Perché Israele demolisce: Khan Al-Ahmar come rappresentazione di un genocidio più vasto

 Ramzy Baroud

19 settembre 2018, Palestine Chronicle

Come avvoltoi, i soldati israeliani sono calati su Khan Al-Ahmar il 14 settembre, ricreando una scena sinistra con la quale gli abitanti di questo piccolo villaggio palestinese, situato a est di Gerusalemme, sono fin troppo familiari.

La posizione strategica di Khan Al-Ahmar fa sì che la storia che sta alle spalle dell’imminente demolizione israeliana del pacifico villaggio sia unica fra le distruzioni di case e vite palestinesi in tutta Gaza assediata e nella Cisgiordania occupata.

Nel corso degli anni, Khan Al-Ahmar, una volta parte di un vasto e continuo paesaggio palestinese, è risultato sempre più isolato. Decenni di colonizzazione israeliana di Gerusalemme Est e della Cisgiordania hanno lasciato Khan Al-Ahmar intrappolato tra massicci progetti coloniali israeliani in grande espansione: tra gli altri Ma’ale Adumim e Kfar Adumin.

Lo sfortunato villaggio, l’adiacente scuola e i suoi 173 residenti sono l’ultimo ostacolo al progetto ‘E1 Zone’, un piano israeliano che mira a collegare le colonie ebraiche illegali della Gerusalemme Est occupata con Gerusalemme Ovest, tagliando così del tutto fuori Gerusalemme Est dalle adiacenti aree palestinesi in Cisgiordania.

Come il villaggio di Al-Araqib nel Neqab (Negev), demolito da Israele e ricostruito 133 volte dai suoi residenti, gli abitanti di Khan Al-Ahmar stanno affrontando soldati armati e bulldozer militari a petto nudo e con tutta la solidarietà locale e internazionale che possono ottenere.

Tuttavia, nonostante le circostanze particolari e il contesto storico unico di Khan Al-Ahmar, la storia di questo villaggio non è che un capitolo nella lunga narrativa di una tragedia che si è protratta nel corso di settanta anni.

Sarebbe un errore parlare della distruzione di Khan Al-Ahmar o di qualsiasi altro villaggio palestinese al di fuori del più ampio contesto di demolizione che è al cuore della particolare specie di colonialismo di insediamento israeliano.

È vero che altre potenze coloniali usarono la distruzione di case e proprietà e l’esilio di intere comunità come tattica per soggiogare le popolazioni ribelli. Il governo del mandato britannico in Palestina usò la demolizione delle case come tattica di “deterrenza” contro i palestinesi che osarono ribellarsi all’ingiustizia durante gli anni ’20, ’30 e ’40, fino a quando Israele lo rimpiazzò nel 1948.

La strategia israeliana è ben più complicata di una semplice “deterrenza”. Ormai è inciso nella psiche israeliana che la Palestina debba essere distrutta perché Israele possa esistere. Pertanto, Israele sta conducendo una campagna apparentemente infinita per cancellare tutto ciò che c’è di palestinese perché, dal punto di vista israeliano, rappresenta una minaccia esistenziale.

Questo è l’esatto motivo per cui Israele vede la naturale crescita demografica palestinese come una “minaccia esistenziale” per l’ “identità ebraica” di Israele.

La cosa può essere giustificata solo da un grado irrazionale di odio e paura accumulatisi attraverso le generazioni, al punto da rappresentare ora una psicosi collettiva degli israeliani che i palestinesi continuano a pagare a caro prezzo.

La ricorrente distruzione di Gaza è sintomatica di questa psicosi israeliana.

Israele è un “paese che quando spari ai suoi cittadini, risponde con ferocia – e questa è una buona cosa”, è stata la spiegazione ufficiale offerta da Tzipi Livni, il ministro degli Esteri israeliano nel gennaio 2009, per giustificare la guerra del suo paese alla Striscia di Gaza già bloccata. La strategia “feroce” di Israele ha portato alla distruzione di 22.000 case, scuole e altre strutture durante una delle più letali guerre di Israele nella Striscia.

Alcuni anni dopo, nell’estate del 2014, Israele è diventato di nuovo “feroce”, portando a distruzioni e perdita di vite umane ancora maggiori.

La massiccia demolizione israeliana di case palestinesi a Gaza e in ogni altro luogo è iniziata decenni prima di Hamas. Non ha nulla a che fare con i metodi di resistenza che i palestinesi usano nella loro lotta contro Israele. La demolizione israeliana della Palestina, che si tratti di strutture fisiche reali o dell’idea, della storia, della narrativa e persino dei nomi delle strade, è una decisione in tutto e per tutto profondamente israeliana.

Una rapida analisi degli eventi storici dimostra che Israele ha demolito case e comunità palestinesi in diversi contesti politici e storici, in cui la “sicurezza” di Israele non era affatto in gioco.

Circa 600 città, villaggi e luoghi palestinesi sono stati distrutti tra il 1947 e il 1948 e circa 800.000 palestinesi sono stati esiliati per far spazio alla creazione di Israele.

Secondo il Land Research Centre (LRC), Israele aveva già distrutto 5.000 case palestinesi a Gerusalemme quando occupò la città nel 1967, portando all’esilio permanente circa 70.000 persone. Insieme al fatto che quasi 200.000 gerosolimitani furono cacciati durante la Nakba, la Catastrofe del 1948, e alla lenta e continua pulizia etnica, la Città Santa è stata costantemente distrutta fin dalla fondazione di Israele.

In effetti, tra il 2000 e il 2017 oltre 1.700 case palestinesi sono state demolite, spostando circa 10.000 persone. Questa non è una politica di “deterrenza” ma di cancellazione – lo sradicamento della stessa cultura palestinese.

Gaza e Gerusalemme non sono nemmeno esempi unici. Secondo il rapporto dello scorso dicembre del comitato israeliano contro le demolizioni di case (ICAHD), dal 1967 “sono state demolite circa 50.000 case e strutture palestinesi, espellendo centinaia di migliaia di palestinesi e incidendo sui mezzi di sostentamento di migliaia di altri”.

Mettendo insieme la distruzione dei villaggi palestinesi con la creazione di Israele e la demolizione di case palestinesi all’interno dello stesso Israele, l’ICAHD computa il numero totale di case distrutte dal 1948 a oltre 100.000.

Di fatto, come riconosce il gruppo stesso, questa stima è piuttosto prudente. Certo che lo è! Solo a Gaza e negli ultimi dieci anni, in cui abbiamo assistito a tre importanti guerre israeliane, sarebbero state distrutte circa 50.000 case e strutture.

Quindi, perché Israele distrugge implacabilmente, impunemente e senza rimorsi?

Per la stessa ragione per cui ha approvato delle leggi per cambiare i nomi storici delle strade dall’arabo all’ebraico. Per lo stesso motivo, ha recentemente approvato la legge razziale dello stato nazione, glorificando tutto ciò che è ebraico e ignorando e declassando completamente l’esistenza degli indigeni palestinesi, la loro lingua e la loro cultura – che risalgono a millenni.

Israele demolisce, distrugge e riduce in polvere perché, nella mentalità razzista dei governanti israeliani, non ci può essere spazio tra il Mare e il Fiume se non per gli ebrei; i palestinesi – oppressi, colonizzati e disumanizzati – non fanno minimamente parte dei calcoli spietati di Israele.

Non è solo questione di Khan Al-Ahmar. Si tratta della stessa sopravvivenza del popolo palestinese, minacciato da uno stato razzista che è stato autorizzato a “essere feroce” per 70 anni, senza controllo e senza ripercussioni.

– Ramzy Baroud è giornalista, autore e editore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

(trad. di Luciana Galliano)

 

 




Ashrawi condanna “l’uccisione di 6 palestinesi in 24 ore da parte di Israele”

19 settembre 2018, Ma’an News

Ramallah (Ma’an) – Mercoledì l’esponente del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Hanan Ashrawi ha duramente condannato “l’uccisione di 6 palestinesi nelle ultime 24 ore da parte di Israele nell’assediata Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupata, ” accusando le forze israeliane di aver preso di mira deliberatamente i palestinesi.

In un comunicato Ashrawi ha affermato: “La deliberata uccisione di sei palestinesi da parte delle forze israeliane nelle ultime ventiquattr’ore è un’ulteriore escalation nella brutalità e inumanità dell’occupazione israeliana.”

Muhammad Zaghlul Rimawi, 24 anni, del villaggio di Beit Rima nella Cisgiordania occupata, è stato brutalmente aggredito e ripetutamente colpito nella sua casa, provocandone la morte qualche ora dopo.

Muhammad Youssef Elayyan, 26 anni, del campo di rifugiati di Qalandiya, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane perché avrebbe tentato di perpetrare un attacco all’arma bianca a Gerusalemme est occupata.

Ahmad Mahmoud Muhsen Omar, 20 anni, e Muhammad Ahmad Abu Naji, 34 anni, sono stati colpiti ed uccisi dalle forze israeliane nella parte settentrionale della Striscia di Gaza assediata mentre partecipavano ad una protesta pacifica per chiedere la fine dell’assedio israeliano di Gaza durato quasi 12 anni.

Naji Jamil Abu Assi, 18 anni, e Alaa Ziad Abu Assi, 21 anni, sono stati presi di mira e uccisi da un attacco aereo israeliano nel sud di Gaza lunedì notte per essersi avvicinati alla barriera di sicurezza sul confine [con Israele].

Ashrawi ha evidenziato che “incoraggiato dal totale sostegno dell’amministrazione USA, Israele ha intensificato il proprio comportamento criminale e la politica di esecuzioni sommarie prendendo di mira vittime palestinesi innocenti con crudeltà e impunità deliberate.”

“La comunità internazionale è invitata a porre fine al disprezzo israeliano per le vite dei palestinesi e ad abbandonare il doppio standard quando si tratta di perdita di vite umane, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione.” Ashrawi ha chiesto alla Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aiya “di prendere iniziative immediate ed aprire un’inchiesta penale ufficiale su tali diffusi e palesi crimini di guerra e contro l’umanità commessi in tutta la Palestina occupata.”

Ha continuato chiedendo alle Alte Parti contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra e all’ONU “di aprire un’indagine sulle gravissime violazioni, le illegalità e le azioni provocatorie da parte di Israele e chiamarlo a risponderne con misure punitive e sanzioni.”

“Gli assassinii sono ulteriori prove che i palestinesi hanno urgentemente bisogno di protezione dalla campagna criminale di Israele e da un’occupazione militare durata decenni,” ha aggiunto Ashrawi, che ha concluso: “La vera soluzione rimane la fine dell’occupazione e consentire al popolo palestinese di esercitare il suo diritto all’autodeterminazione in uno Stato libero e sovrano sulla sua terra con Gerusalemme come capitale.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Giustificando il furto di terre, Israele afferma di “essere autorizzato ad ignorare le leggi internazionali” ovunque voglia

Jonathan Ofir

18 settembre 2018, Mondoweiss

Recentemente il governo israeliano ha dichiarato di poter “legiferare ovunque nel mondo” di “avere il diritto di violare la sovranità di Paesi stranieri” e di “essere autorizzato ad ignorare le norme del diritto internazionale in ogni settore desideri”. Ciò è stato scritto lo scorso mese in una lettera di risposta ufficiale alla Corte Suprema.

All’apparenza si tratta di affermazioni audaci. E’ veramente così grave? Io direi che è persino peggio. Il contesto di queste affermazioni è una nuova legge dello scorso anno, che legalizza il furto di tutta la terra palestinese.

Numerose organizzazioni palestinesi dei diritti umani hanno impugnato la legge in tribunale. I ricorrenti sono stati “Adalah”, il Legal Center for Arab Minority Rights [Centro Legale per i diritti della minoranza araba di Israele], il Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro per l’Assistenza Legale e i Diritti Umani di Gerusalemme] (JLAC) e l’Al Mezan Center for Human Rights [il Centro Al Mezan per i Diritti Umani] (Gaza) a nome di 17 autorità locali palestinesi in Cisgiordania. Il governo israeliano era rappresentato da un avvocato privato, Harel Arnon, perché il procuratore generale Avichai Mandelblit si è rifiutato di difendere la legge presso la Corte, dato che l’ha ritenuta illegittima in base al diritto internazionale già quando è stata approvata per la prima volta.

La “Legge di Regolamentazione delle Colonie” è stata approvata nel febbraio dello scorso anno per legalizzare in forma retroattiva migliaia di abitazioni e strutture di coloni costruite su terreni privati palestinesi, per scongiurare la possibilità che la Corte Suprema possa un giorno decidere la loro rimozione. Prima che venisse approvata, le leggi israeliane consideravano ancora illegali queste strutture, anche se in base al diritto internazionale assolutamente tutte le colonie sono una flagrante violazione delle leggi internazionali, che siano situate su terreni privati o meno.

Non è stato solo “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] ad averla definita una “legge del furto” – sono stati anche membri di lungo corso del Likud [partito israeliano di destra al governo, ndtr.] come il deputato Benny Begin; l’ex-ministro del Likud Dan Meridor l’ha definita “dannosa e pericolosa”; persino il primo ministro Netanyahu ha avvertito che la sua approvazione potrebbe comportare che funzionari pubblici israeliani finiscano davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aia; l’esplicito rifiuto del procuratore generale Avichai Mandelblit di difendere la legge di fronte alla Corte è stato accolto dall’assicurazione del ministro della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndtr.] che lo Stato avrebbe semplicemente incaricato un avvocato privato (cosa che ha fatto). L’argomento in discussione non era solo il furto in sé, ma l’applicazione di una legge israeliana varata direttamente dalla Knesset (invece che dall’autorità militare d’occupazione), che è stata vista come un precedente che porta all’annessione di fatto [dei territori occupati, ndtr.]. Come ha scritto Dan Meridor nel suo editoriale su “Haaretz” poco prima del voto finale sulla legge:

“La Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] non ha mai approvato una legge che regolasse la proprietà araba in Giudea e Samaria [la denominazione israeliana della Cisgiordania occupata, ndtr.]. La Knesset è stata eletta dagli israeliani ed ha votato leggi per essi. Gli arabi di Giudea e Samaria non votano per la Knesset, e [la Knesset] non ha l’autorità di fare leggi per essi. Sono principi basilari della democrazia e delle leggi israeliane. In linea di principio, rappresentanti eletti stabiliscono le leggi per i propri elettori e per quelli che si trovano entro il perimetro della loro giurisdizione, non per altri. Nessun governo in Israele ha applicato la propria sovranità sulla Cisgiordania – neppure gli ex-primi ministri del Likud Menachem Begin o Yitzhak Shamir. Capirono una cosa ovvia: se vuoi approvare una legge per la Cisgiordania, devi estendere la tua sovranità e consentire agli abitanti di Giudea e Samaria il diritto di diventare cittadini e di votare per le elezioni della Knesset. E il significato di ciò è chiaro.”

Qui dovrei aggiungere una nota critica in merito all’affermazione principale di Meridor – che sia di fatto sbagliata riguardo alla Cisgiordania, in quanto Gerusalemme est in base alle leggi internazionali è una parte della Cisgiordania, e Israele ha applicato la sua sovranità in modo unilaterale su di essa (di fatto dal 1967, e con una legge fondamentale quasi-costituzionale nel 1980, sfidando il diritto internazionale e risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU). Il fatto che Meridor consideri semplicemente Gerusalemme est come parte di Israele, ed ora finisca per ammonire Israele per aver fatto fondamentalmente la stessa cosa (l’annessione de facto) riguardo al resto della Cisgiordania, dimostra solamente che si tratta del caso di un cieco che guida altri ciechi.

Ma ritorniamo alla recente “legge del furto” dello scorso anno: la pressione per legittimare i crimini stessi di Israele è diventata talmente forte che vi si oppongono persino da destra. Il “minaccioso” pericolo menzionato da Meridor, di mettere in atto l’annessione di fatto e di dover forse estendere ai palestinesi il diritto di diventare cittadini [di Israele], è stato superato dall’avidità di terre. La famosa equazione di “il massimo di ebrei, il massimo di territorio, il minimo di palestinesi” [dichiarazione del 2016 del deputato Yair Lapid, leader del partito di centro Yesh Atid, ndtr.] questa volta arriva a significare il fatto che Israele rischi di applicare una legge statale in un’area in cui gli ebrei non sono ancora in generale una maggioranza, con la speranza che ciò aiuterebbe a farla diventare tale. Quindi la legge è stata approvata con 60 voti a 52, e il furto della terra è stato legalizzato dalla Knesset israeliana. Si è stimato che la legge regolarizzerebbe retroattivamente circa 4.000 abitazioni di coloni.

Nel recente caso davanti al tribunale, i ricorrenti che hanno impugnato la legge hanno evidenziato la sua ovvia illegittimità:

“‘Adalah’ e gli altri ricorrenti hanno sostenuto che la Knesset non ha il permesso di approvare e imporre leggi su un territorio occupato dallo Stato di Israele. Quindi la Knesset non può approvare leggi che annettano la Cisgiordania o che violino i diritti degli abitanti palestinesi della Cisgiordania.”

Lo Stato di Israele, in una recente lettera di risposta (in ebraico) al tribunale (presentata il 7 agosto) ha sostenuto in sua difesa che:

(1) “La Knesset non ha limiti che le impediscano di emanare leggi extraterritoriali ovunque nel mondo, compresa l’area (‘Giudea e Samaria’).

Dopo aver fatto questa dichiarazione, il governo israeliano prosegue respingendo l’affermazione dei ricorrenti secondo cui non può legiferare là [in Cisgiordania] e si spinge oltre per suggerire di non essere assolutamente soggetto alle norme del diritto internazionale:

(4) “…Benché la Knesset possa emanare leggi (riguardanti) ogni luogo al mondo, benché abbia il diritto di violare la sovranità di Paesi stranieri attraverso leggi che vengano applicate ad avvenimenti in altri territori (…), benché sia in potere del governo israeliano annettere qualunque territorio (…), benché la Knesset possa ignorare norme del diritto internazionale in qualunque zona voglia (…) nonostante tutto ciò, i ricorrenti desiderano stabilire una ‘norma” in base alla quale proprio in Giudea e Samaria la Knesset abbia la proibizione di legiferare qualunque cosa e che proprio lì, e in nessun’altra parte del mondo, sia sottomessa alle norme del diritto internazionale.”

Gli avvocati di “Adalah” Suhad Bishara e Myssana Morany sono rimasti attoniti:

“La risposta estremista del governo israeliano non ha eguali al mondo. Si presenta come una gravissima violazione delle leggi internazionali e della carta delle Nazioni Unite che obbliga gli Stati membri a evitare di minacciare o utilizzare la forza contro l’integrità territoriale di altri Stati – compresi i territori occupati. La posizione estremista del governo israeliano è, nei fatti, una conferma delle sue intenzioni di procedere all’annessione della Cisgiordania.”

“Adalah” ha postato a questo proposito e fornito alcune citazioni di quanto sopra. Pensereste che tali dichiarazioni da parte del governo israeliano abbiano sconvolto seriamente il palinsesto delle notizie principali, eppure sembra che finora siano state per lo più ignorate.

Molti dei miei contatti hanno risposto a queste notizie senza molto risalto con una certa incredulità – è mai possibile che Israele stia apertamente affermando di essere al di sopra delle leggi internazionali?

In effetti, come ho citato sopra, non è affatto un segreto che Israele stia ora sfidando apertamente il diritto internazionale. Le sue stesse principali autorità giuridiche sono assolutamente consce di ciò. Ma quello che bisogna anche notare è che lo sta facendo da molto tempo, di fatto fin dalla sua fondazione. Come ho ricordato quando è stata approvata la legge di regolarizzazione, la legalizzazione del furto di terra palestinese è stata fin dal primo giorno una politica israeliana. L’avvocato Harel Arnon ha utilizzato questo concetto come un precedente in difesa della recente legge, notando (nel punto 4):

“L’onorevole tribunale non ha mai approvato critiche giuridiche sugli atti legislativi principali della Knesset anche in casi in cui ha contraddetto, secondo le accuse dei ricorrenti, le direttive del diritto internazionale in casi che erano più evidenti (l’applicazione della legislazione israeliana nelle Alture del Golan e a Gerusalemme est)…”

È un argomento estremamente valido. Le annessioni unilaterali del Golan siriano e di Gerusalemme est da parte di Israele sono violazioni dirette delle leggi internazionali, e sono state condannate molto chiaramente da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Se la Corte israeliana le ha approvate, perché ora non dovrebbe approvare questa?

L’avvocato Arnon ha utilizzato una citazione della Corte Suprema per un precedente caso (punto 12), in cui la Corte affermò che “la semplice applicazione di una qualunque norma israeliana su un anonimo luogo fuori dal Paese non rende necessariamente questo luogo indefinito parte di Israele.” Questo riguardava la Cisgiordania, in cui Israele effettivamente applica le leggi israeliane ai coloni, anche in luoghi in cui non ha annesso un territorio.

Vedete, questo è parte della base su cui Arnon sostiene che “Israele può legiferare ovunque nel mondo.” L’essenza di questo è “se lo abbiamo potuto fare prima, perché non lo possiamo fare adesso?”

Questo argomento dovrebbe essere preso molto sul serio. La Corte Suprema israeliana spesso è stata intesa come uno strumento dell’occupazione israeliana. Quindi persino in casi chiarissimi, come il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sulla ‘barriera di sicurezza’ di Israele del 2004, in cui la CIG la ritenne totalmente illegale (perché costruita per lo più in territorio palestinese, non israeliano), la Corte Suprema riuscì comunque a sviarlo e a sostenere che le leggi internazionali non si applicano ad Israele in questo modo. La Corte Suprema ha ripetutamente cercato di evitare e deviare da queste importanti questioni e ha consentito la continua annessione strisciante da parte di Israele. Questo è un problema attuale e costante. Israele si prepara a distruggere il villaggio palestinese di Khan al-Ahmar in Cisgiordania, con l’approvazione e l’autorizzazione della Corte Suprema. B’Tselem:

“Giovedì 24 maggio 2018 tre giudici della Corte Suprema israeliana – Noam Sohlberg, Anat Baron and Yael Willner – hanno sentenziato che lo Stato può demolire le case della comunità di Khan al-Ahmar, trasferire gli abitanti dalle loro case e ricollocarli [altrove]. Questa sentenza elimina l’ultimo ostacolo sulla strada di Israele in materia, togliendo l’impedimento che finora è servito per rinviare il trasferimento della comunità, un crimine di guerra in base alle leggi internazionali.”

“La Corte Suprema israeliana al servizio dell’occupazione: nella loro sentenza i giudici Amit, Meltzer e Baron hanno descritto un mondo immaginario con un sistema di pianificazione uguale per tutti, che prende in considerazione le necessità dei palestinesi, come se qui non ci fosse mai stata un’occupazione. La realtà è diametralmente opposta a questa fantasia: i palestinesi non possono costruire legalmente e sono esclusi dai meccanismi del processo decisionale che determina come saranno le loro vite. I sistemi di pianificazione sono intesi esclusivamente a beneficio dei coloni. Questa sentenza dimostra ancora una volta che gli occupati non possono ottenere giustizia nei tribunali dell’occupante. Se la demolizione di Khan al-Ahmar prosegue, la Suprema Corte di Giustizia sarà tra quanti porteranno la responsabilità di questo crimine di guerra.”

L’avvocato Arnon nella lettera di risposta ha menzionato il caso di Adolf Eichmann:

“La Corte ha inoltre applicato questa dottrina nel famoso caso Eichmann (1962) riguardo alla legge penale retroattiva: ‘(Ove ci sia un conflitto tra le disposizioni della legislazione interna e una disposizione delle leggi internazionali), è dovere della Corte dare la prevalenza e applicare le leggi del sistema giuridico locale.”

È astuto evocare l’Olocausto in Israele. C’è spesso un particolare punto debole di ciò, e può ripercuotersi per far svanire le “pedanti” limitazioni al diritto consuetudinario. Eichmann fu in effetti rapito dal Mossad in Argentina, nel 1960. Venne condannato a morte in Israele ed impiccato nel 1962. Questa è un’attività di spionaggio e un’applicazione di giurisdizione extra-territoriali. Poiché ciò ha riguardato l’Olocausto, pochi oserebbero opporvisi. Ciò coincide con l’affermazione di Golda Meir secondo cui “dopo l’Olocausto agli ebrei è consentito fare qualunque cosa.”

E così l’avvocato privato di Israele Harel Arnon sta fondamentalmente dicendo: se abbiamo potuto fare questo a Eichmann, perché non possiamo farlo anche alla Cisgiordania?

Arnon non sta direttamente insinuando che i palestinesi sono nazisti, anche se questo parallelo occasionalmente figura nelle opinioni di importanti personaggi in Israele, come Yoaz Hendel, ex-direttore della comunicazione e della diplomazia pubblica del primo ministro Netanyahu.

Tutto ciò potrebbe spiegare il relativo silenzio dei media in merito alle esternazioni fatte in questa lettera. Il mondo sa di aver concesso ad Israele di farla franca con tali comportamenti criminali e l’occidente sa che molto di questo ha a che fare con il suo senso di colpa per l’Olocausto. Ciò lo rende debole e ha ridotto la sua volontà di richiamare all’ordine Israele per le sue violazioni. E forse la gente sente che chi non è senza peccato non può lanciare la prima pietra. Ma dobbiamo vedere quello che sta succedendo – Israele sta apertamente legalizzando il furto. Gli sfrontati proclami che sostengono che le leggi internazionali non si applicano ad Israele dovrebbero aver scioccato – ma tristemente, non lo hanno fatto. Perché sappiamo che questa è stata la politica per molto tempo. E dato che la reazione è stata debole, Israele, come un ragazzino viziato, ha imparato che la può passare liscia e che può diventare ancora più odioso senza doverne pagare le conseguenze.

Quindi, ci si chiede, chi fermerà lo Stato ebraico? Dopotutto, il diritto internazionale non ha meccanismi di applicazione automatica come quello nazionale, e gli organismi internazionali che dovrebbero rendere Israele responsabile [della violazione] delle leggi internazionali finora non l’hanno fatto quasi per niente, almeno per quanto riguarda i palestinesi. In un tempo in cui la superpotenza americana sta saldamente dalla parte israeliana in violazione delle leggi internazionali, come nel caso dello spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme e del sostegno all’annessione unilaterale di Gerusalemme est da parte di Israele, è difficile vedere perché Israele vorrebbe o dovrebbe credere che il diritto internazionale si applichi ad esso. Dobbiamo capire il linguaggio di quella lettera alla luce di questo. È così sfrontata perché non c’è neppure un senso della necessità di dipingere anche solo un’apparenza di rispetto verso il diritto internazionale. Israele ora sta procedendo ad una ricca messe di furti in pieno giorno, con la sensazione sciovinista che niente lo fermerà. Ciò è quanto traspare realmente dal linguaggio di quella lettera.

È giusto rimanere a bocca aperta di fronte a ciò. Il linguaggio di quella lettera dovrebbe servire come segnale d’allarme. Ma allora dovremmo anche unirci e ricordarci che tocca alla pressione dal basso cambiare questa situazione e proteggere i palestinesi dall’indisturbata offensiva colonialista militare e legislativa di Israele, messa in atto dalle “vittime eterne”.

Su Jontathan Ofir

Musicista, conduttore e blogger / writer che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un documentario censurato rivela la campagna segreta su Facebook di “The Israel Project ”

Ali Abunimah e Asa Winstanley

13 settembre 2018, The Electronic Intifada

The Israel Project [Progetto Israele], un importante gruppo di sostegno con base a Washington, sta portando avanti una campagna segreta per influenzare [gli utenti di] Facebook.

Ciò viene svelato in “The Lobby – USA”, un documentario in incognito di “Al Jazeera” [televisione araba anche in inglese con sede in Qatar, ndtr.] che non è mai stato mandato in onda a causa della censura da parte del Qatar in seguito a pressioni di organizzazioni filo-israeliane. Il video di cui sopra, esclusivo per “The Electronic Intifada”, mostra i brani più recenti estratti dal documentario.

Le prime immagini filtrate pubblicate da “The Electronic Intifada” e da “Grayzone Project” [sito statunitense di notizie in rete, ndtr.] hanno già rivelato subdole tattiche di gruppi anti-palestinesi pianificate e messe in pratica con la complicità del governo israeliano.

Nei nuovi video si sente David Hazony, il direttore esecutivo di “The Israel Project”, dire al giornalista infiltrato di Al Jazeera: “Ci sono anche cose che facciamo e che sono assolutamente lontano dai riflettori. Lavoriamo insieme a un sacco di altre organizzazioni.”

Produciamo contenuti che poi loro pubblicano a loro nome, “aggiunge Hazony.

Gran parte dell’operazione consiste nella creazione di una rete di “comunità” di Facebook centrate sulla storia, sull’ambiente, su questioni internazionali e femminismo che sembrano non avere alcun collegamento con il sostegno a Israele, ma sono utilizzate da “The Israel Project” per diffondere messaggi a favore di Israele.

Una cosa riservata”

In una conversazione, anch’essa rivelata dagli estratti trapelati del video, Jordan Schachtel, che all’epoca lavorava per “The Israel Project”, racconta al giornalista di Al Jazeera in incognito la logica e l’estensione dell’operazione segreta su Facebook.

Il reporter in incognito, noto come “Tony”, si presentava come tirocinante presso “The Israel Project”. “Stiamo mettendo insieme un sacco di media filo-israeliani attraverso vari canali sociali che non sono di ‘The Israel Project’, afferma Schachtel. “Così abbiamo molti progetti paralleli con cui stiamo cercando di influenzare il dibattito pubblico.”

Per questo è una cosa riservata,” aggiunge Schachtel. “Perché non vogliamo che la gente sappia che questi progetti paralleli sono associati a ‘The Israel Project’”.

Tony chiede se l’idea di “tutto quanto il materiale non [relativo a] Israele ha lo scopo di consentire che il materiale su Israele passi meglio.”

Vogliamo proprio mimetizzarlo in ogni cosa,” spiega Schachtel.

Una di queste pagine Facebook, “Cup of Jane”, [Un po’ di Jane] ha quasi mezzo milione di persone che la seguono.

La pagina di “Chi siamo” di “Cup of Jane” la descrive come relativa a “zucchero, spezie e tutto quello che è buono.” Ma non c’è nessuna informazione sul fatto che sia una pagina gestita con il proposito di promuovere Israele.

La pagina di “Chi siamo” identifica “Cup of Jane” come “una comunità creata dal progetto per i media del futuro di TIP a Washington.”

Non c’è peraltro nessuna menzione diretta ed esplicita di Israele o indicazione che “TIP” sta per “The Israel Project”.

The Electronic Intifada” è al corrente del fatto che persino questa vaga ammissione di chi ci sia dietro la pagina è stata aggiunta solo dopo che “The Israel Project” ha saputo dell’esistenza del documentario segreto di Al Jazeera e presumibilmente ha previsto di essere stato scoperto.

The Israel Project” ha anche aggiunto un’ammissione sul suo sito in rete che gestisce le pagine di Facebook. Tuttavia il suo sito web non è collegato alle sue pagine di Facebook.

Non ci sono prove nell’Archivio Internet che la pagina esistesse prima del maggio 2017 – mesi dopo che la copertura di “Tony” era stata scoperta.

Secondo Schachtel “The Israel Project” sta investendo notevoli risorse nella produzione di “Cup of Jane” e in una rete di pagine simili.

Abbiamo una squadra di circa 13 persone. Stiamo lavorando su molti video,” dice a Tony nel documentario di Al Jazeera. “Molti sono solo su argomenti casuali e poi circa il 25% di questi saranno di provenienza israeliana o ebraica centrati su Israele o sugli ebrei.”

Nel documentario Al Jazeera afferma di “aver contattato tutti quelli coinvolti in questo programma. Nessuna delle organizzazioni o degli individui a favore di Israele che lavorano per loro ha risposto alle nostre accuse.”

Falsi progressisti

Cup of Jane” cerca di dimostrarsi progressista postando foto e citazioni di icone femminili nere come Maya Angelou [poetessa, attrice e ballerina afro-americana, ndtr.] e Ida B. Wells [intellettuale afroamericana morta nel 1931, ndtr.], che la pagina celebra in occasione del suo compleanno come una “pensatrice, scrittrice e attivista rivoluzionaria.”

Ci sono anche post sull’ambientalista all’avanguardia Rachel Carson e su Emma Gonzalez, che insieme ai suoi compagni di classe ha lanciato una campagna nazionale per il controllo delle armi dopo essere sopravvissuta al massacro nella scuola superiore di Parkland, in Florida, nel febbraio 2018.

Intrecciati a un flusso di fesserie in odore di progressismo ci sono attacchi contro veri movimenti progressisti, come la “Chicago’s Dyke March” [annuale sfilata del movimento LGBT, ndtr.], i cui organizzatori hanno affrontato una campagna di calunnie della lobby israeliana dopo aver chiesto a provocatori filo-israeliani di lasciare la loro marcia nel 2017.

E un post dell’ottobre 2016, subito dopo che era stata lanciata la pagina di “Cup of Jane”, ha cercato di dipingere il militarismo di Israele come attraente e a favore dell’emancipazione delle donne.

L’aviazione israeliana ha dipinto di rosa aerei da guerra a sostegno del “Breast Cancer Awareness Month” [Mese per la Sensibilizzazione sul Cancro al Seno]. Non è fantastico?” afferma il post, accompagnato da una foto di un jet da guerra israeliano. “Questo è forte. Le donne, in ogni caso, hanno bisogno di un’aviazione tutta per loro,” aggiunge “Cup of Jane, insieme a una faccina sorridente.

Altre pagine identificate dal documentario censurato di Al Jazeera come gestite da “The Israel Project” includono Soul Mama, History Bites [Bocconi di Storia], We Have Only One Earth [Abbiamo solo una Terra] e This Explains That [Ciò spiega che]. Alcune hanno centinaia di migliaia di follower.

History Bites” non rivela la propria affiliazione a “The Israel Project”, neppure con la vaga formula utilizzata da “Cup of Jane” e dalle altre pagine.

History Bites” si definisce semplicemente come [una pagina] che diffonde “ la bellezza della storia in bocconcini masticabili!”

Questa pagina ha ri-postato i post di “Cup of Jane” che presentano come un’eroina femminista Golda Meir, la donna primo ministro israeliano che ha messo in atto politiche razziste e violente contro i nativi palestinesi e vedeva una minaccia esiziale nelle donne palestinesi che partorivano.

Un video del 2016 su “This Explains That” diffonde false affermazioni israeliane secondo cui l’agenzia dell’ONU per la cultura, l’UNESCO, “ha cancellato” la devozione di ebrei e cristiani per i luoghi sacri di Gerusalemme.

Lo scorso dicembre “History Bites” ha ri-postato il video in cui si afferma che “sembra appoggiare l’odierna dichiarazione del presidente Trump secondo cui Gerusalemme è la capitale dello Stato ebraico di Israele.” Il video ha avuto quasi cinque milioni di visualizzazioni.

Un altro video postato da “History Bites” cerca di giustificare l’attacco a sorpresa israeliano del giugno 1967 contro l’Egitto, che ha dato inizio alla guerra in cui Israele ha occupato la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, la penisola del Sinai egiziana e le Alture del Golan siriane.

Il video descrive l’occupazione militare israeliana di Gerusalemme est come se la città fosse stata “riunificata” e “liberata”.

Il marchio tossico di Israele

Il ricorso di “The Israel Project” a una proverbiale cucchiaiata di zucchero per cercare di far passare più facilmente i messaggi filo-israeliani è un riconoscimento di quanto possa essere difficile far accettare uno Stato di apartheid. Come Alì Abunimah, uno degli autori di questo articolo, afferma nel documentario di Al Jazeera, “Il marchio Israele è sempre più tossico, per cui non puoi vendere direttamente Israele. Devi avere qualcosa di contemporaneo che sia solo molto innocuo, divertente e allora ogni tanto ci puoi infilare qualcosa su Israele.”

I tentativi di “The Israel Project” di cooptare persone con una sensibilità progressista al servizio di Israele, benché le sue politiche siano di estrema destra, rientra in una più complessiva strategia di Israele, che intende dividere la sinistra e indebolire la solidarietà con la Palestina.

Diretto da Josh Block, un ex-funzionario dell’amministrazione Clinton ed ex- principale stratega presso il centro di potere della lobby israeliana “AIPAC” [American Israel Public Affairs Committee, Comitato per le Questioni Pubbliche Americano-Israeliane, ndtr.], uno dei principali obiettivi di “The Israel Project” era sabotare l’accordo internazionale sul nucleare con l’Iran.

La campagna segreta di “The Israel Project” su Facebook è evidentemente manipolatoria, ma è ancora più cinica dato che il suo ideatore è Gary Rosen.

Per anni Rosen ha diretto un account twitter violentemente omofobico e islamofobo chiamato “@ArikSharon” – il nickname dell’ex-primo ministro israeliano Ariel Sharon, che è stato responsabile dell’invasione israeliana del Libano nel 1982 e dei massacri nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila quello stesso anno.

Nelle trascrizioni di una registrazione fatta dal giornalista in incognito di Al Jazeera visionate da “The Electronic Intifada”, Rosen ammette di utilizzare @ArikSharon come un “account segreto”.

Rosen è stato impiegato presso l’agenzia pubblicitaria internazionale “Saatchi & Saatchi, ma nel novembre 2013 si è unito a “The Israel Project”, dove è responsabile della strategia digitale.

Dopo essere stato denunciato nel 2013 da uno degli autori di questo articolo come la persona che gestiva l’account, Rosen ha cancellato dal collegamento twitter @ArikSharon molti dei tweet più aggressivi.

Ma mentre utilizza pagine Facebook sotto copertura nel tentativo di normalizzare l’appoggio a Israele tra il pubblico progressista, Rosen continua ad utilizzare l’account twitter @ArikSharon per diffondere messaggi di destra filoisraeliani.

Annunci pubblicitari anonimi smascherati

Questo non è l’unico tentativo segreto della lobby israeliana per utilizzare Facebook per raggiungere i suoi obiettivi.

Un reportage di “The Forward” [uno dei principali giornali della comunità ebraica USA, ndtr.] e “ProPublica” [rivista d’inchiesta USA, ndtr.] rivela che “Israel on Campus Coalition” [Coalizione per Israele nei campus] ha condotto campagne pubblicitarie anonime su Facebook per calunniare Remi Kanazi, un poeta palestinese- americano, prima delle sue esibizioni in campus USA.

The Electronic Intifada” è stato il primo a informare sulle rivelazioni del documentario di Al Jazeera in merito a come i tentativi della “Israel on Campus Coalition” di calunniare e perseguitare gli attivisti solidali con la Palestina siano in coordinamento segreto con il governo israeliano.

Un portavoce di Facebook ha detto a “The Forward e “ProPublica” che gli annunci di “Israel on Campus Coalition” che prendono di mira Kanazi “violano la nostra politica contro le false dichiarazioni e sono stati rimossi.”

Nel 2012 “The Electronic Intifada” ha denunciato un piano dell’unione nazionale degli studenti di Israele, sostenuto dal governo, per pagare studenti che diffondano propaganda filo-israeliana su Facebook. Tuttavia gli attuali tentativi segreti guidati da “The Israel Project” sembrano essere molto più sofisticati.

Dalle elezioni presidenziali USA del 2016 Facebook è stato accusato di consentire che la sua piattaforma venga utilizzata per la propaganda di manipolazione sponsorizzata dalla Russia intesa ad influenzare la politica e l’opinione pubblica.

Nonostante il calmore propagandistico, queste accuse sono state grossolanamente esagerate o non dimostrate.

Ciononostante, Facebook si è associato con l’”Atlantic Council” [Consiglio Atlantico, ndtr.] in apparenza nel tentativo di reprimere “i falsi account” e la “disinformazione”.

L’”Atlantic Council” è un centro di ricerca di Washington che è stato fondato dalla NATO, dall’esercito USA, dai governi brutalmente repressivi di Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, da governi dell’Unione Europea e dal gotha delle società di investimento, delle compagnie petrolifere, dei produttori di armi e di altri che speculano sulle guerre.

Come apparente risultato di questa collaborazione, un certo numero di account dei media sociali totalmente innocui con pochi o nessun follower sono stati recentemente rimossi.

Più preoccupante è il fatto che pagine gestite da agenzie di informazione di sinistra che si occupavano di Paesi presi di mira dal governo USA, come “Venezuela Analysis” e “teleSUR”, sono state sospese, anche se in seguito sono state ripristinate. Ora, con solide prove della campagna ben finanziata e con vasta influenza di “The Israel Project” su Facebook, rimane da vedere se il gigante delle reti sociali agirà per garantire che utenti inconsapevoli siano informati che quello a cui sono stati esposti è propaganda intenzionata a promuovere e dare un’immagine positiva dello Stato di Israele.

In risposta alla richiesta di fare un commento, un portavoce di Facebook ha detto a “The Electronic Intifada” che l’impresa avrebbe esaminato la questione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Camminare sulla testa, ovvero apologia di una pulizia etnica

Camminare sulla testa, ovvero apologia di una pulizia etnica

 

Donatella di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, € 12,50, 105.

di Amedeo Rossi

Finora in questo sito abbiamo presentato libri utili per l’approfondimento della situazione del conflitto israelo-palestinese e di cui condividiamo i contenuti. Facciamo un’eccezione con questo saggio, di cui non condividiamo i contenuti, perché è centrale nel definire la natura del conflitto interno allo Stato di Israele. L’autrice, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, ultimamente è spesso presente alla radio e in televisione per presentare i propri lavori, tra cui uno a favore dei rifugiati, e per questo è stata minacciata da estremisti di destra. Le è stata assegnata una scorta, in seguito revocata con qualche polemica.

La dovuta solidarietà nei confronti di una persona attaccata in quanto intellettuale ebrea non impedisce di essere molto critici con quanto sostiene in questo libro.

Il titolo è spiazzante: che rapporto ci può essere tra Israele e l’anarchia? Come possono essere associati all’anarchia un progetto politico nazionalista e uno Stato etnico-religioso, un modello per i nuovi nazionalisti di estrema destra, da Trump a Orban, dall’alt-right USA all’AfD tedesca?

L’ossimoro viene chiarito nel corso del ragionamento deduttivo articolato dall’autrice. Il presupposto del suo ragionamento è l’unicità del popolo ebraico, in quanto Nazione dispersa in tanti Paesi diversi, e quindi per sua natura a-territoriale, che ne ha fatto l’”Altro” per antonomasia. Questo riferimento all’esistenza di una Nazione ebraica riprende le posizioni di molti pensatori, sionisti e non, dell’Europa centro-orientale alla fine dell’’800. Si potrebbe eccepire che in altre aree geografiche, dall’Europa occidentale al Nord Africa, questo concetto era per lo più estraneo alle comunità ebraiche locali. Nelle pagine seguenti però si evidenzia una totale identificazione tra ebraismo e progetto sionista.

Da questa peculiarità Di Cesare ricava un’altra caratteristica dell’ebraismo: l’estraneità, se non l’ostilità, al concetto di Stato-Nazione territoriale. Questa unicità assegna quindi ad essi un compito escatologico che riguarda tutta l’umanità: la redenzione dell’umanità dal concetto di autoctonia e dal modello statuale, tanto che “il conflitto tra Israele e Palestina è il conflitto tra una società post nazionale e una società proto-nazionale” (p. 39). I palestinesi sarebbero contro Israele perché contrari alla distruzione dello Stato, non perché si tratta di uno Stato che li vuole distruggere.

L’idea di Stato ebraico, esplicitamente sostenuta dai padri del sionismo politico, sarebbe stata imposta agli ebrei da un mondo di nazionalismi. Perciò l’autrice fa riferimento ad autori del sionismo umanista e dissidente come Levinàs, Landauer e Buber, ad una visione utopica e aperta nei confronti dell’”Altro”. Tuttavia quando tratta dell’”Altro” di Israele come incarnazione storica, ossia dei palestinesi, il discorso dell’autrice non si discosta dalle posizioni del sionismo più retrivo.  Ecco gli esempi più espliciti. Secondo Di Cesare, il nome “filistei”, da cui il termine Palestina, verrebbe dall’ebraico liflosh, cioè “invasori” (p.41). Una rapidissima ricerca su internet in merito dà risultati piuttosto discordanti, tra cui anche la traduzione di liflosh con ‘immigrati’. Ma l’autrice non cita la fonte da cui ricava questa etimologia. Ancora peggio avviene quando il riferimento riguarda la storia contemporanea. I palestinesi odierni non sarebbero discendenti di quegli “invasori”, ma in realtà “in gran parte dell’immigrazione araba, avvenuta intorno al 1930 […] Sono andati costruendo l’identità nazionale nel confronto con Israele, non hanno esitato a rivendicare un’origine attraverso una archeologia che dovrebbe legittimarne il diritto territoriale. In altri termini, si comportano come se fossero radicati, proprietari originari, tutt’uno con la terra. Si appellano all’autoctonia” (ibidem). Si tratta di un’inversione delle parti che caratterizza la narrazione sionista. Non a caso neanche in questo passo Di Cesare cita le fonti di queste affermazioni. Il dato relativo alla recente immigrazione dei palestinesi è privo di qualunque attendibilità storiografica. L’accusa riguardo all’uso strumentale dell’archeologia è facilmente ribaltabile contro Israele, come denunciato persino da archeologi israeliani, ed evidente in associazioni israeliane come Elad e il Temple Istitute. Infine, storici palestinesi e israeliani hanno da tempo smentito l’idea che il nazionalismo palestinese sia stato un riflesso di quello israeliano, ed anzi, come il sionismo, sarebbe nato alla fine dell’’800.

Di Cesare arriva a sostenere che i palestinesi dovrebbero essere grati ai loro nemici: “L’esperienza dell’esilio, che il popolo ebraico ha percorso nei secoli, viene dischiusa al popolo palestinese e viene al contempo rivelata a tutte le nazioni che si sentono perciò minacciate nel loro fondamento. Israele porta il dono dell’estraneità, la testimonianza della separazione, la prova della condizione umana dell’esilio, dove non c’è arché, né origine, né proprietà […] A incontrare tale inusitata estraneità, anzi a fronteggiarla, sono i più prossimi, i palestinesi, quasi delegati degli altri popoli…” (p. 45). Non disposto ad accogliere un tale dono, questo popolo ingrato ed arretrato purtroppo si ribella al privilegio dell’esilio concessogli da Israele, rivendicando diritti che non gli spettano.

A differenza dei palestinesi, il popolo ebraico non rivendicherebbe l’autoctonia, nonostante sia “promesso a quella terra, come quella terra gli è promessa.” (p. 49). In realtà sono innumerevoli gli esempi di dirigenti ed intellettuali sionisti che questa autoctonia hanno rivendicato. Ma “il compito che il popolo ebraico è molto concreto: santificare la terra costruendo una società giusta. Era d’altronde la società che sognavano i primi fondatori dei kibbutzim” (p. 53). Un altro riferimento storico mistificante, dato l’esclusivismo anti-arabo della colonizzazione sionista fin dalle sue origini. Persino l’espansionismo di Israele viene esaltato come un modo per mettere in dubbio l’esistenza delle frontiere, su cui si basano gli Stati moderni.

Infine, citando Buber, Di Cesare arriva al punto cruciale del suo ragionamento escatologico: “Perché non si tratta dell’emancipazione di un popolo, ma della redenzione del mondo” (p. 81). Purtroppo sulla strada di questa redenzione si trova un fastidioso intralcio: i palestinesi. Qui si chiude il ragionamento deduttivo: la Nazione senza Stato e senza territorio mostrerà agli altri popoli la via della liberazione e dell’anarchia.

La storia e le sue concrete realizzazioni, fino alla recente legge israeliana sullo Stato-Nazione, che ha dato valore costituzionale al già esistente sistema di apartheid, stanno a dimostrare quanto distante sia questo Israele metafisico da quello reale.

Pur partendo da posizioni opposte rispetto al sionismo politico (la diaspora come condizione da cui gli ebrei devono redimersi) e dei fondamentalisti nazional-religiosi (redimere la terra occupandola), Di Cesare propone un’utopia curiosamente assonante con l’ideologia messianica ed escatologica proprio della parte più estremista e razzista dei coloni israeliani: l’avversione nei confronti dello Stato, l’espansione territoriale senza limiti, la creazione di comunità autonome ostili al controllo delle istituzioni nazionali ed alle leggi, la visione apocalittica, la resistenza palestinese come ostacolo alla realizzazione di un progetto millenaristico.

Non solo. Durante una presentazione del suo libro all’università di Torino, Di Cesare affermò che i palestinesi dovrebbero smettere di considerare la terra come di loro proprietà. Ma anche secondo il capo spirituale di Hamas, lo sceicco Yassin, la Palestina non è di nessuno perché è di dio.

Un recente episodio chiarisce alla prova dei fatti la vera natura di questa distorsione della dialettica. Durante la trasmissione di Raitre “Quante storie”, il conduttore Corrado Augias, sionista dichiarato ma critico nei confronti delle politiche dell’attuale governo israeliano, ha mostrato a Di Cesare (invitata a presentare un suo libro sui marrani) immagini del massacro di manifestasti disarmati che protestavano a Gaza contro lo spostamento dell’ambasciata israeliana a Gerusalemme (bilancio 66 morti), chiedendole un giudizio. La filosofa ha commentato: “Noi dobbiamo dire a tutti che sulla terra nessuno è autoctono. L’autoctonia è un mito, a partire da qui dobbiamo imparare a co-abitare. Questa è la sfida del terzo millennio.” Un chiaro rifiuto delle rivendicazioni dei palestinesi: nessuna condanna della strage, nessun diritto al ritorno per i profughi palestinesi. In attesa della fine dello Stato (di Israele?), ad essi bisogna insegnare, se necessario anche con le maniere forti, che nessuno può pretendere di essere “autoctono”, anche se il loro diritto a vivere in Palestina viene negato a favore di quello di un ebreo di Brooklyn o di Mosca.

Come spiegare questa contraddizione tra un pensiero che si presenta come rivoluzionario a sostegno di una realtà così reazionaria? Il geografo israeliano Oren Yiftachel lo spiega con questa metafora: per vedere che la torre di Pisa è pendente bisogna guardarla da fuori, non da dentro. Così è a suo parere per molti israeliani ed ebrei, anche di sinistra, che dovrebbero vedere dall’esterno quello che non riescono a capire rimanendo all’interno di una logica sionista ed etnocratica.

Per concludere, parafrasando un illustre filosofo, quello sì rivoluzionario, sarebbe il caso di rimettere la filosofia con i piedi per terra.

 




Romano si sarebbe piazzato davanti a un bulldozer israeliano

Secondo la sua avvocatessa, dopo uno scontro in Cisgiordania Israele trattiene il professore franco-statunitense in base alla legge militare.

Redazione di Times of Israel e agenzie

15 Settembre 2018, Times of Israel

Il fermo di Frank Romano sarebbe stato prolungato grazie a una applicazione “straordinaria” delle leggi militari; l’avvocatessa non è in grado di confermare se il suo cliente abbia iniziato lo sciopero della fame.

Secondo la sua avvocatessa, il docente universitario franco-statunitense arrestato venerdì durante una protesta in un villaggio beduino in Cisgiordania in via di demolizione da parte di Israele, rimarrà agli arresti fino a lunedì.

Sabato Gaby Lasky ha detto che il suo cliente, Frank Romano, è stato portato in una prigione di Gerusalemme e la polizia avrebbe detto che comparirà lunedì davanti a un tribunale militare israeliano.

Con una procedura straordinaria la legislazione militare applicata in Cisgiordania è stata messa in pratica per Frank Romano, accusato di aver ostacolato l’azione della polizia e dei soldati israeliani, per cui il tempo massimo prima di comparire davanti al giudice è di 96 ore,” ha detto Lasky all’AFP [agenzia di stampa francese, ndtr.].

Ha aggiunto che la legge israeliana prevede che civili e turisti vengano portati davanti a un giudice entro le 24 ore e che chiederà a un giudice israeliano di intervenire in modo che il destino del suo cliente venga deciso in base alle leggi israeliane [non a quelle militari, ndtr.].

Secondo B’Tselem, una Ong israeliana che lavora in Cisgiordania, Romano ha iniziato uno sciopero della fame e continuerà “fino al ritiro” della decisione di radere al suolo il villaggio beduino.

Lasky ha detto all’AFP di non essere in grado di confermare lo sciopero della fame.

Romano era tra le decine di attivisti a Khan al-Ahmar che cercavano di bloccare la prevista demolizione dell’accampamento. L’azione programmta da Israele ha sollevato la condanna internazionale.

Venerdì sul posto sono scoppiati tafferugli tra le forze di sicurezza israeliane e i manifestanti filo-palestinesi. Gli attivisti hanno detto che Romano si è piazzato davanti a un bulldozer che stava rimuovendo le barricate messe per rallentare la demolizione.

La polizia israeliana ha confermato che venerdì tre persone sono state arrestate per aver provocato disordini a Khan al-Ahmar, ma non ha rilasciato dettagli sulle loro identità.

La scorsa settimana l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha dato il via alla demolizione di Khan al-Ahmar respingendo un ultimo ricorso tra le crescenti proteste internazionali sul destino della comunità cisgiordana.

Israele afferma che Khan al-Ahmar, un villaggio di baracche di lamiera a est di Gerusalemme, era stato costruito illegalmente e ha proposto di risistemare gli abitanti a 12 km di distanza.

Chi si oppone alla demolizione sostiene che fa parte del tentativo di consentire l’ulteriore espansione della vicina colonia di Kfar Adumim e creare una zona di controllo israeliano da Gerusalemme fin quasi al Mar Morto, una mossa che secondo gli oppositori dividerebbe in due la Cisgiordania rendendo impossibile uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Giovedì le forze israeliane hanno demolito cinque roulotte che erano state piazzate di recente fuori dal villaggio. Le roulotte, costituite da container da trasporto, erano state sistemate all’inizio della settimana come forma di protesta contro la prevista demolizione.

L’attivista Abdallah Abu Rahmeh ha detto che collocare le bianche strutture, su una delle quali sventola una bandiera palestinese, serviva come messaggio a Israele che “è nostro diritto costruire sulla nostra terra.”

Le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno ripetutamente avvertito Israele che distruggere Khan al-Ahmar avrebbe minacciato i tentativi di pace con i palestinesi e costituito una violazione delle leggi internazionali.

Giovedì il parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui si afferma che mettere in atto la sentenza rappresenterebbe un “precedente negativo” per le altre comunità beduine in Cisgiordania minacciate di demolizione.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, Israele ha la responsabilità assoluta di fornire i servizi necessari, compresi l’istruzione, le cure mediche e i servizi sociali, alle persone che vivono sotto la sua occupazione,” recita la risoluzione.

Israele sostiene che le strutture, per lo più baracche e tende, sono state costruite senza permessi e rappresentano una minaccia per gli abitanti del villaggio a causa della loro vicinanza a un’autostrada.

Ma gli abitanti – che hanno vissuto in questo luogo, all’epoca controllato dalla Giordania, fin dagli anni ’50, dopo che lo Stato [di Israele] li aveva cacciati dalle loro case nel Negev – affermano che non hanno alternative se non costruire senza i permessi edilizi israeliani, in quanto i permessi non vengono praticamente mai rilasciati ai palestinesi per costruire in posti, come Khan al-Ahmar, nell’Area C della Cisgiordania, dove Israele ha il pieno controllo sulle questioni civili.

In base agli accordi di Oslo la Cisgiordania è stata divisa in tre aree: A, governata dall’ANP [Autorità Nazionale Palestinese]; B, sotto il controllo misto israeliano e dell’ANP; C, sotto totale controllo israeliano.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che la demolizione è parte di un piano per ridurre al minimo la presenza palestinese nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un “accordo tra gentiluomini”: come Israele ha ottenuto quello che voleva a Oslo

Jonathan Cook

14 settembre 2018,Midddle East Eye

Venticinque anni dopo, alcuni analisti ritengono che Oslo non sia stato un fallimento: in realtà l’accordo ha offerto ad Israele una formula per bloccare la nascita di uno Stato palestinese e rafforzare la sua occupazione.

Questa settimana non ci sono state commemorazioni per ricordare la firma del primo accordo di Oslo a Washington 25 anni fa. Si tratta di nozze d’argento per le quali non ci sono festeggiamenti pubblici, né tazze commemorative, né monete coniate appositamente.

I palestinesi hanno praticamente ignorato questo anniversario storico, mentre la commemorazione di Israele non è stata altro che una manciata di tristi articoli sulla stampa israeliana su quello che è andato storto.

L’avvenimento più importante è il documentario “I diari di Oslo” (“Al cuore degli accordi di Oslo”), trasmesso dalla televisione israeliana e la cui diffusione è prevista questa settimana negli Stati Uniti. Ripercorre gli avvenimenti riguardanti la creazione degli accordi di pace, firmati dal dirigente palestinese Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin a Washington il 13 settembre 1993.

Secondo la maggior parte degli osservatori l’euforia causata dal processo di pace iniziato dalla Norvegia un quarto di secolo fa sembra ormai del tutto superata. Il ritiro per fasi dai territori palestinesi occupati promesso da Israele è rimasto fermo ad uno stadio iniziale.

E i poteri dell’Autorità Nazionale Palestinese, futuro governo palestinese creato da Oslo, non sono mai andati oltre la gestione dell’assistenza sanitaria e la raccolta della spazzatura nelle zone palestinesi densamente popolate, garantendo al contempo il coordinamento con Israele in materia di sicurezza.

Tutti gli sforzi attuali per trarre una lezione da questi sviluppi sono giunti alla stessa conclusione: Oslo fu un’occasione mancata per la pace, gli accordi non sono mai stati correttamente applicati e i negoziati sono stati spazzati via dagli estremisti palestinesi ed israeliani.

Una riorganizzazione dell’occupazione

 

Tuttavia gli analisti interpellati da Middle East Eye adottano un punto di vista molto diverso.

È errato pensare che Oslo sia fallito o cercare di identificare il momento in cui il processo di Oslo è morto”, sostiene Diana Buttu, avvocatessa palestinese ed ex-consigliera dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Oslo non è mai morto. Continua a fare oggi esattamente quello per cui è stato creato.”

Michel Warschawski, attivista israeliano per la pace che ha sviluppato stretti legami con i dirigenti palestinesi nel corso degli anni di Oslo, concorda totalmente.

Quasi tutti quelli che conoscevo all’epoca ed io stesso siamo rimasti sedotti dal battage mediatico che annunciava che l’occupazione sarebbe ben presto finita. Ma in realtà Oslo stava per riorganizzare l’occupazione, non per farla terminare. Ha creato una nuova divisione del lavoro.

A Rabin non importava sapere se i palestinesi avrebbero ottenuto una sovranità simbolica – una bandiera e forse persino un seggio all’ONU.

Ma Israele era determinato a continuare a controllare le frontiere, le risorse dei palestinesi, la loro economia. Oslo ha cambiato la divisione del lavoro, subappaltando ai palestinesi stessi la parte difficile della sicurezza di Israele.”

Gli accordi sono stati firmati all’indomani di parecchi anni di rivolta palestinese nei territori occupati – la prima Intifada – che si sono rivelati costosi per Israele, sia in termini di vittime che di denaro.

Grazie ad Oslo, le forze di sicurezza palestinesi si sono messe a pattugliare le strade delle città palestinesi, sotto la supervisione e in stretto coordinamento con l’esercito israeliano. Quanto al conto, è stato pagato dall’Europa e da Washington.

In un’intervista rilasciata la settimana scorsa al giornale [israeliano di centro sinistra, ndtr.] “Haaretz”, Joel Singer, l’avvocato del governo israeliano che ha contribuito alla stesura degli accordi, ha ammesso la stessa cosa. Rabin, ha dichiarato, “pensava che, se fossero stati i palestinesi a combattere Hamas, ciò avrebbe rafforzato la sicurezza (israeliana).”

Come ha fatto notare l’ex primo ministro israeliano, l’occupazione non sarebbe più stata considerata responsabile davanti ai “cuori sensibili” della Corte Suprema israeliana e della comunità attiva a favore dei diritti dell’uomo in Israele.

Non un vero Stato

Secondo Buttu, anche l’ipotesi largamente diffusa secondo la quale Oslo avrebbe dato come risultato uno Stato palestinese era errata.

L’avvocatessa rileva che da nessuna parte negli accordi veniva menzionata l’occupazione, uno Stato palestinese o la libertà per i palestinesi. E non venne presa nessuna misura contro le illegali colonie di insediamento di Israele – il principale ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese.

Invece l’obiettivo dichiarato del processo di Oslo era l’applicazione di due risoluzioni delle Nazioni Unite [rimaste] in sospeso – la 242 e la 338. La prima riguardava il ritiro dell’esercito israeliano dai ‘territori’ occupati durante la guerra del 1967, mentre la seconda esortava a negoziati che portassero a una ‘pace giusta e durevole’.

Ho parlato con Arafat e con Mahmoud Abbas (suo successore alla presidenza palestinese) a questo proposito,” spiega Buttu. “Essi pensavano che un linguaggio più esplicito riguardo allo Stato palestinese e all’indipendenza non sarebbe mai stato approvato dalla coalizione di Rabin.

Dunque Arafat ha trattato le risoluzioni 242 e 338 come parole in codice. I dirigenti palestinesi hanno definito Oslo ‘un accordo tra gentiluomini’. Il loro approccio andava oltre l’ingenuità: era sconsiderato. Si sono comportati come dilettanti.”

Secondo Asad Ghanem, professore di scienze politiche all’università di Haifa ed esperto del nazionalismo palestinese, fin dall’inizio i dirigenti palestinesi erano coscienti che Israele non offriva un vero Stato.

Nelle sue memorie Ahmed Qoreï (uno dei principali architetti di Oslo per quanto riguarda i palestinesi) ha ammesso il suo stupore quando ha cominciato ad incontrare il gruppo di negoziatori israeliani”, spiega Ghanem.

Uri Savir (il capo negoziatore israeliano) ha dichiarato con tutta franchezza che Israele non era favorevole a uno Stato palestinese e che proponevano qualcosa di meno. L’atteggiamento degli israeliani era ‘prendere o lasciare’.”

Simpatia verso i coloni

Tutti gli analisti concordano che fin dall’inizio era del tutto evidente una mancanza di buona fede da parte d’Israele, in particolare per quanto riguardava la questione delle colonie.

Così, invece di bloccare o d’invertire l’espansione delle colonie durante il presunto periodo di transizione di cinque anni previsto dall’accordo, Oslo ha permesso alla popolazione di coloni di crescere a un ritmo notevolmente accelerato.

L’incremento quasi del doppio del numero di coloni in Cisgiordania e a Gaza per raggiungere i 200.000 alla fine degli anni ’90 è stato spiegato in un’intervista del 2003 da Alan Baker, consigliere giuridico del ministero israeliano degli Affari Esteri dopo il 1996 e lui stesso colono.

La maggior parte delle colonie è stata presentata all’opinione pubblica israeliana come dei ‘blocchi’ israeliani, fuori del controllo della neonata Autorità Nazionale Palestinese. Con la firma degli accordi, ha dichiarato Baker, “noi non siamo più una potenza occupante, ma siamo presenti nei territori con il loro (dei palestinesi) consenso e in base al risultato dei negoziati.”

Recenti interviste realizzate da “Haaretz” a dirigenti dei coloni lasciano ugualmente trasparire la simpatia ideologica tra il governo cosiddetto di sinistra di Rabin e il movimento dei coloni.

Israel Harel, che all’epoca dirigeva il Consiglio Yesha, l’organismo dirigente dei coloni, ha giudicato Rabin “molto disponibile”. Ha sottolineato che Zeev Hever, un altro leader dei coloni, aveva lavorato con i responsabili della pianificazione dell’esercito israeliano quando crearono una ‘carta di Oslo’ tagliando la Cisgiordania in diverse aree di controllo.

In merito alle colonie che, secondo la maggior parte degli osservatori, sarebbero state smantellate in base agli accordi, Harel ha constatato: “Quando (Hever) è stato accusato (da altri coloni) di collaborazionismo, ha risposto che ci aveva salvati da un disastro. Loro (l’esercito israeliano) hanno segnato le zone che avrebbero potuto isolare dalle colonie e farle scomparire.

L’avvocato israeliano di Oslo, Joel Singer, ha confermato la reticenza dei dirigenti israeliani ad affrontare il problema delle colonie.

Ci siamo battuti con i palestinesi, per ordine di Rabin e di (Shimon) Peres, contro un congelamento delle colonie,” ha dichiarato ad “Haaretz”. “Fu un grave errore consentire alle colonie di continuare ad espandersi.”

Il rifiuto di Rabin ad agire

Neve Gordon, professore di scienze politiche all’università Ben Gurion, nel sud di Israele, spiega che la prova fondamentale della volontà di Rabin di occuparsi delle colonie si è presentata meno di un anno dopo il processo di Oslo, quando Baruch Goldstein, un colono, ha ucciso e ferito più di 150 musulmani palestinesi durante una preghiera nella città palestinese di Hebron.

Ciò forniva a Rabin l’occasione per espellere i 400 coloni estremisti che si trovavano nel centro di Hebron,” ha detto Gordon a MEE. Ma non lo fece. Gli permise di restare.”

La mancata risposta di Israele alimentò ‘come rappresaglia’ una campagna di attentati suicidi organizzati da Hamas, attentati che a loro volta vennero utilizzati da Israele per giustificare il suo rifiuto di ritirarsi dalla maggior parte dei territori occupati.

Warschawski afferma che Rabin avrebbe potuto smantellare le colonie se avesse agito rapidamente. “I coloni erano in ritirata all’inizio di Oslo, ma egli non agì contro di loro.”

Dopo l’assassinio di Rabin alla fine del 1995 da parte di un ebreo israeliano contrario a Oslo, il suo successore Shimon Peres, anche lui considerato l’architetto del processo di Oslo, secondo Warschawski cambiò tattica: “Peres preferì mettere l’accento sulla riconciliazione interna (tra israeliani) invece che sulla riconciliazione con i palestinesi. Dopo di che il discorso religioso dei coloni estremisti diventò dominante.”

Ciò diede luogo qualche mese più tardi al trionfo elettorale della destra sotto l’egida di Benjamin Netanyahu.

Il differenziale demografico

Gordon sostiene che, per quanto Netanyahu avesse fatto una violenta campagna elettorale contro gli accordi di Oslo, questi ultimi si rivelarono perfetti per il genere di politica di rifiuto che egli coltivava.

Dietro la facciata di vaghe promesse in merito a uno Stato palestinese, secondo il docente universitario “Israele poté rafforzare il progetto di colonizzazione. Le statistiche mostrano che quando ci sono dei negoziati, la crescita demografica della popolazione delle colonie in Cisgiordania aumenta. I coloni crescono rapidamente. E quando c’è un’intifada, le cose rallentano.

Dunque Oslo era ideale per il progetto israeliano di colonizzazione.”

E ciò non è semplicemente dovuto al fatto che, sotto la pressione di Oslo, i coloni religiosi si affrettarono ad ‘appropriarsi delle colline’, come lo presentò Ariel Sharon, celebre generale diventato più tardi primo ministro. Gordon fa riferimento a una strategia del governo, consistente nel reclutare dei coloni di un tipo nuovo nel corso dei primi anni successivi ad Oslo.

All’inizio degli anni ’90, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, Sharon e altri responsabili tentarono di sistemare dei nuovi immigrati russofoni nelle grandi colonie come quella di Ariel, nel centro della Cisgiordania. “Il problema era che molti russi avevano un solo figlio,” spiega Gordon.

Così, al loro posto, Israele iniziò a spostare degli ultraortodossi nei territori occupati. Questi ebrei fondamentalisti che fanno parte della comunità più povera di Israele hanno in genere sette o otto figli. Cercavano disperatamente delle soluzioni abitative, sottolinea Gordon, e il governo non esitò a mettere in opera degli incentivi per attirarli in due nuove colonie ultraortodosse, Modiin Illit e Beitar Illit.

In seguito a questo fatto,” continua Gordon, “Israele non ebbe più bisogno di reclutare molti nuovi coloni. Bastava solo guadagnare tempo con il processo di Oslo e la popolazione dei coloni si sarebbe sviluppata da sola.

Gli ultraortodossi diventarono la principale arma demografica di Israele. In Cisgiordania, i coloni ebrei hanno in genere due figli in più rispetto ai palestinesi – questo differenziale demografico ha un impatto enorme nel corso degli anni.”

Dipendenza palestinese

Secondo Diana Buttu un altro fattore mostra che Israele non ha mai voluto che gli accordi di Oslo dessero luogo a uno Stato palestinese. Poco prima di Oslo, a partire dal 1991, Israele introdusse delle restrizioni alla circolazione dei palestinesi molto più rigide, soprattutto un sistema di permessi sempre più perfezionato.

Gli spostamenti da Gaza verso la Cisgiordania diventarono impossibili se non in caso di necessità,” spiega. “Non erano più un diritto.”

Questo processo, rileva il professor Ghanem, si è radicato nel corso dell’ultimo quarto di secolo e alla fine ha dato come risultato una completa separazione fisica e ideologica tra Gaza e la Cisgiordania, ormai governate rispettivamente da Hamas e dal Fatah di Abbas.

Come ha osservato Gordon, le disposizioni economiche di Oslo, rette dal Protocollo di Parigi del 1995, hanno privato i palestinesi anche della loro autonomia finanziaria.

I palestinesi non hanno ottenuto una moneta propria, hanno dovuto utilizzare lo shekel israeliano. Anche un’unione doganale ha relegato i palestinesi in un mercato dipendente dai prodotti israeliani e ha permesso a Israele di percepire dei diritti doganali per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il rifiuto di trasferire questo denaro è una minaccia che Israele brandisce regolarmente contro i palestinesi.”

Secondo gli analisti, i dirigenti palestinesi che, come Arafat, furono autorizzati dal processo di Oslo a ritornare dal loro esilio in Tunisia – a volte indicati come ‘stranieri’ – ignoravano totalmente la situazione sul terreno.

Neve Gordon, che all’epoca dirigeva la sezione israeliana di “Medici per i diritti umani”, si ricorda di aver incontrato al Cairo dei giovani americani e canadesi di origine palestinese per discutere di accordi ulteriori in materia di salute di cui sarebbe stata responsabile l’Autorità Nazionale Palestinese.

Erano colti e brillanti, ma ignoravano quello che succedeva sul terreno. Non avevano alcuna idea di quello che era necessario esigere da Israele,” afferma.

Invece Israele aveva degli esperti che conoscevano profondamente la situazione.”

Warschawski ha ricordi simili. All’epoca accompagnò un palestinese di alto rango appena arrivato da Tunisi per una visita alle colonie. Seduto in macchina, il responsabile rimase a bocca aperta durante tutto il percorso.

Conoscevano dei dati, ma non sapevano fino a che punto le colonie fossero radicate ed integrate nella società israeliana,” spiega. “Fu in quel momento che cominciarono a capire per la prima volta la logica delle colonie e a rendersi conto delle reali intenzioni di Israele.”

Attirati in una trappola

Warschawski osserva che l’unica persona del suo ambiente che aveva rifiutato fin dall’inizio il battage pubblicitario riguardo agli accordi di Oslo era Matti Peled, un generale diventato attivista pacifista che conosceva bene Rabin.

Quando ci incontrammo per discutere degli accordi di Oslo, Matti ci prese in giro. Disse che non ci sarebbe stato alcun Oslo, non ci sarebbe stato nessun processo che avrebbe portato alla pace.”

Secondo Ghanem, i dirigenti palestinesi finirono per rendersi conto di essere stati attirati in una trappola.

Non potevano procedere verso la formazione di uno Stato perché Israele gli sbarrava la strada,” spiega. “Ma allo stesso modo non potevano neppure rinunciare al processo di pace. Non osarono smantellare l’Autorità Nazionale Palestinese e quindi Israele prese il controllo della politica palestinese.

Se se ne va Abbas, qualcun altro prenderà il suo posto alla testa dell’Autorità Nazionale Palestinese e il suo ruolo continuerà.”

Perché i dirigenti palestinesi entrarono nel processo di Oslo senza prendere maggiori precauzioni?

Secondo Diana Buttu Arafat, come gli altri dirigente dell’OLP che vivevano in esilio a Tunisi, aveva motivi per sentirsi in pericolo all’idea di stare fuori dalla Palestina, una questione che sperava di veder risolvere con Oslo.

Voleva rimettere piede in Palestina,” sostiene. “Si sentiva gravemente minacciato dai dirigenti ‘dall’interno’, anche se gli erano fedeli. La prima Intifada aveva dimostrato la loro capacità di guidare una rivolta e di mobilitare il popolo senza di lui.

Aveva anche un grande bisogno di un riconoscimento internazionale e di legittimità.”

Una guerra di trincea

Secondo Gordon, Arafat pensava di poter ottenere alla fine delle concessioni da Israele.

La vedeva come una guerra di trincea. Una volta nella Palestina storica, avrebbe avanzato da trincea a trincea.”

Warschawski nota che Arafat e altri dirigenti palestinesi gli dissero che pensavano di poter esercitare un’influenza importante su Israele.

Pensavano che Israele avrebbe posto fine all’occupazione in cambio di una normalizzazione dei rapporti con il mondo arabo. Arafat si considerava come il ponte che avrebbe portato a Israele il riconoscimento che esso desiderava. La sua posizione era che Rabin avrebbe dovuto baciargli la mano in cambio di un successo così grande.

Aveva torto.”

Gordon fa riferimento al discorso iniziale sui vantaggi economici di Oslo, secondo cui si pensava che la pace avrebbe aperto il commercio di Israele con il mondo arabo trasformando Gaza nella Singapore del Medio Oriente.

Questo ‘dividendo della pace’ è stato tuttavia contrastato da un ‘dividendo della guerra’ altrettanto attraente.

Ancora prima dell’11 settembre, l’esperienza di Israele nei campi della sicurezza e della tecnologia si era dimostrata redditizia. Israele capì che c’era parecchio denaro da guadagnare nella lotta contro il terrorismo.”

In realtà Israele è riuscito a trarre vantaggio dal dividendo della pace come da quello della guerra.

Diana Buttu ha rilevato che più di 30 Paesi, tra cui il Marocco e l’Oman, avevano sviluppato rapporti diplomatici o economici con Israele in seguito agli accordi di Oslo. Gli Stati arabi rinunciarono alla loro politica di boicottaggio e di opposizione alla normalizzazione e le grandi compagnie straniere smisero di temere di essere penalizzate dal mondo arabo se avessero commerciato con Israele.

Il trattato di pace (del 1994) tra Israele e la Giordania non avrebbe mai potuto essere concluso senza Oslo,” sottolinea.

Invece di denunce chiare contro l’occupazione, i palestinesi si sono ritrovati di fronte al vocabolario dei negoziati e dei compromessi per la pace.

I palestinesi sono diventati un problema di carattere umanitario, chiedono l’elemosina al mondo arabo perché l’Autorità Nazionale Palestinese possa aiutare a mantenere l’occupazione invece di guidare la resistenza.

Grazie a Oslo, Israele ha normalizzato i suoi rapporti nella regione, mentre paradossalmente i palestinesi sono diventati un corpo estraneo.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’ONU: “Il settore sanitario di Gaza sta collassando” tra l’indifferenza internazionale

Medical aid for Palestinians

14 settembre 2018

A fronte di una situazione umanitaria aggravata a Gaza e a massicci tagli agli aiuti annunciati dall’amministrazione USA, l’ONU ha evidenziato una significativa riduzione dei finanziamenti mentre tenta di affrontare le necessità umanitarie immediate a Gaza e in tutti i territori palestinesi occupati (TPO).

L’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha chiesto il sostegno internazionale per rispondere all’aumento di vittime derivante dall’uso della forza da parte di Israele nel contesto delle continue proteste per la “Grande Marcia del Ritorno”. Dal 30 marzo sono stati uccisi 179 palestinesi (compresi 29 minori), in maggioranza durante le manifestazioni. Sono stati feriti più di 19.000 palestinesi, metà dei quali portati in ospedale:

“Il gran numero di vittime tra dimostranti disarmati che non rappresentavano alcuna minaccia imminente mortale o di ferite letali per i soldati israeliani, compresa un’alta percentuale di manifestanti colpiti da proiettili veri, ha suscitato preoccupazioni riguardo all’uso eccessivo della forza.”

L’OCHA mette in guardia per la crescente disperazione a Gaza, e queste vittime vengono prese in carico da un sistema sanitario che deve affrontare difficoltà croniche:

“Il settore sanitario di Gaza sta collassando in seguito al blocco [israeliano] ormai arrivato agli 11 anni, alla crescente divisione politica tra palestinesi, alla crisi energetica, all’inconsistente e ridotto pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici e alla crescente riduzione di medicinali e sussidi medici monouso.”

Con gli ospedali che devono affrontare un gran numero di vittime e la riduzione di risorse, circa 8.000 interventi chirurgici, in alcuni casi anche gravissimi, sono stati rinviati. Questi ritardi possono avere conseguenze negative sulla salute fisica e psicologica dei pazienti e portare ad ulteriori complicanze.

L’OCHA ha chiesto 21 milioni di dollari per finanziare la cura di traumi e interventi di emergenza sanitaria, anche per l’assistenza negli ospedali pubblici a un gran numero di pazienti che necessitano di complesse cure ospedaliere e di riabilitazione postoperatoria.

Il reperimento di combustibile d’emergenza è una grave preoccupazione del sistema sanitario di Gaza. La carenza cronica di elettricità ha portato ospedali e cliniche a utilizzare l’energia di generatori di riserva per più di 20 ore al giorno, con combustibile fornito dall’ONU. Tuttavia i finanziamenti per questo si sono esauriti, con scorte che si prevede finiranno entro qualche giorno. L’OCHA informa:

  • 14 ospedali pubblici stanno lavorando con capacità ridotta per servizi fondamentali, compresi interventi chirurgici, sterilizzazione e diagnosi;

  • 4.800 pazienti quotidianamente chiedono il ricovero per cure salvavita o per malattie croniche con una continua carenza di elettricità;

  • 300 di questi pazienti devono essere costantemente collegati ad apparecchiature mediche salvavita come respiratori, dialisi, incubatori e apparecchiature anestetiche.

Inoltre l’OCHA informa che ogni interruzione o taglio della fornitura elettrica mette i pazienti a rischio immediato di danni cerebrali o di morte. L’ONU ha bisogno solo di 4,5 milioni di dollari per fornire carburante per mantenere attivi i servizi fino alla fine dell’anno.

L’economia “svuotata” di Gaza

Nel contempo l’UNCTAD, l’agenzia ONU responsabile dei problemi di commercio, investimenti e sviluppo, ha pubblicato il suo rapporto annuale sull’economia nei TPO. L’agenzia mette in guardia sull’accelerato de-sviluppo [termine coniato per Gaza dall’economista americana Sara Roy, ndtr.] di Gaza, affermando che il blocco israeliano di 11 anni ha “svuotato l’economia di Gaza e la sua base produttiva e ridotto la Striscia a un caso umanitario profondamente dipendente dagli aiuti.” Il reddito pro-capite di Gaza è ora inferiore del 30% rispetto all’inizio del secolo, e la povertà e l’insicurezza alimentare sono diffuse, con l’80% delle persone che si basa in qualche modo sull’aiuto internazionale.

Queste condizioni hanno un grave effetto sulla salute della popolazione di Gaza, e l’UNCTAD informa che “resistere alla pressione e alla deprivazione di fondamentali diritti umani, sociali ed economici infligge un pesante costo al tessuto psicologico, sociale e culturale di Gaza, come dimostrato dalla diffusione di traumi psicologici, disordini da stress post-traumatico, disperazione, alte percentuali di suicidi e tossicodipendenza.” Secondo i dati dell’ONU, nel 2017 225.000 bambini, più del 10% della popolazione di Gaza, hanno richiesto un sostegno psicologico.

Il rapporto evidenzia che gli sforzi internazionali per affrontare la situazione non sono riusciti ad invertire la tendenza, affermando: “Tentativi di ripresa sono stati deboli e ogni intervento è stato necessariamente mirato alla ricostruzione e al sostegno umanitario, lasciando poche risorse allo sviluppo o al recupero della base produttiva.”

Inoltre l’UNCTAD sottolinea le azioni necessarie per fornire una ripresa economica sostenibile per Gaza, compresi una completa eliminazione del blocco, la riunificazione politica, fiscale ed economica con la Cisgiordania, l’urgente superamento della crisi elettrica e consentire ai palestinesi di sviluppare i giacimenti di gas naturale in mare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Tre palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Gaza

Mee e agenzie

Venerdì 14 settembre 2018, Middle East Eye

Le truppe israeliane colpiscono a morte un ragazzino di 12 anni a est di Jabalia nel nord della Striscia di Gaza

Fonti mediche palestinesi dell’enclave assediata hanno informato che venerdì tre palestinesi, compreso un dodicenne, sono stati colpiti a morte e più di 248 sono rimasti feriti dalle forze israeliane a Gaza.

Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Salute di Gaza, ha affermato che venerdì il ragazzino è stato colpito alla testa ed ucciso a est di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza.

L’agenzia di notizie AFP ha informato che una fonte medica lo ha identificato come Shadi Abdel-Al.

Era solito andare ogni venerdì alle marce come migliaia di altre persone. Questo venerdì il suo destino era di morire come un martire,” ha detto il padre del ragazzino, Abdel-Aziz Abdel-Al, all’agenzia di notizie Reuter.

Un altro palestinese, il ventottenne Hashem Hassan, ha detto di aver visto Abdel-Al colpito a 70 metri dalla barriera [tra la Striscia di Gaza e Israele, ndtr.]: “Ha tirato qualche pietra, che è volata solo a qualche metro di distanza. Non rappresentava nessun pericolo.”

Il ministero ha detto che anche due ventunenni, Hani Afana e Mohammed Shaqqura, sono stati uccisi in due diversi incidenti nei pressi di Khan Yunis e di Al-Bureij.

Una fonte della sicurezza di Gaza ha affermato che un carro armato israeliano ha colpito anche un posto di vedetta di Hamas a est di Gaza City.

Da quando il 30 marzo sono iniziate le proteste settimanali della “Grande Marcia del Ritorno”, 177 palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani.

L’esercito israeliano ha detto che circa 12.000 manifestanti si sono riuniti nelle proteste del venerdì. Più di 248 persone sarebbero state ferite. Sei dei feriti sarebbero in condizioni critiche.

Un giornalista presente sul posto ha affermato che le truppe israeliane hanno pesantemente sparato contro i manifestanti e che c’era molto fumo nero dei lacrimogeni.

La campagna di protesta chiede la fine del blocco israeliano contro Gaza durato 11 anni e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre da cui le loro famiglie fuggirono durante la fondazione dello Stato di Israele.

Israele mantiene un durissimo blocco della Striscia di Gaza, che secondo chi lo critica rappresenta una punizione collettiva contro i due milioni di abitanti dell’impoverita Striscia.

La strategia di Israele contro i manifestanti ha suscitato la condanna internazionale.

Ma Washington ha appoggiato il suo alleato accusando Hamas di organizzare la mobilitazione di massa, un’affermazione smentita dal gruppo e dagli organizzatori delle proteste.

L’ONU e i mediatori egiziani hanno cercato di raggiungere un accordo per rendere tranquilla [la situazione a] Gaza, in cui nell’ultimo decennio Israele ha condotto tre guerre. I tentativi di mediazione sono stati complicati dalla rivalità di Hamas con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che ha ridotto i finanziamenti a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Khan al-Ahmar: decine di arresti e di feriti nelle proteste contro la demolizione

Redazione di MEE

venerdì 14 settembre 2018,  Middle East Eye

Manifestanti palestinesi ed internazionali hanno cercato di evitare che i bulldozer israeliani ammassassero mucchi di terra per bloccare la strada verso il villaggio.

Venerdì l’esercito israeliano ha arrestato decine di manifestanti palestinesi e un attivista franco-statunitense durante una protesta a Khan al-Ahmar, un villaggio nella Cisgiordania occupata che, nonostante l’indignazione internazionale, si prevede che nei prossimi giorni venga demolito.

Frank Romano, con doppia cittadinanza francese e statunitense, sarebbe rimasto ferito prima del suo arresto insieme a molti altri, dopo che i soldati israeliani hanno usato la forza per reprimere la protesta contro la demolizione del villaggio.

Ex-avvocato, Romano è autore di “Love and Terror in the Middle East” [“Amore e terrore in Medio Oriente”, che racconta delle sue attività di pacifista in Israele/Palestina] e, secondo un profilo in rete, attualmente lavora come docente all’università Paris Ouest [Parigi Ovest] Nanterre La Défense.

La protesta è scoppiata dopo le preghiere del venerdì, quando l’esercito israeliano ha tentato di bloccare le vie di accesso a Khan al-Ahmar con mucchi di terra, lasciando libera solo una strada nel villaggio e impedendo agli attivisti di raggiungerlo.

Video e foto circolate sulle reti sociali mostrano dimostranti in piedi davanti a un bulldozer, controllati dall’esercito israeliano, mentre altre ritraggono soldati che picchiano e trascinano manifestanti e abitanti di Khan al-Ahmar e allontanano giornalisti.

Demolire Khan al-Ahmar

Khan al-Ahmar si trova nella parte centrale della Cisgiordania occupata nei pressi della Route 1, che collega Gerusalemme est occupata alla valle del Giordano.

Il villaggio sorge nei pressi della colonia israeliana illegale di Kfar Adumim, e da molto tempo è stato sottoposto a pressioni israeliane che chiedono che la comunità venga espulsa dalla zona.

La scorsa settimana l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso presentato dagli abitanti di Khan al-Ahmar per bloccare la demolizione, creando le premesse per la deportazione della comunità e la distruzione dell’intero villaggio in qualunque momento dopo il 12 settembre.

Questa settimana Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha affermato che è stata presentata una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI) riguardo alla demolizione prevista, invitando il procuratore generale della CPI a incontrare gli abitanti prima dell’espulsione decisa dalla Corte [israeliana].

Ci auguriamo che un’inchiesta giudiziaria ufficiale possa essere aperta al più presto possibile,” ha detto Erekat.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar fanno parte della tribù Jahalin, una famiglia allargata beduina espulsa dal deserto del Naqab – noto anche come Negev – durante la guerra arabo-israeliana del 1948. All’epoca i Jahalin si insediarono sul versante orientale di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie le cui baracche e scuole, per lo più fatte di lamiera ondulata e legno, negli ultimi anni sono state demolite varie volte dall’esercito israeliano.

Israele intende distruggere il villaggio come parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di insediamenti abitativi per unire a Gerusalemme est le colonie Kfar Adumim e Maale Adumim nell’area C della Cisgiordania, controllata da Israele.

Se attuato integralmente, secondo chi lo critica il piano E1 dividerebbe di fatto la Cisgiordania in due parti, isolando Gerusalemme est dalle comunità palestinesi in Cisgiordania e obbligando i palestinesi a fare deviazioni ancora più lunghe per viaggiare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali sarebbero in grado di espandersi.

In luglio fonti ufficiali israeliane hanno detto che prevedono di ricollocare i 180 residenti di Khan al-Ahmar in una zona a circa 12 km di distanza, nei pressi del villaggio palestinese di Abu Dis.

Ma il nuovo luogo è vicino a una discarica, e i difensori dei diritti umani affermano che una deportazione forzata degli abitanti violerebbe le leggi internazionali riguardanti i territori occupati.

(traduzione di Amedeo Rossi)