è demagogia. Hamas e la Jihad islamica sono contrari all’accordo di Oslo, ma hanno detto più volte che non useranno la violenza contro altri palestinesi. Inoltre, la loro influenza combinata equivale a meno di un terzo dei cittadini della Cisgiordania e di Gaza. Per quanto riguarda i gruppi con base a Damasco, mi sembrano paralizzati o screditati. Ma ciò non esaurisce affatto l’opposizione palestinese, che comprende anche noti esponenti laici, persone impegnate in una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese, realisti e democratici. Mi considero parte di questo gruppo che, credo, sia molto più grande di quanto si pensi.

Il pensiero centrale in questa opposizione è il disperato bisogno di una riforma all’interno dell’OLP, per metterlo in guardia fin da ora sul fatto che affermazioni riduttive sull’unità nazionale non sono più una scusa per l’incompetenza, la corruzione e l’autocrazia. Per la prima volta nella storia palestinese tale opposizione non può essere equiparata al tradimento, se non con una logica assurda e insensata. La nostra affermazione è che siamo contrari al settarismo palestinese e alla cieca lealtà verso la leadership: rimaniamo impegnati nei vasti principi democratici e sociali di responsabilità e capacità che il nazionalismo trionfalista ha sempre cercato di annullare. Credo che un’opposizione su vasta scala alla pasticciata storia dell’OLP emergerà nella diaspora, ma arriverà ad includere anche persone e partiti nei Territori Occupati.

Infine, c’è la questione confusa dei rapporti tra israeliani e palestinesi che credono nell’autodeterminazione per due popoli, reciprocamente e con pari diritti. Le celebrazioni sono premature e, per troppi ebrei israeliani e non israeliani, sono una facile via d’uscita dalle enormi disparità che rimangono. I nostri popoli sono già troppo legati l’uno all’altro in un conflitto e in una storia condivisa di persecuzione perché basti  uno spettacolino in stile americano per poter curare le ferite e aprire la via da seguire. Ci sono ancora una vittima ed un carnefice. Ma può esserci solidarietà nel lottare per porre fine alle ingiustizie, e gli israeliani possono fare pressioni sul loro governo per porre fine all’occupazione, all’esproprio e agli insediamenti. Dopo tutto, i palestinesi hanno ben poco da dare. La comune battaglia contro la povertà, l’ingiustizia e il militarismo deve ora essere unita seriamente, e senza le richieste rituali di sicurezza psicologica per gli israeliani – perché se non ce l’hanno ora, non la avranno mai. Più di ogni altra cosa, questo dimostrerà se la simbolica stretta di mano sarà davvero un primo passo verso la riconciliazione e la vera pace.

 Traduzione a cura dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze




Gaza è il terreno per testare l’industria bellica israeliana

Nabil Salem

26 settembre 2018, Middle East Monitor

Ogni giorno il governo di Israele ci presenta ulteriori prove del fatto che rappresenta e adotta un approccio aggressivo che non si preoccupa della pace, né è disposto a rispettare le leggi e le convenzioni internazionali. Fornisce anche prove del fatto che scatena guerre per il gusto di farle e per soddisfare il suo sfrenato desiderio di aggressione ed espansione, al servizio dei suoi criminali obiettivi contro gli arabi in generale e il popolo palestinese in particolare.

Benché i dirigenti israeliani abbiano generalmente nascosto gli obiettivi delle loro violente guerre sotto vari pretesti, come azioni preventive e con altre giustificazioni che cercano di proporre al mondo, è degno di nota che, nonostante le loro varie denominazioni operative, queste guerre non siano altro che quello che Israele sta facendo o pensando in merito. Ci sono guerre per altre ragioni che dimostrano la decadenza morale della classe dirigente israeliana e il livello di criminalità e di brutalità a cui è arrivata.

In un articolo dello scrittore israeliano Rogel Alpher su Haaretz, egli spiega perché Israele potrebbe scatenare un’altra guerra contro la gente di Gaza. Mentre lo Stato occupante cerca sempre di giustificare le sue aggressioni come “autodifesa”, Alpher rivela che una nuova guerra è necessaria in modo che l’industria bellica israeliana e l’esercito possano testare sul campo nuove armi e munizioni contro cavie vive. Ciò è disgustoso. Benché egli menzioni anche che tra le ragioni che potrebbero portare Israele alla guerra ci siano dispute interne e le imminenti elezioni, il fatto che si possa persino parlare di testare nuovi armamenti in questo modo è in sé criminale e potenzialmente una flagrante violazione di ogni moralità e di leggi e convenzioni internazionali. Ciò riconferma anche quello che è stato rivelato dal regista israeliano Yotam Feldman nel suo film del 2013, “The lab” [Il laboratorio], per cui non si tratta di qualcosa di veramente nuovo.

Se prendiamo in considerazione l’ingiusto assedio imposto dall’occupazione israeliana su più di due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza, che ha trasformato l’enclave nella più grande prigione del mondo, il collaudo di armamenti israeliani nel territorio aggiunge una nuova e vergognosa dimensione ai continui crimini contro il popolo palestinese. Possiamo anche aggiungere l’uso per parecchi anni di armi vietate a livello internazionale da parte di Israele.

Sarebbe necessario molto tempo e molta fatica per elencare tutti i crimini commessi dagli israeliani contro i palestinesi da prima del 1948 [data della nascita dello Stato di Israele, ndtr.] fino ad oggi. Lo stesso Stato di Israele venne fondato su massacri di civili palestinesi da parte delle bande terroristiche sioniste. Da allora sono stati commessi crimini incalcolabili, compresi omicidi extragiudiziari, deportazioni, detenzioni arbitrarie, l’assedio e altre restrizioni ingiustificabili al movimento, colonie illegali e politiche e pratiche discriminatorie, comprese leggi apertamente razziste.

Non c’è bisogno di dire che Israele non sarebbe mai stato in grado di commettere tutti questi crimini senza l’appoggio illimitato e incondizionato di molti poteri coloniali, soprattutto degli USA, e il deliberato disprezzo per l’opinione pubblica e le leggi internazionali. Sfortunatamente sembra che tali limiti giuridici vengano usati unicamente quando fa comodo ai vincitori della Seconda Guerra Mondiale e ad altri poteri nucleari. Essi non hanno intenzione di ristabilire i diritti dei popoli oppressi, ma di giustificare la persecuzione o l’ingiustizia in base a falsi slogan e pretesti.

Di conseguenza è logico dire che Israele non smetterà di commettere i suoi crimini, ma li incrementerà finché non ci sarà una potenza araba pronta a bloccarli o una seria volontà di contenere e limitare il suo ruolo criminale nella nostra regione. Lo Stato coloniale non solo minaccia la pace e la sicurezza in Medio Oriente, ma anche quella in tutto il mondo. Il fatto di testare i suoi armamenti su obiettivi viventi nella Striscia di Gaza assediata è una chiara dimostrazione del fatto che Israele non si fermerà davanti a niente per raggiungere i propri scopi ed obiettivi.

Questo articolo è comparso per la prima volta in arabo sul “Palestinian Information Centre” [agenzia di notizie considerata vicina ad Hamas, ndtr.] il 26 settembre 2018.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Proteste sulla costa di Gaza: un palestinese ucciso, altri 90 feriti

Palestine Chronicle

25 settembre 2018

Un palestinese di 21 anni è stato ucciso e altri 90 feriti lunedì sera, quando le forze israeliane hanno sparato proiettili veri contro le proteste nel nord della Striscia di Gaza assediata.

Centinaia di manifestanti palestinesi hanno raggiunto la barriera di confine navale a nord di Gaza vicino alla spiaggia di Zikim per partecipare ad una protesta con le barche partita dal porto di Gaza nel tentativo di rompere l’assedio che dura da quasi 12 anni.

Si sono visti manifestanti sventolare bandiere palestinesi e gettare in mare decine di copertoni incendiati come parte della protesta, mentre le forze israeliane hanno ripetutamente sparato proiettili veri e candelotti lacrimogeni verso i manifestanti e le barche.

Il ministero palestinese della Sanità di Gaza ha confermato che un palestinese, identificato come Muhammad Fayiz Abu al-Sadeq, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane.

Il ministero ha confermato che altri 90 palestinesi sono stati feriti; le condizioni di salute dei manifestanti feriti restano ignote.

Altre fonti aggiungono che un fotoreporter, Muntaser al-Sawwaf, dell’agenzia turca di notizie Anadolu, è stato ferito da un candelotto lacrimogeno israeliano mentre riprendeva le proteste; anche la sua videocamera è stata danneggiata da un proiettile vero.

Come parte dell’assedio israeliano dell’enclave costiera dal 2007, l’esercito israeliano, adducendo preoccupazioni per la sicurezza, impone che i pescatori palestinesi della Striscia di Gaza operino entro una limitata “zona di pesca prestabilita”, i cui esatti limiti vengono decisi dalle autorità israeliane e sono stati modificati nel corso del tempo.

Negli anni sono stati fatti molti tentativi di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul perdurante assedio della Striscia di Gaza e di violarlo, con imbarcazioni che cercavano sia di far rotta verso Gaza che di uscire da Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)