A Gaza Israele va oltre la sua consueta ferocia

Amira Hass

3 aprile 2018, Haaretz

Gli israeliani si sono assuefatti ai riferimenti storici; non c’è da meravigliarsi che possano giustificare il fuoco omicida contro dimostranti disarmati.

Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso “Al Hamishmar”, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: ‘Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come soldati, anche a noi è stato detto di aprire il fuoco contro i manifestanti a Gaza

Shai Eluk

2 aprile 2018,+972 Magazine

Sei anni fa ero sul confine con Gaza. Gli stessi dimostranti, le stesse proteste. Anche gli ordini di aprire il fuoco contro assembramenti di persone sono rimasti gli stessi

Sei anni fa ero là. Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro: se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle gambe dei “principali sobillatori”.

Questo ordine, che non ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti, all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.

Cosa sarebbe successo se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16 manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.

Sono certo che se fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato. Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno sbarbatello diciottenne.

Ma qualunque soldato che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che ci deve essere un’altra soluzione.

Uno dei miei amici ha ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che porta sulle proprie spalle questa morte. L’unica differenza tra me e il mio amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.

Ogni anno è nuovo, e sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta.

I soldati hanno un privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a Hebron, Ramallah e Nablus.

Il soldato picchia alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.

Gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è permanente.

Shai Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in ebraico].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il massacro di Pasqua a Gaza

Neve Gordon

1 aprile 2018, Al Jazeera

Il massacro di Pasqua a Gaza non è stato affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese

Per decenni i sionisti hanno imputato ai palestinesi la prosecuzione del progetto coloniale di Israele: “Se solo i palestinesi avessero un Mahatma Gandhi,” molti progressisti israeliani hanno esclamato, “allora l’occupazione finirebbe.”

Ma se si volessero realmente trovare dei Mahatma Gandhi palestinesi basterebbe vedere le immagini dei notiziari sui manifestanti di venerdì notte. Palestinesi, stimati in 30.000, si sono uniti nella “Marcia del Ritorno” nonviolenta, che intendeva piazzare alcuni campi a qualche centinaio di metri dalla barriera militarizzata che circonda la Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era protestare contro la loro incarcerazione nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, così come contro la massiccia espropriazione della loro terra ancestrale – dopotutto il 70% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del ’48 le cui famiglie sono state proprietarie di terre in quello che è diventato Israele.

Mentre gli abitanti di Gaza marciavano verso la barriera militarizzata, stavo seduto con la mia famiglia, recitando l’Haggadah [testo ebraico che ricorda l’esodo degli ebrei dall’Egitto, ndt.] per la festa di Pesach, che ci dice che “in ogni generazione c’è il dovere di guardare se stessi come se fossimo noi stessi usciti dall’Egitto”. In altre parole, mentre i soldati sparavano proiettili letali contro manifestanti pacifici, ai genitori di quei soldati veniva chiesto di immaginarsi cosa significhi vivere a Gaza e che cosa ci vorrebbe per liberarsi da una simile prigionia. E quando la mia famiglia ha iniziato a cantare “Non devono più faticare in schiavitù, lasciate che il mio popolo se ne vada,” i siti di notizie riferivano che il numero di palestinesi morti aveva raggiunto i 17, mentre parecchie centinaia erano stati feriti.

L’accusa che i palestinesi non hanno adottato metodi di resistenza non violenta e quindi condividono la responsabilità della continua oppressione e espropriazione da parte di Israele non solo nega completamente la notevole asimmetria delle relazioni di potere tra il colonizzatore ed il colonizzato, ma, cosa non meno importante, non prende in considerazione la storia politica e le lotte anticoloniali, non ultima proprio quella palestinese. Inoltre ignora totalmente il fatto che il progetto coloniale di Israele è stato condotto attraverso una violenza ususrante, prolungata e diffusa e che, a differenza di quello che certi mezzi di informazione occidentali propongono, i palestinesi hanno sviluppato una forte e persistente tradizione di resistenza non violenta. Oltretutto, la richiesta di adottare un’ideologia non violenta ignora completamente la storia di altre lotte di liberazione: dall’Algeria al Vietnam, fino ad arrivare al Sud Africa.

Nonviolenza palestinese

La “Marcia del Ritorno” nonviolenta di venerdì e la risposta israeliana non sono affatto un’eccezione nella lunga storia della resistenza palestinese. La marcia è stata organizzata in coincidenza con l’anniversario del “Giorno della Terra”, che commemora quel tragico giorno del 1976 in cui le forze di sicurezza israeliane affrontarono uno sciopero generale e una protesta di massa organizzata dai cittadini palestinesi di Israele, la cui terra era stata confiscata. In quella protesta pacifica sei palestinesi vennero uccisi e altre centinaia feriti dall’esercito israeliano.

In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le cose sono sempre andate molto peggio, dato che ogni forma di resistenza palestinese non violenta è stata un diritto vietato dopo la guerra del 1967. Tenere incontri politici, sventolare bandiere o altri simboli nazionali, pubblicare o distribuire articoli o disegni di carattere politico o persino cantare o ascoltare canzoni nazionaliste – per non parlare dell’organizzazione di scioperi e manifestazioni – sono stati illegali fino al 1993 (ed alcuni lo sono ancora nell’Area C [oltre il 60% dei territori occupati, sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo, ndt.]). Qualunque tentativo di protestare in uno di questi modi è stato inevitabilmente affrontato con la violenza.

Appena tre mesi dopo la Guerra del 1967, i palestinesi lanciarono con successo uno sciopero generale delle scuole in Cisgiordania: i docenti rifiutarono di presentarsi al lavoro, i ragazzini occuparono le strade per protestare contro l’occupazione e molti commercianti non aprirono i propri negozi. In risposta a questi atti di disobbedienza civile Israele mise in atto severe misure poliziesche, dal coprifuoco notturno ad altre restrizioni alla libertà di movimento, fino all’interruzione delle linee telefoniche, all’arresto di dirigenti e a crescenti maltrattamenti nei confronti della popolazione. Questo, in molti modi, diventò il modus operandi di Israele quando dovette affrontare la continua resistenza nonviolenta dei palestinesi.

Eppure sembra che vi sia una generale amnesia sociale riguardo alla reazione di Israele alle tattiche gandhiane. Quando i palestinesi lanciarono uno sciopero del commercio in Cisgiordania, il governo militare chiuse decine di negozi “fino a nuovo ordine”. Quando tentarono di emulare lo sciopero dei trasporti di Martin Luther King, le forze di sicurezza bloccarono completamente le linee dei bus locali. Inoltre durante la Prima Intifada i palestinesi adottarono strategie di disobbedienza civile di massa, compresi scioperi dei negozianti, boicottaggio dei prodotti israeliani, una rivolta fiscale e proteste quotidiane contro le forze di occupazione. Israele rispose con l’imposizione del coprifuoco, la limitazione della libertà di movimento e arresti di massa (per citare solo alcune delle misure violente). Tra il 1987 e il 1994, per esempio, i servizi segreti interrogarono più di 23.000 palestinesi, uno ogni cento abitanti della Cisgiordania e di Gaza. Ora sappiamo che molti di loro vennero torturati.

Quindi il dramma è che questo massacro di Pasqua non fa che unirsi a questa lunga lista della resistenza nonviolenta che è stata storicamente affrontata da Israele con la violenza e la repressione.

Le sommosse sono il linguaggio di chi non viene ascoltato”

Immaginiamo per un momento cosa significhi vivere in una prigione a cielo aperto, anno dopo anno. Immaginiamo di essere i prigionieri e che il carceriere abbia il potere di decidere quanto cibo possiamo mangiare, quando possiamo avere l’elettricità, quando possiamo ricevere trattamenti sanitari specialistici e se possiamo avere abbastanza acqua da bere. Immaginiamo anche che ogni volta che camminiamo nei pressi della barriera diventiamo bersaglio delle guardie. Quali azioni di resistenza nonviolenta sono effettivamente a nostra disposizione? Andreste pacificamente ad attraversare la barriera? Migliaia di palestinesi l’hanno coraggiosamente fatto e molti hanno pagato con la vita.

Anche se Gaza è, da molti punti di vista, unica, storicamente le popolazioni indigene si sono trovate in situazioni simili. Ciò è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, quando hanno affermato “la legittimità della lotta dei popoli per la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione ad altri con ogni mezzo possibile, compresa la lotta armata.” Lo stesso Gandhi pensava che in certe circostanze la violenza fosse una scelta strategica legittima: “Io credo”, scrisse, “che dove c’è solo la scelta tra la vigliaccheria e la violenza io raccomanderei la violenza…Pertanto io sostengo anche l’addestramento all’uso delle armi per quelli che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il proprio onore piuttosto che diventasse o rimanesse vigliaccamente testimone impotente del proprio disonore.”

Si potrebbe sperare altrimenti – ed io sicuramente lo faccio -, ma nessun progetto coloniale è terminato senza che i colonizzati abbiano fatto ricorso alla violenza contro i loro oppressori. Chiedere o persino domandare con rabbia la liberazione non è mai stato efficace.

Ironicamente questo è anche uno dei messaggi fondamentali della festa della Pasqua ebraica. La storia dell’Esodo racconta come Mosè si rivolse varie volte al faraone, chiedendogli di liberare i figli di Israele dalla schiavitù. Eppure ogni volta il faraone rifiutò. Fu solo dopo che una terribile violenza venne scatenata contro gli egiziani che gli israeliti vennero liberati.

Questa di certo non è una cosa che possiamo mai augurarci, ma quando si guarda la risposta di Israele alla marcia non violenta dei palestinesi, quello che è chiaro è che dobbiamo urgentemente trovare un modo per capovolgere la domanda sionista per evitare futuri bagni di sangue. Piuttosto che chiedere quando i palestinesi produrranno un Mahatma Gandhi, dobbiamo domandarci: quando Israele produrrà un dirigente politico che non sostenga l’oppressione dei palestinesi attraverso l’uso di una violenza omicida? Quando, in altre parole, Israele finalmente si libererà di questa etica da faraone e comprenderà che i palestinesi hanno diritto alla libertà?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: il sogno di un giovane scultore fermato da un cecchino israeliano

Patrizia Cecconi

1 aprile 2018, Pressenza

L’hanno ucciso così, con un colpo in fronte. Esecuzione senza processo detta pure assassinio. Era un artista. Aveva 28 anni, si chiamava Mohammed Abu Amr. Era scultore e gli piaceva realizzare alcune opere sulla spiaggia di Gaza. Come per tanti altri artisti palestinesi i temi delle sue creazioni  nascevano dalle particolari condizioni imposte dall’illegalità e dalla profonda ingiustizia subite da questo popolo da troppi decenni.
Usava la grafia araba in forma artistica Mohammed, e l’ultima delle sue opere, realizzata il giorno prima di essere assassinato, rappresentava il suo sogno, che poi è il sogno collettivo rivendicato nella “grande marcia del ritorno”che un popolo festoso ma determinato ha iniziato il 30 marzo, giornata della terra, e concluderà il 15 maggio, giornata della naqba, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro case nel 1948. Era il sogno del ritorno.
Manifestava a Shujaya a est di Gaza city, insieme a decine di migliaia di altre persone di ogni età, sesso e colore e di diverso credo religioso perchè – cosa che molti ignorano – in tutta la Palestina, Gaza compresa, i palestinesi sono sia cristiani, benchè in minoranza, che musulmani, e subiscono la stessa sorte.
La “grande marcia”, organizzata  da giovani palestinesi al di fuori dei partiti politici e quindi trasversale alle diverse fazioni,  aveva tutta l’aria di una grande festa di popolo, di questo popolo che viene spesso descritto in modo assolutamente opposto a quel che realmente è: un popolo che nelle avversità più incredibili riesce a trovare la capacità di vivere senza rinunciare, per quanto possibile,  alla gioia.
Non c’erano che tre o quattro internazionali nella Striscia a testimoniare l’evento, e le loro testimonianze coincidono tutte: una grande manifestazione pacifica, con bambini, vecchi, addirittura persone invalide, uomini e donne di ogni ceto sociale. La loro unica arma era la determinazione a marciare verso il border per dire agli assedianti che Gaza non ne può più, per ricordare al mondo le continue violazioni subite e, in particolare, per rivendicare il diritto al ritorno nelle loro case sancito dalla Risoluzione Onu 194, inapplicata da Israele come tante altre decine di Risoluzioni senza avere per questo alcuna sanzione.
Al solito, i media principali italiani hanno fatto a gara nel raccontare con grande sicurezza versioni lontane dalla realtà, pur non avendo i loro inviati nella Striscia. Tv e giornali hanno parlato per due giorni, quelli che ne hanno parlato, di scontri e battaglie  ed hanno aggiunto, come da velina israeliana pubblicamente diffusa, il tutto voluto dai vertici di  Hamas. Invece non si è trattato di battaglia, ma di un vero e proprio tirassegno a uomini, donne e bambini che manifestavano pacificamente e a mani nude.
Mohammed è stato uno dei primi martiri ad essere colpito. Potremmo dire vittima, e infatti lo è, ma le vittime degli oppressori sono testimoni del diritto a resistere e pertanto, anche etimologicamente, divengono martiri. I tiratori scelti che Israele aveva appostato lungo il border l’hanno colpito a distanza, e con mira perfetta lo hanno centrato sulla fronte. Le parole di Mohammed, consegnate alla memoria in seguito a un’intervista rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso, ora sembrano un monumento alla speranza. Il giovane scultore non avrà il futuro che sognava, i cecchini israeliani hanno fermato la sua vita e la sua carriera a soli 28 anni e Mohammed non sarà più un artista, perché da ieri è diventato un martire e un eroe. Aveva detto nell’ultima intervista “sii umano, sii ottimista, fissa un obiettivo nella tua vita e apriti agli altri…. possiamo realizzare nei sogni quello che non siamo riusciti a realizzare nella realtà…immaginiamo che i nostri sogni diventino noi stessi come una realtà incarnata e superiamo così alcune delle nostre difficoltà e dei nostri conflitti psicologici”. Questa era la sua filosofia, ora è il suo testamento ideale.
Adesso lo scultore Mohammed, insieme ad altri 16 ragazzi, alcuni quasi bambini, arricchirà la lista degli eroi. Gaza ha perso un artista ed ha guadagnato un testimone e questo Israele, sempre pronto a convincere il mondo del suo bisogno di sicurezza dovrebbe capirlo.
Soprattutto dovrebbero capirlo i Governi e le Istituzioni che sostengono questo Paese sempre più ricco di manifesta illegalità. Dovrebbero capirlo non solo per quel principio di giustizia che i palestinesi rivendicano e che la comunità umana avrebbe diritto a veder rispettato, ma anche per la stessa sicurezza del Paese loro amico il quale,  macchiandosi di crimini sempre impuniti, incrementa l’odio e non certo la sicurezza.  E il sogno di Mohammed Abu Amr e degli altri sognatori uccisi con lui, seguiterà  ad essere  il sogno dei palestinesi  l’incubo di Israele.




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il NYTimes nasconde le uccisioni di manifestanti non violenti sul confine di Gaza da parte di Israele

James North

30 marzo 2018, Mondoweiss

Nota redazionale: riteniamo interessante per il lettore italiano questo articolo in quanto non solo il New York Times è uno dei più importanti giornali al mondo, ma anche perché buona parte delle critiche qui proposte si può applicare ai tre principali quotidiani italiani, che hanno parlato degli ultimi avvenimenti a Gaza come di “guerra”, “guerriglia”, “sparatorie”, “Assedio alle frontiere”, “giorno di battaglia”, come se da entrambe le parti ci fosse stata un’aggressione armata. Infine, come nel caso del quotidiano statunitense, nessuno dei giornalisti di questi quotidiani era presente o ha cercato di intervistare i manifestanti palestinesi.

Oggi il NYTimes continua con la sua informazione di parte su Israele/Palestina, con un reportage scioccante a senso unico che cerca di nascondere come Israele abbia aperto il fuoco contro una protesta palestinese non violenta e di massa all’interno dei confini di Gaza.

La disonestà inizia dalla prima frase dell’articolo del Times, in cui si asserisce che le proteste “sono degenerate quasi subito nel caos e nel bagno di sangue”, con “almeno cinque palestinesi uccisi in scontri con i soldati israeliani.”

Si noti lo scaltro tentativo di usare l’indeterminatezza per nascondere il fatto che Israele ha sparato munizioni letali (“sono degenerate…in un bagno di sangue”), e “scontri” – insinuando che entrambe le parti siano in qualche modo responsabili dei cinque morti.

La parzialità continua nel secondo paragrafo dell’articolo del Times, in cui sostiene – senza virgolette – che “migliaia di palestinesi stavano provocando disordini in sei località lungo il confine.” Al contrario, sia il Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndt.] che la BBC [televisione pubblica inglese, ndt.] nei loro reportage presentano le parole “provocando disordini” tra virgolette, e l’attribuiscono chiaramente all’esercito israeliano, sottolineando che si tratta della versione di una parte, non di un fatto dimostrato. Ecco la versione della BBC: “L’esercito israeliano ha informato di ‘disordini’ in sei luoghi ed ha affermato che stava ‘sparando contro i principali sobillatori.’”

La disonestà continua. Il Times descrive Hamas come “il gruppo di miliziani islamisti che domina Gaza ed è noto per la sua resistenza armata.” Va bene, piuttosto tendenzioso, ma dov’è la descrizione di Israele come “un governo che ha massicciamente attaccato Gaza per tre volte dal 2008, uccidendo migliaia di persone, per lo più civili e molti bambini?”

Poi il Times cita il blocco israeliano di Gaza, “che Israele definisce una necessità assoluta per la sicurezza.” Ma non leggerete l’altra versione, cioè che molti altri, palestinesi ed alcuni israeliani, controbattono che Israele continua con il blocco essenzialmente non per proteggere se stesso, ma per soffocare e screditare Hamas, che ha vinto le elezioni a Gaza nel 2006.

Poi ancor più di parte. Il Times: “Preparandosi alla violenza, Israele ha praticamente raddoppiato le sue forze lungo il confine, schierando cecchini, unità speciali e droni…” Ma c’è un’altra, molto più corretta, versione della vicenda: “Israele, per affrontare una sconfitta propagandistica in quanto migliaia di gazawi avevano lanciato una pacifica protesta di massa, ha fatto tutto il possibile per provocare la violenza e screditare la manifestazione ed intimidire ancora una volta i gazawi.”

Nascosta nell’articolo del Times c’è solo una minima cosa su quello che è realmente avvenuto, una citazione di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: B’Tselem “in un comunicato ha avvertito che ogni politica di ‘sparare per uccidere’ contro manifestanti disarmati sarebbe illegale…”

Quello che è sconvolgente e vergognoso nell’articolo del Times è che finora non c’è nessun reportage di prima mano da Gaza. Un giornale realmente interessato alla verità avrebbe mandato dei giornalisti sul confine a Gaza e avrebbe chiesto a qualcuno delle migliaia di manifestanti palestinesi cosa gli sia realmente successo – invece di ripetere solo [quello che ha detto] l’esercito israeliano.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le forze israeliane uccidono 16 persone a Gaza mentre i palestinesi manifestano nel “Giorno della Terra”

MEE ed agenzie


Venerdì 30 marzo 2018, Middle East Eye

Più di 1.000 manifestanti feriti mentre i palestinesi rivendicano il diritto al ritorno e la fine del furto di terra.

Secondo le autorità venerdì le forze israeliane hanno ucciso almeno 16 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, mentre decine di migliaia manifestavano nei territori occupati e in Israele nel “Giorno della Terra”.

Il giorno della Terra” nasce nel 30 marzo 1976, quando forze israeliane uccisero sei palestinesi con cittadinanza israeliana durante una protesta contro la confisca di terre. I palestinesi hanno celebrato questo giorno negli scorsi 42 anni per denunciare le politiche israeliane di appropriazione della terra palestinese.

Quest’anno ciò è avvenuto sulla scia di mesi di rabbia contro la decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, generalmente percepita come il rifiuto da parte degli Stati Uniti delle rivendicazioni palestinesi su Gerusalemme est come loro capitale nel contesto della soluzione dei due Stati.

Nella Striscia di Gaza, dove 1.3 dei 2 milioni di abitanti del piccolo territorio sono rifugiati, gli organizzatori della protesta hanno promosso sei settimane di manifestazioni chiamate la “Grande Marcia del Ritorno” lungo il confine tra l’enclave palestinese assediata e Israele, che iniziano con il “Giorno della Terra” e culmineranno il 15 maggio con il “Giorno della Nakba”, che segna l’espulsione dei palestinesi da Israele nel 1948.

Mentre il discorso politico israeliano con il primo ministro Benjamin Netanyahu si sposta ulteriormente a destra, i palestinesi sono diventati sempre più scettici riguardo alla possibilità di negoziati o di un miglioramento delle loro condizioni di vita a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nello stesso Israele.

Il ministero [della Salute di Gaza, ndt.] ha aggiunto che, alla fine del pomeriggio, più di 1.000 manifestanti sono stati feriti. Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE di stimare che circa 800 manifestanti di Gaza siano stati colpiti da proiettili veri.

Secondo il ministero della Salute, ore prima delle proteste un carrarmato israeliano ha ucciso un contadino gazawi e ne ha ferito un altro.

Omar Samour, 27 anni, è stato ucciso da martire e un altro abitante è stato ferito a est del villaggio di Qarara in seguito al fatto che i contadini sono presi di mira,” ha detto un portavoce del ministero della Salute di Gaza. Abitanti del villaggio a sud della Striscia di Gaza hanno detto che Samour era andato a raccogliere erbe.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato l’incidente: “Durante la notte due sospetti si sono avvicinati alla barriera di sicurezza, hanno iniziato a muoversi in modo sospetto e il carrarmato ha sparato verso di loro,” ha affermato il portavoce.

Il portavoce di Antonio Guterres ha affermato in un comunicato che il segretario generale delle Nazioni Unite ha chiesto un’inchiesta indipendente e trasparente sulle morti e feriti venerdì a Gaza.

Ha anche fatto appello a quanti sono coinvolti per evitare ogni atto che possa portare ad ulteriori vittime, e in particolare ogni misura che possa mettere in pericolo i civili,” ha detto il portavoce ONU Farhan Haq.

Brutale violazione”

Il ministero della Salute di Gaza ha confermato che almeno 16 manifestanti palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane sul confine con Israele, ed ha identificato alcune delle vittime: Mohammad Kamel Najjar, 29 anni, ucciso nei pressi di Jabalia, a nord di Gaza; Mahmoud Abu Muammar, 38 anni, nei pressi di Rafah, a sud; Mohammad Abu Amro, noto artista della Striscia di Gaza; il sedicenne Ahmad Odeh, a nord di Gaza City; Jihad Farina, 33 anni, a est di Gaza City; Mahmoud Rahmi, 33 anni; Ibrahim Abu Shaer 22 anni, nei pressi di Rafah; Abd al-Fattah Bahjat Abd al-Nabi, 18 anni; Abd al-Qader al-Hawajra, 42 anni, ucciso nella zona centrale di Gaza; Sari Abu Odeh; Hamdan Abu Amsha, nei pressi di Beit Hanoun, nel nord di Gaza.

L’ong per i diritti umani “Adalah” ha denunciato l’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili letali come una “brutale violazione degli obblighi legali internazionali nella distinzione tra civili e combattenti,” ed ha chiesto un’inchiesta sulle uccisioni. In un comunicato l’esercito israeliano ha annunciato di aver dichiarato l’area di confine della Striscia di Gaza una zona militare chiusa – intendendo che ogni palestinese che si trovi vicino alla recinzione di confine può rischiare di essere colpito.

La marcia ha raggiunto i suoi obiettivi, ha scosso i pilastri dell’entità (Israele), ed ha posto il primo mattone sulla via del ritorno,” ha detto a MEE Ismail Haniyeh, uno dei principali dirigenti politici di Hamas mentre visitava un campo della protesta a Gaza.

Secondo il mezzo di informazione israeliano di sinistra “+972 Magazine”, un gruppo israeliano noto come la “Coalizione delle Donne per la Pace”, pensa di unirsi alla protesta sul lato israeliano.

La distanza tra quello che stiamo sentendo sugli eventi dall’interno di Gaza e l’istigazione [alla violenza] che stiamo sentendo nei media israeliani è enorme e non lascia dubbi sulle intenzioni violente delle autorità israeliane. Speriamo che i nostri timori di una risposta militare violenta si dimostrino sbagliati, ma indipendentemente da ciò sabato saremo presenti in appoggio ai manifestanti, che hanno il diritto di chiedere i propri diritti e la propria libertà,” ha detto Tania Rubinstein, una coordinatrice del gruppo.

A settecento metri da quei soldati c’è il mio diritto e il diritto del popolo palestinese a tornare a casa dopo 70 anni di espulsione. Non aspetteremo altri 70 anni,” ha detto a MEE Alaa Shahin, un giovane uomo palestinese che stava festeggiando il suo matrimonio in un campo di protesta nei pressi di Jabaliya.

Conservo ancora i documenti originali della nostra terra a Nilya, che ho ereditato da mio padre,” ha detto Yousef al-Kahlout, un insegnante di storia in pensione che venerdì ha partecipato ad una delle manifestazioni di Gaza insieme a cinque dei suoi nipoti. “Oggi spiego ai miei nipoti che loro hanno il diritto di riprenderne possesso se io non fossi più vivo per realizzare il mio sogno di tornare.”

Mentre gli organizzatori di Gaza hanno insistito che le manifestazioni sarebbero state pacifiche, vari incidenti di gazawi arrestati dopo essere entrati in Israele negli scorsi giorni – compresi tre palestinesi che stavano portando armi – hanno visto le forze israeliane ansiose di dimostrare il proprio controllo della situazione.

In un comunicato l’esercito israeliano ha confermato che stava usando “mezzi per disperdere disordini” – un termine regolarmente utilizzato in riferimento a gas lacrimogeni e a bombe assordanti – così come sparando ai “principali istigatori” della protesta.

La “Grande Marcia del Ritorno” ha anche visto le forze israeliane utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeni sui manifestanti – una tecnologia che è stata usata solo poche volte a Gaza dalle forze israeliane.

Mercoledì il capo dell’esercito israeliano ha detto che più di 100 cecchini sono stati schierati sul confine di Gaza in vista delle previste manifestazioni di massa nei pressi della frontiera. Pesanti pale meccaniche hanno costruito cumuli di terra sul lato israeliano del confine ed è stato collocato filo spinato come ulteriore ostacolo contro qualunque tentativo dei dimostranti di violare il confine nel territorio israeliano.

Proteste del “Giorno della Terra” in Israele e in Cisgiordania

Nel contempo venerdì i palestinesi hanno manifestato anche in Israele e in Cisgiordania per commemorare il “Giorno della Terra”. Nella città a maggioranza palestinese di Arraba, nella regione della Galilea, nel nord di Israele, migliaia di persone, compresi parlamentari palestinesi della Knesset israeliana, sindaci e personalità religiose, sono scesi in strada.

Prima del corteo membri dell’”Alta Commissione di Verifica per i Cittadini Arabi di Israele” della Knesset si sono recati alle tombe dei sei palestinesi cittadini di Israele che vennero uccisi durante la prima marcia del “Giorno della Terra” nel 1976, nei cimiteri di Arraba, Sakhnin e Deir Hanna.

Israele sta ancora rubando e confiscando le nostre terre, e l’oppressione continua contro il nostro popolo all’interno del ’48, nella diaspora e a Gaza,” ha detto in un discorso il sindaco di Arraba Ali Asleh, utilizzando una perifrasi per riferirsi alle terre su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele nel 1948.

Secondo mezzi d’informazione palestinesi ci sono stati scontri in alcune città della Cisgiordania, comprese

Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE che l’organizzazione ha curato almeno 63 manifestanti in Cisgiordania, la maggior parte per aver inalato gas lacrimogeno, mentre almeno 10 sono stati feriti da proiettili di metallo rivestito di gomma.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




B’Tselem: Gaza non è “zona di guerra”, sparare ai manifestanti è un crimine

29 marzo 2018, B’Tselem

Il Centro di informazione israeliano sui diritti umani nei Territori Occupati:

Prima delle manifestazioni palestinesi programmate per l’inizio di domani (venerdì) a Gaza, gli ufficiali israeliani hanno ripetutamente minacciato di rispondere con l’eliminazione fisica.

Ignorando completamente il disastro umanitario a Gaza di cui Israele è responsabile, stanno interpretando la protesta in termini di rischio per la sicurezza, rappresentando i manifestanti come terroristi e riferendosi a Gaza come a una “zona di guerra”.

Informazioni frammentarie riferite dai media indicano che: i soldati avranno l’ordine di sparare a chiunque si muova entro i 300 metri dalla recinzione; cecchini spareranno a chiunque la tocchi; si sparerà anche in circostanze che non siano una minaccia mortale [per i soldati]. In altre parole sparare per uccidere i palestinesi che partecipano alle dimostrazioni.

Le forze israeliane da tempo hanno già sparato per uccidere contro manifestanti palestinesi a Gaza. Solo nel dicembre 2017- il mese con il più alto numero di morti dello scorso anno- a Gaza le forze israeliane hanno sparato e ucciso otto manifestanti palestinesi disarmati.

Indubbiamente l’ incremento dell’uso illegale delle armi da fuoco innalzerà il numero dei morti. Ma questo prevedibile esito appare non avere scosso gli israeliani responsabili delle decisioni riguardo alla risposta da dare alle manifestazioni a Gaza, sia in generale che in particolare nell’ impartire gli ordini che consentono di aprire il fuoco.

Inoltre, la presunzione israeliana di poter decidere le azioni dei palestinesi all’interno della Striscia di Gaza è assurda. La decisione di dove, se e come manifestare a Gaza non è Israele che la deve prendere, nè rispetto alla manifestazione di domani né in generale rispetto alla vita quotidiana.

I comunicati ufficiali israeliani non fanno alcun riferimento alle concrete motivazioni della protesta, alla situazione disastrosa di Gaza o al diritto di manifestare liberamente. Israele ha il potere di cambiare in meglio [le condizioni] di vita a Gaza, ma ha scelto di non farlo. Ha fatto di Gaza un enorme prigione, ma impedisce ai prigionieri persino di protestare contro di ciò, pena la morte.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




I dati presentati dall’esercito mostrano che in Israele, Cisgiordania e Gaza vivono più arabi che ebrei

Yotam Berger

26 marzo 2018, Haaretz

Ai parlamentari sono stati presentati numeri che mostrano che 5 milioni di palestinesi vivono a Gaza e in Cisgiordania, 1.8 milioni di arabi vivono in Israele e centinaia di migliaia a Gerusalemme Est. 6.5 milioni di ebrei vivono in Israele.

Lunedì, durante un dibattito alla Knesset, l’esercito israeliano ha presentato alcuni dati che mostrano come siano più arabi che ebrei a vivere tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Secondo il vice-comandante dell’Amministrazione Civile [l’organismo militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndt.], colonnello Haim Mendes, cinque milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo numero non include le centinaia di migliaia di palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, o l’1.8 milioni di arabi israeliani. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica israeliano, a settembre 2017 erano 6.5 milioni gli ebrei che vivono in Israele.

I dati presentati da Mendes durante la sessione della commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset si basano su statistiche redatte dall’Ufficio palestinese di statistica. In passato l’affidabilità dei dati è stata messa in dubbio, e i servizi di sicurezza israeliani spesso evitano di farvi affidamento.

I parlamentari di destra che hanno presenziato alla sessione affermano che i dati sono falsi e dicono che Mendes non ha presentato una documentazione a supporto. Il comitato ha dunque chiesto all’Amministrazione Civile di produrre tale documentazione.

I dati presentati da Mendes mostrano un significativo incremento nel numero di palestinesi che vivono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Nel maggio 2012, un documento ufficiale redatto dall’Amministrazione Civile ha affermato che 2.7 milioni di palestinesi vivevano in Cisgiordania – un incremento del 29% rispetto al 2000.

Il parlamentare Moti Yogev (Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), che sta a capo della sottocommissione per la Giudea e la Samaria [definizione israeliana della Cisgiordania, ndt.], durante la discussione ha affermato che Mendes ha gonfiato i numeri, poiché, secondo Yogev, nel 2017 “sono state rilevate circa 80.000 nuove nascite e 8.000 decessi – un’aspettativa di vita che non esiste in nessun’altra parte del mondo”.

Le divergenze sull’argomento riflettono una disputa accesa sul numero dei palestinesi che vivono nei territori [palestinesi occupati, ndt.]. Un centro di ricerca noto come “American-Israel Demographic Research Group” [Gruppo Israelo-Americano di Ricerca Demografica] ha provato in passato a dimostrare che i palestinesi sono riusciti ad aggiungere, grazie a una significativa falsificazione dei dati, circa 1 milione di persone in più rispetto al loro numero del 2012. Secondo loro, quell’anno viveva in Cisgiordania 1.5 milione di palestinesi, un numero nettamente inferiore a quello presentato dall’Amministrazione Civile.

Anche se le affermazioni del gruppo non sono supportate dagli esperti in demografia né in Israele né all’estero, erano molto diffuse ed accettate tra i portavoce e i politici della destra. Secondo loro, il tempo e la demografia volgono in favore di Israele piuttosto che dei palestinesi, e concludono che, se il numero dei palestinesi in Cisgiordania è relativamente basso e la minaccia demografica non esiste, non c’è bisogno di intraprendere negoziati riguardo alla fondazione di uno Stato palestinese, ed è giunto il momento di discutere come annettere i territori e gli abitanti.

Il parlamentare Ayman Odeh, capo della Joint List [Lista Unita, la coalizione dei vari partiti arabo israeliani che si sono presentati insieme alle ultime elezioni, ndt.], ha ha risposto twittando che “tra il fiume Giordano e il Mediterraneo c’è un numero eguale di palestinesi ed ebrei, e non c’è nulla di nuovo in questo. Ecco perché il bivio a cui ci troviamo è chiaro: due Stati in base al 1967 [cioè ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione militare israeliana, ndt.], oppure uno Stato che sia di apartheid, o ancora uno Stato democratico in cui tutti abbiano il diritto al voto. Non ci sono altre opzioni, e almeno questa semplice verità deve essere sottolineata chiaramente”.

(Traduzione di Veronica Garbarini)

 




Plasmare la storia coi bulldozer: come Israele utilizza l’archeologia per consolidare l’occupazione

Yara Hawari

6 marzo 2018, Middle East Eye

Dopo aver conquistato Gerusalemme ovest nel 1948, Israele ha occupato l’intera città meno di vent’anni dopo, nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni. Da allora, ha creato delle “realtà sul terreno”, attraverso l’annessione e la costruzione di colonie volte a consolidare le sue rivendicazioni nei confronti dell’intera città.

Di fatto, nella sua stessa essenza di progetto coloniale, Israele è ad un tempo ferocemente espansionista ed esclusivista. Il “progetto di legge sulla Grande Gerusalemme”, che è stato recentemente votato e che mira ad estendere i confini della municipalità di Gerusalemme per includervi ulteriori colonie illegali ed escludere quartieri palestinesi, testimonia questo espansionismo.

Allo stesso tempo, la dichiarazione del presidente Donald Trump sullo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme non solo viola il diritto internazionale, ma appoggia la continua colonizzazione della città da parte di Israele.

Cancellato dalla carta

Tuttavia Israele non si accontenta di esercitare un controllo assoluto sulla città attraverso l’annessione e la costruzione di colonie. Conduce anche una campagna aggressiva per appropriarsi dei siti del patrimonio palestinese o distruggerli, in modo da consolidare le sue rivendicazioni di proprietà esclusiva. Questa campagna si è intensificata dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967.

Queste rivendicazioni si appoggiano fortemente su un discorso biblico che mira deliberatamente a fare della religione un elemento di grave conflitto. Questo è oltremodo evidente nella città vecchia di Gerusalemme che – in base al diritto internazionale – è considerata inequivocabilmente territorio palestinese.

Infatti Israele ha cominciato a modificare il paesaggio di Gerusalemme fin dall’indomani della sua occupazione della città, distruggendo uno dei quartieri più vecchi.

Harat al Magharibeh (il quartiere marocchino), che si trova di fronte al muro occidentale della città vecchia, è stato raso al suolo appena qualche giorno dopo l’occupazione israeliana della città. Le autorità israeliane hanno giustificato questa iniziativa con la necessità di creare spazio per i fedeli ebrei.

Il quartiere aveva circa 800 anni e non ospitava soltanto edifici ayyubidi [antica dinastia curdo-musulmana, ndtr.] e mamelucchi [sultanato egiziano dal XIII al XVI, ndtr.], ma anche 650 persone. Gli abitanti hanno avuto poche ore di tempo per lasciare le loro case prima che venissero distrutte. Del resto, si dice spesso che gli archeologi israeliani sono i soli al mondo a servirsi di bulldozer.

Haram al-Sharif [ la Spianata delle Moschee, ndtr.) in pericolo

Più di recente, Israele ha condotto scavi nella zona che si trova al di sotto e intorno a Haram al-Sharif – il complesso che ospita la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa. Questi scavi sono stati condannati dall’UNESCO, che nel 2016 ha emesso una risoluzione che critica Israele per la sua politica generale nei confronti del complesso.

Israele ha moltiplicato i tentativi di controllare Haram al-Sharif, che resta sotto la custodia della Giordania, nel quadro del Waqf [fondazione che gestisce i beni religiosi, tra cui il complesso delle moschee a Gerusalemme, ndtr.]. Questi tentativi sono intrapresi sia dal governo che dai gruppi di coloni fanatici che sperano di distruggere la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa per costruire un Terzo Tempio ebraico.

Nell’estate 2017 la situazione ha raggiunto il parossismo, quando le autorità israeliane hanno istallato dei metal detector all’entrata del complesso. Dopo parecchie settimane di dure proteste da parte dei palestinesi, i dispositivi sono stati finalmente rimossi.

La situazione resta comunque tesa ed i palestinesi temono che Haram al-Sharif sia in pericolo.

Dal punto di vista della prassi archeologica, il diritto internazionale è chiaro: Israele non è autorizzato ad effettuare scavi in siti nei territori occupati. Tuttavia, secondo un rapporto dell’Ong svedese Diakonia, dal 1967 Israele ha eseguito scavi in 980 siti archeologici nella Cisgiordania occupata e si è appropriato di numerosi reperti archeologici.

Tra i siti oggetto degli scavi più aggressivi vi è quello di Silwan, un quartiere di Gerusalemme est situato appena fuori dalle mura della città vecchia e a sud di Haram al-Sharif.

Lunedì gli abitanti del quartiere di Silwan hanno protestato contro i nuovi danni strutturali provocati alle abitazioni da ciò che denunciano come scavi archeologici israeliani.

Gli abitanti di Wadi al-Hilweh si sono scontrati con i lavoratori dell’Autorità delle antichità di Israele e della fondazione Ir David, due istituzioni che effettuano scavi nella zona vicina alla moschea al-Aqsa e al muro meridionale della città vecchia.

L’archeologia ad oltranza

La narrazione biblica considera Silwan come il sito originario della città di Davide ed i primi scavi effettuati allo scopo di ricercare questa città originaria sono stati condotti dai coloni britannici alla fine del XIX secolo.

Attualmente la zona degli scavi è gestita dall’organizzazione di estrema destra El-Ad, che cerca di prendere il controllo di Silwan e di ebraizzare il quartiere. L’organizzazione dispone di fondi considerevoli e gli oligarchi ebrei russi Lev Leviev e Roman Abramovich hanno contribuito ai loro sviluppi.

El-Ad effettua “scavi selvaggi” che le hanno consentito di evitare di procurarsi dei permessi del governo.

Queste operazioni implicano scavi e tunnel ricavati sotto Silwan e si estendono fino ai terreni che circondano la moschea di al-Aqsa. Molte case palestinesi nella collina hanno quindi iniziato a sprofondare.

L’archeologia è solo uno dei numerosi meccanismi attraverso cui Israele mantiene il suo dominio sul popolo palestinese. Il ricorso a questa narrazione biblica è manipolato in modo da creare una cortina fumogena per il progetto sionista di colonizzazione.

Israele prosegue la prassi iniziata dagli archeologi coloniali britannici, che consiste nel tenere la bibbia in una mano e una cazzuola nell’altra. Il suo obbiettivo è manipolare la narrazione storica del passato per servire i suoi attuali interessi ed eliminare la possibilità di un futuro palestinese.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)