Attacchi aerei israeliani mortali colpiscono duramente l’enclave di Gaza

MEE e agenzie

sabato 14 luglio 2018, Middle East Eye

Almeno due adolescenti uccisi, molti palestinesi feriti in quello che il leader israeliano Netanyahu chiama “il colpo più duro” dal 2014

Fonti mediche ufficiali a Gaza affermano che attacchi aerei israeliani hanno ucciso due adolescenti e ferito almeno altri 14 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, in quella che l’esercito israeliano ha descritto come una delle sue più vaste operazioni dal 2014.

Sabato sera il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che Israele ha inflitto il suo “colpo più duro” ad Hamas dalla guerra del 2014 con una serie di attacchi aerei ed ha minacciato di intensificarli, se necessario.

I due morti palestinesi sono stati identificati dal portavoce del ministero della Salute di Gaza Ashraf al-Qidra come Amir al-Nimra, 15 anni, e Luay Kahil, 16 anni, entrambi colpiti da bombe degli attacchi aerei nel quartiere Katiba di Gaza City.

Al-Qidra ha aggiunto che ambulanze e strutture del ministero della Salute sono state pesantemente danneggiate dagli attacchi aerei a Katiba.

Fonti locali hanno detto a Middle East Eye che un edificio in costruzione su piazza Katiba è stato preso di mira da almeno 4 missili di aerei da combattimento F-16.

Mentre l’edificio era disabitato, la piazza centrale di Gaza City è uno spazio pubblico in cui notoriamente si riuniscono famiglie e bambini.

Stavo guidando il mio taxi sulla strada principale nei pressi dell’edificio (Katiba), quando improvvisamente potenti missili l’hanno colpito,” ha detto a MEE Iyad Hamed da un ospedale in cui è stato curato dopo l’attacco. “La bomba è scoppiata in mezzo a noi, abitanti e passanti nella zona.”

Chiediamo alla resistenza palestinese di rispondere duramente a questa arroganza e barbarie di Israele per porre fine a queste violazioni,” ha aggiunto Hamed.

Sabato mattina Israele ha detto di aver lanciato attacchi aerei che hanno preso di mira strutture di Hamas a Gaza, il giorno dopo che forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi che manifestavano nei pressi della barriera che separa l’enclave da Israele.

Più tardi in una dichiarazione in video Netanyahu ha detto: ”Durante una consultazione con il ministro della Difesa, il capo di stato maggiore (militare) e il comando di massima sicurezza dello Stato di Israele abbiamo deciso una dura azione contro il terrorismo di Hamas.”

(L’esercito) ha inferto ad Hamas il colpo più duro dall’operazione “Margine protettivo” e se necessario aumenteremo la forza dei nostri attacchi,” ha aggiunto, in riferimento all’operazione di Israele nella Striscia di Gaza del 2014.

In un comunicato postato su twitter l’esercito israeliano ha affermato che aerei da combattimento israeliani hanno colpito due “tunnel terroristici di Hamas” – uno nel sud di Gaza e l’altro a nord – così come altre infrastrutture lungo il territorio costiero.

Ha affermato che gli obiettivi hanno incluso “complessi utilizzati per preparare attacchi terroristici incendiari e una struttura di addestramento terroristico di Hamas”, e che gli attacchi sono stati effettuati “in risposta ad atti di terrorismo istigati durante le violente proteste che hanno avuto luogo lungo la barriera di sicurezza.”

L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito più di 40 obiettivi all’interno di parecchi complessi, in quello che ha descritto come una delle più vaste operazioni dalla devastante guerra del 2014.

Secondo testimonianze a Gaza, gli attacchi aerei di sabato mattina hanno danneggiato infrastrutture militari di Hamas, mentre non sono state diffuse informazioni simili sugli attacchi avvenuti sabato sera.

L’esercito israeliano ha detto che combattenti di Gaza hanno sparato più di cinquanta colpi di mortaio e razzi verso Israele, facendo suonare le sirene di allarme e fuggire gli israeliani nei rifugi. Haaretz [giornale israeliano, ndtr.] ha informato che 16 razzi sono stati intercettati dal sistema di difesa missilistica Iron Dome.

Un portavoce della polizia israeliana ha affermato che tre israeliani sono stati portati in ospedale in seguito agli attacchi. Haaretz ha informato che quattro israeliani sono stati leggermente feriti dopo che un razzo sparato da Gaza ha colpito la loro casa nella città meridionale di Sderot.

Il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha rivendicato la responsabilità per i colpi di mortaio di sabato mattina contro Israele, aggiungendo che sono stati lanciati “in risposta agli attacchi aerei israeliani.”

La protezione e la difesa del nostro popolo sono un dovere nazionale e una scelta strategica,” ha sostenuto Barhoum.

Un portavoce di Hamas ha detto ad Haaretz che “l’escalation e l’intensificazione dell’aggressione israeliana non definiranno una nuova agenda,” aggiungendo che non “bloccheranno il processo di ritorno. Le forze della resistenza non permetteranno ad Israele di continuare ad attaccare il popolo palestinese, e saremo pronti a rispondere.”

Una fonte ufficiale palestinese, che ha parlato in incognito con l’agenzia di notizie [inglese] Reuter, ha affermato che l’Egitto ed altri attori internazionali erano in contatto con Israele e Gaza per cercare di ripristinare la calma. Non ci sono stati commenti immediati da fonti ufficiali al Cairo.

All’inizio della settimana Israele ha chiuso Kerem Shalom, l’unico valico commerciale della Striscia di Gaza, inasprendo l’assedio dell’enclave palestinese, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato “passi ulteriori”.

Le autorità israeliane hanno incolpato Hamas della “Grande Marcia del Ritorno”, un’accusa che gli organizzatori della campagna hanno respinto, ed ha accusato il partito che governa Gaza di essere dietro gli aquiloni incendiari diretti al di là della barriera di sicurezza che hanno appiccato incendi in Israele.

I palestinesi di Gaza hanno partecipato alla “Grande Marcia del Ritorno” dal 30 marzo, chiedendo la fine del blocco di undici anni imposto da Israele contro Gaza e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre che le loro famiglie hanno abbandonato durante la fondazione dello Stato di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza, da quando allora sono scoppiati proteste e scontri lungo la barriera, almeno 139 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano.

Nessun israeliano è stato ucciso. Comunque l’esercito israeliano afferma che venerdì un soldato è stato ferito da una granata.

Nel contempo il ministero della Salute di Gaza sostiene che 220 palestinesi sono rimasti feriti nelle proteste di venerdì nei pressi della barriera di Gaza, oltre a Othman Rami Hales, 15 anni, e a Mohammed Nasser Shurrab, 20 anni, che sono stati colpiti a morte.

Informazioni aggiuntive a Gaza di Mohammed Asad.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele uccide un ragazzino mentre Gaza segna 100 giorni di proteste

Ali Abunimah

13 luglio 2018, Electronic Intifada

Venerdì i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino mentre i palestinesi hanno segnato più di 100 giorni delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

Secondo il gruppo per i diritti umani Al Mezan, Uthman Rami Hillis, 14 anni, è stato ucciso da fuoco mortale.

Il gruppo ha affermato che Hillis, del quartiere di Shujaiya, è stato colpito alla schiena dalle forze israeliane schierate lungo il confine est della Striscia di Gaza.

Più di 100 persone a Gaza sono state ferite, 65 delle quali da proiettili veri.

In seguito alla notizia della sua morte, media palestinesi hanno diffuso una foto di Hillis.

Hanno anche diffuso immagini di Hillis portato via in barella dopo essere stato colpito.

Un video mostra anche scene strazianti di parenti che piangono sul corpo di Hillis nell’obitorio dell’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Venerdì, prima della morte di Hillis, l’OCHA, agenzia di monitoraggio umanitario dell’ONU, ha informato che sono stati 21 i minori tra i circa 150 palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Gaza dal 30 marzo, la grande maggioranza dei quali durante le proteste. Più di 4.000 sono stati feriti da proiettili veri.

Nello stesso periodo sono stati feriti quattro israeliani.

In difesa di Khan al-Ahmar

Per il sedicesimo venerdì di seguito migliaia di palestinesi si sono diretti verso il confine orientale di Gaza.

Dal 30 marzo i palestinesi hanno organizzato proteste contro l’assedio israeliano di Gaza durato 11 anni e per chiedere il diritto dei rifugiati di tornare alle terre da cui sono stati espulsi e da cui sono esclusi da Israele perché non sono ebrei.

Israele ha risposto schierando cecchini con l’ordine di sparare contro civili disarmati, compresi minori – uccisioni e mutilazioni che la procura della Corte Penale Internazionale ha avvertito potrebbero portare i dirigenti israeliani ad essere processati per crimini di guerra.

Il tema della protesta di questo venerdì è stato la solidarietà con Khan al-Ahmar, un villaggio beduino nei pressi di Gerusalemme che deve affrontare un’imminente demolizione da parte di Israele – un crimine di guerra – per far posto a nuove colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata.

A Gaza molti palestinesi hanno rivolto messaggi alla gente di Khan al-Ahmar attraverso i media locali.

Oggi siamo qui in solidarietà con i nostri fratelli e sorelle di Khan al-Ahmar,” ha detto un uomo. “Tutta Gaza è con voi.”

Un’immagine mostra un palestinese che sventola una bandiera irlandese in onore dell’ approvazione, all’inizio di questa settimana da parte del senato irlandese, di una legge che vieta l’importazione di prodotti dalle colonie israeliane.

Israele rafforza l’assedio

Mentre i palestinesi di Gaza continuano la loro rivolta contro l’assedio, nonostante il suo terribile costo, Israele risponde rafforzando ulteriormente il blocco.

Lunedì Israele ha annunciato la chiusura dell’unico valico commerciale di Gaza.

Israele ha anche ridotto da nove a sei miglia nautiche la distanza [dalla costa] entro la quale i pescatori di Gaza possono andare in mare.

Queste iniziative sono punizioni collettive contro i due milioni di persone di Gaza per gli aquiloni e i palloncini incendiari che i palestinesi hanno lanciato, provocando incendi nei prati sul lato israeliano del confine.

L’esercito tecnologicamente avanzato di Israele ha dimostrato di non essere in grado di combattere aquiloni e palloncini.

Perciò ancora una volta le autorità dell’occupazione stanno aggiungendo ulteriori sofferenze a quelle che hanno innescato la rivolta contro una situazione in cui la popolazione di Gaza- la metà della quale composta da minorenni – può solo scegliere tra morire a causa dei proiettili e delle bombe israeliani o essere ridotti in silenzio alla disperazione ed alla morte dall’assedio.

Israele afferma che consentirà l’ingresso di prodotti “umanitari” come cibo e medicine, ma funzionari dell’ONU stanno avvertendo che la chiusura del valico commerciale renderà la situazione di Gaza molto peggiore.

Ci si può attendere che la chiusura avrà conseguenze profonde e di vasta portata per i civili già disperati,” ha affermato giovedì Chris Gunness, portavoce dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Gunness ha evidenziato che tra i beni di importazione vietati da Israele ci sono materiali da costruzione per i progetti educativi, sanitari, idrici, fognari e per l’igiene dell’ONU.

I sistemi idrici e fognari di Gaza sono già vicini al collasso in seguito ad anni di blocco e attacchi militari di Israele.

Infliggere sofferenze

Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che monitora il blocco di Gaza, ha affermato che Israele sta vietando ogni materiale da costruzione, non solo quelli destinati ai progetti dell’ONU – cosa che porterà rapidamente all’interruzione di qualunque attività edilizia a Gaza.

Anche le attività economiche già in difficoltà soffriranno gravissime perdite.

Il contadino Suleiman Zurub stava aspettando di spedire 2.000 cassette di patate dolci fuori dal valico. Questo raccolto probabilmente ora andrà in rovina. “I contadini sono i più danneggiati da questa decisione,” dice Zurub, citato da Gisha.

Anche Hasan Shehadeh, proprietario di una fabbrica di vestiti, deve far fronte a gravi perdite in quanto non può spedire i prodotti ai consumatori in Israele, nella Cisgiordania occupata e in Cina.

Se le cose continuano così, subirò pesanti perdite finanziarie, perché nei miei contratti ho firmato l’impegno a pagare per ogni articolo che rimane nella mia fabbrica,” dice Shehadeh secondo Gisha.

Shehadeh è anche preoccupato per le 200 persone che impiega: “La decisione di Israele danneggerà anche loro, ovviamente,” afferma.

Allerta preventiva

Gunness, dell’UNRWA, ha previsto che l’ultima chiusura porterà a un incremento della domanda di servizi dell’agenzia.

Ciò avverrà in un periodo in cui essa, che fornisce razioni alimentari d’emergenza, servizi sanitari ed educativi a centinaia di migliaia di persone a Gaza, affronta una crisi finanziaria senza precedenti in seguito al congelamento dei contributi degli USA all’inizio di quest’anno.

Circa l’80% della popolazione di Gaza è già obbligata a contare sull’assistenza umanitaria e la percentuale di disoccupazione è vicina al 50%.

In giugno l’UNRWA ha avvertito che dovrà fare importanti tagli ai suoi già ridotti servizi.

Anche prima delle ultime restrizioni israeliane, i funzionari dell’ONU hanno evidenziato indicatori di una situazione che va deteriorandosi profondamente.

Secondo l’OCHA, dal gennaio 2017 al giugno di quest’anno la percentuale di medicine essenziali senza riserve nei magazzini a Gaza è aumentata gradualmente da un terzo al 50% – il che significa che c’è meno di un mese di rifornimento per queste medicine.

In giugno il numero medio di ore di elettricità al giorno è stato di 4,5 ore, vicino al livello minimo dal gennaio 2017.

Nel contempo, nel corso dell’ultimo anno, il numero di persone che hanno dovuto chiedere in prestito denaro o cibo a familiari o amici è salito da circa uno su tre a quasi uno su due.

Complicità internazionale

L’Unione Europea, che raramente critica Israele e non ha condannato i suoi massacri di civili a Gaza, ha affermato venerdì di “attendersi che Israele revochi” la decisione di chiudere il valico commerciale.

La dichiarazione di Bruxelles non fa riferimento agli obblighi di Israele, in quanto potenza occupante, di attenersi alle leggi internazionali, compreso il divieto di punizioni collettive.

L’Ue ha persino tacitamente giustificato le azioni di Israele includendo la richiesta che “Hamas e altri attori a Gaza cessino e rinuncino ad azioni violente e provocazioni contro Israele, compreso il lancio di aquiloni e palloncini incendiari.”

Al contrario Gisha ha definito “sia illegale che moralmente perverso” il ricorso di Israele a “punizioni collettive di circa due milioni di persone a Gaza” chiudendo il valico commerciale.

Il gruppo palestinese per i diritti umani Al Mezan ha deplorato “la continua tolleranza della comunità internazionale nei confronti delle punizioni collettive della popolazione di Gaza in violazione degli obblighi giuridici in base alle leggi umanitarie internazionali.”

Al Mezan ha avvertito che Gaza sta assistendo “a un collasso sociale ed economico” e sta andando verso “un’esplosione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Gli ebrei stanno cominciando a temere la democrazia

Anshel Pfeffer

12 luglio 2018, Haaretz

Non possiamo essere vittime un’altra volta’: grazie a Trump, Netanyahu e Putin, i tempi gloriosi della democrazia liberale sono finiti. La bilancia della storia non pende dalla parte della giustizia. Da che parte staranno gli ebrei?

Martedì mattina una parlamentare della Knesset è stata espulsa da una riunione della commissione parlamentare per aver declamato una parte della Dichiarazione di Indipendenza israeliana.

L’articolo che ha letto sancisce che lo Stato di Israele “promuoverà lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti; si baserà sulla libertà, la giustizia e la pace, come previsto dai profeti di Israele; garantirà la completa eguaglianza dei diritti sociali e politici per tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla religione, dalla razza o dal sesso.”

Dubito che la ‘Legge sullo Stato-Nazione’, che la commissione stava discutendo e che cerca di vanificare formalmente quella “completa eguaglianza”, verrà davvero approvata in tempi brevi.

Benjamin Netanyahu la sta improvvisamente promuovendo per ciniche ragioni elettorali. La legge, al centro di controversie, non ha bisogno di percorrere tutto il suo iter perché i suoi detrattori – i partiti di opposizione, i consiglieri legali dello stesso governo, i media, potenzialmente l’Alta Corte – siano tacciati di essere traditori.

E comunque, al di là della sceneggiata parlamentare di Tzipi Livni (dirigente della coalizione di centro “Unione Sionista”, all’opposizione, ndtr], quegli articoli non sono stati mai applicati in 70 anni di esistenza di Israele. Ma è stato certamente un momento simbolico.

L’espulsione di Livni, dopo che le è stato vietato di presentare una copia della Dichiarazione d’Indipendenza in una tribuna nell’aula della commissione, ha rappresentato un chiaro slittamento di Israele da ogni aspirazione a costruire il proprio futuro in base a valori, verso un Israele edificato esclusivamente sul nazionalismo ebraico.

Ciò significa una scelta tra due tipi di democrazia e due tipi di stile di vita ebraico. E non si tratta solo di Israele. Lo stesso slittamento sta avvenendo dovunque.

Nel 1945, quando gli ebrei hanno incominciato a realizzare il fatto devastante che un terzo del loro popolo era stato sterminato in pochi anni, si è verificato un altro mutamento importante. Con la distruzione di ciò che era stato il cuore della civiltà ebraica per 1000 anni, per la prima volta gli ebrei che vivevano nelle democrazie vittoriose del nord America e della Gran Bretagna stavano diventando la maggioranza [degli ebrei in Occidente, ndtr.].

Per molti secoli il benessere degli ebrei, spesso la loro stessa sopravvivenza, erano dipesi dalla benevolenza di monarchi e dittatori. Questo aveva imposto un certo tipo di discreta ricerca di indulgenza. I dirigenti delle comunità ebraiche dovevano valutare quale despota ingraziarsi. Era una questione di sopravvivenza.

Con lo spostamento del centro di gravità della vita ebraica verso le Nazioni democratiche e con l’aumento del numero di ebrei che conducevano una vita di cittadini liberi ed uguali – con l’emigrazione dei sopravvissuti in Europa e degli ebrei Mizrahi [ detti anche sefarditi, ndtr.] dai territori arabi verso l’Occidente ed Israele – l’attivismo ebraico assunse un carattere molto differente. Venne allo scoperto, con campagne pubbliche, pressioni politiche, uso dei media e attività di sensibilizzazione. Infine gli ebrei ebbero eguali diritti e parallelamente fiducia in sé stessi sufficiente per esigerli fino in fondo e pubblicamente.

Gli anni del dopoguerra annunciarono anche un nuovo tipo di coinvolgimento degli ebrei nella società. Alcuni ebrei in precedenza erano stati importanti in tutti i movimenti per l’eguaglianza e la giustizia, ma questo avveniva normalmente a livello personale. Spesso, come nel caso degli ebrei comunisti, era un passo verso l’assimilazione e la perdita di identità religiosa e nazionale a favore di una più grande fratellanza umana. Nelle situazioni in cui ebrei si univano tra loro per lottare per cause sociali, si occupavano abitualmente delle questioni specifiche dei lavoratori ebrei.

Ma vivere in un ambiente più aperto e libero incoraggiò per la prima volta l’ampia partecipazione degli ebrei nelle Nazioni democratiche a cause più generali, per i diritti civili, identificandosi come ebrei, sia che si trattasse di rabbini in quanto membri di intere comunità. Non vi era più la preoccupazione che marciare per obbiettivi controversi e contestati avrebbe provocato la collera delle autorità verso tutti gli ebrei.

E vi era anche un senso del dovere. Gli ebrei conducevano una vita tranquilla. Nella diaspora ogni grave minaccia fisica di antisemitismo stava scomparendo. Per coloro che lo scegliessero, vi era uno Stato ebraico sovrano dove vivere. Per gli altri, una vita come membri di una minoranza rispettata e ben integrata.

Per molti ebrei una nuova era di sicurezza e prosperità significava che noi ora dovevamo garantire che altre, meno fortunate, minoranze, come anche i rifugiati e gli immigrati, avrebbero ricevuto il nostro incondizionato appoggio: un grande senso etico di ‘tikkun olam’ [riparare il mondo, ndtr.], che ha animato molti ebrei negli ultimi 60 anni. E quando nei primi anni ’90 l’impero sovietico crollò, rendendo liberi ancor più ebrei sia di emigrare in Occidente e in Israele, sia di restare nelle loro patrie di nuova democrazia, la tendenza sembrò irreversibile.

Un quarto di secolo fa, per la prima volta nella storia, quasi l’intero popolo ebraico viveva in società libere. Con l’eccezione dell’Iran e di poche piccole e isolate sacche, tutti gli ebrei, dovunque vivessero, sono stati liberi e uguali ormai da una generazione.

Non abbiamo ancora cominciato a comprendere il vero significato di quel fenomeno storico – e stiamo ormai affrontando un enorme problema riguardo a quale sia il tipo di libertà in cui vogliamo vivere.

Non avviene solo in Israele, dove siamo in un limbo tra la costruzione di una società basata sui valori ed una che considera la preservazione della nazionalità ebraica superiore ad ogni considerazione morale. Lo stesso divario si sta aprendo nell’America di Trump ed in tutta Europa, dove un Paese dopo l’altro soccombe alla nuova ondata di politiche populiste.

La grande maggioranza degli ebrei americani può in questo momento mostrare tendenze progressiste, ma vi è una sostanziale, forse crescente, minoranza tra loro che crede fermamente che una stabile sicurezza si possa trovare soltanto nell’alleanza con un establishment conservatore, e sì, bianco.  

E se si parla con gli ebrei in Europa si troveranno molti con un approccio sfrontatamente illiberale. Non solo tra le comunità ebraiche in Francia e Belgio, dove gli ebrei sono stati uccisi in anni recenti per il fatto di essere ebrei. Questa mentalità si rafforza più si va verso est.

Come mi ha detto il capo di una comunità regionale in Russia: “Quando Israele bombarda Gaza ed uccide gli arabi è una buona cosa per gli ebrei. È ciò che fa sì che i nostri vicini qui ci rispettino molto di più. È il miglior antidoto all’antisemitismo.”

Questa settimana un rabbino in Ungheria mi ha detto: “Gli ebrei progressisti sono attori di un dramma storico in cui loro rappresentano le vittime, tutte le vittime. Perché questo è ciò che apprendono dall’esperienza storica ebraica. Ma questo è solo un sacco di buoni propositi.

Il mondo adesso sta diventando un posto meno liberale, un posto in cui i non ebrei stanno dimenticando l’olocausto. Gli ebrei hanno bisogno di una strategia di sopravvivenza, perché non diventiamo vittime un’altra volta. Questo significa essere una Nazione forte, alleata con altre Nazioni forti. Non con le vittime.”

È una strategia di sopravvivenza nel mondo di Trump, Putin e Netanyahu. 

In Europa, non più un importante centro di vita ebraica, ma ancora una patria per ben due milioni di ebrei sparsi nel continente, ho incontrato sempre più ebrei alle prese con i valori liberali del dopoguerra con cui sono stati educati.

Istintivamente rifiutano la retorica anti-immigrati e islamofobica che li circonda. Non gli appare soltanto sbagliata. È troppo simile a ciò che i loro genitori e nonni sentivano non molto tempo fa.

Ma poi portano i figli nelle sinagoghe e nelle scuole ebraiche circondate da guardie armate e temono di dover scegliere da che parte stare.

Potrebbe essere terminato il breve periodo nella storia ebraica in cui è sembrato che il mondo intorno a noi stesse allineandosi con ciò che volevamo credere fossero valori sia ebraici che liberali, che la bilancia pendesse dalla parte opposta al razzismo e all’odio, non solo verso gli ebrei, ma verso chiunque, ed in cui pensavamo che fosse solo questione di tempo perché potessimo costruire società migliori e più giuste, in Israele ed in ogni altro Paese dove vivono gli ebrei.

Di sicuro non può più essere dato per scontato. Prepariamoci a dover mettere alla prova quei valori.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il Senato irlandese approva una proposta di legge di boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane

Noa Landau

12 luglio 2018, Haaretz

Il governo irlandese si è opposto alla legge, ma i parlamentari indipendenti e dell’opposizione l’hanno appoggiata. Israele: l’iniziativa ‘danneggerà anche i palestinesi’

Mercoledì il Senato irlandese ha approvato una proposta di legge per boicottare i prodotti provenienti dalle colonie della Cisgiordania.

La proposta di legge è passata con 25 voti a favore, 20 contrari e 14 astensioni. Essa vieta “l’importazione e la vendita di prodotti, servizi e risorse naturali provenienti dalle colonie illegali nei territori occupati (da Israele).”

La proposta, prima di diventare legge, deve essere approvata da entrambe le camere del parlamento.

All’inizio di quest’anno una votazione sulla proposta di legge era stata rinviata, su richiesta del governo irlandese. Il governo, dietro pressioni israeliane, ha poi cercato di mitigare il testo, ma non è riuscito a raggiungere un compromesso.

La proposta di legge è passata grazie ai voti dei parlamentari dell’opposizione e indipendenti. La senatrice Frances Black, la parlamentare indipendente che ha promosso il disegno di legge, ha recentemente postato un video che invita gli irlandesi a fare pressione sui loro rappresentanti perché lo sostengano.

Il ministero degli Esteri israeliano ha criticato duramente l’Irlanda dopo l’approvazione della proposta di legge, affermando che “il Senato irlandese ha dato il suo appoggio ad un’iniziativa di boicottaggio anti israeliana populista, pericolosa ed estremista, che nuoce alle possibilità di dialogo tra Israele e i palestinesi.”

Il ministero degli Esteri ha aggiunto che la legge “avrà un impatto negativo sul processo diplomatico in Medio Oriente”, e che “danneggerà il livello di vita di molti palestinesi che lavorano nelle aree industriali israeliane colpite dal boicottaggio.”

Il ministero ha detto che Israele sta ancora valutando la sua risposta sulla base degli sviluppi dell’iter legislativo.

L’alto dirigente palestinese Saeb Erekat si è congratulato con l’Irlanda per la decisione di approvare il disegno di legge, affermando di voler “ comunicare il nostro sincero apprezzamento al Senato irlandese per aver sostenuto a testa alta il principio della giustizia, approvando questa storica mozione che vieta il commercio con le colonie israeliane illegali nella Palestina occupata.”

Oggi il Senato irlandese ha inviato un chiaro messaggio alla comunità internazionale ed in particolare al resto dell’Unione Europea: le sole parole riguardo alla soluzione dei due Stati non bastano, se non si adottano misure concrete”, ha continuato Erekat.

Vorrei approfittare di questa occasione per ringraziare tutti coloro che sono stati coinvolti nell’approvazione di questa proposta di legge, dai partiti politici alla società civile palestinese ed irlandese ed in particolar modo alla senatrice Frances Black per il suo coraggio nel proporre questa mozione che promuove la causa della giustizia in Palestina”, ha affermato.

Le reazioni tra i parlamentari israeliani all’approvazione del disegno di legge sul boicottaggio sono state differenziate. La deputata Ayelet Nahmias Verbin (Unione Sionista [coalizione di centro sinistra, all’opposizione, ndtr.]), membro della Commissione della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa, ha detto che “il boicottaggio irlandese sui prodotti provenienti da Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania, ndtr.] potrebbe facilmente slittare verso un boicottaggio sui prodotti israeliani e legittimare altri Paesi europei ad adottare una misura simile.”

Nel frattempo, la deputata Haneen Zoabi (Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, all’opposizione, ndtr.]) si è detta “felice che la proposta di legge sia passata” e che “contenga un importante messaggio politico: è tempo che l’Europa riveda il proprio approccio alla strategia di boicottaggio di Israele che sta diventando ogni giorno più fascista, e il diritto internazionale non fa che indebolirsi di fronte alla distruttività israeliana.”

La protesta di Netanyahu

Originariamente la votazione era prevista in gennaio, ma è stata rinviata dopo che il ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatrice di Irlanda in Israele, Alison Kelly, chiedendo spiegazioni. Il ministero ha agito su richiesta del primo ministro Benjamin Netanyahu, che è anche ministro degli Esteri.

Kelly ha detto a Rodica Radian-Gordon, responsabile dell’ufficio per l’Europa del ministero [degli Esteri israeliano], che la proposta di legge è stata promossa da parlamentari indipendenti, ma che il governo irlandese vi si è opposto. Ha anche sottolineato che il disegno di legge non era una proposta di BDS [Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni, ndtr.], ma si limitava a invitare al boicottaggio delle colonie.

Netanyahu tuttavia non ha accettato questa argomentazione. Ha denunciato la proposta di legge, dicendo che era intesa a “appoggiare il movimento BDS e danneggiare Israele.” In una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio, ha aggiunto che la proposta “fa un favore a coloro che cercano di boicottare Israele ed è assolutamente contraria ai principi di libero commercio e di giustizia.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I rapporti scomparsi sugli erbicidi a Gaza

Amira Hass

9 luglio 2018, Haaretz

Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi con le nostre irrorazioni? Che novità, fa spallucce l’israeliano medio e passa ad un altro canale.

Mentre stavo scrivendo il mio articolo sull’erbicida israeliano irrorato a Gaza, ho appreso che i profughi del 1948 dal villaggio di Salama [villaggio che si trovava nei pressi di Jaffa, nell’attuale Israele, ndtr.] vivono nel villaggio di Khuza’a [nella Striscia di Gaza, ndtr.]. Sono agricoltori, come lo erano molti dei loro genitori e nonni. All’epoca coltivavano limoni, banane e cereali e vendevano i loro raccolti a Giaffa ed anche nelle comunità ebraiche.

Noi tendiamo ad associare i rifugiati palestinesi ai campi profughi. Ma a volte si incontra qualcuno che, anche se esiliato dal proprio villaggio, è riuscito a mantenere lo stesso tipo di vita e le stesse risorse – cioè, a lavorare e vivere dei frutti della terra in Cisgiordania e persino a Gaza. La famiglia Al-Najjar di Khuza’a è uno di questi casi.

Insieme a suo padre, Saleh al-Najjar, di 53 anni, lavora 60 dunams (circa 15 acri) di terra che hanno in affitto a Khuza’a. Impiegano tre braccianti e Saleh dice che tutti e cinque lavorano 12 ore al giorno.

Con i lavori agricoli mantengono una continuità, nonostante siano rifugiati ed abbiano perduto le loro terre di Salama – su cui Israele ha costruito [la cittadina di] Kfar Shalem. Intanto Israele mantiene la continuità danneggiando le loro fonti di reddito e la loro salute. Quando la gente dice che la Nakba non è mai finita, può citare la famiglia Najjar come ulteriore esempio. Uno tra milioni.

Negli ultimi quattro anni i Najjar – come centinaia di altre famiglie nella parte orientale della Striscia di Gaza – hanno imparato a temere anche i piccoli aerei civili.

In primavera e in autunno, a volte anche in inverno, per diversi giorni al mattino compaiono gli aerei, che sorvolano la barriera di separazione. Ma le loro emissioni sono trasportate dal vento verso occidente, attraversano il confine e raggiungono i campi di Gaza. Vedendo i loro raccolti avvizziti, gli agricoltori hanno capito che gli aerei spargono erbicidi.

La paura di questi pesticidi è persino maggiore di quella dei carri armati israeliani che così spesso schiacciano la vegetazione ad ovest della barriera di separazione – dato che gli erbicidi arrivano più lontano, penetrano nel suolo e inquinano l’acqua. La Croce Rossa dice che le coltivazioni fino a 2 km e 200 metri ad ovest della barriera di confine vengono colpite dall’irrorazione. Quelle che si trovano tra i 100 e i 900 metri di distanza sono state totalmente distrutte. I pozzi d’irrigazione situati a distanza di un chilometro sono stati contaminati.

I rapporti di fonte palestinese sui pesticidi che distruggono l’agricoltura di Gaza sono comparsi per la prima volta alla fine del 2014. Un frutto della fantasia? A fine 2015 il portavoce dell’esercito israeliano ha confermato al sito web +972 che si stava effettuando l’irrorazione di pesticidi. Il Centro Al Mezan per i diritti umani, un’organizzazione di Gaza, ha inviato campioni di terra per le analisi di laboratorio. L’esercito non gli ha riferito che cosa venisse irrorato.

L’irrorazione di erbicidi allo scopo di distruggere i raccolti non è il genere di cose su cui il servizio stampa dell’esercito israeliano o il Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori [l’ente militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndtr.] sono contenti di parlare o fornire volontariamente informazioni. Né è il tipo di informazione che preoccupa molto gli israeliani, sia sui social media che come usuale argomento di conversazione nelle case israeliane.

“Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi irrorando pesticidi – che c’è di nuovo? Abbiamo fatto lo stesso coi raccolti dei beduini nel Negev (prima che l’Alta Corte di Giustizia lo vietasse in seguito ad una petizione di Adala) e coi terreni di Akraba [villaggio nella zona di Nablus, nei territori palestinesi occupati, ndtr.] negli anni ’70. Se i nostri bravi ragazzi hanno deciso di farlo, deve essere necessario”, dice facendo spallucce l’israeliano medio, prima di cambiare canale. Ecco perché sto cercando di tornare sul canale precedente.

La Divisione di Gaza dell’esercito israeliano decide; il ministero della Difesa paga le compagnie aeree civili per farlo. I campi di spinaci appassiti e le piante avvizzite di prezzemolo occupano la mia mente. Penso anche ai figli di questi piloti: lo sanno che il vento trasporta i prodotti chimici che i loro papà hanno spruzzato e che un altro papà non può comprare le scarpe ed altre cose ai suoi figli a causa dei raccolti distrutti per questo?

Richiesto di un commento, il ministero della Difesa afferma: “L’irrorazione viene eseguita da compagnie debitamente autorizzate in base alla legge del 1956 relativa alla protezione delle piante.” È vero che le due compagnie civili che trasportano i pesticidi al di sopra della barriera di confine – Chim-Nir e Telem Aviation – sono professionisti riconosciuti in questo campo. Il ministero della Difesa dice anche: “L’irrorazione dei campi è identica a quella effettuata in tutto Israele.”

Chiunque abbia scritto quella dichiarazione, o offende l’intelligenza dei lettori israeliani, oppure confida che prenderanno per buone le sue parole e non si preoccuperanno. Entrambe le cose sono vere

Il ministero della Difesa ha solamente rivelato quali sono gli “identici” erbicidi utilizzati, in risposta ad un’inchiesta di Gisha, il Centro Legale per la Libertà di Movimento, in base alla legge per la libertà di informazione. I componenti chimici sono il glifosato, l’oxifluorfen e il diuron.

Nonostante le numerose scoperte riguardo ai rischi ambientali e per la salute posti dal glifosato, esso viene ancora usato in Israele. Ma il portavoce del ministero della Difesa ignora il fatto che, pur con tutto il dibattito su quanto siano dannose queste sostanze per l’ambiente e per la salute della popolazione, il loro scopo è contribuire a proteggere i mezzi di sostentamento degli agricoltori – non distruggere le loro coltivazioni, come stiamo facendo a Gaza.

L’esercito ed il ministero della Difesa sanno che queste sostanze chimiche irrorate non conoscono confine. Il danno sistematico portato ai raccolti palestinesi dall’irrorazione non è casuale, è voluto. Un’altra forma di guerra contro la salute e il benessere dei palestinesi, e tutto sotto la logora copertura della sicurezza.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha del periodo 19 giugno – 2 luglio

Le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi, tra cui un minore, e ne hanno feriti 615, di cui 23 minori, durante le dimostrazioni di massa tenute il 22 ed il 29 giugno lungo la recinzione della Striscia di Gaza nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno”

Il minore ucciso, un ragazzino di undici anni, è stato colpito alla testa da un proiettile di arma da fuoco durante una dimostrazione ad est di Khan Yunis, il 29 giugno. Con questa vittima sale a 19 il numero di minori uccisi a Gaza dal 30 marzo (l’inizio di queste proteste), compreso uno il cui corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Durante il periodo di riferimento, altri due palestinesi sono morti per le ferite subite nelle dimostrazioni delle settimane precedenti. 222 dei feriti sopra segnalati sono stati ospedalizzati: di essi 101 erano stati colpiti con arma da fuoco.

In due separati episodi, le forze israeliane hanno ucciso altri due minori palestinesi in Gaza: a quanto riferito, essi avevano aperto una breccia nella recinzione israeliana e tentato di danneggiare apparecchiature militari. Gli incidenti si sono verificati il 28 giugno ed il 2 luglio, ad est di Rafah, e hanno anche provocato il ferimento di tre palestinesi, tra cui due minori.

Palestinesi di Gaza hanno continuato a lanciare, verso il sud di Israele, aquiloni di carta e palloni aerostatici con materiali infiammabili. Secondo le autorità israeliane, dall’inizio di questa pratica (fine aprile), più di 500 ettari di colture e 400 ettari di bosco sono stati bruciati, con danni stimati in milioni di dollari; non sono state segnalate vittime israeliane.

Nel periodo di riferimento [di questo Rapporto], l’aviazione israeliana ha compiuto almeno 24 attacchi aerei su Gaza, mentre gruppi armati palestinesi hanno sparato decine di razzi e colpi di mortaio verso il sud di Israele. Secondo le autorità israeliane, alcuni attacchi aerei sono stati effettuati in risposta al lancio di aquiloni ed aerostati incendiari e, a quanto riferito, avevano come obiettivo le persone impegnate in tali attività, nonché alcuni siti militari ed aree aperte; cinque palestinesi sono stati feriti. Secondo gruppi armati palestinesi di Gaza, il lancio di missili [verso Israele] è stato effettuato come ritorsione per i raid aerei israeliani; non sono state segnalate vittime o danni da parte israeliana.

In almeno 18 occasioni, al di fuori delle dimostrazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare di Gaza, ferendo un palestinese e costringendo agricoltori e pescatori ad allontanarsi. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Gaza ed al Qarara (Khan Yunis), ed hanno compiuto operazioni di spianatura e di scavo nei pressi della recinzione perimetrale

Il 30 giugno, ad est della città di Gaza, in circostanze non chiare, cinque civili palestinesi, tra cui due minori, sono morti ed altri due sono rimasti feriti in una esplosione avvenuta in una struttura abitativa.

In Cisgiordania, 36 palestinesi, tra cui almeno sei minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. La maggior parte dei ferimenti (16), compresi quelli di quattro minori, sono avvenuti durante scontri con forze israeliane seguenti l’entrata di coloni israeliani in vari luoghi religiosi della Cisgiordania; le entrate dei coloni avevano innescato alterchi e scontri con residenti palestinesi. Altri otto feriti palestinesi si sono avuti durante scontri collegati a quattro operazioni di ricerca-arresto, per la maggior parte durante un’operazione in Tuqu’ (Betlemme). Sette feriti sono stati segnalati anche nel corso della manifestazione settimanale contro le restrizioni di accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya). La maggior parte dei ferimenti sono stati causati da pallottole di gomma (19), seguite da proiettili di arma da fuoco (9) e da inalazione di gas lacrimogeno richiedente il trattamento medico (8).

Il 23 giugno un veicolo palestinese ha investito e ferito quattro soldati israeliani vicino al villaggio di Al Khadr (Betlemme). Dopo un’operazione di ricerca, il conducente si è arreso alle forze israeliane. I militari israeliani hanno sostenuto che l’investimento era stato intenzionale; secondo l’Ufficio di Coordinamento Distrettuale palestinese (DCO), l’uomo ha detto che era stato un incidente.

In tutta la Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 137 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 198 palestinesi, tra cui almeno 15 minori. Il Governatorato di Hebron ha visto il maggior numero di operazioni (30) e il Governatorato di Gerusalemme il numero più alto di arresti (49).

Citando la mancanza di permessi di costruzione israeliani, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto le persone a demolire 26 strutture di proprietà palestinese, sfollando dieci persone e colpendo i mezzi di sussistenza di oltre 160. Tutte le strutture sopraccitate, tranne una, erano in Gerusalemme Est. Dall’inizio del 2018, il numero di strutture demolite in questa zona sale così a 91, poco sopra il numero riguardante lo stesso periodo del 2017. Un’altra struttura è stata sequestrata nella zona C, nella comunità pastorale di Umm Fagarah, che si trova nella “Zona per esercitazioni a fuoco 918”, nel sud di Hebron (Massafer Yatta).

Inoltre, il 21 giugno, un alloggio è stato demolito per motivi punitivi in Barta’a Ash Sharqiya (Jenin), nella zona B, sfollando una famiglia di tre persone. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese che, nel marzo 2018, uccise due soldati israeliani investendoli con un veicolo e fu successivamente arrestato.

Nella valle del Giordano settentrionale, per svolgere esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato 16 famiglie palestinesi della comunità di Humsa al Bqai’a per 14 ore. Negli ultimi due mesi, questa è la sesta volta che questa comunità, situata in una zona designata [da Israele] come “Zona per esercitazioni a fuoco”, viene temporaneamente sfollata. Insieme a demolizioni e limitazioni di accesso, questa pratica accresce la pressione sulla Comunità, ponendola a rischio di trasferimento forzato.

Durante il periodo [di riferimento di questo Rapporto] sono stati segnalati tredici attacchi di coloni israeliani, con più di 500 alberi di proprietà palestinese incendiati o vandalizzati. Sei degli episodi si sono verificati nelle vicinanze dei villaggi di Tell, Far’ata, Urif, Burin e Burqa (tutti in Nablus) e di Bani Naim (Hebron). A quanto riferito gli autori degli attacchi sono coloni degli insediamenti di Yitzhar, Gilad Farm e Kiryat Arba, che hanno aggredito e ferito una donna 38enne e due minori e vandalizzato o incendiato 450 alberi. Altri tre attacchi incendiari con estensione dei danni a terreni coltivati e ad almeno 70 ulivi sono stati segnalati nei villaggi di Azmut e di Beit Furik (entrambi in Nablus) e di Deir Jarir (Ramallah). Dall’inizio del 2018, OCHA [Ufficio delle NU che redige questo Rapporto] ha registrato lo sradicamento, l’incendio o la vandalizzazione di 4.175 alberi da parte di coloni israeliani: un aumento, sulla media mensile, del 48% rispetto al 2017 e del 404% rispetto al 2016. Nella città di Hebron, nella zona H2, a controllo israeliano, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro tre case palestinesi e, in scontri successivi, hanno ferito sei palestinesi, tra cui due minori. Altri cinque palestinesi sono stati feriti e tre veicoli danneggiati da coloni in altri episodi di lancio di pietre.

Media israeliani segnalano almeno nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, con danneggiamento di due veicoli privati. Non sono stati segnalati feriti.

Il valico a controllo egiziano tra Gaza e l’Egitto è rimasto aperto in entrambe le direzioni durante il periodo di riferimento, ad eccezione di tre giorni, consentendo a 1.178 persone di entrare nella Striscia ed a 3.307 di uscirne. Il valico è stato quasi continuamente aperto dal 12 maggio, il periodo più lungo dal 2014. A detta delle autorità egiziane, a partire dall’inizio di luglio, il valico di Rafah resterà aperto, eccetto il venerdì ed il sabato, fino a nuovo avviso.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Negli ultimi giorni, sulle colline ad est di Gerusalemme, Israele ha intensificato le attività nell’area in cui vivono due comunità palestinesi tra loro vicine ed entrambe a rischio di trasferimento forzato. In Khan Al Ahmar – Abu Al-Helu l’area è stata dichiarata “Zona militare chiusa” e grossi macchinari per costruzioni sono stati portati in loco. Il 4 luglio, ad Abu Nuwar, le autorità israeliane hanno demolito 19 strutture, tra cui 9 abitazioni, sfollando 51 persone, di cui 33 minori.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto OCHA 5 – 18 giugno 2018 (due settimane)

Durante la manifestazione di massa dell’8 giugno, svolta lungo la recinzione israeliana attorno a Gaza, le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, tra cui un ragazzo di 14 anni, e ferito altri 618.

Durante il periodo cui si riferisce questo rapporto, altri due palestinesi sono morti per le ferite riportate nelle manifestazioni delle settimane precedenti. Oltre il 40% dei feriti ha dovuto ricorrere a cure ospedaliere; tra questi, 117 persone colpite con armi da fuoco. Le dimostrazioni della “Grande Marcia del Ritorno” si sarebbero dovute concludere l’8 giugno, ma è possibile che continuino nei prossimi venerdì.

I palestinesi di Gaza hanno intensificato il lancio, verso il sud di Israele, di aquiloni di carta e palloni gonfiabili caricati con materiali infiammabili, provocando incendi di coltivazioni e boschi. Fonti israeliane hanno anche riferito che un certo numero di aquiloni e palloni erano stati caricati con ordigni esplosivi, ma sono stati neutralizzati prima che esplodessero. Secondo le autorità israeliane, dall’avvio di questa pratica (iniziata a fine aprile), i vigili del fuoco hanno dovuto affrontare più di 400 incendi che hanno bruciato più di 2.400 ha, con danni stimati in oltre 1,9 milioni di dollari.

A Gaza l’aviazione israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei contro siti militari, aree aperte e un veicolo vuoto, provocando due feriti. Secondo quanto riferito, gli attacchi sono stati effettuati in risposta al lancio di aquiloni e palloni incendiari. In tre diversi episodi, gruppi armati palestinesi hanno lanciato razzi contro Israele. Uno di questi è caduto all’interno di Gaza, i rimanenti sono caduti di Israele, in aree aperte; secondo i resoconti dei media israeliani, non sono stati registrati danni.

Sempre a Gaza, il 18 giugno, un missile israeliano ha ucciso un palestinese e ferito un minore: secondo quanto riferito, i due stavano tentando di danneggiare, presso l’ex valico merci di Karni [chiuso da Israele nel 2011], un impianto di sicurezza installato a ridosso della recinzione perimetrale.

Nelle Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare, di Gaza, in almeno dodici occasioni non collegate alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, senza causare feriti. In due casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo ad est di Gaza e Khan-Yunis, nei pressi della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante numerosi scontri, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 21 anni e ferito altri 69. L’uccisione (con arma da fuoco) si è verificata durante un’operazione di ricerca-arresto, svolta il 6 giugno, nel villaggio di An Nabi Saleh (Ramallah). Secondo una dichiarazione israeliana, l’uomo aveva lanciato una pietra contro un soldato israeliano che, successivamente, gli ha sparato. Salgono così a cinque, dall’inizio del 2018, i palestinesi uccisi in Cisgiordania, nel corso di manifestazioni e scontri con le forze israeliane. La maggior parte dei ferimenti (60) sono stati segnalati in scontri verificatisi nel corso di dodici operazioni di ricerca-arresto. Il numero più alto di feriti è stato riportato in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), seguito da quello dei feriti nel corso un’operazione nella città di Nablus e da un’altra operazione svolta nel Campo profughi di Al Am’ari (Ramallah). Altri due palestinesi sono stati feriti vicino a Betlemme, con armi da fuoco, in due diversi episodi, mentre cercavano di attraversare la Barriera senza permesso.

L’11 giugno, nella città israeliana di Afula (Israele), secondo quanto riferito, un palestinese ha ferito con coltello una israeliana di 18 anni; l’uomo è stato successivamente colpito e ferito dalle forze israeliane. Il presunto aggressore è stato arrestato; secondo quanto riferito, proverrebbe da Jenin e sarebbe entrato in Israele senza permesso.

Il 13 giugno, in scontri scoppiati durante una manifestazione tenutasi nella città di Ramallah, le forze di sicurezza palestinesi hanno ferito 22 palestinesi, tra cui due minori. I dimostranti protestavano contro le misure punitive imposte dall’Autorità palestinese alla Striscia di Gaza e chiedevano di porre fine alle divisioni interne tra palestinesi. Almeno 40 palestinesi e due giornalisti stranieri sono stati arrestati per un paio d’ore. Una dimostrazione simile si è tenuta nella Striscia di Gaza il 18 giugno, con un ferito. Tutti i ferimenti [di cui sopra] sono stati causati da aggressioni fisiche o inalazione di gas lacrimogeno.

Secondo dati ufficiali israeliani, circa 100.000 palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania, sono entrati a Gerusalemme Est il quarto venerdì di Ramadan (l’8 giugno) attraverso i quattro checkpoints designati lungo la Barriera. Come nelle settimane precedenti, agli uomini sopra i 40 anni e alle donne di tutte le età è stato consentito entrare in Gerusalemme senza permesso. Nessuna autorizzazione è stata invece concessa per il Ramadan dei palestinesi di Gaza.

Il 13 e il 17 giugno, conformemente a quanto stabilito da sentenze della Corte Suprema israeliana, le autorità israeliane hanno evacuato, nei governatorati di Hebron e Salfit, due insediamenti “avamposto” di coloni israeliani [non autorizzati da Israele] e successivamente hanno demolito 28 strutture costruite su terreni privati palestinesi. Secondo quanto riportato dai media israeliani, gli scontri verificatisi nel corso delle evacuazioni hanno provocato il ferimento di 24 membri delle forze israeliane. A seguito delle proteste di gruppi di coloni, le forze israeliane hanno chiuso le strade vicine, costringendo i palestinesi locali a lunghe deviazioni ed interrompendo il loro accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza.

Nel periodo in esame non sono state registrate demolizioni o confische di strutture palestinesi da parte delle autorità israeliane. Così è stato fin dal 17 maggio (inizio del Ramadan), coerentemente con la prassi registrata negli anni precedenti, quando le demolizioni venivano per lo più interrotte in concomitanza con il Ramadan.

Nella Valle del Giordano settentrionale, per la quinta volta in sei settimane, le forze israeliane hanno sfollato cinque famiglie della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a per sei ore, per consentire esercitazioni militari. Questa comunità deve affrontare sistematiche demolizioni, restrizioni di accesso e sfollamenti temporanei che destano preoccupazioni sul rischio di trasferimento forzato. Le forze israeliane hanno anche condotto esercitazioni militari notturne nelle vicinanze, e all’interno, del villaggio di Yanun (Nablus); non sono stati segnalati feriti o danni.

In undici episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, sei palestinesi sono stati feriti e quasi 1.200 alberi e cinque veicoli sono stati vandalizzati. Nella zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, hanno fatto irruzione nella casa di un attivista per i diritti umani; qui i coloni hanno aggredito fisicamente l’uomo e ferito la moglie; la sua macchina fotografica e il cellulare sono stati confiscati dalle forze israeliane. Altri quattro palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane, intervenute negli scontri tra palestinesi e coloni israeliani; gli scontri erano conseguenti all’ingresso di coloni nei villaggi di Burin (Nablus) e Kafr Laqif (Qalqiliya). Circa 1.200 tra ulivi e viti sono stati vandalizzati da coloni israeliani in cinque diversi episodi verificatisi a Turmus’aya (Ramallah), Sa’ir (Hebron) e Khalet Sakariya (Betlemme), dove, secondo fonti della comunità locale, su rocce e pareti sono stati trovate scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare”. Il numero di alberi danneggiati dai coloni, dall’inizio del 2018, arriva così quasi a 3.700. Inoltre, in cinque distinti episodi verificatisi sulle strade della Cisgiordania, cinque veicoli palestinesi, incluso uno scuolabus, hanno subito danni a causa del lancio di pietre da parte di coloni israeliani.

Secondo media israeliani, vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, ci sono stati almeno quattro casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danneggiamento di due veicoli privati. Non sono stati segnalati feriti.

Il valico tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, durante l’intero periodo di riferimento, è rimasto aperto in entrambe le direzioni, consentendo l’ingresso in Gaza ad un totale di 2.083 persone e l’uscita ad altre 4.375. Il valico è stato continuativamente aperto dal 12 maggio: dal 2014, è il periodo di apertura più lungo. Secondo fonti locali di Gaza, Rafah rimarrà aperto fino a nuovo avviso.

¡

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte tra il 19 ed il 20 giugno c’è stata una progressione di attacchi aerei israeliani su Gaza e di lanci di razzi palestinesi verso il sud di Israele; le operazioni si sono concluse senza provocare vittime. Il 14 giugno, in una relazione presentata al Consiglio di Sicurezza, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha avvertito che la situazione a Gaza è “prossima al limite della guerra”.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Pennellate di vita comune dalla Striscia di Gaza

Patrizia Cecconi da Gaza

16 giugno 2018, Pressenza

Ieri era festa grande a Gaza, come in tutti i paesi a prevalenza musulmana. Una festa che non si ignora neanche laddove cadono senza sosta bombe devastatrici di vite e di intere comunità.

Ieri era il primo giorno dell’Eid fitr, quello che segue la fine del Ramadan e che ha ancor più importanza di quanto ne abbia il Natale nei paesi a prevalenza cristiana.

L’Eid fitr è la festa in cui i bambini hanno gli abiti nuovi e girano felici per le strade e le famiglie si fanno visita l’un l’altra. Anche nelle case dei recenti martiri si festeggia l’Eid ed è un’occasione per onorare il martire e ricordare che la sua morte è benedetta sebbene dolorosa.

Molti gazawi hanno deciso di passare questi giorni negli accampamenti della grande marcia lungo il confine. Israele, che non cessa mai di far sentire la sua presenza con il ronzio ossessivo dei droni-spia, ha partecipato all’Eid non solo con l’onnipresenza dei droni ma anche con alcuni missili lanciati su uno degli accampamenti in cui i ragazzi preparavano i temibili aquiloni diventati simbolo della grande marcia. Per fortuna niente vittime e l’Eid fitr continua per altri due giorni come previsto dal rito coranico.

Nei giorni precedenti l’Eid, cioè durante il Ramadan, è normale essere invitati all’iftar, cioè alla cena che interrompe il digiuno dopo il calar del sole. Queste cene sono un’immersione totale nello spirito del luogo. Uno spaccato sociologico che toglie ogni dubbio su quanto ci sia di falso negli stereotipi forniti dai media i quali, a parte pochissime eccezioni, si gingillano in cosiddette analisi di situazioni che non conoscono neanche per un affaccio veloce alla finestra.

Essere invitati all’iftar, in quanto stranieri, è una forma di rispetto e di affetto in tutta la Palestina. Essere invitati all’iftar nella Striscia di Gaza è anche qualcosa di più: è un ringraziamento per esserci, perché in una prigione come Gaza, in cui per gli stranieri è molto difficile entrare e per i gazawi è quasi impossibile uscire, anche se feriti o malati, esserci significa vedere e testimoniare. Testimoniare dal vivo e raccontare il vero, sempre che si abbia l’onestà intellettuale per farlo e non si dipenda dal libro paga di chi stabilisce cosa sia opportuno scrivere.

Quindi, stante la condizione di assoluta libertà di espressione, ecco una cronaca da Gaza arricchita dalle tante interviste informali raccolte durante questi incontri conviviali. Due o tre sono le cose particolarmente rilevanti emerse in queste conversazioni ed una di queste è che, nonostante il taglio dell’elettricità da parte di Israele, ogni casa visitata è illuminata da luce elettrica e non da candele. Come mai? Forse che Israele, detentore dell’assedio e anche dell’elettricità, ha concesso più ore di luce? No. Il motivo è che i gazawi, in questi 11 anni di illegale assedio, hanno sviluppato su vari fronti la loro creatività. Mentre gli ospedali o le grandi strutture usano i generatori e, chi può, usa i pannelli solari, le singole abitazioni – spesso appartamenti arrampicati l’uno sull’altro in uno degli 8 campi profughi, o piccole case ricostruite alla meglio dopo l’ultimo terribile massacro del 2014 – non hanno la possibilità di usare un generatore, sia per il costo dello stesso, sia per il costo del carburante, e allora qualcuno si è inventato l’uso alternativo della batteria dell’automobile. Qualche piccola modifica per poterla alimentare nelle due o tre ore in cui Israele fa passare l’elettricità, cioè verso mezzanotte quando normalmente la famiglia ormai dorme, e qualche altra modifica per alimentare gli impianti domestici con l’energia accumulata nella batteria et voila, il gioco è fatto: Israele vuole lasciare al buio Gaza e Gaza si attrezza sviluppando sistemi alternativi.

In questo periodo sembra che la scelta di rispondere in modo non violento alla negazione dei propri diritti abbia scatenato, in questa comunità di prigionieri, una grande fantasia creativa che ha preso il posto di frustrazione e rabbia. Lo si è visto nelle manifestazioni della Grande marcia del ritorno in cui ai micidiali lanci di tear gas un gruppo di manifestanti aveva organizzato il “rilancio” nel campo nemico usando racchettoni e racchette da tennis, o nel tentativo vagamente pitagorico di utilizzare gli specchi per confondere i cecchini, o nell’incendio dei copertoni il cui denso fumo nero impediva ai cecchini di prendere la mira, riducendo così il numero delle vittime che, comunque, sono state circa 130 alle quali si aggiungono oltre 13mila feriti. Ma l’idea principe è stata sicuramente quella delle mini mongolfiere e degli aquiloni con la codina accesa da far volare oltre la rete dell’assedio, spiegando così all’assediante che i gazawi non si arrendono e pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Seguitano anche a spiegare, inascoltati dall’occidente, che dietro a queste decine di migliaia di uomini donne e bambini che si radunano lungo il confine non c’è il coordinamento di Hamas, né di altri partiti politici, bensì la riedizione di un tentativo già sperimentato, ma fallito, nel 2011 e cioè un movimento di base che scavalchi i partiti senza negarli, ma senza lasciarsi irretire dalle rivalità tra i vertici, e che tende a richiamarsi al concetto di fronte unico per ottenere i diritti affermati dall’ONU ma negati da Israele.

Questi i discorsi generali che hanno accompagnato le belle cene dell’iftar nell’ultima settimana del Ramadan. Ma a questi vanno aggiunti spunti e suggestioni che offrono inquietanti motivi di riflessione.

In parte per caso, in parte per scelta, nessuno degli incontri ha avuto come interlocutori militanti o simpatizzanti di Hamas, il partito al potere, il quale in passato ha scelto la lotta armata, compreso l’uso di kamikaze per ottenere senza mai riuscirci – il rispetto dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. Ormai Hamas ha preso un’altra via sebbene Israele trovi molto comodo nella sua propaganda con l’occidente attribuirgli la responsabilità di qualunque azione ostile, violenta o meno, ottenendo in tal modo due risultati: uno verso l’esterno, quello di screditare ogni azione legittima, quale la richiesta di applicare le Risoluzioni ONU, ammantandola di un falso velo di terrorismo grazie ai buoni servigi dei tanti opinion maker israelo-dipendenti. Verso l’interno, invece, quello di ottenere l’accredito di Hamas come organizzazione capace di muovere le masse dei gazawi anche se non sempre questo risponde al vero, restituendogli un carisma che ad un’analisi orientativa sembrava essere in caduta libera.

I due argomenti più interessanti, oggetto delle interviste informali realizzate in questi giorni, hanno riguardato: 1) il comportamento dell’Anp, che qui viene regolarmente riportato al solo presidente Abu Mazen, considerato come responsabile unico della punizione collettiva imposta ai palestinesi di Gaza attraverso il taglio degli stipendi e 2) l’uccisione di bambini e teenager da parte di Israele. Questo secondo argomento creerà sicuramente disappunto e verrà attaccato brutalmente dalle organizzazioni sioniste, se questo articolo verrà letto, come già successo per altri lavori che sono stati oggetto di attacchi rabbiosi ma non destrutturanti di quanto affermato, visto che scriviamo solo ciò che è dimostrabile e documentabile.

Per quanto riguarda il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza in carico al governo di Ramallah, taglio dovuto al tentativo di fiaccare Hamas accrescendo a dismisura la povertà nella Striscia, sperando in una qualche forma di sollevazione pro Anp, l’effetto si è dimostrato un boomerang dal punto di vista politico e un baratro dal punto di vista morale. A nessuno sfugge l’altissimo livello di vita di Abu Mazen e dei suoi figli, ricchi imprenditori probabilmente per loro proprio merito, ma tacciati di corruzione da tutti gli intervistati. L’amaro senso di tradimento probabilmente porta a queste risposte esasperate, ma queste sono comunque le risposte offerteci. Gaza è assediata, Israele tra i tanti crimini passati sotto silenzio commette anche quello di irrorare di glifosato le coltivazioni gazawe per impedirne il raccolto, e l’Autorità palestinese invece di sostenere i propri figli li getta in un’ancor più nera miseria! Questo non è percepito da nessuno dei miei interlocutori come un errore politico, ma da tutti come un crimine commesso contro i fratelli gazawi per un odio contro Hamas tanto cieco da favorire Israele. Questo dicono i Gazawi.

Agli occhi di un occidentale che non conosce la cultura palestinese tutto questo sembra confliggere col fatto che la Striscia sia piena di Università (nessuna completamente gratuita) e che le università siano piene di studenti e studentesse i quali vengono spessissimo da famiglie in cui si sopravvive grazie ai sussidi dell’Unrwa. Studenti che solo in bassa percentuale hanno partecipato alle manifestazioni al confine ma che plaudono alla grande marcia e che mostrano l’icona dell’infermiera Razan Al Najjar, o dell’artista Mohammed Abu Amr che scolpiva sulla sabbia, o del giornalista Yaser Murtaja, tutti resi martiri da Israele. Studenti che pur non partecipando direttamente alla grande marcia, plaudono alla geniale idea degli aquiloni che è stata capace di mettere in crisi il potentissimo apparato bellico israeliano. Si riconoscono in quelle figure di combattenti disarmati capaci di far vacillare l’immagine di Israele come onnipotente e danno il loro sostegno ideale anche se raramente hanno raggiunto i manifestanti al confine.

Uno dei miei intervistati, padre di alcuni studenti e prima persona che mi ha mostrato con un’espressione vagamente divertita l’apparato elettrico alternativo che illumina la sua casa, lo stesso che mi ha fatto avere come regalo un paio di quei bellissimi aquiloni, che difficilmente potrò riportare in Italia, è uno dei tanti dipendenti legati a Fatah e rimasto senza stipendio per la “lungimiranza” dell’Anp. Tra le tante cose dette, mi dice una frase che riporto testualmente: “Hamas non brilla per creatività, sono i nostri giovani la nostra forza e questo Israele lo sa e per questo li uccide”. E’ lapidaria e terribile la sua affermazione, la contesto. Statistiche alla mano non ho difficoltà a contestarla, non perché voglia difendere Israele, conosco bene la gravità dei suoi crimini e l’ancora maggior gravità del fatto che questi restino regolarmente impuniti, ma mi sembra un’affermazione impropria. Gli faccio notare che per ragioni statistiche, essendo la popolazione gazawa mediamente giovane dato l’alto numero di figli che arricchisce ogni famiglia, è normale che vengano uccisi più ragazzi giovani che popolazione matura. Non è così. Alla conversazione partecipa uno dei medici degli ospedali che hanno fatto miracoli per provare a salvare vite e arti e mi chiede se ricordo che durante la mia visita nel suo ospedale ben tre ragazzi erano stati colpiti ai genitali e resi sterili oltre che invalidi. Mi dice che altri hanno avuto lo stesso destino e che sono troppi perché il fatto possa essere considerato pura coincidenza. Israele ha paura della crescita demografica del popolo palestinese, questo lo sappiamo, ma questo non può significare lo sterminio scientifico di una generazione. Sinceramente mi sembra troppo e insisto nella mia posizione.

Ho davanti a me un uomo che ha conosciuto (come il 90% degli uomini palestinesi) le galere israeliane da quando aveva 16 anni. Arrestato mai per crimini, ma per la sua militanza in Fatah, cosa che ora forse non succederebbe più. Un uomo che la mentalità israeliana e il cinismo scientifico che l’accompagna li conosce bene. Accanto a lui ho un medico ospedaliero che nei suoi tanti anni di professione ha avuto non solo malati ma molti feriti dall’esercito detto il più morale del mondo. Anche lui mi dice che c’è grande scientificità, perfettamente mirata, nei crimini israeliani. Ho di fronte a me anche dei ragazzi che ancora non hanno avuto modo, per fortuna, di conoscere le galere israeliane ma che mi dicono di aver perso un gran numero di amici della loro età nei bombardamenti del 2014. Mi viene ricordato un episodio avvenuto in Cisgiordania negli anni “80 in cui vennero rese sterili circa duemila ragazze. Quattro conti e viene fuori che in un colpo solo Israele ha ridotto la popolazione potenziale di circa 16.000 persone che oggi, per effetto del moltiplicatore generazionale ne avrebbero probabilmente fatte nascere già almeno altre 32.000.

E’ spaventoso oltre che inquietante. Faccio ancora qualche obiezione ma poi mi faccio qualche conto veloce. Prendo in esame solo i due massacri maggiori degli ultimi dieci anni: Piombo fuso e Margine protettivo. Non so quanti diciottenni o ventenni o venticinquenni siano stati ammazzati ma so che sono stati la maggioranza dei circa 1450 morti di piombo fuso e dei 2260 di margine protettivo. So però quanti bambini sono stati ammazzati. Ben 318 nei soli 21 giorni del primo massacro e 570 più un migliaio resi invalidi a vita nei 49 giorni del secondo.

A parere dei miei intervistati tutto questo fa parte della lungimiranza strategica, tanto intelligente quanto cinica, dei governanti israeliani. Non solo di Netanyahu, ma di tutti i governanti israeliani e mi invitano a ricordare che molti di loro erano stati feroci terroristi prima della nascita dello Stato di Israele di cui poi sarebbero diventati onorevoli statisti.

Mi ripetono che questo rientra nella mentalità israeliana e che nessuna uccisione di palestinese in grado di procreare è casuale. “Sono i nostri giovani la nostra forza e per questo Israele li uccide” ripete il mio ospite. Però, con uno spirito assolutamente palestinese, aggiunge “ma non potrà ucciderli tutti e gli interessi che sostengono Israele non saranno eterni. Assaggia la zuppa di verdura che è speciale”. Si cambia registro così, qui a Gaza. Se non fosse così fosse sarebbero stati assuefatti e addomesticati. Qualcuno la chiama resilienza.

Mentre scrivo queste riflessioni dalla mia finestra entrano tre cose: l’insopportabile ronzio dei droni al quale non riuscirò mai ad abituarmi, un caldo che fino a poco fa pare abbia toccato i 42 gradi all’ombra e che mi ha tenuta bloccata in casa, e il rumore di clacson misto a tante voci che vengono dal porto. Tra un po’, appena spirerà un po’ di brezza scenderò sulla spiaggia che ho davanti al mio ufficio e che sarà piena di palestinesi in festa. La spiaggetta in cui nel 2014 vennero fatti a pezzi 4 bambini mentre giocavano a pallone. Ho sempre pensato si trattasse di crudeltà e sadismo, ma dopo le ultime interviste ho cambiato idea: Israele non ha soltanto bisogno di uccidere, come già scritto alcuni giorni fa, per una sindrome non superata dovuta all’olocausto, Israele ha anche l’obiettivo di uccidere per fermare la crescita del popolo palestinese. Lucidamente, scientemente, criminalmente.

Ripensando ad alcuni articoli di Gideon Levy, una delle firme più prestigiose del giornalismo israeliano progressista, mi rendo conto che Levy questo orrendo obiettivo lo denuncia da tempo. Ma solo l’impatto vis à vis con chi è direttamente colpito da questo progetto mi ha dato consapevolezza della sua mostruosità. Se Israele si salverà da se stesso sarà anche perché quella piccola minoranza di cui Gideon Levy fa parte e che rappresenta la parte sana del paese, riuscirà ad ostacolare questa deriva razzista o peggio.

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.”

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.




Le sei cose che mostrano le truppe palestinesi nel reprimere le proteste a Ramallah

Haaretz

Amira Hass

18 giugno 2018,

La violenta repressione, mercoledì scorso, da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di una manifestazione di protesta contro le politiche restrittive dell’ANP nei confronti di Gaza dimostra:

  1. Che l’ANP ed il partito alla sua guida, Fatah, non intendono tenere elezioni parlamentari

Chiunque abbia interesse a svolgere libere elezioni non reprime brutalmente una piccola manifestazione con modi che coniugano i metodi dell’occupazione israeliana con quelli delle forze di sicurezza siriane ed egiziane. Chiunque voglia vincere le elezioni non ricorre a metodi che repellono alla maggioranza della propria popolazione, allontanandola ancor più dalla sua dirigenza non eletta.

2.     Che il movimento di Fatah si aggrappa con tutte le sue forze al misero potere che gli deriva dal gestire l’ANP sotto il feroce regime militare israeliano.

Altrimenti si sarebbe pubblicamente e immediatamente dissociato dal modo in cui le agenzie di sicurezza palestinesi hanno strumentalizzato i giovani identificati come membri di Fatah. (Si è detto che almeno alcuni provenivano dal campo profughi Jalazun, come Rami Younes, che scrive sui siti web israeliani Sihah Mekomit e +972. Younes ha partecipato alla manifestazione di mercoledì sera e ne ha riferito agghiaccianti dettagli).

3. Che la paura del presidente palestinese Mahmoud Abbas all’interno del movimento Fatah è molto forte

Ci sono membri di Fatah contrari alla repressione della manifestazione che chiedeva la revoca delle misure punitive imposte da Abbas a Gaza, pur condividendo le critiche rivolte ai manifestanti (per esempio, che minimizzano la responsabilità di Hamas per la situazione a Gaza e il suo sottrarsi ai propri obblighi verso la popolazione civile della Striscia). Questi oppositori all’interno di Fatah restano in silenzio per paura di perdere i loro salari o di essere probabilmente estromessi dalle istituzioni di Fatah, in cui si sentono a casa propria.

4. Che l’ANP è capace di programmare ed organizzare quando vuole farlo, diversamente dall’impressione che hanno gli impiegati nei suoi ministeri

Là regna il caos, la mancanza di pianificazione e organizzazione e lo scarso coordinamento, oltre a una buona dose di apatia.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita in modo straordinario a mettere insieme il lavoro di molte delle proprie istituzioni per scoraggiare potenziali manifestanti dal farsi vedere, e poi a reprimere e punire quelli che non si erano lasciati intimorire. Queste istituzioni includono il governo dell’ANP, l’ufficio del presidente, le forze di sicurezza ufficiali e anche poliziotti in borghese – attivisti di Fatah o qualcuno che finge di esserlo. Tutti hanno lavorato all’unisono come in un macchinario ben oliato.

Sono stati tutti preceduti da redattori, artisti grafici e tipografie che hanno preparato poster giganti appesi in piazza Manara a Ramallah, inneggianti all’ANP ed al suo sostegno finanziario alla Striscia di Gaza, affermando al contempo che la radice del disastro di Gaza sia stata il “colpo di stato” di Hamas (con riferimento alla presa in carico da parte di Hamas delle agenzie di sicurezza nella Striscia di Gaza nel 2007, in seguito alla vittoria del movimento nelle elezioni parlamentari). I poster contenevano anche una propaganda di bassa lega sul fatto che i manifestanti fossero dipendenti di ONG rimpinguate da denaro estero e lavorassero per un progetto straniero.

Martedì scorso il governo palestinese ha condannato le proteste che si erano già svolte prima di mercoledì sera, sostenendo che spostavano l’attenzione dalla responsabilità dell’occupazione israeliana e di Hamas per la situazione a Gaza. La sera stessa è stata diffusa una dichiarazione pubblica secondo cui, su consiglio del consulente di Abbas per gli affari locali, è stato deciso che le manifestazioni e le proteste sarebbero state vietate fino alla fine del Ramadan e della festa di tre giorni di Id al-Fitr, che è iniziata giovedì notte, per evitare di disturbare le festività e lo shopping festivo.

Quelli che hanno sfidato il divieto si sono scontrati con un forte e variegato contingente di forze di sicurezza palestinesi. Nello stesso momento in cui le forze hanno cominciato a lanciare gas lacrimogeni e granate stordenti, e le squadracce in borghese hanno iniziato a confiscare macchine fotografiche e ad aggredire e arrestare manifestanti, sia uomini che donne, a Nablus si stava svolgendo una manifestazione a sostegno di Abbas. Ma nessuno ha disperso quella manifestazione.

5. Che lo status quo è molto apprezzato dall’ANP

L’accordo di Taba del 1995 con Israele vieta ai servizi di sicurezza palestinesi di operare nell’area B della Cisgiordania – la parte ufficialmente sotto controllo militare israeliano e controllo civile palestinese ( in base agli accordi di Oslo, ndtr.) – a meno che ciò sia concordato con Israele. Gli vieta anche di operare nell’area C, che è sotto il totale controllo militare e civile israeliano. Centinaia di migliaia di palestinesi vivono nelle aree B e C, dove si trovano esposti alla violenza dei coloni ebrei e della polizia ed esercito israeliani. L’accordo di Taba è scaduto 19 anni fa, ma l’ANP continua ad osservarlo e non dispiega le proprie forze di sicurezza per difendere fisicamente il suo stesso popolo. Se lo facesse, chissà quali ritorsioni farebbe Israele, forse cancellerebbe le concessioni alla libertà di movimento di cui godono gli alti dirigenti, oppure i permessi di commercio e di estrazione che loro ed i loro parenti hanno ottenuto.

6. Che il governo palestinese aveva ragione a dire che la protesta spostava l’attenzione dall’occupazione

Questo articolo si occupa della violenta repressione della protesta, invece di dedicarsi al fatto che Israele ha prorogato di altri quattro mesi la detenzione amministrativa della deputata palestinese Khalida Jarrar, che è già stata in prigione un anno senza processo. Non stiamo scrivendo dell’ordine di demolizione emesso per la casa di Latifa Abu Hamid nel campo profughi di Al-Amari. Uno dei suoi figli è sospettato dell’uccisione di un soldato dell’unità Duvdevan, che faceva parte delle forze che hanno attaccato il campo circa un mese fa. Israele non riconosce il diritto dei civili palestinesi a difendersi dalle incursioni armate israeliane. Ancor prima che il figlio compaia davanti ad un tribunale militare, tutta la sua famiglia viene punita.

Provate ad immaginare che cosa accadrà nel piccolo e affollato campo quando l’esercito israeliano vi entrerà con i bulldozer e i carri armati. E chi sarà assente? Le forze di sicurezza palestinesi, quelle stesse che sono state addestrate in Russia e Giordania, Egitto e Romania e dall’FBI e dalle polizie europee e che hanno disperso con la violenza una pacifica protesta in piazza Al-Manara a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)