Deputati israeliani firmano una petizione per insediare 2 milioni di ebrei in Cisgiordania

Ma’an News – 9 febbraio 2019

Betlemme (Ma’an) – Decine tra ministri israeliani e importanti esponenti del Likud e di altri partiti di destra hanno firmato una petizione a favore dell’insediamento di due milioni di ebrei nella Cisgiordania occupata.

Il presidente della Knesset [parlamento] israeliano Yuli Edelstein e i ministri Gilad Erdan, Miri Regev, Yisrael Katz del Likud, Ayelet Shaked e Naftali Bennett del partito “Nuova Destra” sono tra i firmatari di una petizione per abbandonare la soluzione dei due Stati e fondare nuovi insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata.

La petizione che hanno firmato è stata promossa dal movimento “Nahala”, un gruppo di coloni israeliani, per promuovere un progetto di colonizzazione israeliano proposto sotto il governo del defunto primo ministro Yitzhak Shamir all’inizio degli anni ’90.

Il principale obiettivo della petizione è di insediare 2 milioni di ebrei in Cisgiordania.

Recentemente gli attivisti di “Nahala” hanno protestato fuori dalla residenza del primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme, chiedendo che il prossimo governo lavori per la colonizzazione di tutta la Cisgiordania e che venga abbandonata l’idea di una soluzione a due Stati.

Tra i membri del Likud che hanno firmato ci sono Il presidente della Knesset israeliana Yuli Edelstein, il ministro dei Trasporti Yisrael Katz, il ministro del Turismo Yariv Levin, Il ministro della Protezione Ambientale e delle Questioni di Gerusalemme Zeev Elkin, il ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan, la ministra della Cultura Miri Regev, il ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi, il ministro delle Comunicazioni Ayoub Kara, il ministro dell’Immigrazione e dell’Integrazinoe Yoav Gallant, la ministra dell’Uguaglianza Sociale Gila Gamliel e il ministro della Scienza e della Tecnologia Ofir Akunis. Anche la ministra della Giustizia Ayelet Shaked e il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, entrambi del partito “Nuova Destra”, hanno firmato la petizione.

La dichiarazione del movimento “Nahala” afferma: “Con la presente mi impegno ad essere leale nei confronti della terra di Israele, a non cedere un centimetro di quanto abbiamo ereditato dai nostri antenati. Con la presente mi impegno a realizzare il progetto di insediamento di due milioni di ebrei in Giudea e Samaria [la Cisgiordania, ndtr.] in base al piano del primo ministro Yitzhak Shamir, così come a incoraggiare e guidare la redenzione di tutte le terre in Giudea e Samaria. Mi impegno ad agire per cancellare la dichiarazione dei due Stati per due popoli e a sostituirla con la solenne dichiarazione: la terra di Israele: un Paese per un popolo.”

In un comunicato il movimento “Nahala” ha affermato che la petizione è una “verifica ideologica e di fedeltà etica.”

Tra 500.000 e 600.000 israeliani vivono nelle colonie solo per ebrei a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate in violazione delle leggi internazionali, con recenti annunci di espansione delle colonie che hanno provocato la condanna da parte della comunità internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Antisionismo significa essere contrari al nazionalismo ebraico in Palestina

Rima Najjar

Palestine Chronicle – 6 febbraio 2019

Quanti calunniano gli antisionisti accusandoli ingiustamente di antisemitismo sanno molto bene che l’antisionismo significa essere contrari al nazionalismo ebraico come si è manifestato nel territorio della Palestina storica, ora divisa tra Israele, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, ma di fatto controllata dallo Stato ebraico.

Il sionismo è un prodotto della filosofia ebraica e si basa sulla cultura e sul pensiero ebraici, che hanno le loro radici nell’ebraismo. Lo scopo fondamentale del regime sionista del colonialismo di insediamento di Israele è di rimanere uno Stato ebraico. Accuse esagerate e false di antisemitismo intendono creare un clima di paura in cui le campagne per i legittimi diritti umani dei palestinesi vengono soffocate.

La missione sionista, prima di rivendicazione violenta e poi di conservazione di Israele come Stato ebraico per gli ebrei di tutto il mondo in Palestina, impone che Israele possa esistere solo come Stato dell’apartheid, che non possa assolutamente mai essere veramente democratico.

L’idea del nazionalismo ebraico (riunire tutti gli ebrei del mondo in Palestina e rinominarla “la Terra di Israele”) è la causa diretta della pulizia etnica dei palestinesi e della continua guerra di Israele contro la nostra stessa esistenza come popolo indigeno della Palestina (vedi “Palestine: A Four Thousand Year History” [Palestina: una storia di quattromila anni] di Nur Masalha). Il fatto che io abbia sentito il dovere di rinviare il lettore al libro di Masalha dà la misura del livello di successo dell’hasbara [propaganda, ndtr.] avvelenata di Israele.

Il nazionalismo ebraico si manifesta come colonialismo di insediamento. Un concetto (colonialismo di insediamento, che ora è molto più accettato come paradigma per comprendere la Nakba – ma solo se viene inteso come colonialismo di suprematisti bianchi, non di suprematisti ebrei) non ne esclude un altro che opera in Palestina, cioè sionismo ebraico = nazionalismo ebraico = supremazia ebraica = apartheid.

Il linguaggio antisionista rimane problematico perché è necessariamente chiuso nella cappa dell’ebraismo. Joseph Massad definisce il sionismo come “un movimento colonialista…costituito nell’ideologia e nella prassi da un’epistemologia religiosa-razziale.”

È difficile dire la parola “ebreo” o “ebraico” in relazione con la tragedia palestinese senza essere ferocemente calunniati o senza che le nostre idee vengano “contestate”. Lo stesso linguaggio a sostegno del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele] (BDS), cioè per i diritti umani dei palestinesi, è incredibilmente tabù persino per un’istituzione per i diritti civili!

Il comunicato del “Civil Rights Institute” [Istituto per i Diritti Umani] di Birmingham [negli USA, ndtr.] che ripristina il premio ad Angela Davis è stato salutato da molti come una rivendicazione dell’integrità di Angela Davis in quanto attivista dei diritti umani. A mio parere, tuttavia, ha ulteriormente accusato l’istituto, in quanto il linguaggio del comunicato implicitamente condivide una menzogna sionista – cioè il sostegno alla Palestina = sostegno alla violenza (ovvero al terrorismo).

Per quanti sono consapevoli che la revoca del premio è stata determinata da pressioni da parte della comunità ebraica di Birmingham a causa del sostegno di Davis al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, il linguaggio che segue è vergognoso perché nasconde quel fatto:

I membri del consiglio hanno informato delle discussioni che hanno avuto con vari membri della comunità che hanno espresso la propria opposizione per la concessione del premio alla dott.ssa Davis a causa della sua mancata esplicita opposizione alla violenza.”

Il linguaggio usato elimina totalmente la lotta palestinese dall’equazione. Un discorso che ha a che fare con l’appoggio ai diritti umani dei palestinesi non dovrebbe essere controverso e evitato come la peste dal Civil Rights Institute di Birmingham!

Molti di noi attivisti nella lotta per la giustizia in Palestina siamo ora capaci di criticare il sionismo come movimento di colonialismo di insediamento, ma parecchi non si sentono a proprio agio o capaci di districare le importanti radici del sionismo che si trovano nell’ebraismo.

Dagli inizi del secolo,” scrivono Richard Falk e Virginia Tilley nel rapporto dell’ESCWA [Commissione economica e sociale dell’ONU per l’Asia occidentale, ndtr.] sull’apartheid israeliana contro il popolo palestinese, “la storia del movimento sionista si è centrata sulla creazione e la conservazione di uno Stato ebraico in Palestina…Per rimanere uno ‘Stato ebraico’ sono necessarie una indiscussa dominazione nazionalista ebraica sul popolo nativo palestinese – un vantaggio garantito nella democrazia israeliana dalle dimensioni della popolazione – e leggi dello Stato, istituzioni nazionali, pratiche di sviluppo e politiche per la sicurezza tutte centrate su questo obiettivo. A seconda di dove vivono vengono applicati alle popolazioni palestinesi diversi metodi, che richiedono modifiche nella loro amministrazione…La Knesset scoraggia i partiti politici dall’adottare un programma che contenga una qualunque sfida all’identità di Israele come Stato ebraico.”

L’insistenza in malafede che ogni tanto si sente, secondo cui la parola “ebraico” nel brano succitato non si riferisce in nessun modo alla fede e che riguarda solo gli ebrei non religiosi, assimilati, atei, socialisti che hanno fondato il movimento sionista, è un grande ostacolo sul cammino di chiunque sia interessato a smantellare Israele come Stato ebraico – cioè per la realizzazione di uno Stato veramente democratico e secolare nella Palestina storica.

Oggi in tutto il mondo sinagoghe e rabbini sono quelli che indottrinano le proprie comunità ad adorare Israele e un’identità tribale, si potrebbe dire medievale. E alla loro testa c’è il rabbino capo di Israele. Quelli che non lo fanno sono ai margini.

Alcuni, ebrei e non ebrei, soprattutto cristiani cresciuti, come Alice Walker, nella tradizione cristiana che “venera una Bibbia che contiene i Salmi e passaggi profetici su ‘Sion’” e che credono che le persone siano condizionate molto più dalla propria religione, una parte della loro cultura, che da qualunque altra cosa, sono spinti a “tornare indietro” per comprendere il male che noi esseri umani commettiamo – certamente un’introspezione personale, come un dovere:

Dobbiamo andare indietro

Come persone adulte, ora,

Non come gli ingenui bambini che siamo stati una volta,

e studiare la nostra programmazione,

dall’inizio.

Ogni cosa: i cristiani, gli ebrei,

i musulmani; persino i buddisti. Ogni cosa, senza eccezione,

dalle radici.

[dalla poesia del 2017 di Alice Walker “It Is Our (Frightful) Duty” [E’ il nostro (terribile) dovere]

È anticristiano tornare alla Bibbia e interpretare i versetti che ispirano i cristiani evangelici a commettere il male e a provocare indicibili sofferenze al popolo palestinese in “Terra Santa”? È antiebraico (non voglio dire antisemita perché non sono sicura di capire più cosa esso significhi) analizzare quello che nel Talmud possa ispirare i rabbini capo di Israele nel loro razzismo e nella loro crudeltà, nell’avvallare la pulizia etnica e il genocidio?

Come ha commentato Virginia Tilley in una discussione pubblica su Facebook:

Sfortunatamente l’idea che gli ebrei abbiano un diritto esclusivo letteralmente concesso da dio di proteggere se stessi e la ‘loro’ terra dai non ebrei a qualunque costo è una forte tendenza all’interno dell’ideologia nazionalista israeliana (penso che alcuni rabbini dell’esercito abbiano recentemente ribadito questo punto). Gli afrikaner, che avevano anch’essi un’ideologia del ‘popolo eletto’, in Sud Africa la pensavano allo stesso modo riguardo agli ‘altri’. Un interessante libro che confronta varie dottrine sul popolo eletto è ‘Chosen Peoples: Sacred Sources of National Identity’ [Popoli eletti: fonti sacre dell’identità nazionale] di Anthony Smith.”

Un sondaggio del 2016 ha rivelato che circa metà degli ebrei israeliani crede nella pulizia etnica: il presidente israeliano Reuven Rivlin ha definito i risultati “un campanello d’allarme per la società israeliana” – intendendo la società ebreo-israeliana.

Il mondo deve riconoscere e fare i conti con il fatto che i palestinesi sono oppressi da oppressori che sono ebrei, che ci hanno colonizzati in quanto ebrei. Dobbiamo sfidare l’eccezionalismo ebraico e il privilegio ebraico nel movimento.

Criticare lo Stato ebraico, uno Stato basato su un’epistemologia religiosa-razziale e chiedere la sua fine in quanto tale non equivale alla distruzione dell’ebraismo, equivale alla distruzione dell’apartheid e della supremazia ebraica come si manifesta nello Stato ebraico di Israele.

Dato che un’ideologia del ‘popolo eletto’ è fermamente inserita nel nazionalismo ebraico pensato oggi e che tale indottrinamento influisce negativamente su come gli ebrei di Israele ed altri sionisti vedono gli “altri”, soprattutto i palestinesi che pensano abbiano preso “la loro terra” e non il contrario, Israele ha bisogno di più campagne di educazione simili a quelle messe in atto da “Zochrot” [associazione israeliana che sistema cartelli con i nomi arabi dove sorgevano villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, ndtr.] e da “De-Colonizzatore” (ricerca e laboratorio artistico per il cambiamento sociale) per contribuire a smantellare la tossica identità ebraica che il sionismo ha diffuso in lungo e in largo e farci andare tutti verso uno Stato secolare e democratico in tutta la Palestina dal fiume [Giordano, ndtr.] al mare [Mediterraneo, ndtr.].

Rima Najjar è un’ex docente (ora in pensione) all’università Al-Quds, in Palestina. Viene da Lifta, Gerusalemme e Ijzim, Haifa, e attualmente vive negli Stati Uniti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ideologia della “Nakba 2.0” di Benny Morris

Hossam Shaker

2 febbraio 2019 Middle East Monitor

Benny Morris sa benissimo cosa significhi il termine “Nakba”. Tuttavia non pare avere alcun problema a ripeterla, considerandola più adeguata per il XXI^ secolo e, di fatto, un obbligo. Come si può dedurre dalle sue parole, questa dovrebbe essere la “Nakba 2.0” – che sarà una versione più intelligente e più decisiva della prima, avvenuta in Palestina durante la guerra del 1948.

Morris, uno dei più illustri storici israeliani, è famoso per aver riesaminato documenti d’archivio sull’espulsione forzata dei palestinesi. Tuttavia ha smesso di utilizzare il termine “pulizia etnica” per riferirsi alla Nakba, che ha trasformato in profughi la maggior parte dei palestinesi. Il suo lavoro – insieme a quello di altri pensatori noti come “Nuovi Storici”- ha contribuito a smentire la propaganda israeliana, che ha messo in circolazione affermazioni relative ai rifugiati palestinesi e all’espulsione di massa del popolo palestinese.

Tuttavia Morris non ha espresso posizioni di principio. Ha invece rifiutato quello che è successo solo da un punto di vista specifico, che ha deciso di rivelare in seguito, quando ha sostenuto che la pulizia etnica non era terminata. In ciò differisce dall’ altro suo collega che ha mostrato una posizione di principio e un impegno morale, come Ilan Pappé, autore di “Ethnic Cleansing of Palestine” (2006) [“La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008, ndtr.]

Benny Morris ha fatto un’apparizione pubblica nel XXI^ secolo con una palese tendenza di estrema destra. Oggi parla come se fosse una guida ideologica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Questa tendenziosità politica ha un enorme significato. Attualmente Morris sta facendo uso della sua competenza e reputazione come illustre storico per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi attraverso la sottovalutazione del processo o considerandolo come una necessità per l’esistenza dello Stato di Israele. Morris ritiene che l’espulsione forzata o la pulizia etnica non siano così negative come il mondo e i sostenitori di diritti umani, valori, principi e trattati pensano che sia. Secondo lui, l’unica alternativa a questa scelta è il genocidio.

Morris esprime crescente preoccupazione esistenziale riguardo al “destino di Israele”. Tuttavia la preoccupazione in questo caso pare essere semplicemente una scusa astuta per giustificare il comportamento definitivo che le élite dominanti desiderano adottare riguardo al popolo palestinese, senza prendere in considerazione considerazioni etiche. Quando si tratta della questione “essere o non essere”, ignorare i valori e negare gli obblighi diventa per tali persone una scelta ragionevole.

La giustificazione di Morris è la migliore interpretazione delle dichiarazioni che terrorizzano gli israeliani e che sono state esposte dal settantenne storico a gennaio durante un’intervista con Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.]. In quell’intervista – intitolata “Questo posto è destinato ad affondare e gli ebrei rimarranno una minoranza perseguitata e potrebbero scappare negli USA” – Morris è stato molto pessimista nelle sue previsioni. Ha detto che “questo posto (Israele) sarà un paese mediorientale al collasso con una maggioranza araba e gli ebrei rimarranno come una piccola minoranza all’interno di un grande mare arabo di palestinesi. Una minoranza soggetta all’oppressione o al massacro.”

Morris ha scelto di lanciare il suo avvertimento contro questo terribile destino in occasione del suo pensionamento dalla vita accademica. Tuttavia è un modo consueto di ravvivare il senso israeliano di pericolo esistenziale, che è una tipica premessa ai discorsi di mobilitazione israeliani che incitano ad azioni risolute e crudeli contro l’origine della minaccia, rappresentata dal popolo palestinese sottoposto ad occupazione e non, per esempio, dalle “armi chimiche di Saddam Hussein (l’ex presidente iracheno)” o dall’ “Olocausto (dell’ex presidente iraniano Mahmoud) Ahmadinejad,” o dalla “bomba iraniana.” Questo discorso quindi corrisponde alla crescente retorica fascista nelle posizioni dei dirigenti israeliani.

Le conclusioni di Morris sembrano ideali da adottare per l’élite dominante estremista israeliana per scatenare una campagna finale contro il popolo palestinese – oltre a tutto quello che finora è stato commesso – con il pretesto che “se noi non uccidiamo loro, loro uccideranno noi.”

Nell’intervista Benny Morris ha disegnato un quadro mostruoso dei palestinesi senza osare descriverli come umani, proprio come ogni politico e militare israeliano. Questo è assolutamente adeguato per giustificare il fatto di ucciderli e incolparli del loro stesso destino. Morris non è solo uno storico, è anche un brillante sostenitore dell’espulsione forzata e della pulizia etnica. Ha chiaramente espresso ciò durante un’intervista con Ari Shavit su Haaretz nel 2004, quando ha detto: “Lo Stato ebraico non avrebbe potuto nascere fino a quando 700.000 palestinesi non vennero cacciati. È stato quindi necessario espellerli.”

L’impressione che si ricava dalle successive posizioni di Morris nel corso degli anni è che il fatto di non aver completato il compito di fare una pulizia etnica contro il popolo palestinese sia stato un grave errore.

Come storico è più probabile che comprenda che la sopravvivenza di popoli indigeni nel loro Paese, senza il loro totale sterminio o la loro espulsione, ha portato alla fine di ogni occupazione coloniale a cui il mondo ha assistito in precedenza. Ciò è dovuto al fatto che cercare di stabilire il controllo assoluto su un altro popolo e sottometterlo al potere di un’occupazione militare non è stata una scelta razionale nel passato. Come potrebbe avere successo ora? Morris lo esprime attraverso chiari indicatori demografici, che descrivono la crescente popolazione palestinese nella Palestina mandataria (27.000 km2, di cui la Cisgiordania costituisce solo un quinto) a un ritmo superiore di quello degli ebrei israeliani, nonostante tutti i tentativi generosamente finanziati e incessanti di fondare colonie illegali.

Il problema demografico di Morris non si limita alla Cisgiordania occupata e alla Striscia di Gaza assediata. Invece sembra essere evidentemente angosciato dai palestinesi a cui è stata concessa a forza la cittadinanza israeliana dopo la Nakba – i cosiddetti “arabo-israeliani” o “palestinesi cittadini di Israele” – e questa sensazione è condivisa da alcuni ministri del governo di Netanyahu. Morris arriva a utilizzare espressioni umilianti che lo rivelano come un razzista. Considera la maggior parte del popolo palestinese con un atteggiamento arrogante, che non contempla la logica dei diritti e della giustizia.

Morris appare come un individuo nel mezzo di una trincea ideologica, che utilizza la propria posizione accademica ed espressioni scientifiche a favore di un progetto di occupazione inconsueto in questo mondo. Ha riconosciuto le proprie inclinazioni politiche di destra e è sembrato persino entusiasta di Netanyahu, solo due mesi prima delle elezioni politiche del 9 aprile.

Quello che deliberatamente Morris non menziona è che il governo di Netanyahu – che include coloni e personaggi noti per il loro fascismo – ha già incluso nel proprio programma l’espulsione forzata di palestinesi da alcune città. Ciò riguarda almeno l’Area C della strategicamente importante Cisgiordania, come Khan Al-Ahmar, un villaggio beduino che si trova ad est di Gerusalemme e che è stato ripetutamente previsto di demolire, solo per fare un esempio. I politici israeliani, compreso il dimissionario ministro della Difesa Avigdor Lieberman, hanno tentato di incitare all’espulsione forzata del popolo beduino. A novembre Netanyahu ha annunciato: “Khan Al-Ahmar sarà evacuato molto presto. Non vi dirò quando, ma preparatevi a questo,” ma il problema è che la messa in pratica dell’espulsione forzata in questa zona strategica non sarà una passeggiata.

I palestinesi di Khan Al-Ahmar restano determinati, nonostante le dure condizioni di vita che vengono loro imposte. Hanno lanciato una lotta civile che ha raggiunto il resto del mondo, che in cambio li ha appoggiati. Continuano ad aggrapparsi al luogo che le autorità occupanti vogliono destinare all’espansione delle colonie e a rafforzare il controllo sulle terre che dovrebbero rimanere libere da palestinesi. Le autorità israeliane agiscono allo stesso modo anche con circa 45 villaggi palestinesi che non sono riconosciuti nella regione del deserto del Negev. Spesso ne distruggono qualcuno per cercare di espellerne gli abitanti, come a Al-Araqeeb e a Umm Al-Hiran. Nel contempo la città settentrionale di Umm Al-Fahm, occupata nel 1948 insieme alla sua popolazione palestinese, è stata sottoposta per decenni a successive minacce di deportazione di massa.

Più in generale, il governo israeliano continua a perseguire la sua politica di lenta e silenziosa deportazione forzata, che si basa sull’espansione delle colonie, sulle restrizioni alla vita dei palestinesi, sulla confisca delle terre, sul controllo delle risorse idriche ed economiche e sull’intensificazione delle restrizioni sulle costruzioni residenziali e sull’urbanizzazione. Israele ha anche provocato problemi per loro con quotidiane campagne di arresti e il gran numero di posti di controllo che separano città e villaggi le une dagli altri, oltre al “muro di separazione” costruito attraverso la Cisgiordania, che le autorità occupanti hanno continuato a costruire nonostante le obiezioni del resto del mondo sulla sua costruzione, comprese l’Assemblea generale delle Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia (CIG).

I dirigenti politici israeliani stanno monitorando l’influenza di queste condizioni sui palestinesi in Cisgiordania, come il parlamentare della Knesset Bezalel Smotrich, che sta seguendo con grande interesse come ogni anno la situazione dell’occupazione obblighi circa 20.000 palestinesi della Cisgiordania ad andarsene. Tuttavia sta anche scommettendo sulle tendenze per risolvere la situazione demografica, parlando del 30% della popolazione della Cisgiordania che desidera emigrare, cioè, è più probabile che venga allontanata con maggiori fattori di spinta.

Questi politici che hanno una posizione compulsiva non sono soddisfatti nel vedere le conseguenze delle politiche di occupazione. Stanno piuttosto spingendo per una situazione finale decisiva senza il popolo palestinese sulla sua terra. Smotrich e i suoi colleghi del partito “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] nel settembre 2017 hanno adottato un “piano decisivo” che, secondo loro, sarebbe “meno costoso” delle guerre di Israele ogni qualche anno. Il piano chiede la cacciata di un gran numero di palestinesi dal loro Paese e l’intensificazione delle colonie in Cisgiordania, come l’intento di “determinare un fermo ed eterno destino” in uno Stato che dovrebbe essere solo ebraico, così come un atteggiamento deciso da parte delle autorità e dell’esercito israeliano nei confronti di tutti quelli che rifiutano l’occupazione.

Questo progetto fascista riceve un appoggio ideologico anche da siti “accademici”, come suggerito dalle affermazioni di Benny Morris, che formula pareri sufficienti a far suonare campane d’allarme in tutto il mondo. Per esempio, egli sottovaluta centinaia di massacri commessi dalle forze sioniste durante la Nakba – come quello di Deir Yassin nei pressi di Gerusalemme – che è particolarmente simbolico nella memoria collettiva del popolo palestinese. Pensa anche che l’espulsione forzata sia un’opzione meno pesante dello sterminio.

Le affermazioni scorrette di Morris non sono slegate da importanti sviluppi. Di fatto Morris parla mentre al potere c’è un presidente USA “scelto da dio per questo ruolo”, come la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha detto alla CBN in gennaio. Questa è una definizione coerente con l’opinione di circoli USA e israeliani, che vedono il presidente Donald Trump come “un inviato dal cielo per Israele”. A differenza dei suoi predecessori, Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele ed ha trasferito là l’ambasciata USA. I suoi collaboratori stanno partecipando ad attività pubbliche di colonizzazione e la sua amministrazione sta cercando di affamare e impoverire i profughi palestinesi e di spingerli ad emigrare riducendo le risorse UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. Sotto il suo governo la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha anche approvato la legge dello Stato Nazione, che esprime le tendenze razziste nelle posizioni dei decisori politici israeliani.

Benny Morris concorda con queste tendenze con il suo tono prevenuto persino con i palestinesi, che rappresentano circa un quarto della popolazione del suo Paese e la cui nazionalità è stata loro imposta a forza e che non hanno posto nell’identità o nella cultura di questo Stato in base alla stessa legge razzista. Lo storico svolge il suo lavoro ideologico in un Paese che rifiuta di definire i propri confini. Alcuni dei suoi dirigenti politici sono impazienti di intraprendere campagne definitive di pulizia etnica, e, chissà, qualcuno a Washington, commentando la “Nakba 2.0”, potrebbe dire “dio lo vuole!”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gruppi LGBTQ invitano al boicottaggio di ‘Eurovision’

Riri Hylton

1 febbraio 2019 The Electronic Intifada

Attivisti per i diritti di gay, lesbiche e transessuali hanno chiesto il boicottaggio del concorso musicale ‘Eurovision’ di quest’anno a Tel Aviv.

Più di 60 gruppi LGBTQ da tutto il mondo si sono uniti ad un nuovo appello per dimostrare solidarietà ai palestinesi.

In una dichiarazione, i gruppi accusano Israele di “usare spudoratamente la competizione ‘Eurovision’ ” per sviare l’attenzione da crimini di guerra.

L’organizzazione “alQaws per la Differenza Sessuale e di Genere nella Società Palestinese” sostiene che Israele sia impegnato in un ‘pinkwashing’ – il cinico uso dei diritti LGBTQ da parte di Stati e imprese per minimizzare le loro attività negative.

Haneen Maikey, direttrice di alQaws, ha detto che “Israele sta usando ‘Eurovision’ come diplomazia della cultura pop” e sta cercando di “sfruttare” i sostenitori LGBTQ della competizione.

Maikey ha affermato che Israele “ostenta sostegno ai diritti dei gay mentre rinchiude migliaia di nativi palestinesi in bantustan.”

La dichiarazione appoggiata dai gruppi LGBTQ sostiene che possono essere riscontrate “assonanze” tra la violenza della polizia e dell’esercito subita dai palestinesi e quella inflitta agli attivisti gay e lesbiche. L’incursione della polizia nel 1969 allo Stonewall Inn di New York e i disordini che ne sono seguiti sono universalmente considerati eventi chiave nella storia del movimento di liberazione LGBTQ.

Progressista?

Nonostante diffonda un’immagine progressista, Israele ha negato uguaglianza di diritti tra coppie eterosessuali ed omosessuali. È anche noto che Israele ha posto sotto sorveglianza i palestinesi LGBTQ ed ha cercato di ricattarli con la minaccia di informare gli amici palestinesi.

L’israeliana Netta Barzilai ha vinto la competizione ‘Eurovision’ 2018 a Lisbona con la canzone pop “Toy” ritenuta a favore dell’emancipazione femminile. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu quella sera ha risposto con una telefonata in diretta alla vincitrice, nel corso della quale ha detto a Barzilai che lei era “la miglior ambasciatrice” del Paese.

Il mattino seguente Netanyahu ha definito la vittoria un “regalo”.

Due giorni dopo la sua vittoria, Barzilai si è esibita in Piazza Rabin, a Tel Aviv.

Qualche ora prima, i soldati israeliani hanno compiuto un massacro durante la Grande Marcia del Ritorno a Gaza. E’ stato il giorno più sanguinoso  dall’attacco a Gaza del 2014 durato 50 giorni.

Barzilai nel 2014 ha fatto parte della marina israeliana e si dice che abbia cantato una canzone per i colleghi che hanno preso parte all’attacco a Gaza [si riferisce all’operazione “Margine protettivo”, ndtr.].

Da allora, è apparsa in molti eventi sponsorizzati da Israele, compreso il Pride di Tel Aviv.

“Tolleranza fittizia”

Gli attivisti LGBTQ stanno cercando di boicottare il Pride di Tel Aviv del 2019, come anche ‘Eurovision’.

“Il Pride di Tel Aviv non è come gli altri cortei pride”, ha dichiarato Maikey. “È un esercizio di ‘pinkwashing’, strettamente connesso al governo israeliano e parte della sua ben collaudata strategia di propaganda del “marchio Israele” per trasformare i turisti gay in comparse per il fittizio spettacolo di tolleranza che ha messo in scena.”

La scorsa estate Barzilai ha rilasciato un’intervista alla Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] in cui ha detto: “Israele è fantastico”, ma “abbiamo pessime pubbliche relazioni nel mondo.”

Nel tentativo di promuovere il sostegno a ‘Eurovision’, a novembre Barzilai ha intrapreso un tour. Si è trovata di fronte a proteste e scarsa affluenza.

La sua prima tappa è stata Vienna, dove si è esibita davanti a un pubblico di sole 100 persone, mentre lo spettacolo programmato a Zurigo è stato cancellato a causa della mancanza di interesse riscontrata.

Analogamente, a Berlino si è recato a vederla solo uno scarso numero di persone, in un locale che può ospitare 500 persone.

A Londra si è svolta una manifestazione di protesta particolarmente numerosa, quando Barzilai ha cantato nel gay club Heaven.

All’avvicinarsi di ‘Eurovision’, che si svolgerà a maggio, i sostenitori dei diritti umani hanno intensificato la loro attività. Il mese scorso a Parigi manifestanti hanno invaso il palcoscenico durante un evento indetto per stilare una lista ridotta di candidati a rappresentare la Francia a ‘Eurovision’.

Barzilai stava per presentarsi al pubblico quando è iniziata la protesta.

La campagna di boicottaggio di ‘Eurovision’ di quest’anno ha avuto molto seguito in Irlanda – che ha vinto la competizione ben sette volte.

La sezione radiofonica di Dublino dell’Unione Nazionale Giornalisti ha recentemente messo in discussione ‘Eurovision’. Ha offerto appoggio ai giornalisti che hanno dichiarato obiezione di coscienza per non seguire la competizione.

Questa decisione fa seguito all’impegno preso dalla direzione di RTE, l’emittente irlandese, che nessun membro dello staff subirà punizioni se si rifiuta di andare a Tel Aviv.

E questa settimana 50 artisti britannici hanno chiesto alla BBC di non trasmettere ‘Eurovision’ 2019.

Una lettera pubblicata su The Guardian afferma che “ ‘Eurovision’ può anche essere uno spettacolo leggero, ma non è esente da considerazioni sui diritti umani – e noi non possiamo ignorare la sistematica violazione da parte di Israele dei diritti umani dei palestinesi.”

Tra coloro che hanno firmato la lettera compaiono i musicisti Peter Gabriel e Roger Waters, il regista Ken Loach e la stilista Vivienne Westwood.

“La rapida diffusione spontanea e vivace dell’appoggio all’appello palestinese di boicottare ‘Eurovision’ in Israele ci dà speranza”, ha detto Haneen Maikey di alQaws. “Il ‘marchio’ di Israele è appannato e il suo vero volto di regime coloniale di apartheid si sta sempre più rivelando al mondo.”

Riri Hylton è giornalista e editor freelance che lavora sia nella carta stampata che nel giornalismo radiofonico. Vive tra Londra e Berlino.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Falsi account del partito laburista alimentano la “crisi dell’antisemitismo”

Asa Winstanley

17 gennaio 2019, The Electronic Intifada

Fin dall’inizio le notizie sulla “crisi dell’antisemitismo” nel partito laburista britannico sono state caratterizzate da disonestà, esagerazioni e invenzioni totali.

Il vero bersaglio di questa crisi artificiosa non sono i veri antisemiti, ma Jeremy Corbyn e in generale il movimento di solidarietà con i palestinesi.

Ma ora è emersa una nuova prova della preoccupante tendenza che ha alimentato la polemica fin dalla prima vittoria di Corbyn per la leadership nel settembre 2015.

Un’inchiesta di The Electronic Intifada ha documentato 10 profili twitter falsi che, spacciandosi come sostenitori di Corbyn, hanno postato messaggi violentemente antisemiti.

Gli account presentano somiglianze sufficienti a indicare che li stia gestendo la stessa persona lo stesso gruppo di persone.

Senza il coinvolgimento della polizia o un procedimento giudiziario è impossibile sapere con sicurezza chi ci sia dietro questa rete di finti profili.

Ma comunque sia, stanno chiaramente cercando di calunniare il partito laburista come antisemita.

Responsabili?

Si è ormai appurato che Israele ha condotto tentativi sia segreti che alla luce del sole contro Jeremy Corbyn da quando è diventato capo del partito.

Gruppi anti palestinesi che lavorano in coordinamento con Israele stanno conducendo campagne sotto copertura nei social media.

Un recente esempio è stato rivelato nell’inchiesta di Al Jazeera “The Lobby – Usa” che no è stata mandata in onda.

Come ha mostrato il documentario, “The Israel Project” [Progetto Israele, ndtr.] sta portando avanti una campagna per inserire narrazioni a favore di Israele in pagine facebook popolari e per altri versi innocue.

Ci sono anche cose che facciamo totalmente lontano dai riflettori,” ha detto il direttore esecutivo del gruppo al reporter di Al Jazeera in incognito.

Lo scorso mese un’altra operazione segreta – questa volta condotta dallo Stato britannico – è venuta alla luce dopo che alcuni documenti sono stati rivelati .

La cosiddetta “Integrity Initiative” [Iniziativa Integrità, ndtr.] è stata lanciata nel 2015 ed è diretta da ufficiali dell’intelligence militare britannica.

I suoi documenti suggeriscono che sia coinvolta in quelle che vengono chiamate “tecniche di guerra di informazioni.”

Dopo che le notizie sono filtrate, il governo britannico ha riconosciuto che l’iniziativa è stata finanziata – al momento con 3 milioni di dollari – sia dal ministero degli Esteri che da quello della Difesa.

Tra i bersagli del gruppo segreto c’era il capo del partito laburista Jeremy Corbyn.

Inganno

La rete di account twitter indagata da The Electronic Intifada usa una serie di falsi nomi e foto del profilo.

Anche la lista dei loro follower include molti account che sembrano dubbi, fortemente sospetti di essere falsi follower comprati.

Tutti e dieci gli account sono impegnati in un progetto di inganno, presentandosi come attivisti del partito laburista mentre sono coinvolti nell’antisemitismo.

Molti hanno anche postato violente istigazioni e minacce di morte, spesso contro ebrei.

Tutti e dieci hanno postato i loro contenuti più violenti e antisemiti come risposta ad altri tweet. Ciò significa che è per lo più improbabile che un rapido sguardo alle pagine dei profili riveli qualcosa di evidentemente dubbio.

La maggior parte dei tweet in evidenza é effettivamente del partito laburista o altro materiale politico. Due degli account hanno anche postato vero materiale sulla Palestina.

Una parte del materiale di solidarietà con la Palestina autentico è stato postato o ritwittato da due degli account. Poiché sono stati postati come risposte, i tweet antisemiti potrebbero normalmente essere visti solo da quanti sono in essi citati – o da avversari che stanno attivamente cercando queste risposte per trovare prove dell’“antisemitismo del partito laburista”.

I destinatari della rete di troll [utente di una comunità virtuale, solitamente anonimo, che invia di proposito messaggi provocatori, irritanti o fuori tema, ndtr.] sono stati spesso account di israeliani, filo-israeliani o laburisti importanti. Hanno incluso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, la deputata della destra laburista Yvette Cooper e lo stesso Jeremy Corbyn.

Finti laburisti

Tutti e dieci gli account si presentano come di sostenitori, attivisti o persino membri dello staff del partito laburista.

Ricerche fatte con il programma di ricerca per immagini di Google confermano che sette delle dieci immagini dei profili sono foto rubate – le altre tre sono probabilmente schermate sottratte da video.

Sei dei dieci profili si presentano come apparentemente musulmani – sono questi profili che hanno postato le frasi antisemite più inquietanti, compresi appelli diretti alla violenza contro gli ebrei.

Questi account hanno nomi arabi, come “Abu Hussein” e “Abu Omar”, e utilizzano foto rubate, alcune di veri o presunti islamisti o estremisti islamici.

Una di queste foto è di Muhammad Qutb, il defunto fratello dell’influente ideologo della Fratellanza Musulmana Sayyid Qutb.

Una prova ancora esistente su twitter mostra che la rete di troll risale almeno al novembre 2015.

La rete

I dieci finti account laburisti che postano discorsi antisemiti analizzati da “the Electronic Intifada” sono:

Tre su dieci sono stati smascherati nel 2017 e nel 2018 dal sito di notizie laburista The Skwawkbox. I tweet della rete di troll sembra intendesse provocare una reazione indignata nei confronti dell’”antisemitismo laburista”, alimentando quindi la crisi.

C’è stata una serie di casi di tali reazioni indignate da parte di parlamentari della destra laburista e in un caso persino di un portavoce del governo israeliano.

Un esempio di come la rete di troll abbia contribuito a guidare la crisi si è avuto l’ultimo giorno della conferenza annuale del partito laburista nel 2016. All’epoca c’era stato un clamore mediatico riguardo al presunto antisemitismo del partito laburista.

Ciò diede come risultato la sospensione dal partito laburista dell’attivista ebrea di colore antisionista Jackie Walker, dopo che si era detta in disaccordo con la definizione di antisemitismo riguardante Israele durante una sessione di formazione che doveva rimanere riservata.

In questa atmosfera febbrile, l’account @dgrintz1ha twittato a Tal Ofer – membro anglo-israeliano del Movimento degli Ebrei Laburisti, filoisraeliano, un gruppo che fin da subito ha sostenuto la narrazione dell’“antisemitismo laburista” – “l’unico sionista buono è quello morto.”

Questo tweet di risposta è stato in seguito ritwittato da Jeremy Newmark – allora presidente del JLM, benché in seguito sia stato obbligato a dare le dimissioni con disonore.

Il JLM ha rapporti strettissimi con l’ambasciata israeliana.

Violento antisemitismo

Un altro esempio tipico ha avuto luogo nel marzo 2018, durante un ulteriore delirio mediatico sulla presunta crisi.

Un nuovo profilo, “Abu Hussein,” ha iniziato a ritwittare Corbyn, il suo importante alleato nel partito laburista John McDonnell ed altri noti account laburisti.

Ma uno sguardo più attento sul profilo @AbuHusseinLab ha rivelato un quadro inquietante.

In una risposta che prendeva di mira gli account ufficiali di Corbyn e McDonnell “Abu Hussein” ha minacciato la “Jihad” contro gli “ebrei”, insieme al disegno di un coltello insanguinato.

Ma l’account aveva rubato la foto del suo profilo da un sito di incontri.

Abu Hussein” è stato segnalato a twitter da chi scrive e da altri utenti per il suo violento razzismo. Ma la rete di troll ha semplicemente aperto altri account – almeno quattro dei suoi presunti account musulmani hanno iniziato a twittare nell’aprile 2018.

Lo stesso mese la crisi sul presunto antisemitismo ha continuato a imperversare nel partito. E l’evidente opposizione di Israele al partito laburista è stata condotta in modo palese, provocando notizie in prima pagina con la sospensione dei rapporti con l’ufficio di Corbyn a causa del suo “odio per le politiche del governo dello Stato di Israele” e del suo presunto antisemitismo.

Nell’ottobre 2018 un nuovo falso account laburista ha iniziato a twittare: @DeanBrownLab.

Dean Brown” ha affermato di essere “un ex membro dello staff del partito laburista” e di far parte di “Momentum” – un gruppo scaturito dalla campagna per l’elezione di Corbyn a leader del partito laburista.

Il 27 ottobre, il giorno del massacro di Pittsburgh negli USA, l’account ha twittato al primo ministro israeliano: “VE LA SIETE CERCATA.”

Da allora il neonazista Robert Bowers è stato imputato della morte quel giorno di 11 fedeli ebrei alla sinagoga “Albero della Vita”. Egli avrebbe detto alla polizia di volere “la morte di tutti gli ebrei.”

L’account è immediatamente scomparso. L’obiettivo di calunniare gli attivisti del partito laburista era stato raggiunto.

Ma, come ha rivelato subito The Skwawkbox, fonti del partito laburista hanno sottolineato che nessun Dean Brown ha mai lavorato per Jeremy Corbyn. Anche “Momentum” ha confermato di non sapere niente dell’iscrizione di un tale Dean Brown.

La foto usata dall’account era di una persona totalmente innocente ed era stata rubata da un articolo sulla stampa locale.

Una montatura

Questa rete di troll dimostra come sia facile per un individuo o un piccolo gruppo di persone trasmettere una falsa immagine sui social media.

Benché non ci siano prove che “Wesley Brown,” “Abu Hussein” o uno qualunque degli altri sia mai esistito – per non parlare del fatto che siano membri del partito laburista – la rete di troll ha ingannato politici di alto profilo.

È stato facile farlo, dato che i falsi profili corrispondono alla narrazione preconcetta secondo cui l’antisemitismo è molto diffuso nel partito laburista, soprattutto nella sinistra favorevole a Corbyn.

Quelli che hanno creato i falsi account hanno anche sfruttato i pregiudizi anti-islamici secondo cui l’antisemitismo è endemico tra i musulmani, compresi gli attivisti all’interno del partito laburista.

Dato che la narrazione predominante nei media è così spesso basata su prove falsificate, si auspicano da tempo un serio riesame e un’estrema prudenza riguardo a future affermazioni.

Asa Winstanley è un giornalista investigativo e un redattore associato di “The Electronic Intifada”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un prigioniero palestinese sotto custodia israeliana muore per l’incuria medica

1 febbraio 2019 Ma’an News

RAMALLAH (Ma’an) – Un prigioniero palestinese di 51 anni della Striscia di Gaza assediata è morto mercoledì a causa di incuria medica, dopo aver scontato 28 anni nelle prigioni israeliane, quattro dei quali in isolamento.

Secondo il Comitato per i Rapporti con i Prigionieri e gli Ex-prigionieri Palestinesi, Fares Baroud, 51 anni, del campo profughi al-Shati, è morto poco dopo essere stato trasferito dalla prigione israeliana di Rimon, nel sud di Israele, in un ospedale israeliano per terapia intensiva in seguito al deteriorarsi della sua salute.

Baroud, che è stato incarcerato nel 1991 e condannato all’ergastolo, oltre ai 35 anni per aver ucciso un colono israeliano, ha sofferto in prigione di ernia, malattie del fegato e asma.

Ha subito un intervento chirurgico l’anno scorso per rimuovere parte di un rene.

A Baroud erano state negate dalle autorità israeliane tutte le visite di famiglia per 18 anni, comprese quelle della madre, Rayya Baroud.

È da notare che Baroud avrebbe dovuto essere rilasciato nel 2013 nello scambio di prigionieri con Israele, ma Israele si ritirò dall’accordo e rifiutò di rilasciare i 30 prigionieri.

Il Comitato ha ritenuto i Servizi Penitenziari israeliani pienamente responsabili della morte a causa di incuria medica e ha segnalato che altri palestinesi con malattie croniche potrebbero morire nel sistema carcerario israeliano.

Il Comitato ha confermato che dall’occupazione nel 1967della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, 60 prigionieri palestinesi sono morti durante la detenzione israeliana a causa di incuria medica.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Un rapporto riservato dell’UE denuncia l’ ‘apartheid’ giuridico in Cisgiordania

El País

Gerusalemme – 1 febbraio 2019

I rappresentanti europei sostengono che Israele sottopone i palestinesi a una “sistematica discriminazione”

L’adolescente Ahed Tamimi, icona della resistenza palestinese, è stata condannata a otto mesi di carcere per aver schiaffeggiato nel 2017 un militare israeliano nella sua casa di Nabi Saleh, a nord di Ramallah, capitale amministrativa della Cisgiordania. Il soldato Elor Azaria è rimasto dietro le sbarre per 14 mesi dopo essere stato condannato da un consiglio di guerra per aver giustiziato un aggressore palestinese a terra gravemente ferito nella città di Hebron (sud della Cisgiordania) nel 2016. Dopo mezzo secolo di occupazione i rappresentanti diplomatici dei 28 Paesi dell’UE constatano la “sistematica discriminazione giuridica” di cui sono vittime i palestinesi in Cisgiordania. In un rapporto riservato rivolto ai responsabili del Servizio Esteri a Bruxelles e al quale “El País” ha avuto accesso, gli ambasciatori a Gerusalemme est e a Ramallah chiedono che Israele riformi la giustizia militare per “garantire un processo e una sentenza equi in base alle leggi internazionali.”

I diplomatici che firmano il documento rappresentano governi che spesso divergono apertamente in merito al conflitto israelo-palestinese, che però concordano nel descrivere il modo di funzionare concreto dell’occupazione israeliana in Cisgiordania come un “regime duale”. Benché non figuri nel testo l’espressione apartheid giuridico, il suo contenuto dà conto di una giustizia segregata. “Il rapporto è una cartografia della situazione dei diritti nella cosiddetta Area C, sotto totale controllo israeliano e che rappresenta il 60% del territorio occupato, con una serie di raccomandazioni rivolte a Bruxelles sostenute da tutti i capi missione,” precisa una fonte europea a Gerusalemme.

Ai palestinesi vengono applicati la legge marziale e i regolamenti stabiliti da un dipartimento del ministero della Difesa, e sono sottoposti ai tribunali militari di “Giudea e Samaria”, denominazione biblica coniata in Israele per definire il territorio della Cisgiordania. Questi organi esecutivi e giudiziari si basano anche su norme ereditate dai precedenti poteri coloniali o amministrativi. Ci sono ancora in vigore leggi ottomane (per esempio per confiscare terre palestinesi apparentemente non coltivate), britanniche (per operare detenzioni amministrative, senza imputazioni e a tempo indefinito, che ora colpiscono circa 440 prigionieri) e persino giordane, quelle dell’amministrazione presente sul territorio fino al 1967, quando Israele occupò i territori palestinesi dopo la guerra dei Sei Giorni. Secondo il rapporto annuale dei tribunali militari israeliani del 2011, l’ultimo disponibile, i palestinesi sottoposti a processo penale sotto l’occupazione hanno una percentuale di condanne del 99,74%.

Documento riservato

Questo documento riservato dell’UE, con data 31 luglio scorso e che deve ancora essere preso in considerazione a Bruxelles, esamima la “la realtà di un’occupazione quasi permanente.” In Cisgiordania più di 2,5 milioni di palestinesi si vedono “privati dei loro diritti civili fondamentali” e devono far fronte a “numerose restrizioni della loro libertà di movimento.” Oltretutto da cinquant’anni l’economia palestinese è soggetta a un “sostanziale sottosviluppo”.

I rappresentanti diplomatici europei concordano nel difendere la soluzione dei due Stati come il percorso migliore verso una pace regionale. Riconoscono anche di comune accordo che lo sforzo della UE per “il processo di creazione di istituzioni statali e di sviluppo di un’economia palestinese sostenibile,” come prevedono gli accordi di Oslo del 1993, è compromesso dalle limitazioni giuridiche descritte nel rapporto, che tra i suoi destinatari ha anche i governi dei 28 Stati membri.

I 400.000 coloni ebrei che si sono stabiliti in Cisgiordania sono sottoposti solo alle leggi israeliane, in base ad uno status personale ed extraterritoriale. I 300.000 palestinesi che risiedono nell’Area C devono rispondere a una legislazione penale molto più rigida. Un colono deve comparire davanti a un giudice civile israeliano entro 24 ore, mentre un palestinese può essere portato davanti a una corte militare fino a 96 ore dopo.

I palestinesi vengono discriminati anche in materia di libertà civili, come quella d’espressione e di riunione, o di diritti urbanistici di edificazione. Le riunioni di più di 10 persone devono avere il permesso del comandante militare, che di rado lo concede. La pena per aver violato il divieto arriva fino a 10 anni di carcere. “Anche la riunificazione familiare, in particolare quando uno dei membri della famiglia ha doppia cittadinanza, palestinese e di un Paese europeo, viene resa difficile dalle autorità israeliane,” sottolinea la fonte europea consultata.

Tra il 2010 e il 2014 è stato concesso solo l’1,5% delle richieste di licenza edilizia presentate dai palestinesi nell’Area C della Cisgiordania. Di conseguenza più di 12.000 costruzioni sono state demolite in quanto accusate di essere illegali dagli amministratori militari dell’occupazione. L’Ue ha finanziato direttamente 126 progetti urbanistici palestinesi nell’Area C, dei quali sono 5 sono stati approvati da Israele.

I palestinesi della Cisgiordania sono soggetti a meccanismi (legali) sui quali non hanno nessun diritto di rappresentanza”, puntualizza il documento riservato europeo, “dato che i militari israeliani sono un’entità esterna che risponde solo a un governo straniero.” Nel giugno dell’anno scorso circa 6.000 palestinesi (di cui 350 erano minorenni, come Ahed Tamini) si trovavano rinchiusi in carceri situate in territorio israeliano come “prigionieri per questioni di sicurezza”, chiamati così perché si tratta di casi di “violenza di origine nazionalista.”

Diplomatici a Gerusalemme e a Ramallah

Il rapporto dei diplomatici dell’UE a Gerusalemme e Ramallah ritiene che Israele violi la legislazione internazionale per il fatto di spostare prigionieri e detenuti fuori dalla Cisgiordania, e nel contempo rende difficile il diritto di visita dei familiari.

Per delitti identici commessi nello stesso territorio esistono due diversi parametri giuridici. Le inchieste della polizia israeliana del “distretto di Giudea e Samaria” portano ad accuse formali contro coloni ebrei sono nell’8% dei casi di attacchi contro palestinesi o danni alle loro proprietà.

Secondo il giornale [israeliano] “Haaretz” il numero di “delitti dovuti al nazionalismo” commessi da abitanti delle colonie contro i palestinesi in Cisgiordania è aumentato di tre volte l’anno scorso, quando si sono registrati 482 incidenti di questo tipo, rispetto al 2017, durante il quale se ne sono contati 140. Nei due anni precedenti si era determinata una riduzione di questi attacchi in seguito alle conseguenze prodotte nel 2015 dalla morte di un bambino di 18 mesi, bruciato vivo, e dei suoi genitori in seguito a un attacco a Duma, località che si trova a nordest di Ramallah. Due giovani coloni sono in attesa di giudizio per questo attentato incendiario.

Il presidente Abbas volta le spalle alla società civile palestinese

Il rapporto dei capi missione europei presso l’Autorità Nazionale Palestinese che si trovano a Gerusalemme e a Ramallah è critico anche nei confronti del governo del presidente Mahmoud Abbas, che riceve dalla UE aiuti finanziari essenziali per la sua sopravvivenza. La politicizzazione del sistema giudiziario, gli arresti arbitrari (anche di giornalisti), gli abusi e le torture nei centri di detenzione e l’uso sproporzionato della forza contro manifestanti pacifici, tra le altre azioni del governo palestinese, ricevono le critiche del rapporto diplomatico dell’Unione. Il rais Abbas non è sottoposto a controllo parlamentare ed emana leggi attraverso decreti su una società civile molto giovane, ma limitata dall’egemonia del dirigente ottuagenario.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ragazza palestinese colpita a morte ad un checkpoint israeliano

Ali Abunimah

30 gennaio 2019, Electronic Intifada

Mercoledì forze israeliane hanno ucciso una ragazza palestinese al checkpoint di al-Zaayim nella Cisgiordania occupata a est di Gerusalemme.

La polizia israeliana ha sostenuto che Samah Zuhair Mubarak ha tentato di accoltellare una guardia di sicurezza del posto di controllo prima di essere colpita mortalmente.

Il ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese ha attribuito a Mubarak l’età di 16 anni, e i mezzi di comunicazione hanno informato che era in terza superiore.

Come in molti casi precedenti in cui un presunto aggressore palestinese è stato ucciso, nessun soldato israeliano è rimasto ferito durante l’incidente.

Un portavoce della polizia israeliana ha twittato una foto del coltello che secondo lui portava Mubarak: la polizia israeliana ha anche rilasciato un montaggio video che mostrerebbe parte dell’incidente.

Il filmato mostra una persona tutta vestita di nero e con uno zainetto che si avvicina al checkpoint. Poi mostra da lontano una lite in cui una persona appare inciampare o fare un balzo in avanti, e poi cadere all’indietro a terra come se le avessero sparato.

Il video è tagliato, per cui non mostra quello che è successo nei secondi precedenti alla discussione e agli spari.

Mostra anche un soldato che mette le manette a Mubarak chiaramente inerme stesa a terra, mentre un altro soldato le punta contro un fucile.

Cure mediche negate

In molti casi di attacchi presunti o reali da parte di palestinesi contro soldati israeliani, le forze di occupazione hanno abitualmente utilizzato forza letale – esecuzioni extragiudiziarie – contro persone che non rappresentavano un pericolo imminente o avevano smesso di rappresentare un pericolo.

Dopo gli spari di mercoledì il “Times of Israel” [giornale on line israeliano che si autodefinisce indipendente, ndtr.] ha affermato: “In alcuni casi fonti ufficiali israeliane hanno detto che palestinesi sembravano aver attuato aggressioni o tentato di farlo per essere uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, come forma di ‘suicidio per mano di un poliziotto’”.

I media locali hanno informato che le forze israeliane hanno impedito ai primi soccorritori di prestare aiuto a Mubarak dopo che era stata colpita.

Nessuna delle immagini rilasciate dalla polizia israeliana o che hanno circolato nelle reti sociali e visionate da “Electronic Intifada” mostra assistenza a Mubarak da parte di personale medico o che siano stati messi in atto tentativi di salvarle la vita.

Generalmente cure mediche a palestinesi colpiti dalle forze di occupazione israeliane vengono negate o attivamente impedite.

Riguardo a simili incidenti del passato, Amnesty International ha affermato che “in base alle leggi internazionali è un dovere fondamentale fornire soccorso sanitario a un ferito, e non farlo – soprattutto se in modo intenzionale – viola il divieto di tortura e di altre punizioni crudeli, inumane e degradanti.”

Famiglia scioccata

Un membro della famiglia ha detto ai media palestinesi che, in seguito all’uccisione di Mubarak, Israele ha arrestato suo padre Zuhair Mubarak dopo averlo convocato per un interrogatorio alla prigione militare di Ofer.

“Noi sapevamo che Samah stava andando a scuola e siamo rimasti sorpresi dalla notizia della sua morte. Non sappiamo nessun altro dettaglio su quello che è avvenuto al posto di controllo,” ha aggiunto il membro della famiglia.

La famiglia di Mubarak è originaria della Striscia di Gaza, ma vive nella città di al-Ram, nella Cisgiordania occupata a nord di Gerusalemme, dove suo padre si è trasferito all’età di 18 anni.

È la terza minorenne palestinese ad essere uccisa dalle forze israeliane dall’inizio del 2019. “Samah aveva una personalità infantile, non aveva opinioni o ideologie estremiste, era di una famiglia religiosa, siamo tutti religiosi, e non avrebbe mai fatto quello che sostiene Israele,” ha detto alla rivista Donia al-Watan [sito palestinese di notizie in rete, ndtr.] lo zio di Samah, Fathi al-Khalidi.

Candelotto lacrimogeno letale

Nel contempo martedì a Gaza il quarantasettenne Samir Ghazi al-Nabbahin è morto in seguito alle ferite ricevute durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno dello scorso venerdì.

Il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che al-Nabbahin era stato colpito al volto da un candelotto lacrimogeno sparato dalle forze di occupazione israeliane.

Il 14 gennaio un altro palestinese di Gaza, il tredicenne Abd al-Raouf Ismail Salha, era morto in seguito alle lesioni riportate quando giorni prima era stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno israeliano. Al-Nabbahin è stato sepolto mercoledì in mezzo a scene di dolore.

Martedì almeno altri cinque palestinesi sono rimasti feriti dal fuoco israeliano mentre partecipavano a una marcia settimanale nel nord di Gaza contro il blocco marittimo israeliano del territorio.

Tamara Nassar ha contribuito alla ricerca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 15- 28 gennaio 2019 ( due settimane)

In Cisgiordania, in tre distinti episodi, tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane

[di seguito il dettaglio]. Il 21 gennaio, al posto di controllo di Huwwara (Nablus), i soldati hanno sparato e ucciso un palestinese che, a quanto riferito, avrebbe tentato di pugnalare un soldato; il suo corpo è ancora trattenuto dalle forze israeliane. Il 25 gennaio, vicino al villaggio di Silwad (Ramallah), un 16enne è stato ucciso con arma da fuoco ed un altro è stato ferito. Secondo fonti israeliane i ragazzi stavano lanciando pietre contro veicoli israeliani quando sono stati colpiti; fonti palestinesi affermano invece che i ragazzi stavano giocando. Lo stesso giorno, a Gerusalemme Est, la polizia israeliana, ha aperto il fuoco e ucciso un palestinese di 37 anni; questi era alla guida di un’auto e, secondo quanto riferito, non aveva rispettato l’ordine di fermarsi, destando il sospetto che l’auto fosse stata rubata. Questi episodi portano a 11 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio di dicembre 2018.

Nel corso di un attacco portato contro il villaggio di Al Mughayyir, vicino a Ramallah, coloni israeliani hanno sparato e ucciso un palestinese, ferendone altri nove [di seguito il dettaglio]. L’episodio si è verificato il 26 gennaio, quando coloni israeliani armati, provenienti dall’insediamento colonico avamposto di Adei Ad, hanno fatto irruzione nel villaggio provocando scontri con i residenti. Un palestinese di 38 anni è stato colpito alla schiena e ucciso, e altri 15 sono rimasti feriti: nove ad opera di coloni e altri sei per mano delle forze israeliane che sono arrivati sul posto e si sono scontrati con i residenti. Secondo i media, i coloni di Adei Ad hanno affermato che in quello stesso giorno palestinesi avevano accoltellato un residente dell’avamposto, tentando di trascinarlo all’interno del villaggio. Le autorità israeliane hanno avviato un’indagine. Negli ultimi anni, Al Mughayyir è stato obiettivo di attacchi sistematici e molestie provenienti dai vicini insediamenti colonici avamposti. Tali insediamenti sono stati realizzati senza autorizzazione ufficiale israeliana e senza permessi di costruzione; tuttavia sono protetti dalle autorità israeliane e provvisti di servizi.

Altri quattro attacchi da parte di coloni israeliani hanno provocato lesioni o danni a proprietà palestinesi. Due degli episodi hanno riguardato la vandalizzazione di 50 ulivi: il 18 gennaio ad Al Mughayyir ed il 19 gennaio nel villaggio di Surif a Hebron. Inoltre, nella Città Vecchia di Hebron ed in una zona agricola nei pressi del villaggio di Jibiya (Ramallah), tre palestinesi, tra cui un ragazzo, sono stati feriti dal lancio di pietre da parte di coloni. Nel corso del 2018, OCHAoPt [Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori occupati] ha registrato 280 attacchi di coloni israeliani che hanno causato ferimenti o morte a palestinesi o danni a loro proprietà (tra cui oltre 8.000 alberi). Ciò significa, rispetto al 2017, un aumento del 77% del numero di episodi.

Complessivamente, nel corso di numerosi scontri avvenuti nelle città e nei villaggi della Cisgiordania, sono stati feriti dalle forze israeliane 115 palestinesi, tra cui 10 minori. Quasi la metà dei ferimenti (52) si sono verificati durante scontri provocati dall’ingresso in Nablus di un folto gruppo di israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe, accompagnati da soldati. Altri 20 palestinesi sono rimasti feriti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Abu Dis (Gerusalemme), nel Campo Profughi di Balata e nel villaggio di Tell (entrambi a Nablus). Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto circa 150 di tali operazioni, 42 delle quali hanno provocato scontri. Nei villaggi Ras Karkar e Al Mughayyir (Ramallah), due delle proteste settimanali contro le attività dei coloni hanno provocato altri dieci feriti. Altre due proteste settimanali, tenute nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est contro l’imminente sfratto di una famiglia palestinese dalla loro casa, si sono concluse senza feriti. Del totale delle lesioni provocate durante il periodo, il 46% è stato causato da aggressioni fisiche ed il 34% da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche; le rimanenti sono state provocate da proiettili di gomma (12%) e da proiettili di arma da fuoco (2%).

Nel corso di scontri avvenuti nella prigione israeliana di Ofer (Ramallah), sono rimasti feriti 150 prigionieri palestinesi e sei membri delle forze israeliane. L’episodio è avvenuto il 21 gennaio, quando le forze israeliane, alla ricerca di telefoni cellulari ed altri oggetti vietati, hanno fatto irruzione nella prigione scontrandosi con i prigionieri. Il numero di feriti palestinesi è stato riportato dalla Associazione dei prigionieri palestinesi e da mezzi di informazione palestinesi, mentre i ferimenti di israeliani sono stati riportati da media israeliani.

Nella Striscia di Gaza, la prosecuzione delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno”, tenute presso la recinzione, ha visto l’uccisione di un palestinese ed il ferimento di altri 703. L’uccisione del palestinese si è verificata il 25 gennaio, a est di Rafah; l’uomo è stato colpito con arma da fuoco. Da fine marzo 2018 sale quindi a 184 il totale di palestinesi uccisi nel corso di proteste. Secondo il Ministero Palestinese della Salute e le Organizzazioni per i Diritti Umani, dei 703 feriti durante il periodo di riferimento 319 sono stati ricoverati; 83 di questi erano stati feriti da armi da fuoco.

Sempre a Gaza, in episodi occorsi nei pressi della recinzione, un membro di un gruppo armato palestinese è stato ucciso, e altri quattro, oltre a un soldato israeliano, sono rimasti feriti. Gli episodi in questione sono avvenuti il 22 gennaio, ad est del Campo Profughi di Al Bureij: [ci sono stati] spari da parte palestinese e attacchi aerei israeliani diretti contro diversi siti militari e posti di osservazione dislocati in aree settentrionali e meridionali [della Striscia di Gaza].

Ancora a Gaza, in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 27 occasioni, non riferibili alle manifestazioni. Un insegnante palestinese ed un membro di un gruppo armato sono rimasti feriti. In quattro occasioni, ad est della città di Gaza e di Rafah, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando 26 palestinesi e incidendo sui mezzi di sostentamento di altri 54. Diciannove strutture sono state demolite a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele: sei a Gerusalemme est e 13 in Area C. La restante struttura era un appartamento nella città di Yatta (area A), che è stato fatto esplodere e distrutto per “motivi punitivi”. L’appartamento era l’abitazione di un palestinese che, nel settembre 2018, pugnalò mortalmente un colono israeliano, venendo a sua volta ferito con arma da fuoco ed arrestato.

Le autorità israeliane hanno sradicato 1.250 ulivi di proprietà palestinese, colpendo i mezzi di sostentamento di sei famiglie; gli ulivi erano stati piantati in un’area dichiarata [da Israele] “Terra di Stato”. L’episodio è avvenuto il 22 gennaio in un’area agricola vicino al villaggio di Beit Ummar (Hebron), nelle vicinanze dell’insediamento colonico di Bat Ayin. Gli alberi sradicati avevano tra i cinque e i nove anni. Un reclamo contro lo sradicamento degli alberi, presentato da due delle famiglie presso un tribunale militare israeliano, era stata precedentemente respinto.

Il 28 gennaio Israele ha annunciato che non rinnoverà il mandato degli osservatori internazionali nella zona H2 della città di Hebron, sotto controllo israeliano. La “Presenza Internazionale Temporanea in Hebron” (TIPH), creata nel 1994, è l’unica agenzia con un esplicito mandato finalizzato alla documentazione di quanto accade nella Zona H2; l’unica autorizzata ad accedere a piedi e con veicoli in qualsiasi parte della Città e in qualsiasi momento. Si teme che la sua partenza genererà un vuoto cui potrebbe conseguire un aumento della violenza di coloni e un deterioramento delle condizioni di vita di una popolazione già vulnerabile.

A quanto riportato da media israeliani, in 11 casi, durante il periodo di riferimento, palestinesi hanno lanciato pietre e bottiglie incendiarie verso veicoli israeliani, provocando danni a quattro auto. Gli episodi si sono verificati sulle strade principali dei governatorati di Gerusalemme, Ramallah, Nablus, Betlemme ed Hebron.

Il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è rimasto chiuso al transito delle persone in uscita [da Gaza]. La chiusura parziale è in atto dal 7 gennaio, in seguito all’allontanamento dal valico del personale dell’Autorità palestinese, conseguente a contrasti con Hamas. Durante il periodo di riferimento, per cinque giorni a settimana il valico è rimasto aperto all’ingresso in Gaza, consentendo l’accesso a 1.485 persone. Da maggio a dicembre 2018, il valico è stato aperto, di regola, cinque giorni alla settimana.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 30 gennaio, ad un posto di controllo ad est di Gerusalemme, una ragazza palestinese di 16 anni è stata colpita e uccisa dalle forze israeliane; secondo quanto riferito aveva tentato di pugnalare un soldato.

Il 29 gennaio, dopo una chiusura in uscita [da Gaza] di tre settimane, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto eccezionalmente per consentire l’uscita di casi urgenti.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I minori palestinesi temono per il loro futuro in quanto Israele intende chiudere scuole

Zena Tahhan

29 gennaio 2019, Middle East Eye

Le strutture educative per i palestinesi a Gerusalemme est sono già tutt’altro che adeguate. Ora potrebbero essere molto peggiori

Campo profughi di Shuafat, Gerusalemme est occupata –Nel trascurato campo profughi di Shuafat, nella Gersualemme est occupata, l’atmosfera è sempre tesa.

Qui i bambini giocano nelle strade piene di spazzatura e acque reflue, mentre giovani adolescenti sono obbligati ad abbandonare la scuola per lavorare in autorimesse e ristoranti per aiutare in casa ad arrivare a fine mese.

Almeno 24.000 persone – la maggioranza delle quali profughi le cui famiglie vennero espulse nel 1948 – vivono in questo angolo di illegalità, rinchiuso tra due posti di controllo e un muro di cemento altro 8 metri che circonda il campo.

Notizie riguardo ai progetti di Israele di chiudere qui le due scuole per rifugiati delle Nazioni Unite hanno solo soffiato sul fuoco.

Le scuole, benché carenti come organizzazione e qualità necessarie, sono gratuite e offrono un piccolo ma significativo barlume di speranza in un contesto difficile.

“Tutte le mie amiche sono nella mia scuola. Amo i miei insegnanti. Passiamo più tempo a scuola che a casa,” dice Zuhoor al-Tawil, una studentessa quattordicenne della scuola femminile di Shuafat, gestita dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA.

“Perché non aspettano che ci diplomiamo e poi la chiudono?” chiede a Middle East Eye.

Con l’ennesimo colpo ai profughi palestinesi e al sistema educativo nella Gerusalemme est occupata, la scorsa settimana i media israeliani hanno informato che Israele chiuderà le scuole dell’ONU che forniscono servizi ai campi profughi palestinesi in tutta la città.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, dall’inizio del prossimo anno scolastico il Consiglio della Sicurezza Nazionale di Israele revocherà i permessi alle scuole gestite dall’UNRWA.

Le scuole dirette dall’agenzia ONU verrebbero sostituite da scuole alle dipendenze del Comune di Gerusalemme, e seguirebbero il curriculum di studi del ministero dell’Educazione di Israele.

In attività dal 1949, l’UNRWA gestisce sei scuole a Gerusalemme, fornendo servizi a circa 3.000 studenti. L’agenzia gestisce anche centri sanitari e associazioni di donne e giovani, e offre anche servizi di assistenza e protezione.

In merito alla questione, l’UNRWA ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma di non essere informata della decisione di chiudere le scuole.

“In nessun momento dal 1967 le autorità israeliane hanno contestato le basi su cui l’agenzia mantiene e gestisce strutture a Gerusalemme est,” afferma la dichiarazione.

Ipotesi B’

Sebbene l’UNRWA sia preoccupata, sta cercando di non parlare di un’“ipotesi B” se Israele decidesse di chiudere le scuole o di limitare l’operatività dell’agenzia, ha detto il portavoce Sami Mshasha a MEE.

“Ci sono 60.000 rifugiati palestinesi a Gerusalemme. Gran parte di loro vive al di sotto del livello di povertà. C’è un altissimo tasso di disoccupazione, la qualità della vita di queste persone si ridurrà drasticamente e ne soffriranno.”

Mohannad Masalameh, direttore esecutivo del Comitato Popolare del campo di Shuafat, afferma che, mentre le scuole dell’ONU stanno affrontando una grave riduzione del personale a causa dei recenti tagli [ai finanziamenti all’UNRWA, ndtr.] da parte del governo USA, le loro strutture rimangono migliori di altre scuole.

L’amministrazione comunale israeliana di Gerusalemme gestisce una serie di scuole nel campo, dove, nonostante ripetuti tentativi da parte del governo israeliano di introdurre il proprio programma, vengono seguiti i programmi dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.

“Tu vai in una scuola municipale e non c’è neppure un’atmosfera da scuola. Le scuole dell’UNRWA sono molto più grandi e migliori. C’è un grande cortile. La maggior parte delle scuole municipali è in edifici affittati,” dice Masalameh a MEE.

“Sebbene non sia stata presa nessuna decisione, se un simile progetto venisse messo in pratica avrà conseguenze molto negative. L’UNRWA ha fornito lavoro a circa 85 dipendenti nelle scuole: perderanno il loro lavoro.” E aggiunge: “Penso che la gente si rifiuterà di mettere i propri figli nelle scuole municipali con un programma di studi israeliano. In quanto palestinesi, alcuni potrebbero rifiutarsi di imparare un programma di un altro Paese che è in conflitto con il proprio patriottismo.”

Strutture fatiscenti

Il fatto che Israele prenda di mira le scuole dell’UNRWA è solo uno dei modi in cui le sue politiche hanno un impatto negativo sull’educazione dei palestinesi a Gerusalemme.

In base alle leggi israeliane e internazionali, Israele ha l’obbligo di fornire un’educazione adeguata a tutti i bambini palestinesi della città.

Tuttavia” Ir Amim”, una Ong israeliana che monitora la vita dei palestinesi in città, informa che sarebbero necessarie più di 2.500 aule per fornire servizi adeguati ai minori palestinesi.

Oltretutto si stima che circa 70 aule dovrebbero essere costruite ogni anno per rispondere all’aumento della popolazione palestinese, ma in media Israele ne costruisce annualmente 37.

“Fino a poco tempo fa il Comune di Gerusalemme e il ministero dell’Educazione attribuivano la crescente mancanza di aule alla carenza di terreni disponibili su cui costruire strutture scolastiche a Gerusalemme est,” affermava un rapporto dell’associazione pubblicato nel 2017.

“Di fatto, la scarsità in questione non è una reale mancanza di terreni, quanto piuttosto una mancanza di aree edificabili destinate a edifici pubblici – un risultato diretto della pianificazione urbanistica discriminatoria a Gerusalemme est.”

Israele conquistò Gerusalemme est, l’annesse e mise i suoi quartieri sotto la giurisdizione israeliana nel 1967, con un’iniziativa che violava le leggi internazionali e che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Da allora ha destinato il 2,6% di tutta la terra a Gerusalemme est per strutture pubbliche. Al contrario, circa l’86% di Gerusalemme est è stato destinato ad uso dello Stato di Israele e dei coloni.

La mancanza di spazi per l’espansione naturale e la ghettizzazione dei quartieri palestinesi a Gerusalemme est hanno gravemente soffocato il settore dell’educazione.

Ziad al-Shamale, presidente dell’Unione dei Comitati dei Genitori a Gerusalemme est, afferma che la mancanza di spazio è il problema maggiore, con il muro israeliano di separazione tra la città e la Cisgiordania occupata che blocca lo sviluppo.

“Gerusalemme è chiusa dal muro, e le scuole sono già sovraffollate. Il governo israeliano non concede nessun permesso o autorizzazione per costruire una scuola – né lo fa l’Autorità Nazionale Palestinese, né il Waqf [ente religioso musulmano che gestisce i luoghi sacri, ndtr.] islamico di Gerusalemme – nessuno,” dice Shamale a MEE.

“Israele non vuole che il nostro settore educativo si sviluppi. Vogliono persone senza educazione, gente che abbandona la scuola,” continua. “Le persone non possono trovare case in cui abitare, per cui come ci si può aspettare che trovino scuole?”

Almeno il 33% degli studenti palestinesi di Gerusalemme abbandona prima di aver completato i 12 anni di scuola. Secondo il rapporto di “Ir Amir”, ogni anno più di 1.000 studenti lasciano le scuole

L’alta percentuale di abbandoni, dice Shamale, è in parte dovuta alla mancanza di strutture adeguate nelle scuole palestinesi di Gerusalemme.

“Ci sono più di 40 o 45 studenti in ogni classe, con un solo insegnante. C’è una grave carenza di campi sportivi, zone per giocare, aule con i computer e persino libri da leggere per i bambini,” dice.

Una guerra contro i programmi palestinesi

Dopo decenni di disinteresse per la scolarità dei palestinesi, nel maggio 2018 il governo israeliano ha deciso di investire 450 milioni di shekel (oltre 100 milioni di €) nell’educazione a Gerusalemme est.

Tuttavia il denaro è prevalentemente destinato a migliorare la tecnologia e le lezioni di ebraico e per convincere le scuole pubbliche municipali a passare ai programmi israeliani.

Zaid al-Qiq è un insegnante in una scuola privata e ricercatore su questioni educative. Dice che il governo israeliano sta già cercando di convincere i genitori palestinesi e i loro figli a studiare nelle scuole municipali con programmi israeliani.

“Il Comune vuole convincerli a prendere il Bagrut (esami di diploma nelle scuole superiori israeliane) o a fare esami psicometrici (esami di ingresso all’educazione superiore) invece degli esami palestinesi,” dice Qiq a MEE.

Per i palestinesi della città fare gli esami di diploma israeliani significa essere in grado di andare alle università israeliane e l’accesso ad un mercato del lavoro più vasto. Fino a poco tempo fa, quelli che volevano studiare all’Università Ebraica di Gerusalemme dovevano sottoporsi a un programma pre-univesritario di due anni con un esame psicometrico.

Nel contempo il principale campus dell’unica università palestinese di Gerusalemme – la “Al Quds” – è tagliato fuori dalla città dal muro di separazione. Chi desidera accedervi deve viaggiare per una distanza doppia e attraversare un checkpoint.

Qiq afferma che sotto l’occupazione israeliana il settore educativo palestinese è tutt’altro che indipendente: “Persino nelle scuole private il Comune interferisce sull’assunzione di alcuni insegnanti e sugli argomenti che insegniamo,” sostiene.

“Oggi stanno facendo una guerra contro i programmi palestinesi e ora vi stiamo assistendo con le scuole dell’UNRWA.”

Shamale, presidente del comitato dei genitori, è d’accordo.

“Temiamo che un domani il settore educativo ricada tutto sotto i programmi israeliani. Impartiranno ai nostri figli la narrazione israeliana. Dopo 10 o 15 anni questa generazione sarà palestinese di nome, ma non per la sua identità,” dice. “Gli studenti palestinesi sono le vittime di questo sistema.”

(traduzione di Amedeo Rossi)