Gaza: il sogno di un giovane scultore fermato da un cecchino israeliano

Patrizia Cecconi

1 aprile 2018, Pressenza

L’hanno ucciso così, con un colpo in fronte. Esecuzione senza processo detta pure assassinio. Era un artista. Aveva 28 anni, si chiamava Mohammed Abu Amr. Era scultore e gli piaceva realizzare alcune opere sulla spiaggia di Gaza. Come per tanti altri artisti palestinesi i temi delle sue creazioni  nascevano dalle particolari condizioni imposte dall’illegalità e dalla profonda ingiustizia subite da questo popolo da troppi decenni.
Usava la grafia araba in forma artistica Mohammed, e l’ultima delle sue opere, realizzata il giorno prima di essere assassinato, rappresentava il suo sogno, che poi è il sogno collettivo rivendicato nella “grande marcia del ritorno”che un popolo festoso ma determinato ha iniziato il 30 marzo, giornata della terra, e concluderà il 15 maggio, giornata della naqba, cioè la cacciata dei palestinesi dalle loro case nel 1948. Era il sogno del ritorno.
Manifestava a Shujaya a est di Gaza city, insieme a decine di migliaia di altre persone di ogni età, sesso e colore e di diverso credo religioso perchè – cosa che molti ignorano – in tutta la Palestina, Gaza compresa, i palestinesi sono sia cristiani, benchè in minoranza, che musulmani, e subiscono la stessa sorte.
La “grande marcia”, organizzata  da giovani palestinesi al di fuori dei partiti politici e quindi trasversale alle diverse fazioni,  aveva tutta l’aria di una grande festa di popolo, di questo popolo che viene spesso descritto in modo assolutamente opposto a quel che realmente è: un popolo che nelle avversità più incredibili riesce a trovare la capacità di vivere senza rinunciare, per quanto possibile,  alla gioia.
Non c’erano che tre o quattro internazionali nella Striscia a testimoniare l’evento, e le loro testimonianze coincidono tutte: una grande manifestazione pacifica, con bambini, vecchi, addirittura persone invalide, uomini e donne di ogni ceto sociale. La loro unica arma era la determinazione a marciare verso il border per dire agli assedianti che Gaza non ne può più, per ricordare al mondo le continue violazioni subite e, in particolare, per rivendicare il diritto al ritorno nelle loro case sancito dalla Risoluzione Onu 194, inapplicata da Israele come tante altre decine di Risoluzioni senza avere per questo alcuna sanzione.
Al solito, i media principali italiani hanno fatto a gara nel raccontare con grande sicurezza versioni lontane dalla realtà, pur non avendo i loro inviati nella Striscia. Tv e giornali hanno parlato per due giorni, quelli che ne hanno parlato, di scontri e battaglie  ed hanno aggiunto, come da velina israeliana pubblicamente diffusa, il tutto voluto dai vertici di  Hamas. Invece non si è trattato di battaglia, ma di un vero e proprio tirassegno a uomini, donne e bambini che manifestavano pacificamente e a mani nude.
Mohammed è stato uno dei primi martiri ad essere colpito. Potremmo dire vittima, e infatti lo è, ma le vittime degli oppressori sono testimoni del diritto a resistere e pertanto, anche etimologicamente, divengono martiri. I tiratori scelti che Israele aveva appostato lungo il border l’hanno colpito a distanza, e con mira perfetta lo hanno centrato sulla fronte. Le parole di Mohammed, consegnate alla memoria in seguito a un’intervista rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso, ora sembrano un monumento alla speranza. Il giovane scultore non avrà il futuro che sognava, i cecchini israeliani hanno fermato la sua vita e la sua carriera a soli 28 anni e Mohammed non sarà più un artista, perché da ieri è diventato un martire e un eroe. Aveva detto nell’ultima intervista “sii umano, sii ottimista, fissa un obiettivo nella tua vita e apriti agli altri…. possiamo realizzare nei sogni quello che non siamo riusciti a realizzare nella realtà…immaginiamo che i nostri sogni diventino noi stessi come una realtà incarnata e superiamo così alcune delle nostre difficoltà e dei nostri conflitti psicologici”. Questa era la sua filosofia, ora è il suo testamento ideale.
Adesso lo scultore Mohammed, insieme ad altri 16 ragazzi, alcuni quasi bambini, arricchirà la lista degli eroi. Gaza ha perso un artista ed ha guadagnato un testimone e questo Israele, sempre pronto a convincere il mondo del suo bisogno di sicurezza dovrebbe capirlo.
Soprattutto dovrebbero capirlo i Governi e le Istituzioni che sostengono questo Paese sempre più ricco di manifesta illegalità. Dovrebbero capirlo non solo per quel principio di giustizia che i palestinesi rivendicano e che la comunità umana avrebbe diritto a veder rispettato, ma anche per la stessa sicurezza del Paese loro amico il quale,  macchiandosi di crimini sempre impuniti, incrementa l’odio e non certo la sicurezza.  E il sogno di Mohammed Abu Amr e degli altri sognatori uccisi con lui, seguiterà  ad essere  il sogno dei palestinesi  l’incubo di Israele.




Il massacro di Gaza è una vittoria mediatica per Hamas e un incubo mediatico per Israele

Chemi Shalev

31 marzo 2018, Haaretz

L’appoggio incondizionato di Trump rafforza Netanyahu, ma potrebbe anche innestare ripercussioni internazionali di critica per entrambi.

Per la prima volta da molto tempo durante il fine settimana il conflitto israelo-palestinese ha avuto un posto di rilievo negli articoli dei media internazionali. I portavoce israeliani hanno fornito prove che militanti di Hamas hanno cercato di aprire una breccia nella barriera di confine a Gaza spacciando la cosa come una presunta protesta popolare, ma gli opinionisti dell’Occidente preferiscono il video, divenuto virale, di un adolescente palestinese colpito alla schiena e una narrazione complessiva di gazawi senza speranza che protestano contro l’oppressione e contro il blocco. Quindici palestinesi sono stati uccisi, centinaia feriti e la barriera è rimasta intatta, ma sul campo di battaglia della propaganda Hamas ha riportato una vittoria.

Anche gli sviluppi futuri sono nelle mani dell’organizzazione islamista. Più Hamas continua con la “Marcia del Milione”, come è stata denominata, più riuscirà a separare le proteste dagli atti di violenza e terrorismo, e più avrà successo nello sfidare e nel mettere in difficoltà sia Israele che Mahmoud Abbas [il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] e l’Autorità Nazionale Palestinese. Se i comandanti dell’esercito israeliano non troveranno un modo per respingere i tentativi di far breccia nella barriera senza provocare così tante vittime, le difficoltà di Israele cresceranno in modo esponenziale.

Il venerdì di sangue potrebbe essere presto dimenticato se rimarrà un evento isolato, ma se il bagno di sangue si ripeterà più volte durante la campagna di sei settimane che si prevede terminerà a metà maggio con il giorno della Nakba palestinese, la comunità internazionale sarà obbligata a riorientare la propria attenzione sul conflitto. Le critiche al primo ministro Benjamin Netanyahu, e le pressioni su di lui, praticamente scomparse negli ultimi mesi, potrebbero ridestarsi con un sentimento di rivalsa.

L’ipotesi di lavoro da parte israeliana è che il terrorismo e la violenza siano parti insite nell’identità di Hamas; il gruppo islamista sarebbe incapace di interrompere la “lotta armata”, anche solo provvisoriamente. Se così fosse le difficoltà di Israele si risolverebbero presto e Hamas dilapiderà il vantaggio acquisito con gli scontri di massa nei pressi della barriera. Se la concezione israeliana risulterà sbagliata, tuttavia, e Hamas dimostrerà di essere in grado di disciplina strategica e di controllo, potrebbe crearsi quello che è sempre stato l’incubo dell’hasbarà [propaganda, ndt.] israeliana: proteste palestinesi di massa e non violente che obblighino l’esercito israeliano ad uccidere e mutilare civili disarmati. Per quanto superficiali e insensate, le analogie con il Mahatma Gandhi, con [la lotta contro] l’apartheid del Sud Africa e persino con la lotta per i diritti civili in America offriranno il quadro della prossima fase della lotta palestinese.

L’immediato appoggio dell’amministrazione Trump, espresso in un tweet pasquale dell’inviato speciale Jason Greenblatt, che ha biasimato la provocazione di Hamas e la sua “marcia ostile”, è apparentemente un positivo sviluppo dal punto di vista israeliano. A differenza di Trump, Barack Obama avrebbe subito criticato quello che è stato universalmente descritto come un eccessivo uso della forza da parte di Israele, e si sarebbe consultato con i Paesi dell’Europa occidentale per un’adeguata risposta diplomatica. Israele ha invece festeggiato e Netanyahu ha come al solito esaltato la collaborazione senza precedenti con l’amministrazione Trump, ma potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio, che potrebbe solo peggiorerà solo le cose.

Dopotutto Trump è uno dei presidenti USA più detestati della storia contemporanea, nell’opinione pubblica occidentale in generale e tra i progressisti americani in particolare. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump e la sua decisione di spostarvi l’ambasciata USA sono generalmente considerati un contributo alla frustrazione e al senso di isolamento dei palestinesi. Finché Israele manterrà un basso profilo e non diventerà protagonista di notizie negative, i suoi stretti rapporti con Trump provocheranno solo danni marginali; in tempi di crisi, tuttavia, il danno potrebbe essere notevole. Le critiche contro Israele che sarebbero state tacitate in seguito al “Venerdì di sangue”, in ogni caso sono alimentate dall’ostilità diffusa verso Trump e le sue politiche – e da un desiderio di punire i suoi beniamini. Più l’amministrazione USA difende le azioni impopolari di Israele, più i suoi critici, compresi i progressisti americani, considereranno Trump e Netanyahu come uno sgradevole tutto unico.

L’incondizionato appoggio USA rafforza la determinazione di Netanyahu e dei suoi ministri nel continuare la politica di inattività sia rispetto a Gaza che nei confronti del processo di pace. Molti israeliani vedono Hamas semplicemente come un’organizzazione terroristica e la loro reazione istintiva è che Israele non possa e non debba essere percepito come arrendevole nei confronti del terrorismo e della violenza. In un momento in cui sembrano all’orizzonte elezioni anticipate [in Israele], l’ultima cosa che la coalizione di destra di Netanyahu vuol fare è allontanarsi dalle sue politiche consolidate, che significherebbe ammettere che le sue decisioni sono sbagliate. Le richieste da parte della sinistra di rivedere il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza e riesaminare totalmente le politiche di Netanyahu nei confronti dei palestinesi potrebbero riportare il conflitto israelo-palestinese al centro del discorso pubblico dopo una lunga assenza, ma fornirebbero anche al primo ministro una scusa – se ne avesse bisogno – per spostare l’attenzione dalla crisi di Gaza ai nemici interni pronti a pugnalarlo alle spalle.

Tuttavia il Libro di Osea ci ha insegnato: “Chi semina vento raccoglie tempesta.” La continua paralisi diplomatica israeliana sulla questione palestinese e la sua errata convinzione che lo status quo possa essere conservato indefinitamente hanno dato l’avvio al colpo mediatico di Hamas: il gruppo islamista può improvvisamente vedere la luce alla fine dei tunnel che l’esercito israeliano sta sistematicamente distruggendo. Hamas può versare lacrime di coccodrillo sui morti e feriti, ma anche se il loro numero dovesse raddoppiare o triplicare nei prossimi giorni, sarebbe un prezzo irrisorio da pagare per risuscitare la propria importanza e spingere in un angolo sia Netanyahu che Abbas. Il fatto che Gerusalemme si sia messa nella posizione in cui un gruppo notoriamente terroristico che sogna ancora di distruggere l’”entità sionista” possa battere Israele nel giudizio dell’opinione pubblica ed assegnargli la parte del malvagio occupante con il grilletto facile è un errore madornale, che può solo peggiorare finché Netanyahu e il suo governo preferiranno trincerarsi dietro la loro ottusa arroganza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il NYTimes nasconde le uccisioni di manifestanti non violenti sul confine di Gaza da parte di Israele

James North

30 marzo 2018, Mondoweiss

Nota redazionale: riteniamo interessante per il lettore italiano questo articolo in quanto non solo il New York Times è uno dei più importanti giornali al mondo, ma anche perché buona parte delle critiche qui proposte si può applicare ai tre principali quotidiani italiani, che hanno parlato degli ultimi avvenimenti a Gaza come di “guerra”, “guerriglia”, “sparatorie”, “Assedio alle frontiere”, “giorno di battaglia”, come se da entrambe le parti ci fosse stata un’aggressione armata. Infine, come nel caso del quotidiano statunitense, nessuno dei giornalisti di questi quotidiani era presente o ha cercato di intervistare i manifestanti palestinesi.

Oggi il NYTimes continua con la sua informazione di parte su Israele/Palestina, con un reportage scioccante a senso unico che cerca di nascondere come Israele abbia aperto il fuoco contro una protesta palestinese non violenta e di massa all’interno dei confini di Gaza.

La disonestà inizia dalla prima frase dell’articolo del Times, in cui si asserisce che le proteste “sono degenerate quasi subito nel caos e nel bagno di sangue”, con “almeno cinque palestinesi uccisi in scontri con i soldati israeliani.”

Si noti lo scaltro tentativo di usare l’indeterminatezza per nascondere il fatto che Israele ha sparato munizioni letali (“sono degenerate…in un bagno di sangue”), e “scontri” – insinuando che entrambe le parti siano in qualche modo responsabili dei cinque morti.

La parzialità continua nel secondo paragrafo dell’articolo del Times, in cui sostiene – senza virgolette – che “migliaia di palestinesi stavano provocando disordini in sei località lungo il confine.” Al contrario, sia il Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndt.] che la BBC [televisione pubblica inglese, ndt.] nei loro reportage presentano le parole “provocando disordini” tra virgolette, e l’attribuiscono chiaramente all’esercito israeliano, sottolineando che si tratta della versione di una parte, non di un fatto dimostrato. Ecco la versione della BBC: “L’esercito israeliano ha informato di ‘disordini’ in sei luoghi ed ha affermato che stava ‘sparando contro i principali sobillatori.’”

La disonestà continua. Il Times descrive Hamas come “il gruppo di miliziani islamisti che domina Gaza ed è noto per la sua resistenza armata.” Va bene, piuttosto tendenzioso, ma dov’è la descrizione di Israele come “un governo che ha massicciamente attaccato Gaza per tre volte dal 2008, uccidendo migliaia di persone, per lo più civili e molti bambini?”

Poi il Times cita il blocco israeliano di Gaza, “che Israele definisce una necessità assoluta per la sicurezza.” Ma non leggerete l’altra versione, cioè che molti altri, palestinesi ed alcuni israeliani, controbattono che Israele continua con il blocco essenzialmente non per proteggere se stesso, ma per soffocare e screditare Hamas, che ha vinto le elezioni a Gaza nel 2006.

Poi ancor più di parte. Il Times: “Preparandosi alla violenza, Israele ha praticamente raddoppiato le sue forze lungo il confine, schierando cecchini, unità speciali e droni…” Ma c’è un’altra, molto più corretta, versione della vicenda: “Israele, per affrontare una sconfitta propagandistica in quanto migliaia di gazawi avevano lanciato una pacifica protesta di massa, ha fatto tutto il possibile per provocare la violenza e screditare la manifestazione ed intimidire ancora una volta i gazawi.”

Nascosta nell’articolo del Times c’è solo una minima cosa su quello che è realmente avvenuto, una citazione di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: B’Tselem “in un comunicato ha avvertito che ogni politica di ‘sparare per uccidere’ contro manifestanti disarmati sarebbe illegale…”

Quello che è sconvolgente e vergognoso nell’articolo del Times è che finora non c’è nessun reportage di prima mano da Gaza. Un giornale realmente interessato alla verità avrebbe mandato dei giornalisti sul confine a Gaza e avrebbe chiesto a qualcuno delle migliaia di manifestanti palestinesi cosa gli sia realmente successo – invece di ripetere solo [quello che ha detto] l’esercito israeliano.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le forze israeliane uccidono 16 persone a Gaza mentre i palestinesi manifestano nel “Giorno della Terra”

MEE ed agenzie


Venerdì 30 marzo 2018, Middle East Eye

Più di 1.000 manifestanti feriti mentre i palestinesi rivendicano il diritto al ritorno e la fine del furto di terra.

Secondo le autorità venerdì le forze israeliane hanno ucciso almeno 16 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, mentre decine di migliaia manifestavano nei territori occupati e in Israele nel “Giorno della Terra”.

Il giorno della Terra” nasce nel 30 marzo 1976, quando forze israeliane uccisero sei palestinesi con cittadinanza israeliana durante una protesta contro la confisca di terre. I palestinesi hanno celebrato questo giorno negli scorsi 42 anni per denunciare le politiche israeliane di appropriazione della terra palestinese.

Quest’anno ciò è avvenuto sulla scia di mesi di rabbia contro la decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, generalmente percepita come il rifiuto da parte degli Stati Uniti delle rivendicazioni palestinesi su Gerusalemme est come loro capitale nel contesto della soluzione dei due Stati.

Nella Striscia di Gaza, dove 1.3 dei 2 milioni di abitanti del piccolo territorio sono rifugiati, gli organizzatori della protesta hanno promosso sei settimane di manifestazioni chiamate la “Grande Marcia del Ritorno” lungo il confine tra l’enclave palestinese assediata e Israele, che iniziano con il “Giorno della Terra” e culmineranno il 15 maggio con il “Giorno della Nakba”, che segna l’espulsione dei palestinesi da Israele nel 1948.

Mentre il discorso politico israeliano con il primo ministro Benjamin Netanyahu si sposta ulteriormente a destra, i palestinesi sono diventati sempre più scettici riguardo alla possibilità di negoziati o di un miglioramento delle loro condizioni di vita a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nello stesso Israele.

Il ministero [della Salute di Gaza, ndt.] ha aggiunto che, alla fine del pomeriggio, più di 1.000 manifestanti sono stati feriti. Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE di stimare che circa 800 manifestanti di Gaza siano stati colpiti da proiettili veri.

Secondo il ministero della Salute, ore prima delle proteste un carrarmato israeliano ha ucciso un contadino gazawi e ne ha ferito un altro.

Omar Samour, 27 anni, è stato ucciso da martire e un altro abitante è stato ferito a est del villaggio di Qarara in seguito al fatto che i contadini sono presi di mira,” ha detto un portavoce del ministero della Salute di Gaza. Abitanti del villaggio a sud della Striscia di Gaza hanno detto che Samour era andato a raccogliere erbe.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha confermato l’incidente: “Durante la notte due sospetti si sono avvicinati alla barriera di sicurezza, hanno iniziato a muoversi in modo sospetto e il carrarmato ha sparato verso di loro,” ha affermato il portavoce.

Il portavoce di Antonio Guterres ha affermato in un comunicato che il segretario generale delle Nazioni Unite ha chiesto un’inchiesta indipendente e trasparente sulle morti e feriti venerdì a Gaza.

Ha anche fatto appello a quanti sono coinvolti per evitare ogni atto che possa portare ad ulteriori vittime, e in particolare ogni misura che possa mettere in pericolo i civili,” ha detto il portavoce ONU Farhan Haq.

Brutale violazione”

Il ministero della Salute di Gaza ha confermato che almeno 16 manifestanti palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane sul confine con Israele, ed ha identificato alcune delle vittime: Mohammad Kamel Najjar, 29 anni, ucciso nei pressi di Jabalia, a nord di Gaza; Mahmoud Abu Muammar, 38 anni, nei pressi di Rafah, a sud; Mohammad Abu Amro, noto artista della Striscia di Gaza; il sedicenne Ahmad Odeh, a nord di Gaza City; Jihad Farina, 33 anni, a est di Gaza City; Mahmoud Rahmi, 33 anni; Ibrahim Abu Shaer 22 anni, nei pressi di Rafah; Abd al-Fattah Bahjat Abd al-Nabi, 18 anni; Abd al-Qader al-Hawajra, 42 anni, ucciso nella zona centrale di Gaza; Sari Abu Odeh; Hamdan Abu Amsha, nei pressi di Beit Hanoun, nel nord di Gaza.

L’ong per i diritti umani “Adalah” ha denunciato l’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili letali come una “brutale violazione degli obblighi legali internazionali nella distinzione tra civili e combattenti,” ed ha chiesto un’inchiesta sulle uccisioni. In un comunicato l’esercito israeliano ha annunciato di aver dichiarato l’area di confine della Striscia di Gaza una zona militare chiusa – intendendo che ogni palestinese che si trovi vicino alla recinzione di confine può rischiare di essere colpito.

La marcia ha raggiunto i suoi obiettivi, ha scosso i pilastri dell’entità (Israele), ed ha posto il primo mattone sulla via del ritorno,” ha detto a MEE Ismail Haniyeh, uno dei principali dirigenti politici di Hamas mentre visitava un campo della protesta a Gaza.

Secondo il mezzo di informazione israeliano di sinistra “+972 Magazine”, un gruppo israeliano noto come la “Coalizione delle Donne per la Pace”, pensa di unirsi alla protesta sul lato israeliano.

La distanza tra quello che stiamo sentendo sugli eventi dall’interno di Gaza e l’istigazione [alla violenza] che stiamo sentendo nei media israeliani è enorme e non lascia dubbi sulle intenzioni violente delle autorità israeliane. Speriamo che i nostri timori di una risposta militare violenta si dimostrino sbagliati, ma indipendentemente da ciò sabato saremo presenti in appoggio ai manifestanti, che hanno il diritto di chiedere i propri diritti e la propria libertà,” ha detto Tania Rubinstein, una coordinatrice del gruppo.

A settecento metri da quei soldati c’è il mio diritto e il diritto del popolo palestinese a tornare a casa dopo 70 anni di espulsione. Non aspetteremo altri 70 anni,” ha detto a MEE Alaa Shahin, un giovane uomo palestinese che stava festeggiando il suo matrimonio in un campo di protesta nei pressi di Jabaliya.

Conservo ancora i documenti originali della nostra terra a Nilya, che ho ereditato da mio padre,” ha detto Yousef al-Kahlout, un insegnante di storia in pensione che venerdì ha partecipato ad una delle manifestazioni di Gaza insieme a cinque dei suoi nipoti. “Oggi spiego ai miei nipoti che loro hanno il diritto di riprenderne possesso se io non fossi più vivo per realizzare il mio sogno di tornare.”

Mentre gli organizzatori di Gaza hanno insistito che le manifestazioni sarebbero state pacifiche, vari incidenti di gazawi arrestati dopo essere entrati in Israele negli scorsi giorni – compresi tre palestinesi che stavano portando armi – hanno visto le forze israeliane ansiose di dimostrare il proprio controllo della situazione.

In un comunicato l’esercito israeliano ha confermato che stava usando “mezzi per disperdere disordini” – un termine regolarmente utilizzato in riferimento a gas lacrimogeni e a bombe assordanti – così come sparando ai “principali istigatori” della protesta.

La “Grande Marcia del Ritorno” ha anche visto le forze israeliane utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeni sui manifestanti – una tecnologia che è stata usata solo poche volte a Gaza dalle forze israeliane.

Mercoledì il capo dell’esercito israeliano ha detto che più di 100 cecchini sono stati schierati sul confine di Gaza in vista delle previste manifestazioni di massa nei pressi della frontiera. Pesanti pale meccaniche hanno costruito cumuli di terra sul lato israeliano del confine ed è stato collocato filo spinato come ulteriore ostacolo contro qualunque tentativo dei dimostranti di violare il confine nel territorio israeliano.

Proteste del “Giorno della Terra” in Israele e in Cisgiordania

Nel contempo venerdì i palestinesi hanno manifestato anche in Israele e in Cisgiordania per commemorare il “Giorno della Terra”. Nella città a maggioranza palestinese di Arraba, nella regione della Galilea, nel nord di Israele, migliaia di persone, compresi parlamentari palestinesi della Knesset israeliana, sindaci e personalità religiose, sono scesi in strada.

Prima del corteo membri dell’”Alta Commissione di Verifica per i Cittadini Arabi di Israele” della Knesset si sono recati alle tombe dei sei palestinesi cittadini di Israele che vennero uccisi durante la prima marcia del “Giorno della Terra” nel 1976, nei cimiteri di Arraba, Sakhnin e Deir Hanna.

Israele sta ancora rubando e confiscando le nostre terre, e l’oppressione continua contro il nostro popolo all’interno del ’48, nella diaspora e a Gaza,” ha detto in un discorso il sindaco di Arraba Ali Asleh, utilizzando una perifrasi per riferirsi alle terre su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele nel 1948.

Secondo mezzi d’informazione palestinesi ci sono stati scontri in alcune città della Cisgiordania, comprese

Un portavoce della Mezzaluna Rossa palestinese ha detto a MEE che l’organizzazione ha curato almeno 63 manifestanti in Cisgiordania, la maggior parte per aver inalato gas lacrimogeno, mentre almeno 10 sono stati feriti da proiettili di metallo rivestito di gomma.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




B’Tselem: Gaza non è “zona di guerra”, sparare ai manifestanti è un crimine

29 marzo 2018, B’Tselem

Il Centro di informazione israeliano sui diritti umani nei Territori Occupati:

Prima delle manifestazioni palestinesi programmate per l’inizio di domani (venerdì) a Gaza, gli ufficiali israeliani hanno ripetutamente minacciato di rispondere con l’eliminazione fisica.

Ignorando completamente il disastro umanitario a Gaza di cui Israele è responsabile, stanno interpretando la protesta in termini di rischio per la sicurezza, rappresentando i manifestanti come terroristi e riferendosi a Gaza come a una “zona di guerra”.

Informazioni frammentarie riferite dai media indicano che: i soldati avranno l’ordine di sparare a chiunque si muova entro i 300 metri dalla recinzione; cecchini spareranno a chiunque la tocchi; si sparerà anche in circostanze che non siano una minaccia mortale [per i soldati]. In altre parole sparare per uccidere i palestinesi che partecipano alle dimostrazioni.

Le forze israeliane da tempo hanno già sparato per uccidere contro manifestanti palestinesi a Gaza. Solo nel dicembre 2017- il mese con il più alto numero di morti dello scorso anno- a Gaza le forze israeliane hanno sparato e ucciso otto manifestanti palestinesi disarmati.

Indubbiamente l’ incremento dell’uso illegale delle armi da fuoco innalzerà il numero dei morti. Ma questo prevedibile esito appare non avere scosso gli israeliani responsabili delle decisioni riguardo alla risposta da dare alle manifestazioni a Gaza, sia in generale che in particolare nell’ impartire gli ordini che consentono di aprire il fuoco.

Inoltre, la presunzione israeliana di poter decidere le azioni dei palestinesi all’interno della Striscia di Gaza è assurda. La decisione di dove, se e come manifestare a Gaza non è Israele che la deve prendere, nè rispetto alla manifestazione di domani né in generale rispetto alla vita quotidiana.

I comunicati ufficiali israeliani non fanno alcun riferimento alle concrete motivazioni della protesta, alla situazione disastrosa di Gaza o al diritto di manifestare liberamente. Israele ha il potere di cambiare in meglio [le condizioni] di vita a Gaza, ma ha scelto di non farlo. Ha fatto di Gaza un enorme prigione, ma impedisce ai prigionieri persino di protestare contro di ciò, pena la morte.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




I dati presentati dall’esercito mostrano che in Israele, Cisgiordania e Gaza vivono più arabi che ebrei

Yotam Berger

26 marzo 2018, Haaretz

Ai parlamentari sono stati presentati numeri che mostrano che 5 milioni di palestinesi vivono a Gaza e in Cisgiordania, 1.8 milioni di arabi vivono in Israele e centinaia di migliaia a Gerusalemme Est. 6.5 milioni di ebrei vivono in Israele.

Lunedì, durante un dibattito alla Knesset, l’esercito israeliano ha presentato alcuni dati che mostrano come siano più arabi che ebrei a vivere tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Secondo il vice-comandante dell’Amministrazione Civile [l’organismo militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndt.], colonnello Haim Mendes, cinque milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo numero non include le centinaia di migliaia di palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, o l’1.8 milioni di arabi israeliani. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica israeliano, a settembre 2017 erano 6.5 milioni gli ebrei che vivono in Israele.

I dati presentati da Mendes durante la sessione della commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset si basano su statistiche redatte dall’Ufficio palestinese di statistica. In passato l’affidabilità dei dati è stata messa in dubbio, e i servizi di sicurezza israeliani spesso evitano di farvi affidamento.

I parlamentari di destra che hanno presenziato alla sessione affermano che i dati sono falsi e dicono che Mendes non ha presentato una documentazione a supporto. Il comitato ha dunque chiesto all’Amministrazione Civile di produrre tale documentazione.

I dati presentati da Mendes mostrano un significativo incremento nel numero di palestinesi che vivono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Nel maggio 2012, un documento ufficiale redatto dall’Amministrazione Civile ha affermato che 2.7 milioni di palestinesi vivevano in Cisgiordania – un incremento del 29% rispetto al 2000.

Il parlamentare Moti Yogev (Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), che sta a capo della sottocommissione per la Giudea e la Samaria [definizione israeliana della Cisgiordania, ndt.], durante la discussione ha affermato che Mendes ha gonfiato i numeri, poiché, secondo Yogev, nel 2017 “sono state rilevate circa 80.000 nuove nascite e 8.000 decessi – un’aspettativa di vita che non esiste in nessun’altra parte del mondo”.

Le divergenze sull’argomento riflettono una disputa accesa sul numero dei palestinesi che vivono nei territori [palestinesi occupati, ndt.]. Un centro di ricerca noto come “American-Israel Demographic Research Group” [Gruppo Israelo-Americano di Ricerca Demografica] ha provato in passato a dimostrare che i palestinesi sono riusciti ad aggiungere, grazie a una significativa falsificazione dei dati, circa 1 milione di persone in più rispetto al loro numero del 2012. Secondo loro, quell’anno viveva in Cisgiordania 1.5 milione di palestinesi, un numero nettamente inferiore a quello presentato dall’Amministrazione Civile.

Anche se le affermazioni del gruppo non sono supportate dagli esperti in demografia né in Israele né all’estero, erano molto diffuse ed accettate tra i portavoce e i politici della destra. Secondo loro, il tempo e la demografia volgono in favore di Israele piuttosto che dei palestinesi, e concludono che, se il numero dei palestinesi in Cisgiordania è relativamente basso e la minaccia demografica non esiste, non c’è bisogno di intraprendere negoziati riguardo alla fondazione di uno Stato palestinese, ed è giunto il momento di discutere come annettere i territori e gli abitanti.

Il parlamentare Ayman Odeh, capo della Joint List [Lista Unita, la coalizione dei vari partiti arabo israeliani che si sono presentati insieme alle ultime elezioni, ndt.], ha ha risposto twittando che “tra il fiume Giordano e il Mediterraneo c’è un numero eguale di palestinesi ed ebrei, e non c’è nulla di nuovo in questo. Ecco perché il bivio a cui ci troviamo è chiaro: due Stati in base al 1967 [cioè ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione militare israeliana, ndt.], oppure uno Stato che sia di apartheid, o ancora uno Stato democratico in cui tutti abbiano il diritto al voto. Non ci sono altre opzioni, e almeno questa semplice verità deve essere sottolineata chiaramente”.

(Traduzione di Veronica Garbarini)

 




Plasmare la storia coi bulldozer: come Israele utilizza l’archeologia per consolidare l’occupazione

Yara Hawari

6 marzo 2018, Middle East Eye

Dopo aver conquistato Gerusalemme ovest nel 1948, Israele ha occupato l’intera città meno di vent’anni dopo, nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni. Da allora, ha creato delle “realtà sul terreno”, attraverso l’annessione e la costruzione di colonie volte a consolidare le sue rivendicazioni nei confronti dell’intera città.

Di fatto, nella sua stessa essenza di progetto coloniale, Israele è ad un tempo ferocemente espansionista ed esclusivista. Il “progetto di legge sulla Grande Gerusalemme”, che è stato recentemente votato e che mira ad estendere i confini della municipalità di Gerusalemme per includervi ulteriori colonie illegali ed escludere quartieri palestinesi, testimonia questo espansionismo.

Allo stesso tempo, la dichiarazione del presidente Donald Trump sullo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme non solo viola il diritto internazionale, ma appoggia la continua colonizzazione della città da parte di Israele.

Cancellato dalla carta

Tuttavia Israele non si accontenta di esercitare un controllo assoluto sulla città attraverso l’annessione e la costruzione di colonie. Conduce anche una campagna aggressiva per appropriarsi dei siti del patrimonio palestinese o distruggerli, in modo da consolidare le sue rivendicazioni di proprietà esclusiva. Questa campagna si è intensificata dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967.

Queste rivendicazioni si appoggiano fortemente su un discorso biblico che mira deliberatamente a fare della religione un elemento di grave conflitto. Questo è oltremodo evidente nella città vecchia di Gerusalemme che – in base al diritto internazionale – è considerata inequivocabilmente territorio palestinese.

Infatti Israele ha cominciato a modificare il paesaggio di Gerusalemme fin dall’indomani della sua occupazione della città, distruggendo uno dei quartieri più vecchi.

Harat al Magharibeh (il quartiere marocchino), che si trova di fronte al muro occidentale della città vecchia, è stato raso al suolo appena qualche giorno dopo l’occupazione israeliana della città. Le autorità israeliane hanno giustificato questa iniziativa con la necessità di creare spazio per i fedeli ebrei.

Il quartiere aveva circa 800 anni e non ospitava soltanto edifici ayyubidi [antica dinastia curdo-musulmana, ndtr.] e mamelucchi [sultanato egiziano dal XIII al XVI, ndtr.], ma anche 650 persone. Gli abitanti hanno avuto poche ore di tempo per lasciare le loro case prima che venissero distrutte. Del resto, si dice spesso che gli archeologi israeliani sono i soli al mondo a servirsi di bulldozer.

Haram al-Sharif [ la Spianata delle Moschee, ndtr.) in pericolo

Più di recente, Israele ha condotto scavi nella zona che si trova al di sotto e intorno a Haram al-Sharif – il complesso che ospita la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa. Questi scavi sono stati condannati dall’UNESCO, che nel 2016 ha emesso una risoluzione che critica Israele per la sua politica generale nei confronti del complesso.

Israele ha moltiplicato i tentativi di controllare Haram al-Sharif, che resta sotto la custodia della Giordania, nel quadro del Waqf [fondazione che gestisce i beni religiosi, tra cui il complesso delle moschee a Gerusalemme, ndtr.]. Questi tentativi sono intrapresi sia dal governo che dai gruppi di coloni fanatici che sperano di distruggere la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa per costruire un Terzo Tempio ebraico.

Nell’estate 2017 la situazione ha raggiunto il parossismo, quando le autorità israeliane hanno istallato dei metal detector all’entrata del complesso. Dopo parecchie settimane di dure proteste da parte dei palestinesi, i dispositivi sono stati finalmente rimossi.

La situazione resta comunque tesa ed i palestinesi temono che Haram al-Sharif sia in pericolo.

Dal punto di vista della prassi archeologica, il diritto internazionale è chiaro: Israele non è autorizzato ad effettuare scavi in siti nei territori occupati. Tuttavia, secondo un rapporto dell’Ong svedese Diakonia, dal 1967 Israele ha eseguito scavi in 980 siti archeologici nella Cisgiordania occupata e si è appropriato di numerosi reperti archeologici.

Tra i siti oggetto degli scavi più aggressivi vi è quello di Silwan, un quartiere di Gerusalemme est situato appena fuori dalle mura della città vecchia e a sud di Haram al-Sharif.

Lunedì gli abitanti del quartiere di Silwan hanno protestato contro i nuovi danni strutturali provocati alle abitazioni da ciò che denunciano come scavi archeologici israeliani.

Gli abitanti di Wadi al-Hilweh si sono scontrati con i lavoratori dell’Autorità delle antichità di Israele e della fondazione Ir David, due istituzioni che effettuano scavi nella zona vicina alla moschea al-Aqsa e al muro meridionale della città vecchia.

L’archeologia ad oltranza

La narrazione biblica considera Silwan come il sito originario della città di Davide ed i primi scavi effettuati allo scopo di ricercare questa città originaria sono stati condotti dai coloni britannici alla fine del XIX secolo.

Attualmente la zona degli scavi è gestita dall’organizzazione di estrema destra El-Ad, che cerca di prendere il controllo di Silwan e di ebraizzare il quartiere. L’organizzazione dispone di fondi considerevoli e gli oligarchi ebrei russi Lev Leviev e Roman Abramovich hanno contribuito ai loro sviluppi.

El-Ad effettua “scavi selvaggi” che le hanno consentito di evitare di procurarsi dei permessi del governo.

Queste operazioni implicano scavi e tunnel ricavati sotto Silwan e si estendono fino ai terreni che circondano la moschea di al-Aqsa. Molte case palestinesi nella collina hanno quindi iniziato a sprofondare.

L’archeologia è solo uno dei numerosi meccanismi attraverso cui Israele mantiene il suo dominio sul popolo palestinese. Il ricorso a questa narrazione biblica è manipolato in modo da creare una cortina fumogena per il progetto sionista di colonizzazione.

Israele prosegue la prassi iniziata dagli archeologi coloniali britannici, che consiste nel tenere la bibbia in una mano e una cazzuola nell’altra. Il suo obbiettivo è manipolare la narrazione storica del passato per servire i suoi attuali interessi ed eliminare la possibilità di un futuro palestinese.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 13-26 marzo 2018 (due settimane)

In Cisgiordania, nel corso di due aggressioni compiute da palestinesi, sono rimasti uccisi tre israeliani (due soldati e un colono) ed un attentatore palestinese.

Il 16 marzo, nei pressi dell’insediamento colonico di Mevo Dotan (Jenin), un palestinese di 26 anni ha guidato il suo veicolo contro un gruppo di soldati israeliani uccidendone due; ha continuato a guidare e, prima di essere arrestato dalle forze israeliane, ha investito un altro gruppo di soldati ferendone due. Secondo testimoni oculari palestinesi, quanto accaduto è sembrato essere un incidente d’auto; al contrario, secondo fonti dei media israeliani, l’autista avrebbe confessato di aver portato un attacco deliberato. Il 18 marzo, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese di 28 anni ha accoltellato e ucciso un colono israeliano di 32 anni. L’aggressore, proveniente dal villaggio di Aqraba (Nablus), è stato ucciso sul posto da un ufficiale della polizia israeliana e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Dall’inizio del 2018, nel contesto di attacchi o presunti attacchi palestinesi, sono stati uccisi cinque israeliani e due aggressori palestinesi.

Lungo la recinzione perimetrale che circonda Gaza, in seguito a molteplici attacchi, scontri e altri episodi di violenza, la tensione è aumentata. Il 15 e il 17 marzo, nella parte settentrionale di Gaza, vicino alla recinzione, sono stati fatti detonare ordigni esplosivi; secondo quanto riferito, ad opera di membri di gruppi armati palestinesi che avevano preso di mira soldati israeliani: non ci sono stati feriti. Il 24 marzo, quattro palestinesi si sono infiltrati in Israele attraverso la recinzione; hanno danneggiato apparecchiature di ingegneria utilizzate dall’esercito israeliano e sono ritornati a Gaza illesi. In risposta a questi episodi, le forze israeliane hanno lanciato diversi raid aerei e sparato colpi di carro armato contro Gaza, mirando, secondo quanto riferito, a siti militari; non sono stati segnalati feriti. Inoltre, in dodici occasioni, sempre nei pressi della recinzione, manifestanti palestinesi si sono scontrati con forze israeliane: 43 palestinesi, di cui 13 minori, sono rimasti feriti; 31 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco.

Sempre a Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno 35 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento per far rispettare il divieto di accesso, interrompendo le attività di sussistenza di agricoltori e pescatori palestinesi, ma senza causare feriti. Dall’inizio del 2018, nelle Aree ad Accesso Riservato, ci sono stati almeno 181 episodi di spari verso contadini e pescatori, con due morti e 13 feriti. Durante il periodo di riferimento, all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, per altre nove volte le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi. In un altro caso, al valico di Erez, tre palestinesi, di cui due malati in viaggio per cure mediche, sono stati trattenuti dalle forze israeliane.

A partire dal 30 marzo, i principali partiti politici di Gaza hanno promosso una serie di proteste di massa lungo la recinzione perimetrale, inclusa una marcia dei manifestanti verso Israele. Lungo la recinzione sono stati approntati diversi siti dove erigere tende per accogliere i manifestanti. Sebbene gli organizzatori abbiano chiesto dimostrazioni non violente, c’è la preoccupazione che gli eventi possano degenerare in scontri violenti con le forze israeliane e causare un numero elevato di vittime. L’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i diritti umani ha esortato tutti “a rispettare il diritto al raduno pacifico e alla libertà di espressione” e ha esortato Israele “a conformarsi agli obblighi previsti dalle norme sui diritti umani e ad esercitare il massimo controllo sull’uso della forza durante le operazioni di accertamento del rispetto della legge”.

In Cisgiordania, durante numerose proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 646 palestinesi, tra cui 181 minori. La stragrande maggioranza dei ferimenti (89%) è avvenuta nel contesto delle proteste settimanali contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti colonici, nonché durante manifestazioni contro il riconoscimento da parte degli Stati Uniti (6 dicembre 2017) di Gerusalemme quale capitale di Israele. Altri 59 ferimenti sono avvenuti durante scontri scoppiati nel corso di sei delle 176 operazioni di ricerca-arresto effettuate nel periodo di riferimento. Il maggior numero di feriti è stato registrato durante scontri nella città di Qalqiliya, seguita dai villaggi Kafr Qalil e Al Lubban ash Sharqiya (entrambi in Nablus) e Abu Dis (Gerusalemme). Di tutte le ferite, 38 sono state causate da armi da fuoco, 99 da proiettili gommati e 507 da inalazione di gas lacrimogeno, richiedente cure mediche oppure direttamente dalle bombolette lacrimogene sparate. Da evidenziare il caso di un ragazzo palestinese di 13 anni: è stato colpito agli occhi da un proiettile gommato sparato dalle forze israeliane durante scontri presso la scuola di Burin (Nablus); il fatto ha innescato una sospensione delle lezioni per il resto della giornata.

Il 22 marzo, nella striscia di Gaza, nel Campo Profughi di An Nuseirat, durante scontri armati innescati da un’operazione di arresto condotta da forze palestinesi, due agenti di polizia palestinesi e altri due palestinesi sono rimasti uccisi. Secondo quanto riferito, l’operazione mirava a catturare gli autori di un attacco avvenuto il 13 marzo, quando un ordigno esplosivo venne fatto detonare vicino a un convoglio di auto con cui viaggiavano il Primo Ministro palestinese ed alti funzionari. L’esplosione si verificò poco dopo l’ingresso dei veicoli nella Striscia di Gaza e ferì sette palestinesi addetti alla sicurezza.

A scopo “punitivo” le autorità israeliane hanno sigillato con calcestruzzo una stanza nella città di Qabatiya (Jenin), colpendo sei palestinesi. Il locale fa parte della casa di famiglia di uno degli autori palestinesi di un attacco avvenuto nell’ottobre 2017 a Kafr Qasem, in Israele, dove fu ucciso un colono israeliano.

In area C e nella zona est di Gerusalemme, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate altre dodici strutture, sfollando 18 palestinesi, tra cui sei minori, e diversamente colpendo altre 14 persone. Nove delle strutture prese di mira erano a Gerusalemme Est (Jabal al Mukabir, Ath Thuri e Al Watta), le altre tre nella zona C dei villaggi Kafr Malik e Silwad (entrambi a Ramallah).

Sono stati segnalati undici attacchi di coloni israeliani con conseguenti ferimenti di palestinesi o danni alle loro proprietà. In cinque diversi episodi, cinque contadini palestinesi che lavoravano sulle proprie terre, nei villaggi di Turmus’ayya (Ramallah), Immatin (Qalqiliya), At Tuwani (Hebron), Huwwara e Burin (entrambi in Nablus), sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani; in quest’ultima località è stato danneggiato anche un trattore. Inoltre, a Gerusalemme Est, un ragazzo palestinese di 16 anni è stato aggredito fisicamente e ferito. Nella città di Hizma e nel villaggio di Beit Iksa (entrambi a Gerusalemme), coloni israeliani hanno vandalizzato cinque veicoli di proprietà palestinese ed hanno spruzzato sui muri di una casa palestinese scritte razziste e “Questo è il prezzo che dovete pagare”. In tre diversi episodi, coloni israeliani hanno tagliato 17 alberi di proprietà palestinese nei villaggi di Qaryut (Nablus) e Al Jab’a (Betlemme) ed hanno rubato il bestiame di un contadino del villaggio di Urif (Nablus). In As Sawiya e Madama (Nablus), Kardala e Khirbet Tell el Himma (Tubas) ed in A Seefer e At Tuwani (Hebron), coloni hanno sparato o lanciato pietre contro contadini palestinesi che lavoravano vicino alle aree di insediamento colonico; non sono stati segnalati feriti. Dall’inizio del 2018, la media settimanale degli attacchi di coloni con ferimenti di palestinesi o danni alle proprietà, ha registrato un aumento del 50 % rispetto al 2017 e del 67% rispetto al 2016.

In Cisgiordania, secondo quanto riportato dai media israeliani, sono stati segnalati, almeno dodici episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguenti danni a tre veicoli. Gli episodi sono stati segnalati nelle aree di Hebron e Betlemme. Inoltre, a Gerusalemme Est sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat.

Il 27 marzo, nell’area (H2) di Hebron sotto controllo israeliano, coloni israeliani, sotto la protezione delle forze israeliane, hanno occupato due case disabitate, sostenendo di averne acquisito la proprietà. Da parte palestinese vengono respinte queste affermazioni. Una delle case era stata precedentemente occupata da coloni nel gennaio 2016 e successivamente evacuata in seguito a una decisione dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana. La stretta vicinanza di abitazioni di coloni alla Moschea di Ibrahimi solleva preoccupazioni in merito a potenziali restrizioni di accesso a questo sito religioso, ma anche di ulteriori tensioni e scontri nella zona. Il 22 marzo, nella stessa zona, coloni israeliani hanno evacuato, sempre in conseguenza di una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia, parti di un edificio di proprietà palestinese (Abu Rajab), che erano state occupate nel luglio 2017.

Il 24 marzo, l’unica Centrale Elettrica di Gaza è stata spenta avendo esaurito le riserve di carburante; le interruzioni di corrente sono così salite a 20 ore al giorno. Ciò consegue all’interruzione, a partire dal 21 gennaio, delle importazioni di carburante dall’Egitto. Una delle due turbine della Centrale è rientrata in funzione il 26 marzo, a seguito della ripresa delle consegne di carburante. La grave crisi dell’elettricità ha continuato a minare la fornitura di servizi essenziali, tra cui sanità, acqua potabile e servizi igienici, incidendo direttamente sulla vita dei 2 milioni di persone che vivono a Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per tre giorni (23-25 marzo): un giorno in entrambe le direzioni e due giorni in una direzione, permettendo a 830 palestinesi di entrare in Gaza e a 620 di uscirne. Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per dieci giorni: cinque giorni in entrambe le direzioni e cinque giorni in una direzione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

þ




Israele:centinaia di lavoratori palestinesi arrestati:”Pulizia di Pasqua”

Redazione di Nena News

28 marzo 2018 Nena News

Da sabato fermati 468 palestinesi senza permesso in territorio israeliano in un’operazione che la polizia di Tel Aviv ha chiamato “Rimuovere il Chametz”, i cibi proibiti durante la festa. Adalah: “Razzismo”

Roma, 28 marzo 2018, Nena News – Sul campo lo Stato di Israele ha dispiegato 2.300 uomini, tra poliziotti e volontari. E anche l’aviazione. Sabato scorso il lancio dell’operazione, ribattezzata “Removing Chametz”, rimuovere il chametz, per la religione ebraica tutti la pulizia e l’eliminazione dalle proprie case dei cibi proibiti durante la Pasqua ebraica, cibi non kosher e cibi prodotti da grano o cereali, mescolati con acqua e lasciati a lievitare.

I chametz in questione sono i lavoratori palestinesi illegali in Israele, provenienti dalla Cisgiordania: in pochi giorni ne sono stati arrestati almeno 468, fa sapere la polizia israeliana. Fermati e multati anche 8 datori di lavoro 17 caporali e 24 “trasportatori”, quelli che vanno a prendere gli operai al confine e li distribuiscono nei cantieri e nelle aziende agricole.

Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha parlato di perquisizioni in decine di luoghi di lavoro in Israele e annunciato che “l’operazione continuerò fino a quando sarà necessario”. In vista della Pasqua ebraica (che inizierà il 30 marzo, quest’anno coincidente con la Giornata della Terra, la commemorazione dell’uccisione di sei palestinesi in Galilea nel 1976, mentre difendevano la propria terra dalla confisca). Ha poi aggiunto che 14 dei quasi 500 arrestati sono accusati di “attività terroristiche” e altri nove residenti ad Umm al Fahem – nel triangolo nel nord est di Israele, a maggioranza palestinese – di aver condotto i palestinesi della Cisgiordania illegalmente in territorio israeliano.

L’operazione non stupisce troppo: da sempre le autorità israeliane ne compiono di simili prima e durante le feste ebraiche. Arresti generalizzati ma anche la chiusura dei checkpoint tra i Territori Occupati e Israele, di fatto impedendo ai pochi palestinesi muniti di permesso israeliano di recarsi al lavoro per giorni, a volte per settimane. Succederà anche stavolta: da domani per otto giorni Gaza e Cisgiordania saranno completamente sigillate al transito palestinesi, restando aperto solo a quello dei coloni israeliani.

Subito si è sollevata la protesta delle organizzazioni legali e per i diritti umani. Adalah, nota associazione che si occupa della minoranza palestinese in Israele, ha condannato l’operazione in sé, ma anche il nome razzista che gli è stato attribuito: “La terminologia della polizia israeliana verso persone che come il cibo devono essere rimosse dimostra il carattere razzista della sua attività – si legge in una nota – Alla fine si tratta di pulizia etnica”.

Secondo il Cogat, l’ente israeliano responsabile per i Territori Occupati, ogni giorno transitano legalmente 70mila lavoratori palestinesi, un numero molto più basso rispetto ai livelli pre-Seconda Intifada: con la costruzione del muro e l’implementazione del regime dei permessi, il numero di lavoratori legali si è drasticamente ridotto, anche a causa di una volontaria politica da parte israeliana di loro sostituzione con immigrati stranieri, in particolare dall’Asia dell’Est. Sarebbero invece almeno 50mila i palestinesi lavoratori illegali sia in Israele che nelle colonie, persone che attraversano la Linea Verde con l’aiuto di passeur e caporali, sborsando denaro per poter essere impiegati per qualche settimana nei cantieri o nelle aziende agricole.

Privi di qualsiasi diritto e forma di tutela, senza protezioni durante lo svolgimento del loro lavoro, sono sottopagati rispetto al salario minimo israeliano e lo “stipendio” è spesso decurtato dai datori di lavoro che chiedono denaro per l’alloggio. Alloggio che spesso è lo stesso cantiere in cui lavorano, costantemente in fuga dai controlli della polizia: abusi e violazioni sono casi comuni, fino al carcere per chi viene sorpreso senza documenti.

Ma le forze armate operano solo in casi particolari, come l’attuale operazione: esercito, polizia e governo conoscono benissimo la tratta dei lavoratori e luoghi di la

voro, ma chiudono un occhio. Dopotutto si tratta di manodopera a basso costo e zero diritti. Che non merita nemmeno un minimo di sicurezza: le organizzazioni palestinesi denunciano casi di morti bianche o infortuni di illegali,di lavoratori  abbandonati dai datori di lavoro. E se riescono a raggiungere un ospedale, si vedono recapitare a casa conti salatissimi. Nena News




Israele condanna centinaia di palestinesi alla disoccupazione – a causa del loro cognome

Gideon Levy, Alex Levac |

23 marzo 2018, Haaretz

Le autorità israeliane hanno revocato i permessi di lavoro a più di mille palestinesi per il solo motivo che hanno lo stesso cognome dell’autore di un’aggressione col coltello.

Se questa non è una punizione collettiva, allora che cos’ è una punizione collettiva? Se questo non è arbitrio, allora che cos’ è un arbitrio? E se questa misura non innesca il fuoco nella relativamente tranquilla cittadina di Yatta, in Cisgiordania, allora a che cosa mira questo provvedimento? Yatta è sconvolta, la sua economia minaccia di collassare, e tutto per via di una persona che ha compiuto un reato, a causa del quale Israele sta punendo un’intera città.

Fino a pochi mesi fa più di 7000 residenti di questa cittadina a sud delle colline di Hebron avevano permessi di lavoro. Secondo l’ufficio palestinese di Coordinamento e Contatto [con gli occupanti israeliani] di Yatta, 915 di loro, con il cognome Abu Aram, lavoravano in Israele ed altre centinaia nelle colonie. Ma poi quei lavoratori hanno perso il lavoro in Israele e nelle colonie, solo a causa del loro cognome, in seguito ad un’ incredibile, draconiana decisione dell’Amministrazione Civile, l’ente israeliano che governa in Cisgiordania. Disperati, decine di loro hanno addirittura cambiato i loro cognomi sulle carte di identità, ma è stato inutile. Il loro ingresso per lavorare in Israele, dove per anni hanno avuto un impiego, è bloccato, benché non abbiano fatto niente di male. Ecco ciò che è successo.

Lo scorso 2 agosto un diciannovenne residente a Yatta, Ismail Abu Aram, accoltellò Niv Nehemia, vicedirettore di un supermercato nella città israeliana di Yavneh, ferendolo gravemente. L’aggressore fu arrestato. Il giorno seguente le autorità decisero – in base alla procedura standard dopo un attacco terroristico – di vietare alla famiglia dell’aggressore l’ingresso in Israele. Il divieto venne revocato 10 giorni dopo, i membri della famiglia tornarono ai loro impieghi in Israele e nelle colonie e Yatta riprese la sua vita normale.

Tuttavia, il 14 dicembre, senza ragioni apparenti, Israele improvvisamente si è ricordato dell’incidente e ha reintrodotto un divieto generalizzato nei confronti di migliaia di persone, senza preavviso né spiegazione.

Benché simili misure siano prassi consueta di Israele dopo gli attacchi, questa volta le dimensioni [del provvedimento] non hanno precedenti. Abu Aram è la più numerosa hamula (clan) di Yatta. Secondo gli attivisti, il lavoro in Israele e nelle colonie dà sostentamento a migliaia di residenti. I lavoratori e le loro famiglie sono ora condannati alla disoccupazione e agli stenti a causa dell’accoltellamento compiuto da Ismail, anche se la maggior parte di loro non lo conosce nemmeno.

Dal momento del divieto, la città è sconvolta e la sua economia in grave pericolo. Migliaia di lavoratori sono rimasti a casa inattivi per quattro mesi, si sono accumulati debiti e annullati matrimoni, gli assegni vengono respinti, i magazzini sono vuoti e i ragazzi hanno abbandonato la scuola. In base a caute stime, la cittadina, i cui residenti sono quasi interamente dipendenti dal lavoro in Israele, al momento ha una riduzione di centinaia di migliaia di shekel [100.000 ILS= 23.000 €, ndtr.] di entrate al mese.

Questa settimana gli abitanti di Yatta si sono riuniti per sfogare la loro angoscia e protestare. Più di 100 uomini si sono recati in un ristorante all’ingresso della città. In vista del nostro arrivo, qualcuno aveva preparato dei poster in un ebraico approssimativo per esprimere la loro protesta: “Lavoratori contro la punizione”, “No alla politica delle rappresaglie”. Dalla collina su cui è arroccata una moschea sono scesi sempre più uomini, in maggioranza di mezza età, i volti bruciati dal sole e non rasati, le mani da lavoratori, al polso orologi di plastica di poco valore – i muratori e gli asfaltatori, a cui ora si nega questa possibilità.

Sono gli uomini che si alzano alle tre del mattino per iniziare il lavoro alle sette, a Tel Aviv, Be’er Sheva, Gerusalemme, Beit Shemesh o Ashdod, e tornano a casa quando è buio. Ora languiscono a casa, arrabbiati e frustrati. Quasi tutti parlano ebraico. Mostrano i loro permessi di lavoro. I documenti rosa si accumulano sul tavolo; alcuni sono ancora validi, altri sono scaduti e non possono essere rinnovati e nessuno di essi ora consentirà loro di entrare in Israele a lavorare. Non sono colpiti solo i lavoratori manuali: commercianti e anche persone che hanno bisogno di cure mediche hanno il divieto di ingresso in Israele a causa del blocco “Abu Aram”.

Qui useremo solo il loro nome, perché hanno tutti lo stesso cognome, per loro disgrazia. Naim, di 52 anni, padre di otto figli, lavora per la Bardarian Brothers di Gerusalemme, impresa che si occupa di progettazione di infrastrutture e movimento terra. Di fatto, circa 300 membri della famiglia [allargata] lavorano per questa impresa. Naim vi ha lavorato per 13 anni. Il giorno dopo l’aggressione di Yavneh, si è alzato a notte fonda per andare a lavorare, ma al checkpoint 300 di Betlemme è stato rimandato a casa insieme ad altre centinaia di persone del clan. Gli è stato detto che il divieto sarebbe stato revocato dopo 10 giorni.

Ed è stato così. Dopo una settimana e mezza tutti sono tornati al lavoro, felici e sollevati. Poi è arrivato quel giorno nero di dicembre, quattro mesi dopo. Quella notte, ai checkpoint che attraversano andando al lavoro – Tarqumiya, Meitar e Checkpoint 300 – gli è stato detto: “ Tutti quelli della famiglia Abu Aram tornino a casa.” Almeno per sei mesi. Anche ai loro datori di lavoro israeliani è stato intimato: non assumete nessuno con il cognome proibito.

I lavoratori erano sconvolti, anche Naim. “Siamo andati a casa e vi siamo rimasti da allora”, dice, imbarazzato. Solo pochi di loro hanno nuovamente tentato la fortuna ai checkpoint negli ultimi mesi, e tutti sono stati mandati a casa. A quelli che hanno fatto molti tentativi sono stati anche confiscati i permessi – non che sarebbero serviti a qualcosa.

Abitualmente i permessi di lavoro devono essere rinnovati ogni sei mesi. Ecco il permesso di Sabar, valido fino al 10 marzo. Il permesso di Mohammed era valido fino al 14 febbraio. Gettano i documenti sul tavolo allo stesso modo in cui le carte da gioco vengono buttate sul tappeto verde di un tavolo di casinò; magari accadrà una magia e ritorneranno validi. “Permesso di uscita per lavoro in Israele. Il lavoro dura tutto il giorno. In Israele, tranne che a Eilat [città del sud di Israele, ndtr.]. Firmato Yitzhak Levy, ufficiale responsabile per l’impiego.”

Gli uomini sono andati negli uffici dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.] ed all’unità distrettuale di Coordinamento e Contatto [ente locale dell’ANP, ndtr.], a Hebron, ed alle principali sedi amministrative di Beit El. Nessuno li ha neppure ascoltati, tantomeno gli ha dato spiegazioni. Solo un impiegato si è preso la briga di dirgli che l’ordine era arrivato dall’alto. Quanto in alto? Non si può sapere. Hanno anche tentato la fortuna al municipio di Hebron, ma ovviamente nessuno là li ha potuti aiutare.

Nasser, un commerciante di rottami di ferro, è disoccupato. Ha 51 anni e nove figli. Con sei anni di lavoro nello stesso posto, dice: “È davvero brutto, fratello. Stiamo male.” Mahmoud, di 43 anni e cinque figli, ha lavorato come fattorino per la Levy Brothers negli ultimi 11 anni: “Uno abituato a stare in Israele per tutta la vita, può lavorare nei territori? Non c’è lavoro a Yatta. All’inizio ci alzavamo al mattino e andavamo al checkpoint. Adesso io mi alzo al mattino e litigo con mia moglie. Vogliamo che ciò che diciamo giunga (alle autorità israeliane).”

Anche Mohammed, 42 anni, passa le giornate in casa. Lavora per Y.D. Barzani, una ditta di costruzioni di Gerusalemme che ogni giorno faceva arrivare 10 lavoratori da Yatta per i suoi cantieri; adesso sono tutti qui, bloccati in casa. In base ai loro permessi, dovrebbero lavorare nelle costruzioni a Har Hotzvim, la zona di alta tecnologia industriale a Gerusalemme. Si avvicina suo figlio di 12 anni; ci avevano detto che ha lasciato la scuola perché i suoi genitori non hanno i soldi per comprargli i quaderni. “Non ci sono nemmeno 2 shekel ( 0,46 €) per comprare qualcosa per la ricreazione”, dice uno degli uomini. Altri dicono che alcuni residenti sono stati arrestati dalla polizia palestinese a causa di assegni a vuoto e debiti non pagati.

Alcuni disoccupati di Yatta più intraprendenti sono andati alla sede locale del ministero dell’Interno palestinese per modificare i propri nomi. Sabri Abu Aram è diventato Sabri Hassin, Mahmoud Abu Aram è diventato Mahmoud Mahmed, Radi Abu Aram si è trasformato in Radi Gabrin. I nomi sono stati modificati sulla loro carta d’identità – eccoli qui, per farceli controllare – ma al checkpoint israeliano non è cambiato niente: il numero di carta di identità era lo stesso.

Nasser, il commerciante di rottami di ferro, fa una domanda: “Metti che adesso andiamo sulla strada principale. Vogliamo fare una manifestazione pacifica. Vogliamo solo dire che vogliamo vivere. L’esercito è vicino. Sulla collina, a cinque minuti di distanza. C’è la possibilità che vengano qui e voi possiate parlare con loro?”

Ibrahim dice che se c’è un cespuglio spinoso nel giardino, tu sradichi il cespuglio, non l’intero giardino. Ibrahim, di 52 anni, si definisce un attivista per la pace, che probabilmente è il motivo per cui gli è stato negato l’ingresso in Israele negli ultimi 20 anni. Calcola che 30.000 persone siano colpite dal divieto, e di conseguenza tutta la città di Yatta, in quanto non vi è più entrato denaro. I negozi sono vuoti, dice.

“Ci vedono come nemici. Ma questa è una politica che accresce il livello di violenza. La vostra gente non lo capisce? Noi siamo a favore della vicinanza e della pace – ma questo agisce nel senso opposto”, dice Ibrahim. “Vorremmo che la sinistra israeliana sentisse la pressione, sollevasse la questione anche alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. Abbiamo già scritto lettere a tutte le organizzazioni per la pace.”

Interrogato sul tema, il portavoce del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori ha detto a Haaretz: “Il 2 agosto 2017 Ismail Abu Aram del villaggio di Yatta ha compiuto un’aggressione col coltello a Yavneh, durante la quale un civile è stato ferito gravemente. Come conseguenza, i permessi rilasciati ai membri del clan Abu Aram sono stati immediatamente sospesi.”

A Yatta dicono che prima del 1967 c’erano molti più cognomi in città. Dopo la conquista israeliana tutti i rami del grande clan vennero registrati col nome del mukhtar, il capo, Abu Aram. Ora vengono puniti.

Il lavoratore disoccupato Radi chiede se gli israeliani hanno trattato gli assassini (ebrei) della famiglia Dawabsheh a Duma [un bambino di 18 mesi, sua madre e suo padre sono morti arsi vivi in seguito all’attacco di coloni, ndtr.] nello stesso modo.

Io chiedo a Radi: “Almeno dormi fino tardi al mattino adesso?”

“Che cosa intendi con dormire, abbiamo ogni genere di pensieri e preoccupazioni.”

Raccolgono i loro permessi dal tavolo e li infilano in fondo alle tasche, il loro tesoro nascosto, e lentamente tornano a casa.

Ibrahim, quello che si definisce attivista, ha telefonato giovedì per dirci che il giorno prima quattro uomini del clan Abu Aram di Yatta hanno fatto un’escursione sui Monti della Giudea. Nel tardo pomeriggio, mentre scendevano in una gola che conduce al Mar Morto, hanno sentito grida di aiuto. Si sono imbattuti in una coppia di giovani escursionisti israeliani, di Be’er Sheva, che si erano persi ed erano sfiniti. Gli uomini se li sono caricati sulle spalle e li hanno portati dal letto del fiume fino alla loro macchina. Dopo aver raggiunto la strada principale, la coppia ha chiamato l’unità di sicurezza della vicina colonia di Carmel per chiedere aiuto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)