L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha del periodo 19 giugno – 2 luglio

Le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi, tra cui un minore, e ne hanno feriti 615, di cui 23 minori, durante le dimostrazioni di massa tenute il 22 ed il 29 giugno lungo la recinzione della Striscia di Gaza nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno”

Il minore ucciso, un ragazzino di undici anni, è stato colpito alla testa da un proiettile di arma da fuoco durante una dimostrazione ad est di Khan Yunis, il 29 giugno. Con questa vittima sale a 19 il numero di minori uccisi a Gaza dal 30 marzo (l’inizio di queste proteste), compreso uno il cui corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Durante il periodo di riferimento, altri due palestinesi sono morti per le ferite subite nelle dimostrazioni delle settimane precedenti. 222 dei feriti sopra segnalati sono stati ospedalizzati: di essi 101 erano stati colpiti con arma da fuoco.

In due separati episodi, le forze israeliane hanno ucciso altri due minori palestinesi in Gaza: a quanto riferito, essi avevano aperto una breccia nella recinzione israeliana e tentato di danneggiare apparecchiature militari. Gli incidenti si sono verificati il 28 giugno ed il 2 luglio, ad est di Rafah, e hanno anche provocato il ferimento di tre palestinesi, tra cui due minori.

Palestinesi di Gaza hanno continuato a lanciare, verso il sud di Israele, aquiloni di carta e palloni aerostatici con materiali infiammabili. Secondo le autorità israeliane, dall’inizio di questa pratica (fine aprile), più di 500 ettari di colture e 400 ettari di bosco sono stati bruciati, con danni stimati in milioni di dollari; non sono state segnalate vittime israeliane.

Nel periodo di riferimento [di questo Rapporto], l’aviazione israeliana ha compiuto almeno 24 attacchi aerei su Gaza, mentre gruppi armati palestinesi hanno sparato decine di razzi e colpi di mortaio verso il sud di Israele. Secondo le autorità israeliane, alcuni attacchi aerei sono stati effettuati in risposta al lancio di aquiloni ed aerostati incendiari e, a quanto riferito, avevano come obiettivo le persone impegnate in tali attività, nonché alcuni siti militari ed aree aperte; cinque palestinesi sono stati feriti. Secondo gruppi armati palestinesi di Gaza, il lancio di missili [verso Israele] è stato effettuato come ritorsione per i raid aerei israeliani; non sono state segnalate vittime o danni da parte israeliana.

In almeno 18 occasioni, al di fuori delle dimostrazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare di Gaza, ferendo un palestinese e costringendo agricoltori e pescatori ad allontanarsi. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Gaza ed al Qarara (Khan Yunis), ed hanno compiuto operazioni di spianatura e di scavo nei pressi della recinzione perimetrale

Il 30 giugno, ad est della città di Gaza, in circostanze non chiare, cinque civili palestinesi, tra cui due minori, sono morti ed altri due sono rimasti feriti in una esplosione avvenuta in una struttura abitativa.

In Cisgiordania, 36 palestinesi, tra cui almeno sei minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. La maggior parte dei ferimenti (16), compresi quelli di quattro minori, sono avvenuti durante scontri con forze israeliane seguenti l’entrata di coloni israeliani in vari luoghi religiosi della Cisgiordania; le entrate dei coloni avevano innescato alterchi e scontri con residenti palestinesi. Altri otto feriti palestinesi si sono avuti durante scontri collegati a quattro operazioni di ricerca-arresto, per la maggior parte durante un’operazione in Tuqu’ (Betlemme). Sette feriti sono stati segnalati anche nel corso della manifestazione settimanale contro le restrizioni di accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya). La maggior parte dei ferimenti sono stati causati da pallottole di gomma (19), seguite da proiettili di arma da fuoco (9) e da inalazione di gas lacrimogeno richiedente il trattamento medico (8).

Il 23 giugno un veicolo palestinese ha investito e ferito quattro soldati israeliani vicino al villaggio di Al Khadr (Betlemme). Dopo un’operazione di ricerca, il conducente si è arreso alle forze israeliane. I militari israeliani hanno sostenuto che l’investimento era stato intenzionale; secondo l’Ufficio di Coordinamento Distrettuale palestinese (DCO), l’uomo ha detto che era stato un incidente.

In tutta la Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 137 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 198 palestinesi, tra cui almeno 15 minori. Il Governatorato di Hebron ha visto il maggior numero di operazioni (30) e il Governatorato di Gerusalemme il numero più alto di arresti (49).

Citando la mancanza di permessi di costruzione israeliani, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto le persone a demolire 26 strutture di proprietà palestinese, sfollando dieci persone e colpendo i mezzi di sussistenza di oltre 160. Tutte le strutture sopraccitate, tranne una, erano in Gerusalemme Est. Dall’inizio del 2018, il numero di strutture demolite in questa zona sale così a 91, poco sopra il numero riguardante lo stesso periodo del 2017. Un’altra struttura è stata sequestrata nella zona C, nella comunità pastorale di Umm Fagarah, che si trova nella “Zona per esercitazioni a fuoco 918”, nel sud di Hebron (Massafer Yatta).

Inoltre, il 21 giugno, un alloggio è stato demolito per motivi punitivi in Barta’a Ash Sharqiya (Jenin), nella zona B, sfollando una famiglia di tre persone. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese che, nel marzo 2018, uccise due soldati israeliani investendoli con un veicolo e fu successivamente arrestato.

Nella valle del Giordano settentrionale, per svolgere esercitazioni militari, le forze israeliane hanno sfollato 16 famiglie palestinesi della comunità di Humsa al Bqai’a per 14 ore. Negli ultimi due mesi, questa è la sesta volta che questa comunità, situata in una zona designata [da Israele] come “Zona per esercitazioni a fuoco”, viene temporaneamente sfollata. Insieme a demolizioni e limitazioni di accesso, questa pratica accresce la pressione sulla Comunità, ponendola a rischio di trasferimento forzato.

Durante il periodo [di riferimento di questo Rapporto] sono stati segnalati tredici attacchi di coloni israeliani, con più di 500 alberi di proprietà palestinese incendiati o vandalizzati. Sei degli episodi si sono verificati nelle vicinanze dei villaggi di Tell, Far’ata, Urif, Burin e Burqa (tutti in Nablus) e di Bani Naim (Hebron). A quanto riferito gli autori degli attacchi sono coloni degli insediamenti di Yitzhar, Gilad Farm e Kiryat Arba, che hanno aggredito e ferito una donna 38enne e due minori e vandalizzato o incendiato 450 alberi. Altri tre attacchi incendiari con estensione dei danni a terreni coltivati e ad almeno 70 ulivi sono stati segnalati nei villaggi di Azmut e di Beit Furik (entrambi in Nablus) e di Deir Jarir (Ramallah). Dall’inizio del 2018, OCHA [Ufficio delle NU che redige questo Rapporto] ha registrato lo sradicamento, l’incendio o la vandalizzazione di 4.175 alberi da parte di coloni israeliani: un aumento, sulla media mensile, del 48% rispetto al 2017 e del 404% rispetto al 2016. Nella città di Hebron, nella zona H2, a controllo israeliano, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro tre case palestinesi e, in scontri successivi, hanno ferito sei palestinesi, tra cui due minori. Altri cinque palestinesi sono stati feriti e tre veicoli danneggiati da coloni in altri episodi di lancio di pietre.

Media israeliani segnalano almeno nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, con danneggiamento di due veicoli privati. Non sono stati segnalati feriti.

Il valico a controllo egiziano tra Gaza e l’Egitto è rimasto aperto in entrambe le direzioni durante il periodo di riferimento, ad eccezione di tre giorni, consentendo a 1.178 persone di entrare nella Striscia ed a 3.307 di uscirne. Il valico è stato quasi continuamente aperto dal 12 maggio, il periodo più lungo dal 2014. A detta delle autorità egiziane, a partire dall’inizio di luglio, il valico di Rafah resterà aperto, eccetto il venerdì ed il sabato, fino a nuovo avviso.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Negli ultimi giorni, sulle colline ad est di Gerusalemme, Israele ha intensificato le attività nell’area in cui vivono due comunità palestinesi tra loro vicine ed entrambe a rischio di trasferimento forzato. In Khan Al Ahmar – Abu Al-Helu l’area è stata dichiarata “Zona militare chiusa” e grossi macchinari per costruzioni sono stati portati in loco. Il 4 luglio, ad Abu Nuwar, le autorità israeliane hanno demolito 19 strutture, tra cui 9 abitazioni, sfollando 51 persone, di cui 33 minori.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto OCHA 5 – 18 giugno 2018 (due settimane)

Durante la manifestazione di massa dell’8 giugno, svolta lungo la recinzione israeliana attorno a Gaza, le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, tra cui un ragazzo di 14 anni, e ferito altri 618.

Durante il periodo cui si riferisce questo rapporto, altri due palestinesi sono morti per le ferite riportate nelle manifestazioni delle settimane precedenti. Oltre il 40% dei feriti ha dovuto ricorrere a cure ospedaliere; tra questi, 117 persone colpite con armi da fuoco. Le dimostrazioni della “Grande Marcia del Ritorno” si sarebbero dovute concludere l’8 giugno, ma è possibile che continuino nei prossimi venerdì.

I palestinesi di Gaza hanno intensificato il lancio, verso il sud di Israele, di aquiloni di carta e palloni gonfiabili caricati con materiali infiammabili, provocando incendi di coltivazioni e boschi. Fonti israeliane hanno anche riferito che un certo numero di aquiloni e palloni erano stati caricati con ordigni esplosivi, ma sono stati neutralizzati prima che esplodessero. Secondo le autorità israeliane, dall’avvio di questa pratica (iniziata a fine aprile), i vigili del fuoco hanno dovuto affrontare più di 400 incendi che hanno bruciato più di 2.400 ha, con danni stimati in oltre 1,9 milioni di dollari.

A Gaza l’aviazione israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei contro siti militari, aree aperte e un veicolo vuoto, provocando due feriti. Secondo quanto riferito, gli attacchi sono stati effettuati in risposta al lancio di aquiloni e palloni incendiari. In tre diversi episodi, gruppi armati palestinesi hanno lanciato razzi contro Israele. Uno di questi è caduto all’interno di Gaza, i rimanenti sono caduti di Israele, in aree aperte; secondo i resoconti dei media israeliani, non sono stati registrati danni.

Sempre a Gaza, il 18 giugno, un missile israeliano ha ucciso un palestinese e ferito un minore: secondo quanto riferito, i due stavano tentando di danneggiare, presso l’ex valico merci di Karni [chiuso da Israele nel 2011], un impianto di sicurezza installato a ridosso della recinzione perimetrale.

Nelle Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare, di Gaza, in almeno dodici occasioni non collegate alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, senza causare feriti. In due casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo ad est di Gaza e Khan-Yunis, nei pressi della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante numerosi scontri, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 21 anni e ferito altri 69. L’uccisione (con arma da fuoco) si è verificata durante un’operazione di ricerca-arresto, svolta il 6 giugno, nel villaggio di An Nabi Saleh (Ramallah). Secondo una dichiarazione israeliana, l’uomo aveva lanciato una pietra contro un soldato israeliano che, successivamente, gli ha sparato. Salgono così a cinque, dall’inizio del 2018, i palestinesi uccisi in Cisgiordania, nel corso di manifestazioni e scontri con le forze israeliane. La maggior parte dei ferimenti (60) sono stati segnalati in scontri verificatisi nel corso di dodici operazioni di ricerca-arresto. Il numero più alto di feriti è stato riportato in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), seguito da quello dei feriti nel corso un’operazione nella città di Nablus e da un’altra operazione svolta nel Campo profughi di Al Am’ari (Ramallah). Altri due palestinesi sono stati feriti vicino a Betlemme, con armi da fuoco, in due diversi episodi, mentre cercavano di attraversare la Barriera senza permesso.

L’11 giugno, nella città israeliana di Afula (Israele), secondo quanto riferito, un palestinese ha ferito con coltello una israeliana di 18 anni; l’uomo è stato successivamente colpito e ferito dalle forze israeliane. Il presunto aggressore è stato arrestato; secondo quanto riferito, proverrebbe da Jenin e sarebbe entrato in Israele senza permesso.

Il 13 giugno, in scontri scoppiati durante una manifestazione tenutasi nella città di Ramallah, le forze di sicurezza palestinesi hanno ferito 22 palestinesi, tra cui due minori. I dimostranti protestavano contro le misure punitive imposte dall’Autorità palestinese alla Striscia di Gaza e chiedevano di porre fine alle divisioni interne tra palestinesi. Almeno 40 palestinesi e due giornalisti stranieri sono stati arrestati per un paio d’ore. Una dimostrazione simile si è tenuta nella Striscia di Gaza il 18 giugno, con un ferito. Tutti i ferimenti [di cui sopra] sono stati causati da aggressioni fisiche o inalazione di gas lacrimogeno.

Secondo dati ufficiali israeliani, circa 100.000 palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania, sono entrati a Gerusalemme Est il quarto venerdì di Ramadan (l’8 giugno) attraverso i quattro checkpoints designati lungo la Barriera. Come nelle settimane precedenti, agli uomini sopra i 40 anni e alle donne di tutte le età è stato consentito entrare in Gerusalemme senza permesso. Nessuna autorizzazione è stata invece concessa per il Ramadan dei palestinesi di Gaza.

Il 13 e il 17 giugno, conformemente a quanto stabilito da sentenze della Corte Suprema israeliana, le autorità israeliane hanno evacuato, nei governatorati di Hebron e Salfit, due insediamenti “avamposto” di coloni israeliani [non autorizzati da Israele] e successivamente hanno demolito 28 strutture costruite su terreni privati palestinesi. Secondo quanto riportato dai media israeliani, gli scontri verificatisi nel corso delle evacuazioni hanno provocato il ferimento di 24 membri delle forze israeliane. A seguito delle proteste di gruppi di coloni, le forze israeliane hanno chiuso le strade vicine, costringendo i palestinesi locali a lunghe deviazioni ed interrompendo il loro accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza.

Nel periodo in esame non sono state registrate demolizioni o confische di strutture palestinesi da parte delle autorità israeliane. Così è stato fin dal 17 maggio (inizio del Ramadan), coerentemente con la prassi registrata negli anni precedenti, quando le demolizioni venivano per lo più interrotte in concomitanza con il Ramadan.

Nella Valle del Giordano settentrionale, per la quinta volta in sei settimane, le forze israeliane hanno sfollato cinque famiglie della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a per sei ore, per consentire esercitazioni militari. Questa comunità deve affrontare sistematiche demolizioni, restrizioni di accesso e sfollamenti temporanei che destano preoccupazioni sul rischio di trasferimento forzato. Le forze israeliane hanno anche condotto esercitazioni militari notturne nelle vicinanze, e all’interno, del villaggio di Yanun (Nablus); non sono stati segnalati feriti o danni.

In undici episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, sei palestinesi sono stati feriti e quasi 1.200 alberi e cinque veicoli sono stati vandalizzati. Nella zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, hanno fatto irruzione nella casa di un attivista per i diritti umani; qui i coloni hanno aggredito fisicamente l’uomo e ferito la moglie; la sua macchina fotografica e il cellulare sono stati confiscati dalle forze israeliane. Altri quattro palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane, intervenute negli scontri tra palestinesi e coloni israeliani; gli scontri erano conseguenti all’ingresso di coloni nei villaggi di Burin (Nablus) e Kafr Laqif (Qalqiliya). Circa 1.200 tra ulivi e viti sono stati vandalizzati da coloni israeliani in cinque diversi episodi verificatisi a Turmus’aya (Ramallah), Sa’ir (Hebron) e Khalet Sakariya (Betlemme), dove, secondo fonti della comunità locale, su rocce e pareti sono stati trovate scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare”. Il numero di alberi danneggiati dai coloni, dall’inizio del 2018, arriva così quasi a 3.700. Inoltre, in cinque distinti episodi verificatisi sulle strade della Cisgiordania, cinque veicoli palestinesi, incluso uno scuolabus, hanno subito danni a causa del lancio di pietre da parte di coloni israeliani.

Secondo media israeliani, vicino a Hebron, Ramallah e Gerusalemme, ci sono stati almeno quattro casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danneggiamento di due veicoli privati. Non sono stati segnalati feriti.

Il valico tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, durante l’intero periodo di riferimento, è rimasto aperto in entrambe le direzioni, consentendo l’ingresso in Gaza ad un totale di 2.083 persone e l’uscita ad altre 4.375. Il valico è stato continuativamente aperto dal 12 maggio: dal 2014, è il periodo di apertura più lungo. Secondo fonti locali di Gaza, Rafah rimarrà aperto fino a nuovo avviso.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte tra il 19 ed il 20 giugno c’è stata una progressione di attacchi aerei israeliani su Gaza e di lanci di razzi palestinesi verso il sud di Israele; le operazioni si sono concluse senza provocare vittime. Il 14 giugno, in una relazione presentata al Consiglio di Sicurezza, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha avvertito che la situazione a Gaza è “prossima al limite della guerra”.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Pennellate di vita comune dalla Striscia di Gaza

Patrizia Cecconi da Gaza

16 giugno 2018, Pressenza

Ieri era festa grande a Gaza, come in tutti i paesi a prevalenza musulmana. Una festa che non si ignora neanche laddove cadono senza sosta bombe devastatrici di vite e di intere comunità.

Ieri era il primo giorno dell’Eid fitr, quello che segue la fine del Ramadan e che ha ancor più importanza di quanto ne abbia il Natale nei paesi a prevalenza cristiana.

L’Eid fitr è la festa in cui i bambini hanno gli abiti nuovi e girano felici per le strade e le famiglie si fanno visita l’un l’altra. Anche nelle case dei recenti martiri si festeggia l’Eid ed è un’occasione per onorare il martire e ricordare che la sua morte è benedetta sebbene dolorosa.

Molti gazawi hanno deciso di passare questi giorni negli accampamenti della grande marcia lungo il confine. Israele, che non cessa mai di far sentire la sua presenza con il ronzio ossessivo dei droni-spia, ha partecipato all’Eid non solo con l’onnipresenza dei droni ma anche con alcuni missili lanciati su uno degli accampamenti in cui i ragazzi preparavano i temibili aquiloni diventati simbolo della grande marcia. Per fortuna niente vittime e l’Eid fitr continua per altri due giorni come previsto dal rito coranico.

Nei giorni precedenti l’Eid, cioè durante il Ramadan, è normale essere invitati all’iftar, cioè alla cena che interrompe il digiuno dopo il calar del sole. Queste cene sono un’immersione totale nello spirito del luogo. Uno spaccato sociologico che toglie ogni dubbio su quanto ci sia di falso negli stereotipi forniti dai media i quali, a parte pochissime eccezioni, si gingillano in cosiddette analisi di situazioni che non conoscono neanche per un affaccio veloce alla finestra.

Essere invitati all’iftar, in quanto stranieri, è una forma di rispetto e di affetto in tutta la Palestina. Essere invitati all’iftar nella Striscia di Gaza è anche qualcosa di più: è un ringraziamento per esserci, perché in una prigione come Gaza, in cui per gli stranieri è molto difficile entrare e per i gazawi è quasi impossibile uscire, anche se feriti o malati, esserci significa vedere e testimoniare. Testimoniare dal vivo e raccontare il vero, sempre che si abbia l’onestà intellettuale per farlo e non si dipenda dal libro paga di chi stabilisce cosa sia opportuno scrivere.

Quindi, stante la condizione di assoluta libertà di espressione, ecco una cronaca da Gaza arricchita dalle tante interviste informali raccolte durante questi incontri conviviali. Due o tre sono le cose particolarmente rilevanti emerse in queste conversazioni ed una di queste è che, nonostante il taglio dell’elettricità da parte di Israele, ogni casa visitata è illuminata da luce elettrica e non da candele. Come mai? Forse che Israele, detentore dell’assedio e anche dell’elettricità, ha concesso più ore di luce? No. Il motivo è che i gazawi, in questi 11 anni di illegale assedio, hanno sviluppato su vari fronti la loro creatività. Mentre gli ospedali o le grandi strutture usano i generatori e, chi può, usa i pannelli solari, le singole abitazioni – spesso appartamenti arrampicati l’uno sull’altro in uno degli 8 campi profughi, o piccole case ricostruite alla meglio dopo l’ultimo terribile massacro del 2014 – non hanno la possibilità di usare un generatore, sia per il costo dello stesso, sia per il costo del carburante, e allora qualcuno si è inventato l’uso alternativo della batteria dell’automobile. Qualche piccola modifica per poterla alimentare nelle due o tre ore in cui Israele fa passare l’elettricità, cioè verso mezzanotte quando normalmente la famiglia ormai dorme, e qualche altra modifica per alimentare gli impianti domestici con l’energia accumulata nella batteria et voila, il gioco è fatto: Israele vuole lasciare al buio Gaza e Gaza si attrezza sviluppando sistemi alternativi.

In questo periodo sembra che la scelta di rispondere in modo non violento alla negazione dei propri diritti abbia scatenato, in questa comunità di prigionieri, una grande fantasia creativa che ha preso il posto di frustrazione e rabbia. Lo si è visto nelle manifestazioni della Grande marcia del ritorno in cui ai micidiali lanci di tear gas un gruppo di manifestanti aveva organizzato il “rilancio” nel campo nemico usando racchettoni e racchette da tennis, o nel tentativo vagamente pitagorico di utilizzare gli specchi per confondere i cecchini, o nell’incendio dei copertoni il cui denso fumo nero impediva ai cecchini di prendere la mira, riducendo così il numero delle vittime che, comunque, sono state circa 130 alle quali si aggiungono oltre 13mila feriti. Ma l’idea principe è stata sicuramente quella delle mini mongolfiere e degli aquiloni con la codina accesa da far volare oltre la rete dell’assedio, spiegando così all’assediante che i gazawi non si arrendono e pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Seguitano anche a spiegare, inascoltati dall’occidente, che dietro a queste decine di migliaia di uomini donne e bambini che si radunano lungo il confine non c’è il coordinamento di Hamas, né di altri partiti politici, bensì la riedizione di un tentativo già sperimentato, ma fallito, nel 2011 e cioè un movimento di base che scavalchi i partiti senza negarli, ma senza lasciarsi irretire dalle rivalità tra i vertici, e che tende a richiamarsi al concetto di fronte unico per ottenere i diritti affermati dall’ONU ma negati da Israele.

Questi i discorsi generali che hanno accompagnato le belle cene dell’iftar nell’ultima settimana del Ramadan. Ma a questi vanno aggiunti spunti e suggestioni che offrono inquietanti motivi di riflessione.

In parte per caso, in parte per scelta, nessuno degli incontri ha avuto come interlocutori militanti o simpatizzanti di Hamas, il partito al potere, il quale in passato ha scelto la lotta armata, compreso l’uso di kamikaze per ottenere senza mai riuscirci – il rispetto dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. Ormai Hamas ha preso un’altra via sebbene Israele trovi molto comodo nella sua propaganda con l’occidente attribuirgli la responsabilità di qualunque azione ostile, violenta o meno, ottenendo in tal modo due risultati: uno verso l’esterno, quello di screditare ogni azione legittima, quale la richiesta di applicare le Risoluzioni ONU, ammantandola di un falso velo di terrorismo grazie ai buoni servigi dei tanti opinion maker israelo-dipendenti. Verso l’interno, invece, quello di ottenere l’accredito di Hamas come organizzazione capace di muovere le masse dei gazawi anche se non sempre questo risponde al vero, restituendogli un carisma che ad un’analisi orientativa sembrava essere in caduta libera.

I due argomenti più interessanti, oggetto delle interviste informali realizzate in questi giorni, hanno riguardato: 1) il comportamento dell’Anp, che qui viene regolarmente riportato al solo presidente Abu Mazen, considerato come responsabile unico della punizione collettiva imposta ai palestinesi di Gaza attraverso il taglio degli stipendi e 2) l’uccisione di bambini e teenager da parte di Israele. Questo secondo argomento creerà sicuramente disappunto e verrà attaccato brutalmente dalle organizzazioni sioniste, se questo articolo verrà letto, come già successo per altri lavori che sono stati oggetto di attacchi rabbiosi ma non destrutturanti di quanto affermato, visto che scriviamo solo ciò che è dimostrabile e documentabile.

Per quanto riguarda il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza in carico al governo di Ramallah, taglio dovuto al tentativo di fiaccare Hamas accrescendo a dismisura la povertà nella Striscia, sperando in una qualche forma di sollevazione pro Anp, l’effetto si è dimostrato un boomerang dal punto di vista politico e un baratro dal punto di vista morale. A nessuno sfugge l’altissimo livello di vita di Abu Mazen e dei suoi figli, ricchi imprenditori probabilmente per loro proprio merito, ma tacciati di corruzione da tutti gli intervistati. L’amaro senso di tradimento probabilmente porta a queste risposte esasperate, ma queste sono comunque le risposte offerteci. Gaza è assediata, Israele tra i tanti crimini passati sotto silenzio commette anche quello di irrorare di glifosato le coltivazioni gazawe per impedirne il raccolto, e l’Autorità palestinese invece di sostenere i propri figli li getta in un’ancor più nera miseria! Questo non è percepito da nessuno dei miei interlocutori come un errore politico, ma da tutti come un crimine commesso contro i fratelli gazawi per un odio contro Hamas tanto cieco da favorire Israele. Questo dicono i Gazawi.

Agli occhi di un occidentale che non conosce la cultura palestinese tutto questo sembra confliggere col fatto che la Striscia sia piena di Università (nessuna completamente gratuita) e che le università siano piene di studenti e studentesse i quali vengono spessissimo da famiglie in cui si sopravvive grazie ai sussidi dell’Unrwa. Studenti che solo in bassa percentuale hanno partecipato alle manifestazioni al confine ma che plaudono alla grande marcia e che mostrano l’icona dell’infermiera Razan Al Najjar, o dell’artista Mohammed Abu Amr che scolpiva sulla sabbia, o del giornalista Yaser Murtaja, tutti resi martiri da Israele. Studenti che pur non partecipando direttamente alla grande marcia, plaudono alla geniale idea degli aquiloni che è stata capace di mettere in crisi il potentissimo apparato bellico israeliano. Si riconoscono in quelle figure di combattenti disarmati capaci di far vacillare l’immagine di Israele come onnipotente e danno il loro sostegno ideale anche se raramente hanno raggiunto i manifestanti al confine.

Uno dei miei intervistati, padre di alcuni studenti e prima persona che mi ha mostrato con un’espressione vagamente divertita l’apparato elettrico alternativo che illumina la sua casa, lo stesso che mi ha fatto avere come regalo un paio di quei bellissimi aquiloni, che difficilmente potrò riportare in Italia, è uno dei tanti dipendenti legati a Fatah e rimasto senza stipendio per la “lungimiranza” dell’Anp. Tra le tante cose dette, mi dice una frase che riporto testualmente: “Hamas non brilla per creatività, sono i nostri giovani la nostra forza e questo Israele lo sa e per questo li uccide”. E’ lapidaria e terribile la sua affermazione, la contesto. Statistiche alla mano non ho difficoltà a contestarla, non perché voglia difendere Israele, conosco bene la gravità dei suoi crimini e l’ancora maggior gravità del fatto che questi restino regolarmente impuniti, ma mi sembra un’affermazione impropria. Gli faccio notare che per ragioni statistiche, essendo la popolazione gazawa mediamente giovane dato l’alto numero di figli che arricchisce ogni famiglia, è normale che vengano uccisi più ragazzi giovani che popolazione matura. Non è così. Alla conversazione partecipa uno dei medici degli ospedali che hanno fatto miracoli per provare a salvare vite e arti e mi chiede se ricordo che durante la mia visita nel suo ospedale ben tre ragazzi erano stati colpiti ai genitali e resi sterili oltre che invalidi. Mi dice che altri hanno avuto lo stesso destino e che sono troppi perché il fatto possa essere considerato pura coincidenza. Israele ha paura della crescita demografica del popolo palestinese, questo lo sappiamo, ma questo non può significare lo sterminio scientifico di una generazione. Sinceramente mi sembra troppo e insisto nella mia posizione.

Ho davanti a me un uomo che ha conosciuto (come il 90% degli uomini palestinesi) le galere israeliane da quando aveva 16 anni. Arrestato mai per crimini, ma per la sua militanza in Fatah, cosa che ora forse non succederebbe più. Un uomo che la mentalità israeliana e il cinismo scientifico che l’accompagna li conosce bene. Accanto a lui ho un medico ospedaliero che nei suoi tanti anni di professione ha avuto non solo malati ma molti feriti dall’esercito detto il più morale del mondo. Anche lui mi dice che c’è grande scientificità, perfettamente mirata, nei crimini israeliani. Ho di fronte a me anche dei ragazzi che ancora non hanno avuto modo, per fortuna, di conoscere le galere israeliane ma che mi dicono di aver perso un gran numero di amici della loro età nei bombardamenti del 2014. Mi viene ricordato un episodio avvenuto in Cisgiordania negli anni “80 in cui vennero rese sterili circa duemila ragazze. Quattro conti e viene fuori che in un colpo solo Israele ha ridotto la popolazione potenziale di circa 16.000 persone che oggi, per effetto del moltiplicatore generazionale ne avrebbero probabilmente fatte nascere già almeno altre 32.000.

E’ spaventoso oltre che inquietante. Faccio ancora qualche obiezione ma poi mi faccio qualche conto veloce. Prendo in esame solo i due massacri maggiori degli ultimi dieci anni: Piombo fuso e Margine protettivo. Non so quanti diciottenni o ventenni o venticinquenni siano stati ammazzati ma so che sono stati la maggioranza dei circa 1450 morti di piombo fuso e dei 2260 di margine protettivo. So però quanti bambini sono stati ammazzati. Ben 318 nei soli 21 giorni del primo massacro e 570 più un migliaio resi invalidi a vita nei 49 giorni del secondo.

A parere dei miei intervistati tutto questo fa parte della lungimiranza strategica, tanto intelligente quanto cinica, dei governanti israeliani. Non solo di Netanyahu, ma di tutti i governanti israeliani e mi invitano a ricordare che molti di loro erano stati feroci terroristi prima della nascita dello Stato di Israele di cui poi sarebbero diventati onorevoli statisti.

Mi ripetono che questo rientra nella mentalità israeliana e che nessuna uccisione di palestinese in grado di procreare è casuale. “Sono i nostri giovani la nostra forza e per questo Israele li uccide” ripete il mio ospite. Però, con uno spirito assolutamente palestinese, aggiunge “ma non potrà ucciderli tutti e gli interessi che sostengono Israele non saranno eterni. Assaggia la zuppa di verdura che è speciale”. Si cambia registro così, qui a Gaza. Se non fosse così fosse sarebbero stati assuefatti e addomesticati. Qualcuno la chiama resilienza.

Mentre scrivo queste riflessioni dalla mia finestra entrano tre cose: l’insopportabile ronzio dei droni al quale non riuscirò mai ad abituarmi, un caldo che fino a poco fa pare abbia toccato i 42 gradi all’ombra e che mi ha tenuta bloccata in casa, e il rumore di clacson misto a tante voci che vengono dal porto. Tra un po’, appena spirerà un po’ di brezza scenderò sulla spiaggia che ho davanti al mio ufficio e che sarà piena di palestinesi in festa. La spiaggetta in cui nel 2014 vennero fatti a pezzi 4 bambini mentre giocavano a pallone. Ho sempre pensato si trattasse di crudeltà e sadismo, ma dopo le ultime interviste ho cambiato idea: Israele non ha soltanto bisogno di uccidere, come già scritto alcuni giorni fa, per una sindrome non superata dovuta all’olocausto, Israele ha anche l’obiettivo di uccidere per fermare la crescita del popolo palestinese. Lucidamente, scientemente, criminalmente.

Ripensando ad alcuni articoli di Gideon Levy, una delle firme più prestigiose del giornalismo israeliano progressista, mi rendo conto che Levy questo orrendo obiettivo lo denuncia da tempo. Ma solo l’impatto vis à vis con chi è direttamente colpito da questo progetto mi ha dato consapevolezza della sua mostruosità. Se Israele si salverà da se stesso sarà anche perché quella piccola minoranza di cui Gideon Levy fa parte e che rappresenta la parte sana del paese, riuscirà ad ostacolare questa deriva razzista o peggio.

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.”

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.




Le sei cose che mostrano le truppe palestinesi nel reprimere le proteste a Ramallah

Haaretz

Amira Hass

18 giugno 2018,

La violenta repressione, mercoledì scorso, da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di una manifestazione di protesta contro le politiche restrittive dell’ANP nei confronti di Gaza dimostra:

  1. Che l’ANP ed il partito alla sua guida, Fatah, non intendono tenere elezioni parlamentari

Chiunque abbia interesse a svolgere libere elezioni non reprime brutalmente una piccola manifestazione con modi che coniugano i metodi dell’occupazione israeliana con quelli delle forze di sicurezza siriane ed egiziane. Chiunque voglia vincere le elezioni non ricorre a metodi che repellono alla maggioranza della propria popolazione, allontanandola ancor più dalla sua dirigenza non eletta.

2.     Che il movimento di Fatah si aggrappa con tutte le sue forze al misero potere che gli deriva dal gestire l’ANP sotto il feroce regime militare israeliano.

Altrimenti si sarebbe pubblicamente e immediatamente dissociato dal modo in cui le agenzie di sicurezza palestinesi hanno strumentalizzato i giovani identificati come membri di Fatah. (Si è detto che almeno alcuni provenivano dal campo profughi Jalazun, come Rami Younes, che scrive sui siti web israeliani Sihah Mekomit e +972. Younes ha partecipato alla manifestazione di mercoledì sera e ne ha riferito agghiaccianti dettagli).

3. Che la paura del presidente palestinese Mahmoud Abbas all’interno del movimento Fatah è molto forte

Ci sono membri di Fatah contrari alla repressione della manifestazione che chiedeva la revoca delle misure punitive imposte da Abbas a Gaza, pur condividendo le critiche rivolte ai manifestanti (per esempio, che minimizzano la responsabilità di Hamas per la situazione a Gaza e il suo sottrarsi ai propri obblighi verso la popolazione civile della Striscia). Questi oppositori all’interno di Fatah restano in silenzio per paura di perdere i loro salari o di essere probabilmente estromessi dalle istituzioni di Fatah, in cui si sentono a casa propria.

4. Che l’ANP è capace di programmare ed organizzare quando vuole farlo, diversamente dall’impressione che hanno gli impiegati nei suoi ministeri

Là regna il caos, la mancanza di pianificazione e organizzazione e lo scarso coordinamento, oltre a una buona dose di apatia.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita in modo straordinario a mettere insieme il lavoro di molte delle proprie istituzioni per scoraggiare potenziali manifestanti dal farsi vedere, e poi a reprimere e punire quelli che non si erano lasciati intimorire. Queste istituzioni includono il governo dell’ANP, l’ufficio del presidente, le forze di sicurezza ufficiali e anche poliziotti in borghese – attivisti di Fatah o qualcuno che finge di esserlo. Tutti hanno lavorato all’unisono come in un macchinario ben oliato.

Sono stati tutti preceduti da redattori, artisti grafici e tipografie che hanno preparato poster giganti appesi in piazza Manara a Ramallah, inneggianti all’ANP ed al suo sostegno finanziario alla Striscia di Gaza, affermando al contempo che la radice del disastro di Gaza sia stata il “colpo di stato” di Hamas (con riferimento alla presa in carico da parte di Hamas delle agenzie di sicurezza nella Striscia di Gaza nel 2007, in seguito alla vittoria del movimento nelle elezioni parlamentari). I poster contenevano anche una propaganda di bassa lega sul fatto che i manifestanti fossero dipendenti di ONG rimpinguate da denaro estero e lavorassero per un progetto straniero.

Martedì scorso il governo palestinese ha condannato le proteste che si erano già svolte prima di mercoledì sera, sostenendo che spostavano l’attenzione dalla responsabilità dell’occupazione israeliana e di Hamas per la situazione a Gaza. La sera stessa è stata diffusa una dichiarazione pubblica secondo cui, su consiglio del consulente di Abbas per gli affari locali, è stato deciso che le manifestazioni e le proteste sarebbero state vietate fino alla fine del Ramadan e della festa di tre giorni di Id al-Fitr, che è iniziata giovedì notte, per evitare di disturbare le festività e lo shopping festivo.

Quelli che hanno sfidato il divieto si sono scontrati con un forte e variegato contingente di forze di sicurezza palestinesi. Nello stesso momento in cui le forze hanno cominciato a lanciare gas lacrimogeni e granate stordenti, e le squadracce in borghese hanno iniziato a confiscare macchine fotografiche e ad aggredire e arrestare manifestanti, sia uomini che donne, a Nablus si stava svolgendo una manifestazione a sostegno di Abbas. Ma nessuno ha disperso quella manifestazione.

5. Che lo status quo è molto apprezzato dall’ANP

L’accordo di Taba del 1995 con Israele vieta ai servizi di sicurezza palestinesi di operare nell’area B della Cisgiordania – la parte ufficialmente sotto controllo militare israeliano e controllo civile palestinese ( in base agli accordi di Oslo, ndtr.) – a meno che ciò sia concordato con Israele. Gli vieta anche di operare nell’area C, che è sotto il totale controllo militare e civile israeliano. Centinaia di migliaia di palestinesi vivono nelle aree B e C, dove si trovano esposti alla violenza dei coloni ebrei e della polizia ed esercito israeliani. L’accordo di Taba è scaduto 19 anni fa, ma l’ANP continua ad osservarlo e non dispiega le proprie forze di sicurezza per difendere fisicamente il suo stesso popolo. Se lo facesse, chissà quali ritorsioni farebbe Israele, forse cancellerebbe le concessioni alla libertà di movimento di cui godono gli alti dirigenti, oppure i permessi di commercio e di estrazione che loro ed i loro parenti hanno ottenuto.

6. Che il governo palestinese aveva ragione a dire che la protesta spostava l’attenzione dall’occupazione

Questo articolo si occupa della violenta repressione della protesta, invece di dedicarsi al fatto che Israele ha prorogato di altri quattro mesi la detenzione amministrativa della deputata palestinese Khalida Jarrar, che è già stata in prigione un anno senza processo. Non stiamo scrivendo dell’ordine di demolizione emesso per la casa di Latifa Abu Hamid nel campo profughi di Al-Amari. Uno dei suoi figli è sospettato dell’uccisione di un soldato dell’unità Duvdevan, che faceva parte delle forze che hanno attaccato il campo circa un mese fa. Israele non riconosce il diritto dei civili palestinesi a difendersi dalle incursioni armate israeliane. Ancor prima che il figlio compaia davanti ad un tribunale militare, tutta la sua famiglia viene punita.

Provate ad immaginare che cosa accadrà nel piccolo e affollato campo quando l’esercito israeliano vi entrerà con i bulldozer e i carri armati. E chi sarà assente? Le forze di sicurezza palestinesi, quelle stesse che sono state addestrate in Russia e Giordania, Egitto e Romania e dall’FBI e dalle polizie europee e che hanno disperso con la violenza una pacifica protesta in piazza Al-Manara a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I bulldozer, i beduini e la pulizia etnica annunciano la morte della soluzione dei due Stati

Peter Oborne

Venerdì 15 giugno 2018, Middle East Eye

Gli abitanti del villaggio beduino di Khan al-Ahmar temono che la loro comunità in Cisgiordania, da tempo minacciata, possa essere demolita entro pochi giorni.

KHAN AL-AHMAR, Cisgiordania occupata – Ci vogliono circa 30 minuti per andare in macchina da Gerusalemme all’ormai condannata comunità beduina di Khan al-Ahmar, situata sull’autostrada per Gerico in Cisgiordania. Ma non c’è un’uscita sull’autostrada. Dobbiamo parcheggiare in una vicina piazzola, scavalcare la barriera metallica, evitare [di essere travolti dal] veloce traffico in arrivo e poi arrampicarci su un ripido pendio per raggiungere il villaggio.

A Khan al-Ahmar abitano 173 persone, molti sono pastori beduini che vivono nella zona da tempi immemorabili. Ma lo Stato di Israele è determinato a demolire il villaggio per fare spazio all’espansione della vicina colonia di Kfar Adumim.

Tre settimane fa, dopo anni di battaglie legali, il governo ha ricevuto dalla Corte Suprema l’autorizzazione a trasferire i beduini. I giudici hanno stabilito che la demolizione può essere effettuata perché i beduini non hanno le licenze edilizie. Ma questa è una mistificazione: i beduini non hanno modo di ottenere i permessi.

Per quanto riguarda i beduini, adesso a loro non resta che attendere l’arrivo dei bulldozer e dell’esercito israeliano che li portino via.

È stato loro assegnato un nuovo luogo per abitare vicino a una discarica a Gerusalemme est. In questa zona urbana, sulla quale non sono stati consultati, non c’è spazio per pascolare le loro greggi e quasi nessuna prospettiva di altri lavori. In realtà i beduini dicono che il luogo che è stato loro proposto per andarvi ad abitare è maleodorante, contaminato, tossico e inadatto perché vi vivano degli esseri umani.

Sono in viaggio con una guida dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Quando raggiungiamo il villaggio incontriamo Ibrahim Jahalin, un pastore. Sua figlia di 11 anni gioca lì accanto. Che cosa farà, gli domando, quando arriveranno i bulldozer?

Perché mai dovrei andare altrove?”, dice. “Sono nato qui. Loro sono arrivati dopo. Noi non ce ne andremo, qualunque cosa accada. Resteremo qui.”

Continue umiliazioni

Questa minaccia di trasferimento è solo l’ultima di una serie di umiliazioni inflitte dagli israeliani ai beduini palestinesi.

Jahalin appartiene ad una tribù espulsa dal deserto del Negev dall’esercito israeliano negli anni ’50. Si sono spostati dove ora c’è la vicina colonia di Kfar Adumim, ma sono stati espulsi anche di là.

Israele nega ai beduini l’accesso ai servizi pubblici e alle infrastrutture di base, come fa con la maggior parte dei palestinesi che vivono nell’area C della Cisgiordania [più del 60% della Cisgiordania, sotto completo controllo israeliano in base agli accordi di Oslo, ndtr.]. Non hanno accesso alla rete elettrica. Nel 2015 l’amministrazione civile israeliana ha confiscato 12 pannelli solari che erano stati donati ai beduini, anche se poi sono stati restituiti in seguito ad una causa legale.

Non vi è accesso all’autostrada Gerico-Gerusalemme, anche se si trova a circa 100 metri di distanza e mentre parliamo possiamo sentire le automobili che passano.

Ibrahim mi dice: “Ci vogliono dieci minuti per arrivare a Gerico in autostrada. Dato che noi non siamo collegati alla strada, ci impieghiamo mezz’ora.”

Questo isolamento ha conseguenze tragiche. Ibrahim ha perso la sua giovane figlia Aya per un incidente domestico. Attribuisce la responsabilità di ciò ai ritardi nel portarla in ospedale. “È morta, ma poteva essere salvata”, dice.

Io e Ibrahim chiacchieriamo nel cortile della vicina scuola, ascoltando i bambini che cantano nell’aula. E’ previsto che anche questo sito – che ospita oltre 150 alunni, molti dei quali delle comunità vicine – venga demolito.

Parlo a Ibrahim della crescente collera in Gran Bretagna e in Occidente riguardo ai piani di demolizione del suo villaggio. Boris Johnson, il ministro degli Esteri britannico, è “profondamente preoccupato”, e 100 deputati hanno scritto all’ambasciatore israeliano avvertendo che la demolizione potrebbe violare il diritto umanitario internazionale.

Ma i beduini sono comprensibilmente scettici riguardo a quest’ultima manifestazione di preoccupazione da parte dell’Occidente. Tutti sono troppo abituati alle dichiarazioni di sostegno dell’Occidente che non contano niente. Il libro dei visitatori del villaggio suona come un appello di persone importanti. Alistair Burt, sottosegretario agli Esteri per il Medio Oriente, il suo predecessore Tobias Ellwood, Ed Milliband, ex capo del partito Laburista, Valerie Amos, sottosegretaria delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e coordinatrice degli aiuti di emergenza, Martin Shulz, ex capo del partito socialdemocratico tedesco, Emily Thornberry, ministra ombra degli Esteri [del partito Laburista, ndt.], William Hague, ex ministro degli Esteri, sono tra i 60 nomi presenti nel libro. Sono stati tenuti incontri all’ONU, al Parlamento britannico, al Parlamento europeo, in Svezia, in Norvegia. Tutto ciò non ha prodotto alcun effetto su Israele.

Se Israele procede con la demolizione, allora sarà un momento importante nella storia dell’occupazione della Cisgiordania. Nei decenni scorsi Israele ha condotto una politica che, in gran parte, ha evitato il trasferimento forzato della popolazione.

Le autorità hanno invece creato condizioni terribili per i palestinesi, nella speranza che alla fine se ne andassero di propria spontanea volontà. Adesso stanno optando per la deportazione: di fatto la sostituzione di un gruppo etnico con un altro attraverso la violenza.

Questa è pulizia etnica.

Con le parole di B’Tselem: “Questa non è una volgare o insignificante violazione del diritto umanitario internazionale, ma una violazione che costituisce un crimine di guerra.”

Cambio di passo’ nell’occupazione

Dopo la nostra visita a Khan al-Ahmar siamo ritornati sulla strada e siamo saliti alla vicina colonia di Kfar Adumim. Abbiamo costeggiato piccoli negozi, uno studio fotografico ed una scuola elementare. In plateale contrasto con il nostro viaggio al villaggio beduino, l’accesso è facile lungo strade asfaltate. I coloni vivono in confortevoli case distanziate tra loro, con vista spettacolare su un panorama dalle reminiscenze bibliche.

Parcheggiamo in cima alla collina e guardiamo giù verso il villaggio beduino. Mi sono chiesto: che cosa vedono i coloni quando guardano i beduini laggiù? Dei criminali? Dei terroristi? Una specie subumana di cui si può disporre a proprio piacimento?

Ibrahim mi ha parlato di quando alcuni coloni di Kfar Adumim si sono schierati con lui. Sono scesi nella notte a dormire nel suo accampamento in modo da poter essere d’aiuto se arrivavano i bulldozer. Un’ombra di umanità. Ma sono stati i coloni di Kfar Adumim a inviare la petizione per chiedere la distruzione della scuola del villaggio.

Ibrahim mi ha detto: “Temo che accadrà in questo fine settimana, quando c’è la festa per la fine del Ramadan.”

Sembra inevitabile che questa comunità verrà cacciata e diventerà un’altra vittima dell’occupazione. E che sarà un altro passo da gigante verso la creazione di un blocco di colonie urbane che separerà la parte sud e quella nord della Cisgiordania.

Significherà anche un cambio di passo nell’occupazione, in quanto Israele è orientato ad una politica di trasferimento forzato di altre comunità. E la soluzione dei due Stati apparirà sempre più come un sogno infranto.

Peter Oborne nel 2017 ha vinto il premio come miglior commentarista/blogger e nel 2016 è stato nominato giornalista freelance dell’anno del premio per i media online per gli articoli che ha scritto per Middle East Eye. E’ stato anche premiato come editorialista della stampa britannica dell’anno 2013. Nel 2015 si è dimesso da capo editorialista politico del Daily Telegraph. I suoi libri includono: ‘The triumph of the political class’ [Il trionfo della classe politica], ‘The rise of political lying’ [La nascita delle menzogne in politica], ‘Why the West in wrong about nuclear Iran’ [Perché l’Occidente si sbaglia sul nucleare iraniano].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Giornalisti picchiati, macchine fotografiche distrutte: la polizia palestinese disperde la protesta anti-Abbas a Ramallah

Amira Hass, Jack Khoury

14 giugno 2018, Haaretz

Decine di persone picchiate e arrestate, tra cui giornalisti stranieri, nella repressione delle manifestazioni contro le sanzioni economiche di Abbas a Gaza

La polizia antisommossa dell’Autorità Nazionale Palestinese ha sciolto con la forza una manifestazione a Ramallah mercoledì sera, imponendo il divieto di protesta in nome della festa di Id al-Fitr, che segna la fine del mese di digiuno del Ramadan.

La polizia ha arrestato giornalisti e decine di dimostranti, ha rotto le telecamere e picchiato molti dei manifestanti.

I dimostranti chiedevano al presidente palestinese Mahmoud Abbas di rimuovere le sanzioni che ha imposto a Hamas e ai residenti della Striscia di Gaza, dopo che Hamas ha fallito nel portare avanti un accordo di condivisione del potere.

Le forze di sicurezza palestinesi hanno sparato gas lacrimogeni, granate stordenti e sparato proiettili in aria. Hanno confiscato fotocamere e smartphone, ne hanno rotti alcuni e hanno ordinato ai giornalisti di non intervistare i dimostranti. La polizia ha arrestato giornalisti stranieri e palestinesi e ha picchiato un gran numero di manifestanti. Anche molti cittadini israeliani hanno partecipato alla protesta.

Nonostante la violenta repressione della protesta, un piccolo gruppo di manifestanti è riuscito a sfuggire alla polizia e si è radunato nelle strade secondarie, scandendo slogan come: “Disgrazia e vergogna” e “Con anima e sangue ti riscatteremo, Gaza.

I corrispondenti riferiscono che da sei a quindici persone sono state ricoverate in ospedale per ferite tra cui l’inalazione di gas lacrimogeno. Decine di persone sono state arrestate; un rapporto porta il numero a 80, tra cui alcune giovani donne. I giornalisti stranieri presi in custodia sono stati rilasciati durante la notte.

Mercoledì la polizia palestinese ha disperso una protesta simile a Nablus.

Martedì scorso, l’Autorità Nazionale Palestinese ha vietato le dimostrazioni fino alla fine dei tre giorni di festeggiamenti per Id al-Fitr, che segnano la fine del mese di digiuno del Ramadan. L’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato che la decisione era stata presa per evitare qualsiasi interruzione alle celebrazioni festive. L’ultimo giorno del digiuno è giovedì e la festa inizia la sera, dopo il tramonto.

Mercoledì gli organizzatori, un gruppo di personaggi pubblici e di attivisti sociali che hanno aperto la pagina Facebook “Le sanzioni contro Gaza sono un crimine”, hanno annunciato che avrebbero comunque svolto la manifestazione disobbedendo al divieto. Prima di quest’ultima dimostrazione, una dichiarazione rilasciata dagli organizzatori ha riferito che essi sono stati oggetto di una campagna diffamatoria sui social media, che si diceva contenesse minacce e intimidazioni e li aveva presentati come agitatori esterni.

La prima di una serie di proteste contro le sanzioni di Abu Mazen a Gaza si è tenuta domenica sera con circa 1.500 partecipanti. Una seconda protesta molto più piccola si è tenuta martedì pomeriggio.

Quando mercoledì i manifestanti sono arrivati a piazza Manara a Ramallah, sono stati accolti da un gran numero di poliziotti palestinesi in tenuta antisommossa, con uniformi nere e mimetiche, armati di fucili, gas lacrimogeni, granate assordanti e manganelli. La polizia ha cercato di impedire ai manifestanti di riunirsi e ha ordinato a tutti di disperdersi e di lasciare immediatamente la strada.

I testimoni dicono di aver visto la polizia afferrare un manifestante, picchiarlo e condurlo a un veicolo della polizia, mentre altri ufficiali hanno cercato di sgomberare la strada principale dal resto dei manifestanti. Poiché non ci sono riusciti, i poliziotti hanno iniziato a sparare gas lacrimogeni e granate stordenti contro i manifestanti e i molti passanti che riempivano le strade la sera dopo la fine della giornata di digiuno del Ramadan.

Forze di sicurezza in borghese hanno picchiato i manifestanti e anche arrestato alcuni di loro nelle strade piene di gas lacrimogeni. Dopo che queste misure non sono riuscite a fermare la protesta, un terzo gruppo è apparso in abiti civili con cappelli da baseball del movimento Fatah. Anche loro hanno picchiato i manifestanti e cercato di disperdere la folla, mentre urlavano slogan a sostegno di Abbas e in memoria di Yasser Arafat.

In risposta all’arresto dei giornalisti, l’associazione della stampa palestinese ha rilasciato una dichiarazione secondo cui i suoi membri non avrebbero pubblicato notizie sul governo dell’Autorità Nazionale Palestinese e le forze di sicurezza fino a nuovo avviso. Hanno invitato il primo ministro palestinese Rami Hamdallah a dimettersi, ritenendolo responsabile della repressione delle proteste. Molti commenti sulla pagina Facebook dell’associazione hanno accusato lo stesso Abbas della decisione di reprimere la protesta. Non è la prima volta che l’Autorità Nazionale Palestinese ha usato una simile violenza per reprimere le proteste e mettere a tacere l’opposizione.

Le proteste erano contro una serie di sanzioni economiche che Abbas ha imposto a Gaza dopo la rottura dell’accordo di riunificazione dello scorso anno. Ad aprile sono stati congelati i salari agli impiegati dell’ANP nella Striscia. I funzionari hanno riferito di piani per estendere ulteriormente queste misure – che hanno aggravato una situazione già disperata di povertà a Gaza – e per interrompere anche il servizio bancario e Internet.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Trovare la verità in mezzo alle menzogne di Israele

Ilan Pappe

30 maggio 2018, The Electronic Intifada,

Una tristezza e una sofferenza immense hanno riempito le strade – un convoglio dopo l’altro di profughi che si fanno strada [verso il confine libanese]. Lasciano i villaggi della loro terra e la terra dei loro antenati e si spostano in una terra straniera, sconosciuta, piena di problemi. Donne, bambini, neonati, asini – tutti in cammino, in silenzio e tristemente, verso nord, senza guardare né a destra né a sinistra.

Una donna non riesce a trovare suo marito, un bambino non riesce a trovare suo padre… Tutto ciò che può camminare si muove, fuggendo via senza sapere che fare, senza sapere dove sta andando. Molti dei loro effetti personali sono sparpagliati lungo i lati della strada; più camminano e più sono esausti, quasi non riescono più a camminare – sbarazzandosi di tutto quello che avevano provato a salvare mentre sono sulla via dell’esilio…

Ho incontrato un bambino di 8 anni che si dirigeva a Nord e conduceva davanti a sé due asini. Suo padre e suo fratello sono morti nella battaglia, e ha perso la madre… Sono passato sulla via tra Sasa e Tarbiha, e ho visto un alto uomo, piegato, che strofinava qualcosa con le mani sul terreno roccioso e duro. Mi sono fermato. Mi sono accorto di una piccola incavatura nel terreno che era stata scavata a mani nude, con le unghie, sotto un ulivo. L’uomo vi ha riposto il corpo di un bambino che era morto nelle braccia di sua madre, e lo ha seppellito con della terra e [coprendolo] con piccole pietre. Poi è tornato indietro sulla strada e ha continuato a dirigersi verso nord, sua moglie camminava curva pochi passi dietro di lui, senza guardare indietro. Mi sono imbattuto in un uomo anziano, che era svenuto su una roccia sul lato della strada, e nessuno dei profughi osava aiutarlo… Quando siamo entrati a Birim, tutti sono corsi, spaventati, nella direzione della valle che guardava a nord, portando i loro bambini piccoli e quanti più abiti potevano. Il giorno dopo sono tornati indietro, perché i libanesi non avevano permesso loro di entrare. Sette bambini sono morti di ipotermia.

Questa commovente descrizione non è stata scritta da un attivista dei diritti umani, un osservatore ONU o un giornalista interessato. E’ stata scritta da Moshe Carmel (militare e politico israeliano, membro del parlamento, ndtr.) e compare nel suo libro Northern Campaigns – pubblicato per la prima volta nel 1949.

[Carmel, ndt] viaggiò per la Galilea a fine ottobre del 1948, dopo aver comandato l’operazione Hiram, in cui le forze israeliane commisero alcune delle atrocità peggiori nella Nakba, la pulizia etnica della Palestina. I crimini furono così gravi che alcuni dirigenti sionisti le descrissero come azioni naziste.

Il libro di Carmel, e decine come esso – libri di brigata, diari, e storie militari – si potevano trovare sugli scaffali delle librerie nelle case di ebrei israeliani dal 1948 in poi. Riesaminarli, a 70 anni di distanza, rivela una verità elementare: sarebbe stato possibile scrivere la “nuova storia” del 1948 senza un solo nuovo documento declassificato, ma semplicemente se si fossero lette queste fonti aperte, come le chiamo io, con una lente non sionista.

L’espressione famosa – e ormai abusata – secondo cui la storia è scritta dai vincitori può essere confutata in molti modi. Un modo è quello di smontare le pubblicazioni dei vincitori in modo da rivelare le menzogne, le falsificazioni e le interpretazioni errate, nonché le loro azioni meno consapevoli.

Una rilettura di queste fonti aperte sulla Nakba, scritte per lo più dagli israeliani stessi, sblocca delle nuove prospettive storiografiche sul quadro generale di quel periodo – mentre i documenti declassificati ci permettono di vedere tale quadro in una più alta risoluzione.

Questo recupero si sarebbe potuto svolgere in qualsiasi momento tra il 1948 e oggi – se gli storici avessero utilizzato la lente critica necessaria per una tale analisi.

Rileggere le fonti aperte, specialmente accostandole alle numerose storie orali della Nakba, rivela la barbarie e la disumanizzazione che hanno accompagnato la catastrofe. La barbarie è comune alle comunità di coloni negli anni della formazione del loro progetto di colonizzazione e può, talvolta, essere oscurata dal linguaggio secco ed evasivo dei documenti militari e politici.

Non intendo con questo sminuire l’importanza dei documenti di archivio. Sono importanti nel dirci cosa è successo. Tuttavia, le fonti aperte e le storie orali sono cruciali per capire il significato di ciò che è accaduto.

Una tale rilettura mette in luce il DNA di colonialismo d’insediamento del progetto sionista e il ruolo della pulizia etnica del 1948 insito in esso.

Disumanizzazione su scala di massa

Prendete ad esempio il passaggio citato da Carmel. Come poteva qualcuno che stava sovrintendendo a tali atrocità scrivere con tale compassione?

L’indizio sta in un’altra frase all’interno della stessa citazione che sembra quasi una digressione: “E poi, mi accorsi di un ragazzo di 16 anni, totalmente nudo, che ci sorrideva mentre gli passavamo accanto (strano, quando l’ho sorpassato non ho saputo dire, a causa della sua nudità, a che popolo appartenesse, e l’ho visto solamente come un essere umano).”

Per un momento totalmente eccezionale, quel ragazzo palestinese è stato umanizzato (all’interno delle parentesi del testo). Tuttavia la disumanizzazione avveniva su una scala che si osserva solo in crimini di massa come la pulizia etnica e il genocidio.

La regola era che i bambini venivano considerati come parte del nemico, che dovevano essere eliminati in nome dello Stato ebraico, o, come la metteva Carmel – un giorno dopo aver terminato il suo tour nella Galilea – in nome della liberazione.

Mandò questo messaggio alle sue truppe: “L’intera Galilea, l’antica Galilea israeliana, è stata liberata tramite la potente e devastante forza dell’IDF [l’esercito israeliano] … Abbiamo eliminato il nemico, lo abbiamo distrutto e lo abbiamo costretto alla fuga … Abbiamo [conquistato] Meiron [Mayrun], Gush Halav [Jish], Sasa e Malkiya … Abbiamo distrutto i nidi del nemico a Tarshiha, Eilabun, Mghar e Rami … I castelli del nemico sono crollati uno dopo l’altro.

Settant’anni dopo la Nakba, la lingua ebraica è uno strumento importante quanto lo è l’accesso agli archivi israeliani chiusi. Il testo ebraico ci dice chiaramente chi era il nemico – il nemico che era fuggito, era stato eliminato ed espulso dai suoi “castelli”.

Queste erano le persone che Carmel aveva incontrato. E per un momento, egli si era commosso per la loro sofferenza.

Redenzione?

Gli elementi discorsivi più importanti in questo tipo di relazioni sono i concetti di liberazione ed eliminazione (shihrur e hisul). Il significato di ciò, in realtà, era un tentativo di indigenizzare gli occupanti della Palestina tramite la de-indigenizzazione dei palestinesi.

Questa è l’essenza di un progetto di colonialismo di insediamento, e il libro di Carmel – e quelli di altri – lo rivelano in pieno. Carmel vedeva l’occupazione del 1948 come una redenzione della Galilea romana.

Questi atti violenti contro i palestinesi avevano molto poco a che fare con il trovare un rifugio dall’antisemitismo.

Il progetto sionista era, ed è ancora, un progetto di de-indigenizzazione della popolazione palestinese e di sua sostituzione con un’altra composta da coloni ebrei. Costituiva, in molti modi, l’implementazione di un’ideologia nazionalista romantica, simile a quella che aveva nutrito i nazionalismi fanatici di Italia e Germania alla fine del XIX secolo e oltre.

Questo collegamento è chiaro in libri che trattano le brigate nell’esercito israeliano. Uno di questi libri, The Alexandroni Brigade and The War of Independence, è un caso esemplare.

La brigata Alexandroni fu incaricata di occupare la maggior parte della costa palestinese, a Nord di Jaffa, per un totale di quasi 60 villaggi. Prima dell’occupazione dei villaggi, le truppe furono istruite sul contesto storico delle loro operazioni. La narrazione fornita dagli ufficiali è ripetuta nel libro in due capitoli. Il primo è intitolato “The Military Past of the Alexandroni Space” (Il passato militare del fronte Alexandroni, ndtr.), e comincia dicendo: “il fronte in cui la brigata Alexandroni combatté nella guerra di indipendenza è unico nella storia militare della regione e di Eretz Israel [il Grande Israele] in particolare.”

Si trattava del Sharon – la costa della Palestina nella narrazione sionista – che è un termine inventato senza radici nella storia. Lo Sharon, come ci dice il libro sulla brigata Alexandroni, era “una terra ricca e alquanto fertile” che “attraeva” gli eserciti durante i loro “viaggi di occupazione” all’interno della terra di Israele. Questo capitolo storico è pieno di racconti di eroismo, dove si sostiene, per esempio, [che, ndt] “quì è dove [il popolo di] Israele, sotto [la guida, ndt] [del profeta] Shmuel aveva affrontato i Filistei”.

Gli ebrei erano sempre svantaggiati nella battaglia contro i loro nemici, ma “allora come oggi, fu lo spirito superiore a far spostare l’equilibrio a favore di Israele.”

Sotto Baibars, il sultano mamelucco, sostiene il libro, lo Sharon fu distrutto come terra agricola e “da allora in poi [lo Sharon] non avrebbe recuperato la sua vitalità economica fino al suo riassestamento con l’immigrazione sionista [aliya]”. Baibars, tra l’altro, era stato là nel 1260. Quindi il libro sulla brigata Alexandroni dice ai suoi lettori che lo Sharon era rimasto senza popolazione per più di 600 anni, che è l’interpretazione sionista della storia al suo meglio.

Durante il periodo ottomano, lo Sharon “era in totale devastazione, pieno di discariche e di malaria”, aggiunge il libro. “Solo con la aliya e l’insediamento ebraico alla fine del XIX secolo, cominciò un nuovo periodo di prosperità [nella storia dello Sharon].”

I sionisti “restituirono” lo Sharon alla sua precedente gloria, e esso divenne una delle aree più ebraiche nell’ “Eretz Israele Mandatario” – come il libro chiama la Palestina quando era amministrata dal mandato britannico.

I villaggi devono essere distrutti”

La pulizia etnica della costa ebraica cominciò mentre la Palestina era sotto il controllo britannico. La Gran Bretagna era, sotto molto aspetti, un alleato cruciale del movimento sionista. Tuttavia non facilitò la colonizzazione della Palestina rapidamente quanto i sionisti avrebbero voluto. Il libro sulla brigata Alexandroni dipinge perciò la Gran Bretagna come un ostacolo a volte disumano per la “redenzione” ebraica.

Lo Sharon aveva ancora [abitanti, ndt] arabi al suo interno. Il libro rappresenta la regione come un’ancora di salvezza per la comunità ebraica, e tuttavia suggerisce allo stesso tempo che la vita ebraica era disturbata dai molti villaggi arabi circostanti.

Era soprattutto la parte orientale dello Sharon ad essere “puramente araba e a costituire il principale pericolo per gli insediamenti ebraici; un pericolo che doveva essere preso in considerazione in qualsiasi pianificazione militare.”

Il “pericolo” fu “preso in considerazione” prima tramite attacchi isolati ai villaggi. Il libro dice che fino al 29 novembre del 1947 il rapporto tra ebrei e palestinesi era buono e che continuò ad essere tale dopo quella data. Tuttavia, una frase successiva nel libro ci dice che “all’inizio del 1948, il processo di abbandono dei villaggi arabi cominciò. Si possono vedere i primi segni di questo nell’abbandono di Sidan Ali (al-Haram) da parte dei suoi 220 abitanti arabi e di Qaisriya da parte dei suoi 1100 abitanti arabi a metà febbraio del 1948.” Ci furono due espulsioni di massa che ebbero luogo mentre le forze britanniche, che avevano la responsabilità di mantenere l’ordine e la legalità, guardavano e non interferivano. Poi “a marzo, con l’inasprirsi dei combattimenti, il processo di abbandono si intensificò.”

L’“escalation” iniziò con l’ attuazione del piano Dalet – un progetto per la distruzione dei villaggi palestinesi. Il libro sulla brigata Alexandroni riporta un riassunto degli ordini emanati dal piano. Gli ordini includevano il compito di “individuare i villaggi arabi di cui ci si doveva impadronire o che dovevano essere distrutti”.

C’erano 55 villaggi, secondo il testo, nell’area occupata in base al Piano Dalet. Lo Sharon ebraico fu quasi completamente “liberato” nel marzo 1948 quando la costa “fu ripulita” dei villaggi arabi, tranne quattro. Nelle parole del libro: “La maggior parte delle zone vicino alla costa furono ripulite dai villaggi arabi, tranne… un ‘piccolo triangolo’ in cui c’erano i villaggi arabi di Jaba, Ein Ghazal e Ijzim – che spiccavano come un pollice dolente, sovrastando la strada Tel Aviv-Haifa; c’erano arabi anche a Tantura sulla costa.”

Un’analisi più profonda di questi testi e di altre fonti aperte getterebbe luce sulla natura strutturale del progetto di colonialismo d’insediamento in corso in Palestina, la Nakba in corso.

La storia della Nakba perciò non è solo una cronaca del passato, ma un’analisi di un momento storico che continua nel tempo dello studioso di storia. Gli scienziati sociali sono lontani dall’avere gli strumenti per occuparsi di “obbiettivi in movimento” – cioè per analizzare fenomeni contemporanei – ma gli storici, così ci viene detto, hanno bisogno di distanza per riflettere e per vedere il quadro completo.

Si potrebbe sostenere che 70 anni dovrebbero offrire una distanza sufficiente, ma d’altro canto, sarebbe simile al tentativo di comprendere l’Unione Sovietica, oppure le Crociate, da parte di contemporanei, e non di storici.

I luoghi della memoria, per usare il concetto di Pierre Nora, così come i passi avanti accademici degli anni recenti, sono stati suscitati non dalla declassificazione in sé, ma dalla loro rilevanza per le lotte contemporanee.

I progetti di storia orale, così come i libri di brigata, sono tutti risorse cruciali e accessibili che penetrano gli autentici e cinici scudi di inganno sionisti, e più tardi israeliani. Aiutano a capire perché il concetto di uno stato coloniale democratico o illuminato è un ossimoro.

La storia approvata di Israele

Una decostruzione della storia approvata di Israele è il miglior modo per sfidare un processo che trasforma le parole: da pulizia etnica a auto-difesa, da furto di terra a redenzione, e da pratiche di apartheid a preoccupazioni per la “sicurezza”.

C’è una percezione, da un lato, che dopo anni di negazione il quadro storiografico sia stato rivelato in giro per il mondo con chiari contorni e colori. La narrativa israeliana è stata messa in discussione con successo sia nel mondo accademico che nello spazio pubblico.

Tuttavia, rimane un sentimento di frustrazione, dovuto all’accesso limitato per gli studiosi, anche israeliani, ai documenti declassificati in Israele, mentre gli studiosi palestinesi non possono nemmeno sperare, nel clima politico contemporaneo, di avervi alcun accesso.

Andare oltre i documenti di archivio sulla Nakba è, perciò, necessario non solo per una migliore comprensione dell’evento. Potrebbe anche essere una soluzione per i ricercatori nel futuro, date le nuove politiche israeliane di declassificazione.

Israle ha chiuso la maggior parte della documentazione del 1948.

Le risorse alternative e gli approcci suggeriti in questo articolo sottolineano diversi punti. Una conoscenza dell’ebraico può essere di aiuto, e la necessità di continuare con i progetti di storia orale è essenziale.

Il paradigma del colonialismo di insediamento rimane anche rilevante per analizzare da capo sia il progetto sionista che la resistenza ad esso. Tuttavia ci sono ancora problemi con l’adattabilità del paradigma – come, per esempio, se possa essere applicato agli ebrei provenienti da paesi arabi che si sono spostati in Palestina – e questi dovrebbero essere ulteriormente esplorati.

Ma più di qualsiasi cosa dobbiamo insistere che l’impegno per la Palestina non sia un ostacolo per buoni studi, ma un elemento di potenziamento per essi. Come scrisse Edward Said: “Dove sono i fatti, tuttavia, se non radicati nella storia, e poi ricostituiti e recuperati da attori umani mossi da qualche narrativa storica percepita o desiderata o sperata, il cui scopo futuro è quello di ristabilire la giustizia per gli oppressi?”

La giustizia e i fatti, le posizioni morali, l’acume professionale e l’accuratezza accademica non dovrebbero essere messi l’uno davanti all’altra ma intesi, piuttosto, come tutti elementi che contribuiscono ad un’attività storiografica integra. Pochi progetti storiografici hanno bisogno di un tale approccio integrativo come la ricerca sulla Nakba in corso.

Autore di numerosi libri, Ilan Pappe è professore di Storia e direttore del ‘European Centre for Palestine Studies’ all’Università di Exeter.

(Trad. di Tamara Taher)

 




Le donne in prima linea rischiano la morte per i loro diritti

Isra Saleh el-Namey

9 giugno 2018, Electronic Intifada

Islam Khreis ha recentemente lanciato qualche pietra contro le truppe israeliane.

“Queste sono giornate storiche”, ha detto la ventottenne abitante di Gaza. “Stiamo dicendo al mondo intero che non abbiamo mai dimenticato il nostro legittimo diritto al ritorno nei nostri villeggi e città che ci hanno rubato.”

Lanciare pietre è un semplice atto di resistenza per i palestinesi. È un modo simbolico di affrontare uno dei Paesi più militarizzati del mondo.

È una tattica che è stata usata da alcuni partecipanti alle proteste della ‘Grande Marcia del Ritorno’, che chiedeva che i palestinesi potessero tornare ai villaggi e alle città da cui le forze sioniste li espulsero nel 1948.

Anche se le fotografie di palestinesi che lanciano pietre con le fionde in genere mostrano giovani uomini, Khreis era tra le molte donne che lo hanno fatto. In effetti ha svolto ogni tipo di attività. Ha aiutato a prestare i primi soccorsi ai manifestanti feriti dai cecchini israeliani e, come studentessa di giornalismo all’università Al-Aqsa di Gaza, ha fatto anche interviste ai manifestanti, benché, in quanto non accreditata, lo ha fatto senza avere la protezione derivante da scritte specifiche sui suoi indumenti.

Khreis prova un sentimento di solidarietà con le persone che si sono avventurate vicino alla barriera di separazione tra Gaza e l’attuale Israele. Più di 100 manifestanti disarmati sono stati uccisi da Israele da quando è iniziata la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo.

“Il mio cuore si spezza quando vedo un giovane cadere a terra dopo essere stato colpito dai proiettili dei cecchini israeliani”, ha detto Khreis. “Questo è il risultato dell’ingiusto assedio imposto a Gaza. Se quei giovani avessero un lavoro decente, una buona educazione, servizi essenziali e libertà di movimento, non dovrebbero marciare verso la morte.”

Ovviamente anche molte donne e ragazze sono state ferite durante le proteste.

Una ragazzina, Wesal al-Sheikh Khalil, è stata uccisa mentre partecipava alla manifestazione il 14 maggio. E all’inizio di giugno l’infermiera ventunenne Razan al-Najjar è stata colpita a morte mentre aiutava a evacuare e curare i feriti.

“Un chiaro messaggio”

Mariam Mattar, di 16 anni, è stata colpita ad una gamba durante le recenti proteste. Stava sventolando una bandiera palestinese.

“Ho perso conoscenza”, ha raccontato a The Electronic Intifada. “Quando mi sono svegliata, ero in un letto d’ospedale.”

Nonostante la ferita, Mariam approva in pieno le proteste. “Vogliamo mandare un chiaro messaggio al mondo intero”, ha detto. “Il popolo palestinese sogna il giorno in cui potrà tornare alle proprie case. Speriamo che giunga presto.”

L’ampio uso dei gas lacrimogeni da parte di Israele – un’arma chimica che è stata lanciata sui manifestanti dai droni – ha colpito anche molte donne.

Amani Abu Jidian è andata alle recenti manifestazioni – che si tenevano normalmente di venerdì – con i suoi figli.

“I miei due figli hanno insistito per andare ogni venerdì”, ha detto. “So che è pericoloso, quindi per essere sicura che loro restassero al sicuro e non si avvicinassero troppo [alla barriera], li ho accompagnati mentre si avvicinavano al confine. Non ho smesso di sorvegliarli.”

L’11 maggio Abu Jidian era all’interno di una delle tende costruite a supporto delle proteste, quando l’hanno attaccata coi gas lacrimogeni.

“Mi sono sentita soffocare”, ha detto.

Insegnare le tradizioni

Anche se le tende non forniscono una reale protezione, si sono dimostrate importanti luoghi di aggregazione.

Maryam Abu Zubaida, di 63 anni, preparava i pasti per i manifestanti distribuiti nelle tende. Questi comprendevano piatti tradizionali come il maftoul – couscous palestinese – e la sumaghiya, uno stufato di carne di bue e ceci.

Quando si recava nelle tende, cantava canzoni nazionali e ricamava, per aiutare i manifestanti.

“È un bel modo per me di passare il tempo coi miei amici”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. “E nello stesso tempo facciamo un buon lavoro di insegnamento delle nostre tradizioni alle generazioni più giovani per conservarle nel futuro.”

Un giorno Maryam ha portato la sua nipotina Farah di 7 anni in una tenda. Recandosi là, Farah ha imparato canzoni come “Zareef al-Tool”, un lamento per le città e i villaggi che i palestinesi furono costretti a lasciare nel 1948.

“Mi piace quando finisco le lezioni e mia nonna accetta di portarmi con lei alla tenda”, ha detto Farah. “Là mi sono divertita molto.”

Quando Israele ha attaccato le manifestazioni, le donne hanno curato i feriti. Le uccisioni di Razan al-Najjar e, prima di lei, di Mousa Abu Hassanein, hanno messo in evidenza i rischi che corrono i medici.

Anwar Mohammed, un’infermiera di 26 anni, ha prestato i primi soccorsi ai manifestanti colpiti.

“Il nostro lavoro è stato molto impegnativo nelle scorse settimane”, ha detto. “Ci siamo occupati di un gran numero di vittime.”

Mohammed ha lavorato in un ospedale da campo, ma a volte le è stato chiesto di avvicinarsi alla barriera di confine per fornire assistenza di emergenza.

“La pressione e lo stress cui eravamo sottoposti è stato enorme, soprattutto durante le proteste del venerdì”, ha aggiunto.

Il coraggio che ha dimostrato le è valso un notevole rispetto.

“Era una novità per i manifestanti vedere infermiere donne in prima linea”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. Ci esponevamo al pericolo e aiutavamo a salvare vite umane. Ma non c’ è voluto molto perché i manifestanti si abituassero a noi. Ascoltavano le nostre istruzioni e vi si sono attenuti.”

Isra Saleh el-Namey è giornalista a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La Grande Marcia del Ritorno: il massacro dei cecchini a Gaza

Richard Falk

10 giugno 2018, Global Justice in the 21st century

Nessun paese agirebbe con maggior moderazione di Israele”, Nikki Haley, Ambasciatrice USA alle Nazioni Unite.

Nota preliminare: Il massacro dei cecchini a Gaza in risposta alla Grande Marcia del Ritorno è un’altra pietra miliare nella resistenza palestinese e un ennesimo terrificante episodio nella storia dell’apartheid israeliano di violenza eccessiva e crudele, un sequel vergognoso di crimini per i quali non esiste un possibile tribunale giudicante che renda giustizia alle vittime. L’articolo che segue consiste nella giustapposizione di notizie, del bruciante editoriale di un giornalista israeliano coraggiosamente intransigente, Gideon Levy, e di un ampio e brillante commento del mio amico Jim Kavanaugh. L’articolo è dedicato alla memoria di Razan al-Najjar, la coraggiosa paramedica di 21 anni colpita a morte mentre assisteva i manifestanti palestinesi feriti più o meno vicino alla recinzione di Gaza. Questa giovane donna incarna la purezza della resistenza non violenta ed eroica, un’identità a cui è stata data profondità storica grazie alla sua gioia di vivere e al supremo sacrificio impostale dalla brutalità di un cecchino.

Si presume che la leadership politica e i comandanti militari israeliani abbiano scelto una tale esibizione di violenza eccessiva e vendicativa per un chiaro obiettivo politico, che rimarrà segreto. Sembrerebbe voler sfruttare il sostegno illimitato della presidenza Trump e una situazione politica regionale più che favorevole nella loro storia, ma ci si può ancora chiedere “a quale scopo?” Per me l’ipotesi migliore è che l’azione sia stata progettata per convincere la gente di Gaza, più che Hamas, che la resistenza, e in particolare la resistenza disarmata, è inutile. Senza un piano diplomatico e con il processo delle annessioni che procede senza ostacoli, Israele profitterebbe del riconoscimento palestinese che la lotta è finita e che i palestinesi hanno perso. La Grande Marcia del Ritorno è stata una sfida e un rifiuto ad ammettere la sconfitta, senza dubbio irritando Israele, e infliggendo una grande sconfitta nell’altra guerra: la Guerra di Legittimazione combattuta per conquistare i cuori e le menti sulla base di un elevato fondamento morale e politico.

Insomma, dobbiamo capire che il problema di vincere la Guerra di Legittimazione è principalmente una lotta per far sì che la verità venga ascoltata, venga compresa in tutte le principali questioni in campo. La legge e la morale sono dalla parte delle richieste palestinesi, ma questo si è sinora dimostrato politicamente irrilevante in quanto la geopolitica e le capacità militari pendono fortemente dalla parte di Israele. Può la resistenza palestinese, rafforzata da un crescente movimento di solidarietà globale, superare il vantaggio israeliano? Il tempo lo dirà. Finora le associazioni dei media si sono schierate con Israele, ed è un campo di battaglia nella Guerra di Legittimazione in cui i palestinesi hanno sinora sostanzialmente fallito.]

(Traduzione di Luciana Gagliano)