Cecchino israeliano uccide donna di Gaza, prima vittima del 2019

Maureen Clare Murphy

11 gennaio 2019 Electronic Intifada

Una donna colpita venerdì durante le proteste nella Striscia di Gaza occupata è la prima vittima palestinese per mano delle forze di occupazione israeliane nel 2019. Lo stesso giorno un uomo palestinese è stato colpito e gravemente ferito dalle forze israeliane in Cisgiordania.

Amal al-Taramsi, 44 anni, è morta a est di Gaza City dopo che le hanno sparato con proiettili veri alla testa durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il gruppo per i diritti umani con sede a Gaza “Al Mezan”, quando è stata colpita si trovava a 200 metri dalla barriera di confine.

Al-Taramsi è la terza donna ad essere uccisa durante la serie di proteste iniziate il 30 marzo dello scorso anno. Le altre due vittime sono state la dottoressa Razan al-Najjar e la quattordicenne Wesal al-Sheikh Khalil.

Più di 180 palestinesi sono stati uccisi durante le dimostrazioni della Grande Marcia del Ritorno che si sono tenute lungo i confini orientali e settentrionali di Gaza.

Secondo Al Mezan, le forze israeliane hanno anche lanciato di proposito candelotti lacrimogeni contro i corpi di palestinesi durante le proteste di venerdì, ferendo 68 persone.

Paramedici e giornalisti presi di mira

Il paramedico volontario Mustafa al-Sinwar, 22 anni, è rimasto gravemente ferito quando è stato colpito alla gola da un lacrimogeno mentre svolgeva il suo lavoro durante le manifestazioni a est di Khan Younis, a sud di Gaza.

Husni Salah, 25 anni, fotogiornalista che lavora per l’agenzia di notizie AFP [Agenzia France Presse, ndtr.], è stato colpito al volto con un candelotto lacrimogeno mentre stava informando sulle proteste lungo il confine centro-orientale di Gaza.

Anche un altro giornalista, Hussein Karsou, 44 anni, è stato colpito al volto da un lacrimogeno a est di Gaza City.

Circa 150 palestinesi sono rimasti feriti durante le proteste di venerdì. Un filmato mostra una persona che sarebbe stata gravemente ferita dopo essere stata colpita alla testa.

Il ministero della Salute di Gaza ha affermato che, da quando sono iniziate, circa 14.000 persone sono state ricoverate in ospedale per le ferite riportate durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno.

I dimostranti chiedono la fine dell’assedio israeliano contro il territorio e che i rifugiati palestinesi possano esercitare il loro diritto al ritorno alle terre da cui le loro famiglie sono state espulse nel periodo della fondazione di Israele nel 1948.

Due terzi dei più di due milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati, molti dei quali originari delle terre che si trovano appena al di là della barriera di confine di Israele.

Nel contempo nella Cisgiordania occupata un uomo palestinese è stato colpito da un civile israeliano e da soldati.

L’esercito israeliano sostiene che Ghazi Skafi, 35 anni, ha cercato di accoltellare dei soldati a un posto di controllo militare nella colonia di Kiryat Arba [colonia di stremisti nazional-religiosi, ndtr.], nei pressi di Hebron.

Un video mostra che l’uomo è stato colpito due volte, prima da un uomo con abiti civili e poi da un soldato in uniforme. “Uccidilo” dice nel filmato in inglese un uomo non ripreso dalla telecamera.

Si sentono anche persone che assistono alla scena affermare “Dio è buono, dio è buono” e “Brucia all’inferno, stronzetto” in inglese con accento nordamericano.

Il video mostra Skafi steso sulla strada con sopra una coperta. La cinepresa si sposta verso destra e mostra a terra quello che sembra un piccolo coltello.

Secondo quanto riferito dai media, Skafi è stato curato all’ospedale per ferite all’addome e alle gambe.

Lo scorso anno le forze israeliane e civili armati hanno ucciso 15 palestinesi responsabili, o presunti tali, di attacchi contro israeliani in Cisgiordania.

Incursioni a Ramallah

Questa settimana per cinque giorni consecutivi le forze israeliane hanno fatto incursioni a Ramallah, la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, e nella vicina città di al-Bireh.

Gli attacchi hanno avuto luogo nel contesto di una caccia all’uomo alla ricerca di un palestinese che la scorsa settimana ha aperto il fuoco contro un autobus che trasportava coloni israeliani, ferendone uno.

Le forze di occupazione hanno fatto irruzione in negozi ed hanno sequestrato riprese di telecamere di sicurezza.

Un’abitante di Ramallah si è servita di Twitter per descrivere come le incursioni hanno colpito la sua vita familiare.

Durante gli attacchi giovani palestinesi si sono scontrati con le forze di occupazione israeliane.

All’inizio della settimana le forze israeliane hanno arrestato Assem Barghouti, che Israele accusa di aver perpetrato l’aggressione armata in cui il mese scorso sono rimasti feriti a morte due soldati in Cisgiordania.

È anche accusato da Israele di essere coinvolto in un’altra sparatoria in Cisgiordania a dicembre, in cui una donna israeliana incinta è stata gravemente ferita. Il suo bambino, nato prematuro, è morto pochi giorni dopo il parto indotto.

Israele ha incolpato Saleh Barghouti, fratello di Assem, di essere l’uomo armato che ha perpetrato l’attacco.

Lo scorso mese il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq ha fatto un pressante appello riguardo al caso di Saleh Barghouti al Gruppo di Lavoro dell’ONU per le Persone Forzatamente o Involontariamente Scomparse.

Secondo la documentazione di Al-Haq, compresi testimoni oculari, Barghouti è stato catturato vivo il 12 dicembre. Qualche ora dopo la sua scomparsa, i media israeliani hanno informato che Barghouti era stato ucciso da Yamam, un’unità speciale della polizia di frontiera di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Se Bolsonaro e Netanyahu sono “fratelli”: perché il Brasile dovrebbe evitare il modello israeliano

Ramzy Baroud

9 gennaio 2019, Palestine Chronicle

Il presidente brasiliano che si è appena insediato, Jair Bolsonaro, è pronto ad essere acerrimo nemico dell’ambiente e delle comunità indigene ed emarginate del suo Paese. Ha anche promesso di essere amico dei leader di estrema destra con le sue stesse idee in tutto il mondo.

Non c’è quindi da sorprendersi nel veder sbocciare una particolare amicizia tra Bolsonaro e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

“Abbiamo bisogno di buoni fratelli come Netanyahu,” ha detto Bolsonaro il 1 gennaio, giorno del suo insediamento a Brasilia.

Bolsonaro è un “grande alleato (e) un fratello,” ha replicato Netanyahu.

Ma, mentre Bolsonaro vede in Netanyahu un esempio da seguire – per ragioni che dovrebbero preoccupare ogni brasiliano – il Paese sicuramente non ha bisogno di “fratelli” come il leader israeliano.

L’attivismo di Netanyahu, oppressione del popolo nativo palestinese, il suo prendere di mira per ragioni razziali gli immigrati africani di colore e la sua continua violazione delle leggi internazionali non sono affatto quello di cui un Paese come il Brasile ha bisogno per salvarsi dalla corruzione, realizzare l’armonia sociale e inaugurare un’era di integrazione a livello regionale e di prosperità economica.

Naturalmente Netanyahu era ansioso di partecipare all’insediamento di Bolsonaro, che probabilmente passerà alla storia del Brasile come un giorno infausto, in cui democrazia e diritti umani hanno affrontato il peggior pericolo da quando, all’inizio degli anni ’80, il Brasile ha iniziato la transizione alla democrazia.

Negli scorsi anni il Brasile si è rivelato una potenza regionale sensibile che ha difeso i diritti umani dei palestinesi e ha perorato l’integrazione dello “Stato di Palestina” nella più ampia comunità internazionale.

Frustrato da quanto sinora fatto dal Brasile su Palestina e Israele, Netanyahu, politico scaltro, ha visto un’opportunità nel discorso populista ripetuto compulsivamente da Bolsonaro durante la sua campagna elettorale.

Il nuovo presidente brasiliano vuole stravolgere la politica estera brasiliana su Palestina e Israele, nello stesso modo in cui vuole invertire tutte le politiche dei suoi predecessori riguardo, tra le altre questioni urgenti, ai diritti degli indigeni, alla protezione della foresta pluviale.

Ciò che è veramente preoccupante è che Bolsonaro, che è stato paragonato a Donald Trump – quanto meno per il suo impegno a “fare di nuovo grande il Brasile” – probabilmente manterrà le sue promesse. Infatti, solo poche ore dopo il suo insediamento, ha emanato un decreto che prende di mira i diritti alla terra dei popoli indigeni del Brasile, per il diletto delle lobby agricole, che sono impazienti di tagliare buona parte delle foreste del Paese.

Confiscare i territori delle popolazioni indigene, come Bolsonaro progetta di fare, è qualcosa che Netanyahu, il suo governo e i suoi predecessori hanno fatto senza alcun rimorso per molti anni. Sì, è chiaro che la dichiarazione di “fratellanza” è fondata su solide basi.

Ma ci sono altre dimensioni nella storia d’amore tra i due leader. Molto lavoro è stato fatto per portare il Brasile da un governo presumibilmente filo-palestinese a una politica estera simile a quella di Trump.

Nella sua campagna Bolsonaro ha contattato gruppi politici conservatori, il mai veramente domato esercito e le chiese evangeliche, tutti dotati di potenti lobby, progetti sinistri e una evidente influenza. Storicamente questi gruppi, non solo in America latina ma negli Stati Uniti e anche in altri Paesi, hanno condizionato il proprio appoggio politico a un qualsiasi candidato al sostegno incondizionato e cieco a Israele.

È in questo modo che gli Stati Uniti sono diventati il principale protettore di Israele ed è proprio così che Tel Aviv intende conquistare nuovo spazio politico.

Il mondo occidentale, in particolare, si sta orientando verso demagoghi di estrema destra per avere risposte semplici a problemi complessi e intricati. Grazie a Bolsonaro e ai suoi sostenitori, il Brasile ora si sta unendo a questa preoccupante tendenza.

Israele sta sfruttando senza farsi alcun problema la vera e propria ascesa globale del neo-fascismo e del populismo. Peggio ancora, quelle che una volta erano percepite come tendenze antisemite sono ora totalmente accolte dallo “Stato ebraico”, che sta cercando di ampliare la propria influenza politica, ma anche il proprio mercato delle armi.

Politicamente i partiti di estrema destra comprendono che, per fare in modo che Israele li aiuti a insabbiare i loro peccati passati e presenti, devono sottoscrivere del tutto i progetti israeliani in Medio Oriente. E ciò è esattamente quello che sta avvenendo, da Washington a Roma, a Budapest, a Vienna…E, da ultimo, a Brasilia.

Ma un’altra ragione, forse più stringente, è il denaro. Israele ha molto da offrire sotto forma della sua distruttiva tecnologia bellica e per la “sicurezza”, una massiccia produzione già utilizzata con conseguenze letali contro i palestinesi.

L’industria dei controlli di frontiera è fiorente negli USA e in Europa. In entrambi i casi, Israele sta svolgendo un ruolo di guida e di fornitore di tecnologie. E la tecnologia israeliana per la “sicurezza”, grazie alla rinnovata simpatia per i presunti problemi di sicurezza di Israele, sta ora invadendo anche i confini europei.

Secondo il sito israeliano di notizie Ynetnews, Israele è il settimo principale esportatore di armi al mondo e sta diventando un leader globale nell’esportazione di droni.

L’entusiasmo dell’Europa per la tecnologia dei droni israeliana è dovuta a timori per lo più infondati nei confronti di migranti e rifugiati. Nel caso del Brasile, la tecnologia dei droni verrà utilizzata per lottare contro bande criminali e per altre ragioni interne.

Per la cronaca, i droni israeliani prodotti da “Elbit Systems” [importante industria bellica israeliana, ndtr.] sono stati comprati e utilizzati dal precedente governo brasiliano poco prima della coppa del mondo di calcio del 2014.

Quello che rende più allarmanti i futuri accordi tra i due Paesi è l’improvvisa affinità dei politici di estrema destra di entrambi i Paesi. Come prevedibile, Bolsonaro e Netanyahu hanno discusso lungamente di droni durante la visita di quest’ultimo in Brasile.

Israele ha fatto uso di un’estrema violenza per contrastare le richieste di diritti umani da parte dei palestinesi, compresa l’eliminazione fisica contro le ininterrotte proteste pacifiche lungo la barriera che separa l’assediata Gaza da Israele. Se Bolsonaro pensa di contrastare con successo il crimine locale con una violenza senza freni – invece di affrontare le diseguaglianze sociali ed economiche e l’ingiusta distribuzione della ricchezza nel suo Paese – allora può solo aspettarsi di incrementare un già terrificante numero di vittime.

L’ossessione israeliana per la sicurezza non dovrebbe essere copiata, né in Brasile né altrove, e i brasiliani, molti dei quali temono giustamente per lo stato della democrazia nel loro Paese, non dovrebbero arrendersi all’atteggiamento mentale aggressivo di Israele, che non ha mai portato pace ma più violenza.

Israele esporta guerra ai suoi vicini, e tecnologia bellica al resto del mondo. Poiché molti Paesi sono tormentati da conflitti, spesso risultato di enormi diseguaglianze di reddito, Israele non dovrebbe essere visto come un modello da seguire, ma piuttosto come un esempio da evitare.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Condannato a 35 anni di carcere un diciassettenne: minori palestinesi e giustizia israeliana

Akram Al-Waara

4 gennaio 2019, Middle East Eye

Le famiglie palestinesi accusano i tribunali israeliani di procrastinare deliberatamente le udienze in modo che i loro figli ricevano sentenze più pesanti

Ramallah, Cisgiordania occupata – Sono passati quasi 3 anni da quando Omar Rimawi è stato arrestato per aver colpito e ucciso un colono israeliano in un supermercato della Cisgiordania occupata. Aveva 14 anni.

Da allora l’adolescente è rimasto dietro le sbarre. La sua famiglia attende con ansia la sentenza finale di condanna del figlio, che si prevede verrà emessa da un giudice militare israeliano il 14 gennaio.

Sono stati tre anni di agonia,” dice a Middle East Eye il padre di Omar, il cinquantunenne Sameer Rimawi. “Ogni volta che il tribunale si riunisce pensiamo che sarà il giorno [della sentenza], ma non è ancora arrivato.”

Quando è entrato in prigione era un ragazzino, ora ha 17 anni, quasi 18,” dice suo padre.

Nei tre anni in cui Omar è stato in prigione, i tribunali militari israeliani hanno ignorato le pressioni da parte della famiglia e degli avvocati e rifiutato di emettere la sentenza contro il ragazzo del villaggio di Beituniya, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

La famiglia Rimawi è convinta che il tribunale stia rimandando la sentenza contro Omar per una semplice ragione: dato che è più grande, il tribunale può giustificare il fatto di comminargli una condanna più pesante in carcere, una tattica che i difensori dei diritti umani affermano essere una prassi usuale del sistema giudiziario israeliano.

Ogni anno che passa il rischio di una sentenza più grave aumenta,” dice Sameer Rimawi della vicenda del figlio.

La famiglia aveva sperato che nei confronti di Omar si sarebbe esercitata una certa clemenza per via dell’età, ma queste speranze si sono infrante quando Ayham Sabbah, amico di Omar, è stato condannato a 35 anni di prigione.

Ayham, che ora ha anche lui 17 anni, era con Omar il giorno dell’accoltellamento, ed entrambi sono accusati di aver portato a termine insieme l’aggressione.

Ayham non aveva ancora 18 anni quando lo hanno condannato a 35 anni di carcere,” dice Rimawi, e aggiunge che il pubblico ministero israeliano aveva chiesto per Omar l’ergastolo e il pagamento di una multa di 5 milioni di shekel (circa 1.180.000 €).

Preghiamo dio che Omar non debba subire la stessa sorte, ma sappiamo che Israele non si preoccupa dei diritti dei minori.”

Nel modesto soggiorno del suo appartamento di tre camere da letto a Beituniya, Bassem Sabbah siede calmo con le gambe incrociate e le dita intrecciate.

Quando gli si chiede di suo figlio Ayham, l’insegnante palestinese si irrigidisce e le mani iniziano ad agitarsi.

Il 17 dicembre ha ricevuto la peggiore notizia della sua vita: Ayham, il maggiore dei suoi due figli adolescenti, è stato condannato a 35 anni di carcere e gli è stato imposto di pagare una multa di 1.25 milioni di shekel (quasi 300.000 €).

Siamo rimasti scioccati,” dice Bassem a MEE. “Ayham era solo un bambino quando è stato arrestato – lo è ancora, non è neppure maggiorenne.”

La famiglia della vittima, il soldato israeliano ventunenne Tuvia Yanai Weissman, che all’epoca era in congedo, ha detto di essere rimasta delusa perché l’adolescente palestinese non è stato condannato all’ergastolo. Nell’attacco un altro uomo era rimasto ferito.

Due ragazzi in Israele

Ayham e Omar sono stati arrestati il 18 febbraio 2016 dalle forze israeliane nel supermercato “Rami Levy” nell’area industriale di Shaar Binyamin.

All’epoca del loro arresto i due sono stati colpiti e gravemente feriti da un passante. La famiglia sostiene che dopo l’arresto Ayham non è stato curato e i suoi diritti in quanto minorenne sono stati ripetutamente violati.

É stato interrogato in ospedale mentre era in condizioni critiche, senza la presenza mia, di sua madre e neppure del suo avvocato,” dice Bassem, aggiungendo che Ayham è stato obbligato a firmare documenti in ebraico, una lingua che non capisce.

Da allora l’adolescente è stato tenuto nella prigione israeliana di Ofer per l’uccisione di Weissman. Ayham è comparso più di 30 volte davanti al tribunale militare israeliano.

Il tribunale ha avuto più di 30 possibilità di emettere una sentenza, ma ha solo temporeggiato, affermando di aspettare nuove prove o testimonanze contro Ayham,” dice Bassem.

Ma, afferma Bassem, le nuove prove e le testimonianze oculari non sono mai arrivate.

Di solito la famiglia di un accusato non vorrebbe che le prove a carico vengano ammesse in aula,” dice Bassem. “Ma noi abbiamo pregato il giudice di accettare in tribunale come prova la ripresa delle telecamere di sorveglianza del giorno dell’aggressione.”

In realtà volevamo che il tribunale accettasse la prova in modo da concludere il caso ed emettere la sentenza contro Ayham al più presto,” afferma.

La famiglia credeva che, nonostante i tentativi della procura di ottenere l’ergastolo, il giudice sarebbe stato clemente dato che Ayham era un ragazzino e non aveva ancora raggiunto la pubertà al momento dell’attacco.

In base alle leggi internazionali e dei diritti umani si dovrebbero prendere in considerazione alcuni fattori quando si mette in prigione e si condanna un bambino,” dice suo padre. “Ma il tribunale israeliano non ne ha tenuto conto.”

Trentacinque anni non è solo una condanna pesante, è scandalosa,” continua Bassem. “Ayham era solo un bambino, non capiva quello che stava facendo.”

Quando gli si chiede perché Ayham, descritto dai genitori come un ragazzo studioso e giocoso, abbia commesso una simile azione, Bassem indica la finestra verso l’esterno.

Guarda l’occupazione tutt’intorno,” afferma. “Perché un bambino lascerebbe i suoi libri e il pallone per accoltellare qualcuno? A causa di quello che gli israeliani hanno fatto alla nostra terra, di come ci hanno aggrediti, arrestati e uccisi per anni con l’occupazione, giorno dopo giorno.

È questo che fa pensare ai ragazzini palestinesi: quale futuro avrò sotto questa occupazione? Questo li porta a commettere un’aggressione.”

Agli occhi della corte

Ogni anno circa 700 palestinesi della Cisgiordania al di sotto dei 18 anni sono processati da tribunali militari israeliani, che, secondo i gruppi per i diritti umani “Addameer” [“Coscienza”, ong palestinese che si occupa dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, ndtr.] e “Defense for Children International – Palestine” [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP), vantano una percentuale di condanne del 99,7%.

Le leggi militari israeliane consentono che i bambini della Cisgiordania occupata e di Gaza dai 12 anni in su vengano condannati a pene detentive.

Fino a pochi anni fa la prassi israeliana consentiva che i minori palestinesi di un’età dai 16 anni in su fossero giudicati e condannati dai tribunali militari israeliani come adulti.

Nonostante un ordine militare del 2011 che alzava da 16 a 18 anni l’età della responsabilità giuridica dei palestinesi nel sistema dei tribunali militari, gli analisti sostengono che la prassi di giudicare ragazzini dai 16 anni in su come se fossero adulti è rimasta per lo più invariata.

Ci sono linee guida per le sentenze che limitano la possibilità del tribunale di condannare un minore a una lunga pena detentiva se ha meno di 15 anni,” dice a MEE Dawoud Yousef, analista per i diritti umani che risiede in Cisgiordania.

Per cui quello che tendono a fare i tribunali è di aspettare finché hai 16 anni in modo da poterti condannare come un adulto,” continua. “In teoria, ragazzini con meno di 18 anni non dovrebbero essere condannati a 35 anni, ma non ci sono norme o disposizioni che impediscano ai tribunali di farlo.”

Secondo Yousef, la ragione per cui le corti militari israeliane ritardano le condanne di minori palestinesi è duplice.

Non solo i tribunali militari perseguono indiscriminatamente il massimo della pena per i palestinesi, ma è anche una questione di immagine di fronte alla comunità internazionale,” afferma Yousef.

Alcuni gruppi per i diritti umani da tempo accusano i tribunali militari israeliani di fungere da “corti fantoccio” che, invece di funzionare come sistema di giustizia e per chiedere conto di reati, sono utilizzate come strumento di dominio, come estensione della sovranità israeliana nei territori palestinesi occupati.

Per lo Stato di Israele è estremamente importante che questi tribunali continuino a conservare almeno una parvenza di legittimità internazionale,” continua Yousef.

Così in molti casi questo vuol dire aspettare finché i ragazzini sono più grandi, e che lo sembrino anche fisicamente, il che consente ai tribunali di giustificare condanne a pene più lunghe.”

Oggetti taglienti

Solo due settimane prima che Ayham Sabbah venisse condannato, Israele ha liberato, dopo tre anni di prigione, i detenuti palestinesi Shadi Farrah e Ahmad al-Zaatari, entrambi quindicenni.

I due ragazzi, titolari di carte d’identità di Gerusalemme, sono stati arrestati nel 2015 a 12 anni con l’accusa di tentato omicidio, facendo di loro i prigionieri palestinesi più giovani del momento.

Le forze israeliane sostenevano che al momento del loro arresto i ragazzini fossero in possesso di oggetti affilati e stessero progettando di attuare un’aggressione nella zona.

Nonostante la loro recisa smentita che i ragazzini stessero pianificando una qualunque sorta di aggressione, nel novembre 2016 le famiglie Farrah e Zaatari hanno accettato un patteggiamento che ha visto i ragazzini condannati a tre anni, compreso il periodo già scontato, in un carcere minorile israeliano.

Siamo stati obbligati ad accettare il patteggiamento, benché i ragazzini non avessero fatto niente di male,” dice a MEE la madre di Shadi, Fariha Farrah.

Il pubblico ministero ci ha minacciati, affermando che se non avessimo accettato il patteggiamento, avrebbero iniziato a rimandare la condanna di Shadi fino al compimento dei 14 anni, nel qual caso avrebbe ricevuto una condanna ancora più lunga,” afferma la quarantenne.

A differenza dei minorenni palestinesi della Cisgiordania, quelli palestinesi con residenza a Gerusalemme est o con cittadinanza israeliana sono giudicati dai tribunali penali israeliani, non da corti militari.

In base alle leggi del codice penale israeliano, i minorenni con meno di 14 anni possono essere condannati solo a pene da scontare in strutture per minori. Una volta che abbiano superato i 14 anni, possono scontare la pena in una struttura carceraria insieme a prigionieri palestinesi adulti.

In quelli che Israele definisce casi “di sicurezza” – in genere riferendosi a casi in cui palestinesi sono accusati di aggredire israeliani – i minori palestinesi di Gerusalemme incarcerati non ricevono pene ridotte. Per ogni condanna o imputazione che prevede una pena massima al di sopra dei sei mesi, i minori dai 14 anni in su vengono condannati a pene uguali a quelle degli adulti.

Il pubblico ministero non ha prodotto alcun testimone che potesse deporre contro Shadi, ma il tribunale ha iniziato a rimandare e rimandare la sentenza senza alcuna ragione, “continua Farrah. “Stavamo facendo una corsa contro il tempo per essere sicuri che Shadi ricevesse una sentenza prima di compiere 14 anni.”

Avevamo visto quello che era successo ad Ahmed Manasra, come hanno iniziato a rinviare la sentenza, e questo ci ha terrorizzati tanto da accettare il patteggiamento,” sostiene.

Pochi mesi prima della condanna di Shadi, nel novembre 2016, un tribunale israeliano aveva condannato il quattordicenne Ahmad Manasra a 12 anni di prigione per tentato omicidio.

Manasra, il cui processo ha fatto notizia, aveva solo 13 anni quando lui e suo cugino hanno colpito e ferito gravemente due israeliani nei pressi di una colonia israeliana nella Gerusalemme est occupata.

Israele è stato universalmente criticato per aver rimandato la condanna di Manasra fin dopo il compimento dei 14 anni, età in cui era abbastanza grande perché in base alle leggi israeliane gli venisse comminata una detenzione più pesante.

Quello stesso anno i tribunali israeliani hanno condannato a lunghe pene detentive per tentato omicidio molti altri minori palestinesi di Gerusalemme che sarebbero stati coinvolti in presunte aggressioni all’arma bianca tra il 2015 e il 2016.

Doppio standard

Ognuna delle famiglie Rimawi, Sabbah e Farrah ha espresso le stesse rimostranze: se i ruoli fossero stati invertiti, questo non sarebbe avvenuto.

Sappiamo che in queste situazioni il razzismo è uno dei fattori decisivi,” dice Bassem a MEE.

Se un colono israeliano minorenne uccidesse un palestinese, pensi che gli toccherebbe la stessa sorte di mio figlio? Assolutamente no,” afferma.

Gli israeliani che attacchino o uccidano dei palestinesi sono giudicati, ammesso che lo siano, nei tribunali civili,” sostiene Rimawi. “Ma se un minore palestinese lancia una pietra, viene giudicato da un tribunale militare. Che razza di sistema giudiziario è questo?”

Sabbah e gli altri genitori segnalano casi di minori, e adulti, israeliani che hanno ucciso o aggredito dei palestinesi e se la sono cavata con condanne molto meno pesanti dei loro figli, e persino senza nessuna condanna.

Guarda il caso dei ragazzi che hanno rapito e bruciato vivo Mohammed Abu Khdeir nel 2014,” dice Sabbah, sottolineando il fatto che uno degli adolescenti condannati sta scontando una condanna a 21 anni, rispetto ai 35 di Ayham Sabbah.

Guarda Elor Azaria,” dice Fariha Farrah, “è stato ripreso in un video mentre giustiziava Abd al-Fattah al-Sharif, e ha passato 8 mesi in prigione.”

Farrah aggiunge che, durante il processo a suo figlio Shadi, l’avvocatessa israeliana della famiglia stava difendendo anche un colono israeliano minorenne che aveva aggredito un soldato israeliano.

Il ragazzo israeliano che stava difendendo è stato rilasciato e gli è stata comminata una lieve ammenda, ed egli aveva aggredito uno dei loro soldati,” afferma. “Mio figlio aveva 12 anni ed è stato in prigione per 3 anni perché avrebbe “pianificato” un attacco, quando non ha neppure alzato le mani su qualcuno.”

All’inizio della scorsa estate l’Alta Corte israeliana ha rilasciato un colono israeliano coinvolto nel 2015 nell’incendio di una casa palestinese che ha ucciso un neonato palestinese e i suoi genitori della famiglia Dawabsheh.

La Corte ha liberato il colono dopo che aveva trascorso due anni in prigione con il pretesto che era minorenne al momento del gravissimo attacco. Gli sono stati comminati gli arresti domiciliari.

Hanno bruciato vivo un neonato, e l’hanno fatta franca,” dice Farrah.

Quello che fanno per i minori israeliani dovrebbero farlo anche per quelli palestinesi,” continua Sabbah.

In tutto il mondo i minorenni non sono giudicati come gli adulti, anche se hanno fatto un errore,” dice.

C’è una cosa chiamata infanzia – che dovrebbe essere rispettata. Ma sotto occupazione, i nostri ragazzini stanno passando la loro infanzia in prigione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




JNF Canada sottoposto a controllo per aver utilizzato donazioni per finanziare progetti dell’esercito israeliano: un rapporto

Redazione di MEE

4 gennaio 2019, Middle East Eye

CBC News informa che il Jewish National Fund del Canada è stato sottoposto a un’indagine per aver utilizzato donazioni in beneficienza per finanziare progetti dell’esercito israeliano

La Canadian Broadcasting Corporation [l’Ente televisivo canadese] ha riferito che il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] del Canada è stato sottoposto a un’indagine da parte dell’ufficio federale delle imposte del Paese perché avrebbe destinato donazioni in beneficienza al finanziamento di progetti dell’esercito israeliano.

Venerdì [4 gennaio] CBS News ha detto che JNF Canada, una delle principali associazioni di beneficienza del Canada, ha finanziato progetti infrastrutturali dell’esercito israeliano, basi aeree e navali.

CBC ha informato che lo scorso anno l’organizzazione ha comunicato ai suoi donatori di essere sottoposta a un’inchiesta da parte della Canada Revenue Agency [Agenzia delle entrate canadese, ndtr.].

Mentre nessuna legge impedisce a un cittadino canadese di intestare un assegno direttamente al ministero della Difesa israeliano, le norme vietano a enti di beneficienza esenti da tasse di destinare entrate fiscali per tali donazioni e proibisce anche ai donatori di chiedere riduzioni fiscali per questo,” ha affermato la televisione nazionale.

CBC ha informato che JNF Canada ha aiutato a finanziare, tra i vari progetti, una zona di fitness all’aria aperta nella base militare di Gadna a Sde Boker, nella regione desertica del Negev nel sud di Israele.

Citando documenti prodotti da Keren Kayemeth LeIsrael (KKL), la società madre in Israele dell’organizzazione JNF Canada, CBC News ha detto che la sezione canadese di JNF ha anche contribuito a finanziare “la nuova cittadella di addestramento dell’IDF [esercito israeliano] nel Negev.”

Le donazioni del JNF Canada sono state destinate anche ad appoggiare lo sviluppo di un complesso di addestramento e un auditorium nella base navale di Bat Galim, come anche addestramento e conferenze nella stessa base e una “specie di refettorio” per reparti nelle basi dell’aviazione di Palmachim e di Nevatim.

Nel reportage di CBC News figura anche il coinvolgimento di JNF Canada in progetti nei territori palestinesi occupati

Il mezzo di informazione ha affermato che le missioni dell’organizzazione hanno contribuito direttamente alla costruzione almeno di un avamposto di coloni su una collina, Givat Oz VeGaon, che è illegale in base alle leggi internazionali ed israeliane.

JNF Canada afferma di aver smesso di finanziare progetti dell’esercito nel 2016

In una mail, l’amministratore delegato di JNF Canada Lance Davis ha detto alla CBC che l’organizzazione ha smesso di finanziare progetti legati all’esercito israeliano nel 2016, dopo essere stata informata delle linee guida della CRA.

Per essere chiari, non abbiamo più finanziato progetti su terreni dell’IDF e JNF Canada ha agito in accordo con le norme della CRA che definiscono il suo status di organizzazione caritativa,” ha scritto Davis.

Comunque le sezioni sia israeliana che canadese del JNF sono state accusate per decenni di essere complici dell’espulsione forzata di palestinesi dalle loro case da parte di Israele, così come di politiche discriminatorie nella destinazione delle terre.

JNF Canada finanziò la creazione del Canada Park, un’estesa riserva naturale a circa 25 km da Gerusalemme, costruita sulle rovine di 3 villaggi palestinesi che vennero spopolati con la forza dall’esercito israeliano nella guerra del 1967.

Gli originari abitanti palestinesi di quei villaggi – Yalu, Imwas and Beit Nuba – vennero espulsi con la forza dalla zona e a molti, se non a tutti, venne impedito di tornarvi.

Independent Jewish Voices Canada” [Voci ebraiche indipendenti del Canada], un gruppo che sostiene i diritti dei palestinesi, ha guidato una campagna “Stop al JNF”, con l’intenzione di togliere all’organizzazione lo status di ente benefico in Canada.

Nel 2017 il gruppo ha aiutato quattro canadesi a presentare un ricorso presso la CRA e il ministero delle Finanze canadese in cui si chiedeva che a JNF Canada non venisse più consentito di operare come associazione di beneficienza.

“Solo negli ultimi anni JNF Canada ha finanziato ben più di una decina di progetti di appoggio all’IDF ed è partner ufficiale dell’IDF e del ministero della Difesa israeliano,” afferma il gruppo nel suo sito web.

IJV-Canada ha anche affermato che il JNF ha piantato alberi nei territori palestinesi occupati, contribuendo quindi al fatto che Israele rafforzasse il proprio controllo su quelle aree, in violazione delle leggi internazionali.

Prendendo il controllo di terre nei (territori palestinesi occupati), questi progetti rafforzano la cinquantennale occupazione militare di Israele, rendendo molto più difficile da raggiungere una giusta pace,” sostiene il gruppo.

Nessuna organizzazione canadese, per non parlare di un’associazione con lo status di ente benefico, dovrebbe sponsorizzare progetti che creano fatti sul terreno in favore di una potenza occupante e che – in violazione delle leggi internazionali – modifica le caratteristiche fisiche del territorio occupato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Com’è cresciuta la campagna per il boicottaggio di Israele nel 2018?

Nora Barrows-Friedman

31 dicembre 2018, Electronic Intifada

Il 2018 è stato un anno di vittorie degli attivisti per i diritti umani nonostante pesanti pressioni, attacchi e tentativi propagandistici da parte di Israele e dei suoi gruppi lobbistici di ripulire la sua immagine.

All’inizio dell’anno si è appreso che l’alleanza del presidente USA Donald Trump con gruppi suprematisti bianchi e personaggi antisemiti ha spinto verso il basso l’appoggio nei confronti di Israele, soprattutto tra i giovani ebrei americani.

In ottobre un altro sondaggio ha confermato che il sostegno a favore di Israele viene soprattutto dalla base di Trump, un ricettacolo di opinioni di estrema destra, di nazionalisti bianchi e di cristiani sionisti, mentre quello da parte di altri americani continua a ridursi.

All’inizio dell’anno l’AIPAC, il più potente gruppo della lobby israeliana al Congresso [USA], ha dovuto ammettere di dover affrontare crescenti difficoltà nei suoi tentativi di consolidare l’appoggio a Israele tra i dirigenti progressisti americani.

Tuttavia l’AIPAC, insieme all’“Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, ndtr.] e gruppi di pressione simili, hanno continuato a insistere a favore di una legge federale – l’“Israel Anti-Boycott Act” [Legge contro il Boicottaggio di Israele, ndtr.] – che intende criminalizzare i sostenitori del movimento per il boicottaggio, anche se a porte chiuse l’ADL è giunto alla conclusione che tali leggi sono inefficaci e incostituzionali.

Ma ci sono segnali che persino i sostenitori più accaniti di Israele al Congresso hanno iniziato a tirarsi indietro.

Proprio nelle scorse settimane i senatori Bernie Sanders del Vermont e Dianne Feinstein della California hanno esortato i principali leader del Congresso a togliere l’Israel Anti-Boycott Act da un pacchetto di norme di bilancio, facendo riferimento a palesi violazioni del Primo Emendamento [primo articolo della Costituzione USA, ndtr.].

Ali Abunimah, di “The Electronic Intifada”, ha sottolineato che , dopo il premeditato massacro di palestinesi a Gaza del 30 marzo da parte di Israele, nessun democratico di entrambe le Camere del Congresso USA ha parlato in difesa delle azioni di Israele, una notevole differenza nella politica di parlamentari che nel passato lo hanno immediatamente fatto.

Ciò riflette il riconoscimento della sempre più negativa immagine di Israele, soprattutto tra la base democratica.

Gli attacchi di Israele contro gli attivisti del BDS sono stati a volte assurdi – come quando alla fine del 2017 un gruppo israeliano sostenuto dal Mossad per la lotta giudiziaria ha denunciato due attivisti neozelandesi per aver spinto con successo la pop star Lorde ad annullare la sua esibizione a Tel Aviv.

Gli attivisti citati in quell’azione legale – che secondo esperti di diritto non potrebbe essere applicata – hanno sfruttato la pubblicità derivante dal caso per raccogliere fondi a sostegno di un centro per l’assistenza psichiatrica a Gaza e per suscitare maggiore attenzione sulla crisi umanitaria in tutta la Palestina.

La diffusione da parte di “The Electronic Intifada” di un documentario censurato prodotto da Al Jazeera sulle strategie della lobby israeliana negli USA ha contribuito a svelare i tentativi di Israele e dei suoi lobbisti di spiare, calunniare e intimidire i cittadini USA che appoggiano i diritti umani dei palestinesi, soprattutto del movimento BDS.

Nonostante attacchi, calunnie e minacce da parte di Israele, gli attivisti a favore del boicottaggio continuano a ottenere notevoli risultati – con sommo sgomento dei dirigenti israeliani.

Stiamo evidenziando i crimini e le politiche di apartheid di Israele e facendo pressione per porvi fine,” hanno rilevato importanti attivisti del movimento BDS nella loro riunione annuale sui risultati più importanti del boicottaggio.

Ecco alcune delle principali vittorie del BDS su cui “The Electronic Intifada” ha informato nel corso dell’anno.

Israele continua ad avere un’immagine negativa

Nel 2018 alcuni artisti hanno continuato a rinunciare ad esibirsi in Israele, in seguito a insistenti appelli da parte di attivisti per i diritti umani in Palestina e in tutto il mondo.

Shakira e Gilberto Gil hanno guidato una lista di importanti cancellazioni, mentre decine di DJ e produttori musicali si sono pubblicamente impegnati a non esibirsi nello Stato dell’apartheid.

Durante l’estate il festival israeliano “Meteor” si è chiuso senza la sua artista più importante, Lana del Rey, che ha rinunciato al suo spettacolo pochi giorni prima che il festival iniziasse, affermando di voler “trattare tutti i suoi fan allo stesso modo.”

Altre sedici esibizioni del festival “Meteor”, compreso quello di “Of Montreal” [gruppo musicale USA, ndtr.] sono state annullate dal festival in seguito a pressanti appelli da parte di attivisti palestinesi e internazionali a rispettare la richiesta di boicottaggio.

In aprile l’attrice israelo-americana Natalie Portman si è rifiutata di ricevere un premio a Gerusalemme, a quanto pare in seguito ai massacri di palestinesi da parte di Israele, con grande sdegno e sconcerto dei dirigenti israeliani.

In giugno 11 registi LGBTQ si sono rifiutati di consentire a Israele di utilizzarli per occultare i suoi crimini, unendosi al boicottaggio del TLVFest – il festival internazionale LGBT di Tel Aviv.

Alcuni artisti hanno boicottato anche il Film Festival di Istanbul, dopo che si è saputo che Israele lo stava sponsorizzando.

Il boicottaggio culturale ha ottenuto successi anche nel mondo dello sport, in quanto in giugno la nazionale di calcio argentina ha annullato una partita molto importante con Israele dopo un’intensa campagna internazionale iniziata in Argentina e che ha travolto l’America latina e la Spagna. Tifosi e attivisti hanno sollecitato l’Argentina e la stella della squadra, Lionel Messi, a non aiutare Israele a nascondere i massacri di civili disarmati a Gaza.

All’inizio dell’anno una corsa motociclistica sponsorizzata dalla Honda in Israele è stata annullata in seguito a pressioni di attivisti BDS.

In autunno altri tentativi propagandistici di Israele sono falliti e grandi cuochi a livello internazionale hanno rinunciato al festival “Tavole Rotonde”, mentre una fonte diplomatica israeliana ha ammesso che centinaia di eventi culturali inclusi nella “Saison France-Israël” [Stagione Francia-Israele], “non hanno avuto nessun successo riguardo all’immagine di Israele in Francia, o a quella della Francia qui [in Israele, ndtr.].”

Nel contempo in tutta Europa gli attivisti continuano a fare pressione sulle emittenti televisive per non consentire a Israele di ospitare la competizione canora “Eurovision” come parte della sua campagna di riverniciatura della sua immagine.

Manifestanti hanno tenuto regolarmente proteste fuori dalle esibizioni di Netta Barzilai, la vincitrice israeliana dell’Eurovisione 2018 che è stata utilizzata come parte dei tentativi di propaganda a livello internazionale sostenuti ufficialmente dal Paese.

Chiese, imprese e sindacati lasciano Israele

A dicembre il gigante bancario HSBC [primo istituto di credito europeo, con sede a Londra, ndtr.] ha confermato di aver disinvestito dall’impresa bellica israeliana Elbit Systems in seguito a una campagna dal basso.

L’impresa [israeliana, ndtr] è già stata esclusa da fondi pensione e di investimento in tutto il mondo per il suo coinvolgimento nella fornitura di sistemi di sorveglianza e altre tecnologie al muro di Israele e alle colonie nella Cisgiordania occupata.

Affermando di essere la prima chiesa britannica a prendere una simile iniziativa, in novembre la chiesa dei quaccheri ha annunciato che non avrebbe investito alcun fondo posseduto a livello centrale che tragga profitto dalle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

Unendosi ad altre congregazioni religiose cristiane degli USA, la chiesa episcopale ha votato per l’adozione di un controllo sugli investimenti per evitare di trarre profitto da violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Ha anche deciso di tutelare i diritti dei minori palestinesi e dei palestinesi di Gaza, di appoggiare l’autodeterminazione dei palestinesi e di chiedere la prosecuzione dell’aiuto USA ai rifugiati palestinesi.

Un’altra risoluzione chiede un giusto accesso a Gerusalemme e si oppone allo spostamento dell’ambasciata USA in città da parte dell’amministrazione Trump.

In agosto lavoratori del sindacato e attivisti del boicottaggio nel mondo arabo hanno obbligato la compagnia di navigazione israeliana “Zim” a interrompere a tempo indefinito i suoi viaggi verso la Tunisia.

La principale federazione sindacale tunisina, la UGTT, ha chiesto ai propri membri di impedire alla nave “Cornelius A”, legata ad Israele, di fare scalo in Tunisia ed ha appoggiato le richieste di un’inchiesta ufficiale sul commercio clandestino con Israele.

Lavoratori giordani hanno rifiutato di fornire materiale per il gasdotto Giordania-Israele, mentre l’impresa francese Systra si è impegnata a ritirarsi dai piani di espansione del progetto della metropolitana leggera di Israele [a Gerusalemme, ndtr.].

E a novembre il gigante dell’affitto per turisti Airbnb ha annunciato che avrebbe tolto dal suo elenco di offerte proprietà in colonie israeliane nella Cisgiordania occupata. In base alle leggi internazionali ogni colonia israeliana nei territori occupati è illegale.

Benché a questo proposito chi sia stata una certa confusione riguardo a se – e quando – questo cambiamento di politica aziendale verrà messo in pratica o se l’impresa, sotto pressione di Israele, farà marcia indietro rispetto al suo annuncio, ciò è servito a mettere in luce la complicità dell’impresa rispetto ai crimini di guerra israeliani.

Amministrazioni locali sostengono il boicottaggio

Nonostante i tentativi della lobby israeliana di interferire sulle politiche locali e nazionali, consigli comunali in Europa e in America Latina hanno approvato dure risoluzioni di appoggio alla campagna BDS, con una crescente ondata di resistenza ai crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In giugno Monaghan è diventato il quinto consiglio provinciale o comunale irlandese a dichiarare il proprio sostegno al BDS. Ha fatto seguito al voto in aprile di Dublino, diventata la prima capitale europea a farlo, che ha aderito a un boicottaggio contro Israele e di conseguenza ha interrotto un contratto con HP, una ditta di computer da lungo tempo complice dell’occupazione militare di Israele.

Più o meno nello stesso periodo il consiglio comunale di Valdivia, in Cile, ha approvato una mozione che sostiene la campagna BDS e ha dichiarato la città “zona libera dall’apartheid”.

Una serie di iniziative di “zona libera dall’apartheid” simili è stata approvata da più di 30 città spagnole.

A maggio anche Bologna, la settima città d’Italia per numero di abitanti, ha chiesto un embargo militare contro Israele [sulla scia di Bologna anche i consigli comunali di Torino e Napoli hanno approvato la stessa richiesta. ndtr]

A giugno la Norvegia ha approvato una mozione che appoggia il diritto di singole città di boicottare colonie israeliane, assestando un duro colpo a politici di destra che avevano cercato di opporsi ai boicottaggi approvati nelle città di Trondheim and Tromsø.

Nel Regno Unito membri del partito Laburista hanno votato a larga maggioranza l’appoggio al congelamento della vendita di armi contro Israele.

Leggi contro il BDS sono state bloccate o contestate

Nel 2018 nelgi USA sono state bloccate leggi che cercavano di zittire il diritto al boicottaggio.

Tribunali federali hanno sentenziato contro leggi anti-BDS in Arizona e nel Kansas, mentre ricorsi legali sono stati presentati a tribunali del Texas e dell’Arkansas contro l’imposizione del giuramento di lealtà verso Israele.

In febbraio attivisti dei diritti umani nella città di Maplewood, in New Jersey, hanno contribuito a sconfiggere una decisione locale che avrebbe condannato il movimento BDS. La risoluzione era stata presentata al consiglio comunale da rappresentanti di gruppi di sostegno a Israele che hanno fatto pressione su altre città vicine perché adottassero risoluzioni simili.

E attivisti in Missouri e in Massachusetts hanno fatto con successo una campagna per bloccare misure contro il BDS a livello statale.

In Germania – che è stata ostile all’attivismo BDS e ha stabilito di equiparare il sostegno ai diritti della Palestina con l’antisemitismo – a settembre attivisti locali del boicottaggio hanno ottenuto una significativa vittoria che potrebbe costituire un precedente legale in tutto il Paese.

Il tribunale municipale di Oldenburg ha sentenziato che una precedente decisione del consiglio comunale di annullare un evento del BDS nel 2016 era illegale e violava la libertà di espressione e di riunione. È stata la prima volta che un tribunale amministrativo tedesco ha dichiarato illegale vietare un evento del BDS.

Studenti approvano risoluzioni radicali che proteggono i diritti dei palestinesi.

Resistendo a pressioni della lobby israeliana, di siti web che in modo oscuro stilano liste di proscrizione e di campagne di vessazioni mirate, attivisti studenteschi in tutti gli USA, in Canada e in Europa si sono mantenuti fermi nel sostenere i diritti dei palestinesi e hanno chiesto ad amministrazioni universitarie di disinvestire dai crimini israeliani di occupazione e apartheid.

In maggio studenti dell’università statale della California, East Bay, hanno votato all’unanimità a favore di una mozione che chiede il disinvestimento da imprese che siano state riconosciute complici delle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi, comprese Caterpillar, HP, la G4S e Motorola.

E rappresentanti degli studenti nel senato accademico dell’università dell’Oregon hanno approvato una mozione per accertarsi che i fondi degli studenti vengano disinvestiti da 10 imprese che traggono profitto dalle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Un referendum in favore del disinvestimento è stato approvato al Barnard College [storico college femminile, ndtr.] di New York. La misura è stata approvata nonostante tentativi recenti e passati da parte dell’amministrazione e dei gruppi della lobby israeliana di intimidire e calunniare studentesse e docenti che appoggiano i diritti dei palestinesi presso il Barnard e il suo partner, la Columbia University.

All’inizio di dicembre anche studenti dell’università di New York hanno votato in massa a favore del disinvestimento con più di 60 gruppi nei campus e 35 membri del corpo docente che hanno appoggiato l’iniziativa.

All’università del Minnesota gli studenti hanno approvato un referendum che invita l’amministrazione a prendere iniziative riguardo alla sua politica di investimenti socialmente responsabili e di disinvestire da imprese che traggano profitto dalle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, come anche da prigioni, centri di detenzione per immigrati e imprese che violino la sovranità di comunità indigene.

La Federazione Canadese degli Studenti, la maggiore organizzazione studentesca del Canada, a novembre ha votato l’adesione al movimento BDS, la condanna della continua occupazione e delle atrocità israeliane a Gaza e l’elargizione di donazioni finanziarie a varie organizzazioni palestinesi di solidarietà.

La federazione, che rappresenta più di 500.000 studenti in tutto il Canada, ha affermato anche che avrebbe appoggiato le sezioni locali per iniziare campagne di disinvestimento dalle armi nelle singole amministrazioni universitarie.

In Irlanda l’Unione degli Studenti, che rappresenta 374.000 studenti dell’educazione superiore, ha votato l’adesione al movimento BDS ed ha condannato la “brutale” occupazione militare e la violazione dei diritti umani da parte di Israele.

L’Unione ha deciso di boicottare le istituzioni israeliane che sono “complici nel normalizzare, fornire copertura dal punto di vista intellettuale e sostenere il colonialismo di insediamento” e di fare pressione sulle università irlandesi perché disinvestano da imprese che traggono profitto dalla violazione dei diritti da parte di Israele. Hanno anche ribadito il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi da Israele.

Il voto ha fatto seguito al provvedimento votato in marzo dagli studenti del Trinity College di Dublino in appoggio alla campagna BDS.

In primavera anche dirigenti studenteschi dell’università di Pisa, in Italia, hanno adottato una mozione con un voto quasi unanime che chiede l’attenzione da parte della comunità accademica verso le politiche di apartheid di Israele e il sostegno alla campagna di boicottaggio accademico.

A novembre quella di Leeds è diventata la prima università del Regno Unito a disinvestire da imprese coinvolte nella vendita di armi ad Israele, dopo una campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni da parte di attivisti in solidarietà con la Palestina.

Nel 2018 anche alcuni professori hanno continuato a dimostrare il proprio appoggio ai diritti dei palestinesi.

In marzo un sindacato che rappresenta il corpo docente della “Los Rios College Federation” [Federazione dei college del distretto di Los Rios] in California ha votato quasi all’unanimità il sostegno al disinvestimento dei fondi pensione da imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Due insegnanti dell’università del Michigan hanno resistito agli attacchi della lobby israeliana ed hanno difeso la loro decisione di non scrivere lettere di presentazione per studenti che desideravano frequentare programmi di studio discriminatori all’estero in Israele.

E in California i docenti dell’università Pitzer [un’università privata. ndtr] hanno chiesto la sospensione dei programmi di studio all’estero in Israele con l’università di Haifa, facendo riferimento alle politiche discriminatorie di Israele in base all’origine e alle opinioni politiche. Il corpo docente ha anche appoggiato il diritto degli studenti ad aderire alla campagna del BDS.

Brindiamo alle vittorie del 2018, mentre gli attivisti si organizzano per quelle che arriveranno nel 2019.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La legge di Israele sullo Stato-Nazione discrimina anche gli ebrei mizrahì

Orly Noy

2 gennaio 2019, + 972

Accademici e attivisti mizrahì chiedono che l’Alta Corte israeliana bocci la legge dello Stato-Nazione ebraico, affermando che annulla la loro tradizione culturale e perpetua ingiustizie sia contro di loro che contro i cittadini palestinesi di Israele

Martedì più di 50 illustri ebrei israeliani di origine mizrahì [ebrei originari dei Paesi arabi, ndtr.] hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia chiedendo che bocci la legge sullo Stato-Nazione ebraico e affermando che discrimina sia i cittadini palestinesi che gli ebrei mizrahì cittadini di Israele.

Secondo la petizione, la legge, che degrada l’arabo da lingua ufficiale a lingua con uno “status speciale”, è “anti-ebraica” in quanto esclude la storia e la cultura degli ebrei dei Paesi arabi e musulmani, “rafforzando al contempo l’impressione che la cultura arabo-ebraica sia inferiore…e rafforza l’identità dello Stato di Israele come anti-araba.”

Il ricorso, scritto e presentata dall’avvocatessa Netta Amar-Shiff, fa anche riferimento all’articolo della legge che definisce “di importanza nazionale” le colonie ebraiche. Secondo i ricorrenti, ogni volta che Israele si assume l’onere di “riprogettare” la terra dal punto di vista demografico, danneggia i mizrahì spingendoli nella periferia geografica del Paese scarsamente servita. Questo processo ostacola il loro accesso alla terra di maggior valore attraverso comitati di ammissione, che consentono alle comunità in tutto il Paese di respingere chi chiede di andarvi ad abitare in base alla sua “idoneità sociale”.

Tra i firmatari ci sono il noto scrittore Sami Michael, il professor Yehuda Shenhav, la professoressa Henriette Dahan-Kalev, il militante Black Panther [Pantera nera, movimento di protesta dei mizrahì degli anni ’70, ndtr.] e attivista per la giustizia sociale Reuven Abergil, tra gli altri. (Per correttezza: chi scrive è una dei firmatari della petizione). Secondo gli autori della petizione, i mizrahì sono stati sostanzialmente esclusi dalla formulazione della legge, nonostante il fatto che potrebbe danneggiare il diritto della loro comunità a preservare il proprio retaggio culturale, e che i suoi [della legge] palesi pregiudizi antiarabi potrebbero ripercuotersi negativamente sugli ebrei originari dei Paesi arabi.

Seguendo l’establishment di Israele, le autorità fecero il possibile per eliminare l’identità e la cultura arabe tra gli immigrati dai Paesi arabi e musulmani attraverso la dottrina del “melting pot” [mescolanza, termine riferito alla costruzione della società statunitense, ndtr.] forzato, emarginandoli sia materialmente che culturalmente. Più di sei decenni fa, il diplomatico israeliano e arabista Abba Eban disse: “L’obiettivo deve essere instillare in loro uno spirito occidentale e non lasciare che ci trascinino in un Oriente innaturale. Uno dei maggiori timori…è il pericolo che il gran numero di immigrati di origine mizrahì obblighi Israele a paragonare quanto siamo colti con i nostri vicini.”

Per 70 anni questa visione del mondo ha costituito la base riguardo a come Israele vede i mizrahì. L’establishment politico ha chiesto agli ebrei mirzahì di rinunciare alla loro identità araba, creando una frattura tra loro e la loro storia culturale. Eppure, nonostante i tentativi di annullamento culturale da parte dell’establishment, pareri di esperti e dichiarazioni scritte allegate alla petizione mostrano come molti mizrahì – comprese le generazioni più giovani – continuino a considerare l’arabo come culturalmente e linguisticamente importante nella propria vita privata.

I pareri di esperti intendono anche esporre le complesse vicende storiche degli ebrei originari dei Paesi arabi per spiegare perché la legge, paragonabile a una modifica costituzionale, sarebbe al contempo dannosa per l’eredità culturale dei mizrahì e continuerebbe a incidere negativamente su di loro. Secondo il professor Elitzur bar-Asher, un linguista ed esperto della lingua ebraica, l’obiettivo della legge non è “rafforzare l’ebraico (a spese dell’arabo), ma sminuire la sua controparte araba.”

Nel suo parere di esperto, il dottor Moshe Behar dimostra come l’arabo sia stato parte inseparabile del mondo intellettuale ebraico in Medio Oriente durante i periodi sia ottomano che del Mandato britannico. Secondo Behar, gli intellettuali ebrei consideravano la conoscenza dell’arabo come una necessità per tutti gli ebrei della regione.

La ricercatrice culturale Shira Ohayon descrive l’influenza della lingua araba e il suo rapporto con la rinascita della lingua, poesia e liturgia ebraiche, mentre lo studioso culturale e regista Eyal Sagui Bizawe nota come gli ebrei che vivevano nei Paesi arabi abbiano avuto un ruolo attivo nella creazione della cultura araba e come proprio questa cultura sia divenuta parte del loro retaggio culturale.

La petizione è una importante, e forse rivoluzionaria, pietra miliare nella lotta dei mizrahì in Israele. Tra i firmatari ci sono donne e uomini, religiosi, laici e tradizionalisti, quelli che si definiscono sionisti e altri che non si definiscono tali. Gli autori intendono conservare l’identità mizrahì nel suo significato più profondo, rivendicando i nostri diritti culturali e storici, utilizzando ogni strumento giuridico, accademico ed etico per respingere ogni tentativo di isolare gli ebrei mizrahì dal loro contesto naturale – in beneficio dell’ideologia del “melting pot” di Israele.

Una versione di questo articolo è stato pubblicata per la prima volta in ebraico su “Local Call” [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Esportare la tecnologia dell’occupazione

Antony Loewenstein

4 gennaio 2019 The New York Review of Books

Parlando recentemente via satellite da Mosca ad un pubblico di Tel Aviv poco dopo l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita ad Istanbul, l’informatore della National Security Agency [ente governativo USA che si occupa di sicurezza nazionale, ndtr.] Edward Snowden ha sostenuto che l’Arabia Saudita ha utilizzato un software-spia prodotto in Israele per tracciare i movimenti di Khashoggi prima della sua morte. Snowden ha detto che l’agenzia israeliana di intelligence informatica ‘NSO Group Technologies’ ha sviluppato un software noto come Pegasus che è stato venduto ai sauditi ed ha consentito che Khashoggi fosse monitorato infettando lo smartphone di uno dei suoi contatti, un altro oppositore del regime saudita, che vive in Canada.

Questo dissidente, Omar Abdulaziz, alla fine del 2018 ha promosso un’azione legale in Israele sostenendo che il gruppo NSO ha violato le leggi internazionali vendendo la propria tecnologia a regimi oppressivi. “NSO dovrebbe rispondere riguardo alla protezione delle vite di dissidenti politici, giornalisti ed attivisti per i diritti umani”, ha detto il suo avvocato di Gerusalemme, Alaa Mahajna. Il gruppo NSO risulta di proprietà di un’impresa americana, la Francisco Partners, e sia Goldman Sachs che Blackstone vi investono. Il giornalista di The Washington Post David Ignatius, da tempo sostenitore dei sauditi, ha confermato le affermazioni di Snowden circa gli affari dell’impresa israeliana con il Regno [saudita].

Questo è solo uno dei tanti sinistri esempi di un lucroso affare. Secondo il Jerusalem Post, Israele recentemente ha venduto all’Arabia Saudita sofisticati impianti di spionaggio per un valore di 250 milioni di dollari, e Haaretz ha anche riferito che al Regno è stato offerto un software per intercettazioni telefoniche del gruppo NSO poco prima che il principe ereditario Mohammed Bin Salman iniziasse le purghe contro gli oppositori nel 2017. Sia Israele che l’Arabia Saudita considerano l’Iran come un’eccezionale minaccia che giustifica la loro cooperazione.

Oltre a software di spionaggio e strumenti informatici, Israele ha sviluppato una crescente industria nell’ambito della sorveglianza, inclusi spionaggio, operazioni psicologiche e disinformazione. Una di queste imprese, Black Cube, un’agenzia di intelligence privata con legami con il governo israeliano (due ex capi del Mossad hanno fatto parte del suo comitato consultivo internazionale), di recente ha acquisito notorietà – soprattutto per aver spiato donne che avevano accusato il magnate di Hollywood Harvey Weinstein di violenza sessuale. Alcuni reportage hanno anche rivelato l’attività dell’impresa per il governo autoritario ungherese, così come una presunta campagna di ‘operazioni sporche’ contro funzionari dell’amministrazione Obama legati all’accordo nucleare iraniano e contro un ricercatore anti-corruzione in Romania. Black Cube ed altre agenzie simili hanno stretti legami con lo Stato di Israele in quanto impiegano molti dipendenti che hanno fatto parte dell’intelligence.

In più di mezzo secolo di occupazione Israele ha perfezionato l’arte di monitorare e sorvegliare milioni di palestinesi in Cisgiordania, Gaza e nello stesso Israele. Adesso confeziona e vende queste conoscenze a governi che ammirano la capacità del Paese di reprimere e gestire la resistenza. Così l’occupazione israeliana è diventata globale. Le esportazioni del Paese per la difesa hanno raggiunto un record di 9,2 miliardi di dollari nel 2017, il 40% in più del 2016 (in un mercato di armamenti globale che ha registrato le vendite più alte di sempre nel 2017, con la cifra di 398,2 miliardi di dollari). La maggioranza di queste vendite sono avvenute in Asia e nella regione del Pacifico. I sistemi militari, come missili e difesa aerea, sono stati il settore principale con il 31%, mentre i sistemi di intelligence, informatici e di spionaggio hanno rappresentato il 5%. L’industria di Israele è sostenuta da un’abbondante spesa interna: nel 2016 la spesa per la difesa ha rappresentato il 5,8% del PIL del Paese. A titolo di confronto, nel 2017 il settore della difesa americano ha assorbito il 3,6% del PIL degli USA. 

Nonostante i loro occasionali gesti diplomatici di opposizione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, molte Nazioni sono diventate acquirenti bendisposti di armamenti informatici israeliani e di know-how per lo spionaggio. Secondo il New York Times, anche il governo messicano ha utilizzato, almeno in un caso, strumenti del gruppo NSO, verosimilmente per spiare un giornalista d’inchiesta che è stato in seguito ucciso; sono stati presi di mira anche avvocati per i diritti umani ed attivisti anti-corruzione. Amnesty International ha accusato il gruppo NSO di aver cercato di spiare uno dei suoi dipendenti. Un gruppo di ricerca canadese, ‘The Citizen Lab’, ha scoperto che sono comparsi apparecchi telefonici infettati in Bahrein, Brasile, Egitto, Palestina, Turchia, Emirati Arabi, Regno Unito, USA e altrove.

Durante le recenti proteste a Gaza un ex amministratore delegato dell’impresa che ha costruito la barriera che circonda parte della Striscia di Gaza, Saar Korush della ‘Magal Security Systems’, ha detto all’agenzia Bloomberg che Gaza era una vetrina per la sua “recinzione intelligente”, perché i clienti apprezzavano che fosse stata sperimentata sul campo di battaglia e si fosse dimostrata in grado di tenere i palestinesi fuori da Israele. La Magal (insieme ad un’altra impresa israeliana) è tra le imprese candidate a costruire il muro di confine col Messico del presidente Trump ed ha creato un business internazionale sulla base della sua capacità di bloccare gli “infiltrati”, un termine comunemente usato in Israele per definire i rifugiati. Un’altra nuova arma utilizzata lungo la barriera tra Israele e Gaza è il “Mare di Lacrime”, un drone che sgancia candelotti lacrimogeni sui dimostranti. Secondo il sito israeliano Ynet il suo produttore ha presto ricevuto centinaia di ordini per questi droni. La Germania sta già noleggiando droni israeliani, mentre l’agenzia europea Frontex sta testando droni simili per sorvegliare i confini europei nel tentativo di impedire l’ingresso di migranti e rifugiati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nel corso dei suoi quasi dieci anni al potere, ha favorito la trasformazione del suo Paese in una potenza tecnologica che promuove orgogliosamente i suoi strumenti di occupazione sul mercato mondiale e interno. Parlando a novembre ai suoi colleghi parlamentari in Israele, Netanyahu ha detto che “il potere è la componente più importante della politica estera. ‘L’occupazione’ è una cavolata. Ci sono Paesi che hanno conquistato e deportato intere popolazioni ed il mondo resta in silenzio. La chiave è la forza, fa la differenza nella nostra politica verso il mondo arabo.” Ha concluso che ogni accordo di pace con i palestinesi potrebbe avvenire solamente con “interessi comuni basati sulla potenza tecnologica.”

Nel 2017 Israele ha ammorbidito le sue regole per concedere licenze di esportazione ad una serie di produttori di strumenti di spionaggio, sorveglianza e armamenti, benché sostenga di farlo tenendo conto delle implicazioni per i diritti umani. Ma questo non è credibile, dato che proprio negli scorsi anni Israele ha venduto armi a Paesi che commettono gravi violazioni, come Filippine, Sud Sudan e Myanmar. Netanyahu ha stretto amicizia con il dittatore del Ciad Idriss Déby, e i prossimi della lista potrebbero essere il regime del Bahrein e il dittatore sudanese Omar al-Bashir, che è ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità.

Il ministero della Difesa israeliano rilascia difficilmente informazioni su come o perché le sue esportazioni vengano concesse. Haaretz ha recentemente scoperto che sono stati venduti sistemi di spionaggio a parecchi regimi non democratici, compresi Bangladesh, Angola, Bahrein, Nigeria, Emirati Arabi, Vietnam ed altri. In alcuni casi, questi governi ed altri hanno usato i sistemi per prendere di mira dissidenti e cittadini LGBTQ e anche per fabbricare false accuse di blasfemia. All’inizio del 2019 Haaretz ha anche rivelato l’esistenza di un’altra azienda israeliana di sicurezza informatica, di nome Candiru, che commercializza strumenti di hackeraggio e si basa ampiamente sul reclutamento di veterani dell’esercito del reparto d’elite dello spionaggio Unit 8200.

Da quando è scoppiata la bolla tecnologica nel 2000, il governo israeliano ha spinto imprese locali ad investire nelle industrie di sicurezza e di intelligence. Secondo un rapporto di “Privacy International” [organizzazione inglese che si occupa delle garanzie della privacy in tutto il mondo, ndtr.] del 2016, il risultato è stato che, su 528 imprese attive nel mondo in questo settore, 27 hanno sede in Israele –facendo del Paese quello con il tasso di imprese di sorveglianza e di intelligence pro capite di gran lunga più alto al mondo. E nel 2016, riferisce Haaretz, il 20% degli investimenti mondiali nel settore sono stati in start-up israeliane.

In quello stesso anno l’avvocato per i diritti umani Eitay Mack, uno dei pochi israeliani famosi che sfidi pubblicamente la politica di esportazione di armi di Israele, e Tamar Zandberg, presidentessa del partito di sinistra Meretz, si sono rivolti all’Alta Corte di Giustizia israeliana nel tentativo di ottenere una sospensione della licenza all’esportazione del gruppo NSO. Il governo ha chiesto che il processo si tenesse a porte chiuse e la sentenza della corte non è stata resa pubblica. La giudice che presiede la Corte Suprema Esther Hayut ha spiegato che “la nostra economia, guarda caso, si basa non poco su quelle esportazioni.”

Infatti nel 2017 Israele è stato secondo solo agli USA, raggiungendo quasi 1 miliardo di dollari in capitale di rischio e azioni private per imprese di sicurezza informatica. Informazioni diffuse l’anno scorso dall’impresa di dati di New York “CB Insights” mostrano che Israele è stato il secondo maggior firmatario di accordi di sicurezza informatica al mondo dopo gli USA. Benché gli USA siano i primi con largo margine, con il 69% del mercato globale, il 7% di Israele lo piazza davanti al Regno Unito.

L’occupazione ha quindi alimentato la politica israeliana dell’industria e della difesa attraverso un boom economico che ha beneficiato le imprese che costruiscono, conducono e gestiscono l’impresa coloniale. Ma per Shir Hever, autore di ‘The privatization of israeli security’ [La privatizzazione della sicurezza israeliana] (2017) ed esperto mondiale del commercio di armi israeliano, l’occupazione sta diventando meno un’opportunità che un peso. Molti venditori di armi israeliani, mi ha detto, “stanno esprimendo la loro frustrazione per il fatto che i clienti non sono entusiasti dei prodotti israeliani perché non riescono a fermare la resistenza palestinese. La Russia ha sviluppato un sistema di vendita equa di armi ‘collaudate in battaglia’ nella guerra in Siria ed è riuscita ad aumentare le vendite in Turchia e India, entrambi mercati molto importanti per le imprese israeliane. Quindi perché gli importatori di armi dovrebbero considerare speciali gli armamenti israeliani?”

Hever riconosce che “i regimi autoritari vogliono sicuramente ancora imparare come Israele gestisce e controlla i palestinesi, ma più imparano, più si rendono conto che Israele in realtà non controlla i palestinesi molto efficacemente. Il sostegno ad Israele da parte dei gruppi e dei politici di destra nel mondo è ancora forte – il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ne è un esempio particolarmente deprimente – ma io penso che vi sia più attenzione al razzismo, alla discriminazione razziale e al nazionalismo, e meno attenzione e ammirazione per ‘l’esercito più forte del mondo.”” Egli mette anche in discussione la narrazione del governo israeliano riguardo al successo del settore degli armamenti e dell’intelligence e sostiene che l’industria sia in declino perché è troppo dipendente da alleanze di breve termine e ad hoc.

Il Sudafrica dell’apartheid e il suo declino sono un avvertimento della storia che Israele sarebbe incauto ad ignorare. Al suo apice, il Sudafrica è stato uno dei maggiori mercanti di armi al mondo, dopo il Brasile e Israele, e questo è stato ottenuto attraverso ingenti sussidi statali. Nonostante un embargo ONU sulle armi, secondo un recente volume, ‘Apartheid guns and money: a tale of profit’ (Fucili e denaro dell’apartheid: una storia di profitto), di Hennie van Vuuren, direttore dell’organizzazione di controllo sudafricana non profit ‘Open Secrets’, il regime sudafricano alla fine degli anni ’80 ha speso il 28% del bilancio statale nella sua industria della difesa. Un’economia costruita sul know-how militare e sulla competenza nelle tecniche di repressione interna può sembrare una fonte di invincibile potenza, ma l’apartheid è finita meno di cinque anni dopo.

Oggi un crescente numero di ebrei americani sta prendendo le distanze da Israele, rifiutando l’adesione del governo al nazionalismo etnico e sostenendo invece una soluzione di uno Stato unico. Per il momento Israele appare nella posizione di restare un importante soggetto mondiale nella produzione e vendita di sistemi di armi e di dispositivi e competenze di sorveglianza – che è ora uno dei modi principali in cui il Paese si autodefinisce sul piano internazionale. Ma l’opposizione internazionale sta crescendo, grazie soprattutto agli appelli del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per un embargo militare contro Israele e la sua industria della difesa. Una delle imprese del settore della difesa più grandi del Paese, Elbit Systems, ha già subito boicottaggi alle sue attività nel mondo. Pochi giorni fa il colosso bancario HSBC ha annunciato il proprio disinvestimento da Elbit Systems. Campagne di alto profilo come questa inizieranno sicuramente a modificare i calcoli sui costi economici e morali dell’occupazione – ancor di più se Israele proseguirà il suo attuale percorso politico verso l’annessione de facto della Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Amos Oz: il mito tenace del sionismo progressista

Ben White

1 gennaio 2018, Middle East Eye

L’ammirazione dell’Occidente per Amos Oz è collegata al romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sul processo di pace e, soprattutto, al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina

Da molto tempo emarginata dalla destra nazionalista in forte ascesa in Israele, all’estero la cosiddetta “sinistra sionista” ha conservato un’influenza morale e intellettuale di prima grandezza.

Lo scrittore Amos Oz, deceduto lo scorso 28 dicembre all’età di 79 anni, era forse l’incarnazione più conosciuta di questa corrente politica. Noto come il “padrino dei pacifisti israeliani” –come l’ha presentato il “New Yorker” [settimanale di politica e cultura USA di tendenza progressista, ndtr.] nel 2004 -, era ammirato da molti a livello internazionale.

Tuttavia questa immagine dell’artista o del profeta progressista – alla quale hanno contribuito in buona misura i cambiamenti politici in Israele, che hanno fatto sì che persino i critici più clementi siamo ormai definiti “traditori” – contrasta chiaramente con le opinioni di Amos Oz su eventi passati e presenti, e in particolare su quello che il sionismo ha rappresentato per i palestinesi.

Giustificare la Nakba

La sinistra sionista, a cui Amos Oz apparteneva, ha dedicato un notevole impegno per giustificare la pulizia etnica della Palestina. La seguente metafora è stata alla base del contributo di Amos Oz a questi sforzi: “La giustificazione (del sionismo) per quanto riguarda gli arabi che vivevano su questa terra è il giusto diritto del naufrago che si aggrappa all’unica tavola che trova”, ha scritto nel suo libro “In terra di Israele” [Marietti, Torino, 1992, ndtr.].

E ogni regola di giustizia naturale, obiettiva e universale autorizza l’uomo che annega e che si aggrappa a quell’asse a ritagliarvisi uno spazio, anche se per questo deve spingere un po’ gli altri. Anche se gli altri, seduti su quella stessa tavola, non gli lasciano altra alternativa che la forza.”

Solo che i palestinesi non sono stati invitati a “condividere un asse”: sono stati espulsi in massa, i loro villaggi sono stati rasi al suolo e i loro centri urbani spopolati, e continuano ad essere esclusi dalla loro patria semplicemente perché non sono ebrei.

Inoltre chi, a parte un mostro, rifiuterebbe a un naufrago un posto su una tavola a cui aggrapparsi? La metafora di Amos Oz ha una duplice funzione: fa sparire la Nakba e rimprovera alle sue vittime di essere dei bruti senza pietà che hanno dovuto essere “obbligati” a “condividere una tavola”.

La falsa simmetria dell’occupazione

Amos Oz ha creato numerose metafore per presentare una falsa simmetria tra palestinesi e israeliani e sottrarsi a qualunque responsabilità politica. I palestinesi e gli israeliani sono dei “vicini” che hanno bisogno di “buone recinzioni”, una coppia di sposi che ha bisogno di un “divorzio equo”, un paziente che ha bisogno di una “dolorosa” operazione chirurgica.

Nel 2005 Amos Oz ha dichiarato a Libération [quotidiano francese di sinistra, ndtr.]: “Israele e Palestina (…) somigliano a un carceriere e al suo prigioniero, ammanettati uno all’altro. Dopo tanti anni, non c’è praticamente più nessuna differenza tra di loro: il carceriere non è libero più del suo prigioniero.” Questa cancellazione delle strutture di potere, questa mescolanza tra la realtà dell’occupato e la soggettività dell’occupante erano tipici dell’autore.

Lo scontro tra gli ebrei che ritornano a Sion e gli abitanti arabi del luogo non assomiglia ad un western o a un’epopea, ma piuttosto a una tragedia greca”, ha scritto (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]). Le variazioni su questo tema sono state numerose: “Il conflitto tra un ebreo israeliano e un arabo palestinese (…) è uno scontro tra una ragione e un’altra ragione (…), un conflitto tra vittime.”

Ora, parlare di “tragedia” equivale a confondere deliberatamente i rapporti di causa e effetto e a sostituire le responsabilità con una spiacevole disgrazia e, verosimilmente, a presentare il movimento sionista (ossia lo stesso Oz) come un eroe tragico che, benché le sue azioni abbiano delle conseguenze deleterie per gli altri, è nobilitato dalla propria auto consapevolezza

In effetti, come ha sottolineato il critico letterario americano di origine palestinese Saree Makdisi, “non è per niente vero che per Oz in questo conflitto esistano due contendenti più o meno ugualmente colpevoli. In fin dei conti, i veri cattivi nella versione della storia secondo Oz sono i palestinesi, che avrebbero dovuto riconoscere il sionismo come un movimento di liberazione nazionale (e) accoglierlo a braccia aperte.”

In un articolo apparso qualche anno fa Amos Oz affermava che “l’esistenza o la distruzione di Israele non sono mai state una questione di vita o di morte,” in particolare per Paesi come la Siria, la Libia, l’Egitto e l’Iran, prima di aggiungere con disinvoltura una frase rivelatrice: “Può darsi che questa sia stata l’ipotesi per i palestinesi – ma, per nostra fortuna, essi sono troppo deboli per sconfiggerci.”

Il colonialismo è sempre una “questione di vita o di morte” per i colonizzati – e Amos Oz lo sapeva.

Proteggere Israele dalle critiche all’estero

Nonostante la sua fama di detrattore delle azioni del governo israeliano, Amos Oz ha giocato un ruolo importante nella giustificazione dei crimini di guerra di Israele sulla scena internazionale.

Come ricorda un necrologio a lui dedicato, durante l’invasione del Libano e l’annientamento delle due Intifada palestinesi da parte di Israele, quest’ultimo “aveva bisogno di voci per parlare al mondo esterno e mostrare un volto più altruistico di quello di Ariel Sharon.” Tre settimane dopo l’inizio della Seconda Intifada, quando erano già stati uccisi circa 90 palestinesi, Amos Oz è servito in questo modo di un articolo sul Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.] per attaccare “il popolo palestinese”, definendolo “soffocato e avvelenato da un odio cieco.”

In seguito, durante l’assalto devastante di Israele contro la Striscia di Gaza nel 2014, Amos Oz si è affrettato a condividere le frasi fatte promosse dal suo governo presso i media internazionali: “Cosa fareste voi se il vostro vicino di fronte si sedesse sul balcone, mettesse il suo ragazzino sulle ginocchia e cominciasse a sparare con una mitragliatrice contro la stanza del vostro bambino?”

Amos Oz ha anche respinto i tentativi, anche modesti, intesi a chiedere conto a Israele: nel 2010 ha scritto insieme ad altri una lettera per opporsi alla petizione, formulata da studenti ebrei e palestinesi presso l’università californiana di Berkeley affinché essa cessasse gli investimenti in due imprese di armamenti che avevano come cliente l’esercito israeliano. Amos Oz ha anche accusato di antisemitismo la mozione per il disinvestimento.

Un argomento noto

Di fatto Amos Oz ha creduto e ribadito un buon numero di argomenti anti-palestinesi avanzati dai governi israeliani che si sono succeduti e dalla destra nazionalista del Paese. In una postfazione del 1993 al suo libro “In terra di Israele” Oz ha denunciato “il movimento nazionale palestinese (…) come uno dei movimenti nazionalisti più estremisti e intransigenti della nostra epoca,” che è stato causa della miseria “del suo stesso popolo.”

Nella medesima postfazione Amos Oz ha respinto le affermazioni palestinesi secondo le quali il sionismo sarebbe un “fenomeno colonialista”, scrivendo con involontaria ironia: “I primi sionisti arrivati in terra d’Israele alla fine del secolo non avevano niente da colonizzarvi.” Nel 2013 Oz ha dichiarato: “Gli membri dei kibbutz non volevano impadronirsi della terra di nessuno. Si sono deliberatamente installati negli spazi vuoti del Paese, nelle zone interne e disabitate, dove non viveva nessuno.”

In un editoriale del 2015 lo scrittore israeliano ha espresso il proprio orrore di fronte all’idea di una maggioranza palestinese all’interno di un unico Stato democratico: “Iniziamo con una questione di vita o di morte. Se non ci sono due Stati, ce ne sarà uno. Se ce ne sarà uno, sarà arabo. Se sarà arabo, è impossibile prevedere la sorte dei nostri figli e dei loro.”

Molto è stato detto sul l’“itinerario” politico di Amos Oz, a partire dalla sua infanzia in una famiglia di sionisti revisionisti [nazionalisti di destra, ndtr.]. Tuttavia il suo rifiuto di una soluzione sulla base di uno Stato unico ricorda le parole del dirigente revisionista Vladimir Jabotinsky, che affermava: “Il nome della malattia è minoranza, il nome della cura è maggioranza.”

Colonialismo di insediamento

L’immagine politica di Amos Oz in Occidente non si limita alla vita e al lavoro di un solo uomo. Deriva anche anche dal romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sulla realtà degli accordi di Oslo e del processo di pace promosso dagli USA. Soprattutto, forse, è collegata al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina e alla tenace forza della mitologia sionista.

Un recente articolo del New York Times [principale quotidiano statunitense, ndtr.] sulla vita di Amos Oz afferma che Israele è “nato da un sogno, da un desiderio” e descrive Oz come “per molti aspetti, il perfetto nuovo ebreo che il sionismo aveva sperato di creare. Adolescente ha lasciato da solo Gerusalemme (…) e si è insediato in un kibbutz, una delle comunità agricole socialiste in cui gli israeliani hanno realizzato i propri sogni più radicati: coltivare se stessi e la terra in modo da diventare robusti e generosi.” (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]).

Il colonialismo di insediamento è sempre stato sinonimo di incremento della soggettività del colono e di eliminazione brutale del colonizzato. La storia del movimento sionista in Palestina non è diversa.

Così la Palestina non era presentata come un luogo nel tempo, con la propria storia, i propri costumi, i propri popoli e le proprie narrazioni, ma piuttosto come un ambiente favorevole alla realizzazione della visione di “restaurazione” dei coloni. I palestinesi non erano presentati come individui reali, vivi, ma come dei buoni selvaggi, dei barbari e dei fanatici religiosi.

Come ha dichiarato il regista israeliano Udi Aloni, “la sinistra ebraica israeliana (…) non considera i palestinesi come soggetti della lotta, non vede che se stessa.”

Dans une critique cinglante du livre d’Amos Oz, Dear Zealots, publié en 2017, l’ancien président de la Knesset Avraham Burg a décrit Oz comme « un partisan fanatique de la partition, qui piétine tout sur son passage pour parvenir à sa solution surannée [à deux États] ». Pour Amos Oz, « un seul État arabe est inconcevable » ; ses « opinions des Arabes, qui affleurent ici et là, ne sont pas vraiment flatteuses ». Comme l’a résumé Burg : « Il y a beaucoup de questions, et ce petit livre d’Amos Oz n’offre aucune solution. »

In una sferzante critica al libro di Amos Oz Cari fanatici [Feltrinelli, Milano, 2017, ndtr.], pubblicato nel 2017, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg ha descritto Oz come “un sostenitore fanatico della spartizione, che lungo il suo passaggio calpesta tutto per raggiungere la propria soluzione ormai superata (a due Stati).” Per Amos Oz “uno Stato unico arabo è inconcepibile”; le sue “opinioni sugli arabi, che affiorano qua e là, non sono davvero lusinghiere.” Come ha riassunto Burg: “Ci sono numerosi problemi, e questo libriccino di Amos Oz non offre alcuna soluzione.”

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Eye e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment for Free” [Commento gratis] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Nel 2018 finalmente è caduta la maschera di Israele

Gideon Levy

1 gennaio 2018, Middle East Eye

Avendo consolidato dal punto di vista legislativo la sua natura di apartheid, Israele ha creato la copertura giuridica per l’annessione formale dei territori occupati al di là delle frontiere riconosciute dello Stato

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore.

In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700.000 ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara ed inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare ed allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Essa conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

– Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy ha iniziato a collaborare con Haaretz nel 1982, ed è stato per quattro anni vice-direttore del giornale. Nel 2015 è stato insignito dell’Olof Palme human rights [premio Olof Palme per i diritti umani] e destinatario dell’Euro-Med Journalist Prize [Premio per il Giornalista Euro-mediterraneo] del 2008; del Leipzig Freedom Prize [Premio Leipzig per la Libertà] nel 2001; dell’ Israeli Journalists’ Union Prize [Premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997; dell’ Association of Human Rights in Israel Award [Premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele] nel 1996. Il suo libro The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza] è stato pubblicato da Verso nel 2010.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’IDF non indaga sulle morti di palestinesi ma le insabbia

Hagai El-Ad

1 gennaio 2019, + 972

L’esercito israeliano vorrebbe condurre indagini sui palestinesi che uccide o ferisce. L’unico problema? Non è in grado di farlo seriamente.

Poco più di un anno fa, l’ultimo giorno dell’ottobre 2017, Muhammad Musa e sua sorella Latifah stavano viaggiando verso Ramallah per fare delle commissioni. Poco dopo che si erano filmati in un corto video lungo il percorso, alcuni soldati aprivano il fuoco contro la loro auto nei pressi dell’incrocio di Halamish. Latifah rimaneva ferita, Muhammad ucciso. Lui aveva 26 anni.

L’inchiesta di B’Tselem sulla sua uccisione è stata resa pubblica circa 5 settimane dopo e includeva una serie di racconti di testimoni oculari come dichiarazioni di paramedici che erano arrivati sul posto. Uno di questi testimoni, Muhammad Nafe’a, è stato identificato con nome e cognome, foto, indirizzo e occupazione.

Eppure circa sei mesi dopo, nel maggio 2018, la “Military Police Investigations Unit” [Unità Investigativa della Polizia Militare] (MPIU) stranamente ha scritto a B’Tselem che sarebbe stata molto grata “di avere le informazioni personali complete di Muhammad Nafe’a per contattarlo e per fare in modo che rilasciasse la sua dichiarazione in materia.”

Benvenuti nell’universo parallelo noto come “inchieste della MPIU”. In questo universo le “inchieste” procedono alla velocità della luce e l’esercito – che controlla totalmente la Cisgiordania e non ha molti problemi ad avere nelle sue mani i palestinesi – agisce come se non potesse individuare un testimone senza l’assistenza di un’organizzazione per i diritti umani, persino quando i suoi dati sono a disposizione di chiunque, insieme al resto delle prove di un’inchiesta indipendente resa pubblica da molto tempo.

Se questa fosse una commedia, la goffaggine e l’assurdità di tutto ciò sarebbero veramente divertenti. Ma questa è realtà, non teatro. Fare indagini sulle uccisioni è estremamente importante, sia in termini di giustizia per le vittime che per evitare il ripetersi di altri incidenti.

La penosa esibizione nell’”inchiesta” sull’uccisione di Muhammad Musa non è un’eccezione – è parte di una politica di lunga data di un sistema di applicazione delle leggi militari che colpisce centinaia, se non più, di casi di uccisioni, ferimenti e violenze. La vasta esperienza acquisita da B’Tselem nel corso di decenni, mentre cercava di promuovere l’assunzione di responsabilità, ha dimostrato che il sistema non ha nessun interesse reale nel promuovere indagini e nel rendere giustizia alle vittime. Il suo principale obiettivo è creare l’apparenza di un sistema giudiziario funzionante, mentre in realtà insabbia i reati e protegge quelli che provocano danni senza giustificazione.

Ecco i dati: dall’inizio della Seconda Intifada, alla fine del 2000, fino al 2015 B’Tselem ha chiesto alla MPIU di aprire un’inchiesta su 739 casi in cui soldati hanno ucciso o in qualche modo danneggiato palestinesi. Il 97% di questi casi sono stati chiusi sia dopo che è stata condotta un’“inchiesta”, sia persino senza che fosse neppure iniziata. Solo in 25 casi sono stati presentati capi d’accusa. Il numero di sentenze è naturalmente persino molto più basso. Inutile dire che quasi nessuno è stato ritenuto colpevole.

Questi dati sono il risultato diretto del modo in cui funziona il sistema. In primo luogo, esso è inaccessibile ai palestinesi che presentano una denuncia – le vittime che si suppone protegga. In secondo luogo, le indagini si trascinano per mesi, persino per anni, e sono quasi esclusivamente basate su interrogatori con i sospetti e in qualche caso con le vittime, invece che su prove esterne. Senza prove la Procura Militare per le Questioni Operative, che riceve le pratiche delle inchieste, può chiuderle proprio per questa ragione.

La Procura Generale militare, che è incaricata sia di dare indicazioni all’esercito in merito alla legalità delle sue azioni e direttive, sia di decidere se iniziare un’indagine sugli incidenti scaturiti da quelle stesse azioni e direttive, si trova in un conflitto di interessi. Come se non bastasse, l’intero sistema si limita a verificare la condotta dei soldati sul terreno invece di quella degli alti ufficiali e dei decisori politici. In queste circostanze la sua idoneità a fare realmente giustizia è estremamente ridotta.

Circa due anni e mezzo fa B’Tselem ha deciso di smettere di chiedere all’esercito israeliano di aprire inchieste e di essere complice degli insabbiamenti della MPIU. Da allora l’organizzazione ha continuato a condurre indagini indipendenti sui casi in cui le forze di sicurezza colpiscono palestinesi ed ha fatto inchieste sulla maggior parte degli incidenti in cui civili palestinesi sono stati uccisi. B’Tselem non contatta più la MPIU, ma rende noti i propri risultati all’opinione pubblica, come per la morte di Muhammad Musa e di centinaia di persone come lui.

Benché la posizione di B’Tselem sia pubblica e ben nota, i funzionari della MPIU occasionalmente inviano ancora all’organizzazione ogni sorta di richieste riguardanti loro “indagini”. A volte chiedono informazioni che sono già state rese pubbliche, altre volte chiedono di aiutarli a trovare testimoni che l’esercito non ha nessuna difficoltà a trovare, e così via.

B’Tselem ha ricevuto simili richieste riguardanti l’uccisione di Ahmad Zidani, un palestinese diciassettenne che è stato ucciso dalle forze di sicurezza mentre stava scappando da loro; o di Ali Qinu, anche lui di 17 anni, che è stato colpito alla testa dai soldati; o di Ahmad Salim, 28 anni, colpito a morte in testa; o di Muhammad Musa.

Recentemente B’Tselem ha ricevuto un’altra lettera dalla MPIU relativa a quello che questa definisce “le circostanze della morte di Muhammad Habali,” un palestinese con problemi mentali che è stato colpito alla testa da soldati all’inizio di dicembre. I soldati hanno sparato da una distanza di circa 80 metri mentre Habali si stava allontanando di corsa da loro; non rappresentava un pericolo. Nella lettera l’investigatore della MPIU afferma che condurrà un’”inchiesta approfondita”, e chiede le riprese video e le informazioni per prendere contatto con un testimone. B’Tselem ha già messo in rete le riprese video inedite complete. La ripetuta richiesta della MPIU di informazioni per avere dati personali la dice lunga sulla vera natura delle sue inchieste.

Ed ecco la risposta che B’Tselem ha inviato al comandante della MPIU col. Gil Mamon:

Nella sua lettera lei ci ha contattato riguardo all’‘avvenimento riguardante la morte di Muahammad Habali’ a Tulkarem il 4 dicembre 2018.

A quanto pare la carta non arrossisce. Tuttavia, dato che lei si è superato, è necessario mettere le cose in chiaro e precisare che quello a cui lei si riferisce come la ‘circostanza della morte’ è stata l’uccisione da lontano di un passante da parte di un soldato.

Inoltre nella sua lettera lei sottolinea che ha intenzione di condurre un’‘inchiesta approfondita’ per ‘scoprire la verità’. Tuttavia, dati i nostri anni di esperienza con il meccanismo di insabbiamento denominato MPIU, la prima parte non è vera, e la seconda non avverrà.

Per inciso, notiamo che, contrariamente al modo in cui nella sua lettera ha scritto il nome dell’organizzazione, non si tratta di un acronimo. Il nostro nome è una parola biblica, B’Tselem, ‘nell’immagine di’. Vedi Genesi 1:27: ‘E dio creò l’uomo a sua immagine. Nell’immagine di dio lo creò.’”

B’Tselem è impegnata a continuare il suo lavoro indipendente documentando le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza nei territori occupati e la mancanza dell’obbligo di rendere conto di questi atti da parte delle autorità dello Stato. L’organizzazione tuttavia continuerà il suo lavoro senza il sistema di applicazione delle leggi militari, che perpetua questa violenza sul terreno. Collaborare con questo inganno non è solo semplicemente inutile, ma è dannoso, in quanto conferisce credibilità a un sistema che dovrebbe essere condannato, consentendogli di continuare a legittimare violazioni dei diritti umani.

Non si tratta solo di una questione teorica. La totale mancanza di responsabilizzazione per l’uccisione e la violenza significa che esse verranno sicuramente ripetute. È per questo che B’Tselem continuerà a fare indagini, a renderle pubbliche e a svelare la verità riguardo all’insabbiamento della cosiddetta applicazione della legge – finché l’occupazione non avrà termine.

L’autore è il direttore esecutivo di B’Tselem, il Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)