Il processo di Ahed al-Tamimi inizia a porte chiuse, mentre l’avvocatessa accusa il tribunale in quanto “illegale”

MEE ed agenzie

Martedì 13 febbraio 2018,Middle East Eye

Se condannata, la diciassettenne rischia una lunga condanna detentiva, dopo che un video l’ha mostrata mentre schiaffeggiava un soldato israeliano.

Martedì un tribunale militare israeliano ha prolungato la detenzione di una ragazza palestinese filmata lo scorso dicembre mentre schiaffeggiava e prendeva a calci due soldati israeliani fuori dalla sua casa.

Il caso di Ahed al-Tamimi, che lo scorso mese ha compiuto 17 anni in prigione, ha conquistato l’attenzione dei media internazionali ed è diventato una specie di simbolo per i sostenitori della Palestina.

Il giudice ha aggiornato la seduta all’11 marzo.

Martedì il processo si è svolto a porte chiuse, nonostante una richiesta dell’avvocatessa di Tamimi perché ai media fosse consentito assistere.

Il giudice ha ordinato che i giornalisti venissero fatti uscire dall’aula, stabilendo che un processo pubblico non sarebbe stato nell’interesse di Tamimi, che viene giudicata da minorenne.

Un gran numero di giornalisti locali ed internazionali era presente per informare sul processo, ma solo ai membri della famiglia è stato consentito di rimanere nell’aula, ed è stato chiesto di andarsene anche ai diplomatici presenti.

Mentre in Israele i processi a minori nelle corti militari si tengono in genere a porte chiuse, la legale di Tamimi, Gaby Lasky, ha sostenuto che, poiché le precedenti udienze sono state aperte al pubblico, il processo dovesse continuare così.

Sanno che le persone fuori dal tribunale militare di Ofer sono interessate al caso di Ahed, sanno che i suoi diritti sono stati calpestati e che il suo processo non avrebbe dovuto aver luogo,” ha detto Lasky ai giornalisti, dopo che è stata respinta la sua obiezione alla decisione del giudice di tenere il processo a porte chiuse.

Così il modo per tenerlo nascosto a tutti è chiudere le porte e non consentire che la gente stia in tribunale per l’udienza,” ha aggiunto.

Secondo Lasky il pubblico ministero ha chiesto più tempo per preparare una risposta ed è stata fissata una nuova data, l’11 marzo.

Il processo a porte chiuse è durato un paio d’ore prima di essere aggiornato.

Lasky ha detto di aver sostenuto che il processo non dovrebbe continuare perché l’occupazione israeliana della Cisgiordania ed il suo sistema giudiziario lì sono illegali.

Ha aggiunto che presenterà una nuova richiesta per ottenere l’apertura al pubblico del processo.

Tamimi è arrivata al tribunale militare di Ofer, nei pressi di Gerusalemme nella Cisgiordania occupata, vestita con una giacca da detenuta con mani e piedi incatenati, sorridendo appena mentre i giornalisti la fotografavano.

Suo padre Bassem al-Tamimi l’ha salutata con la mano dal pubblico, gridando “sii forte, vincerai”. Dopo che la seduta è stata aggiornata ha detto ai giornalisti che “la presenza in tribunale di persone, giornalisti, consoli, diplomatici, osservatori e giuristi, è molto importante perché le donne [Ahed e sua madre, anch’essa incarcerata, ndt.] siano al sicuro e ci dà la sensazione che quelli che sono in tribunale siano al sicuro.”

Ahed al-Tamimi è stata acclamata come un’eroina dai palestinesi, che la vedono come una che resiste coraggiosamente all’occupazione israeliana della Cisgiordania.

Gli israeliani accusano la sua famiglia di utilizzarla come una pedina in provocazioni orchestrate ad arte.

È stata incolpata di 12 capi di imputazione, compresa l’aggressione, e, se condannata, potrebbe dover affrontare un lungo periodo detentivo. Le imputazioni riguardano gli episodi nel video, che è diventato virale sulle reti sociali, e cinque altri incidenti. Includono il lancio di pietre, l’incitamento e le minacce.

Il video sarebbe stato girato con un telefonino il 15 dicembre davanti alla casa degli al-Tamimi. Non mostra nessun serio danno provocato ai soldati.

Il 19 dicembre suo padre Bassem ha scritto su Facebook che la figlia stava reagendo dopo che il 15 dicembre i soldati israeliani avevano sparato a suo cugino, Mohammed al-Tamimi, mentre stava protestando contro la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

Anche la madre di Tamimi, Nariman, e la cugina Nour, di 20 anni, sono andate a processo lo scorso martedì.

È stato ordinato che Tamimi e sua madre siano trattenute in arresto fino alla fine del processo, mentre sua cugina è stata rilasciata su cauzione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il “nuovo antisemitismo”

Neve Gordon

4 gennaio 2018, London Review of Books

Poco dopo lo scoppio della Seconda Intifada nel settembre 2000 sono diventato attivista del movimento politico ebreo-palestinese chiamato “Ta’ayush”, che conduce un’attività non violenta diretta contro l’assedio militare israeliano della Cisgiordania e di Gaza. Il suo obiettivo non è solo protestare contro le violazioni dei diritti umani da parte di Israele, ma di unirsi al popolo palestinese nella sua lotta per l’autodeterminazione. Per alcuni anni ho passato la maggior parte dei fine settimana con “Ta’ayush” in Cisgiordania; durante la settimana avrei scritto delle loro attività per la stampa locale ed internazionale. I miei articoli attirarono l’attenzione di un professore dell’università di Haifa, che scrisse una serie di interventi accusandomi prima di essere un traditore e un sostenitore del terrorismo, poi più tardi di essere un “Judenrat wannabe” [lett. “Sostenitore del Consiglio ebraico”, cioè gli ebrei che collaborarono con il nazismo, ndt.] e un antisemita. Le accuse iniziarono a circolare sui siti web della destra; ricevetti minacce di morte e parecchi messaggi di odio via mail; all’amministrazione della mia università arrivarono lettere, alcune da parte di importanti finanziatori, che chiedevano che venissi licenziato.

Ho citato questa esperienza personale perché, benché persone all’interno di Israele e all’estero abbiano espresso preoccupazione per il mio benessere e mi abbiano offerto il loro appoggio, la mia sensazione è che nel loro sincero allarme per la mia sicurezza, abbiano perso di vista qualcosa di molto importante riguardo all’accusa di “nuovo antisemitismo” e a chi sia, in ultima analisi, il loro bersaglio.

Ci viene detto che il “nuovo antisemitismo” prende la forma della critica del sionismo e delle azioni e delle politiche di Israele, e si manifesta spesso nelle campagne per rendere responsabile il governo israeliano della violazione delle leggi internazionali, con il recente esempio del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). In questo sarebbe diverso dal “tradizionale” antisemitismo, inteso come l’odio per gli ebrei in quanto tali, l’idea che gli ebrei siano naturalmente inferiori, la convinzione che ci sia una cospirazione mondiale degli ebrei o il controllo ebraico del capitalismo, ecc. Il “nuovo antisemitismo” differisce anche dalla forma tradizionale nelle affiliazioni politiche dei suoi presunti responsabili: mentre siamo abituati a pensare che gli antisemiti siano politicamente di destra, i nuovi antisemiti sarebbero, agli occhi dei loro accusatori, soprattutto politicamente di sinistra.

La logica del “nuovo antisemitismo” può essere formulata come un sillogismo: 1) l’antisemitismo è odio verso gli ebrei; 2) essere ebrei vuol dire essere sionisti; 3) di conseguenza l’antisionismo è antisemitismo. L’errore riguarda la seconda proposizione. Le affermazioni secondo cui il sionismo si identifica con l’ebraismo, o che una simile equazione possa essere fatta tra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, sono false. Molti ebrei non sono sionisti. E il sionismo ha molte caratteristiche che non sono in nessun modo insite o caratteristiche dell’ebraicità, ma piuttosto sono emerse dalle ideologie nazionaliste e del colonialismo di insediamento durante gli ultimi trecento anni. La critica del sionismo o di Israele non è necessariamente il prodotto di un’animosità verso gli ebrei; al contrario, l’odio verso gli ebrei non implica necessariamente l’antisionismo.

Non solo, ma è possibile essere sia sionista che antisemita. La prova di ciò è fornita dalle affermazioni di suprematisti bianchi negli USA e da politici dell’estrema destra in tutta Europa. Richard Spencer, un esponente di spicco dell’alt-right [“destra alternativa”, l’estrema destra statunitense che ha contribuito all’elezione di Trump, ndt.], non ha nessun problema nel definirsi come un “sionista bianco” (“come cittadino israeliano” ha spiegato a un intervistatore della televisione israeliana Channel 2, “che ha un senso di appartenenza ad una Nazione e ad un popolo, alla storia e l’esperienza del popolo ebraico, lei dovrebbe avere rispetto per uno come me, che prova gli stessi sentimenti nei confronti dei bianchi…Voglio che noi abbiamo una patria sicura per noi stessi. Proprio come voi volete una patria sicura in Israele”), mentre pensa anche che “gli ebrei sono ampiamente sovra rappresentati in quello che si potrebbe chiamare l’“establishment”.’ Anche Gianfranco Fini dell’Alleanza Nazionale italiana e Geert Wilders, leader del Partito Olandese della Libertà, hanno professato la propria ammirazione per il sionismo e per l’etnocrazia “bianca” dello Stato di Israele, pur esprimendo chiaramente le proprie opinioni antisemite in altre occasioni. Tre cose che attraggono questi antisemiti verso Israele sono: primo, il carattere etnocratico dello Stato; secondo, un’islamofobia che ritengono Israele condivida con loro; terzo, le politiche assolutamente dure di Israele verso i migranti di colore dall’Africa (nelle ultime di una serie di misure destinate a obbligare immigrati eritrei e sudanesi a lasciare Israele, sono state introdotte norme, all’inizio di quest’anno, che impongono ai richiedenti asilo di depositare il 20% dei loro averi in un fondo che gli verrà restituito solo se, e quando, lasceranno il Paese).

Se sionismo ed antisemitismo possono coincidere, allora – in base alla legge di contraddizione – l’antisionismo e l’antisemitismo non sono riducibili uno all’altro. Ovviamente è vero che in certi casi l’antisionismo può effettivamente sovrapporsi in parte all’antisemitismo, ma questo di per sé non ci dice molto, dato che una grande varietà di opinioni e di ideologie possono coincidere con l’antisemitismo. Si può essere capitalisti, socialisti o libertari ed essere anche antisemiti, ma il fatto che l’antisemitismo si possa unire con ideologie così diverse così come con l’antisionismo non ci dice praticamente niente su questo o su di esse. Eppure, nonostante la chiara distinzione tra l’antisemitismo e l’antisionismo, parecchi governi, così come gruppi di studio e organizzazioni non governative, insistono ora sulla nozione secondo cui l’antisionismo è necessariamente una forma di antisemitismo. La definizione adottata dall’attuale governo del Regno Unito offre 11 esempi di antisemitismo, sette dei quali includono critiche a Israele – una manifestazione concreta del modo in cui la nuova concezione dell’antisemitismo è diventata un’opinione accettata. Qualunque critica rivolta contro lo Stato di Israele assume ora le tinte dell’antisemitismo.

Un esempio singolare ma molto efficace del “nuovo antisemitismo” ha avuto luogo nel 2005 durante il ritiro di Israele da Gaza. Quando sono arrivati i soldati per evacuare gli ottomila coloni che vivevano nella zona, alcuni di questi hanno protestato mettendo sui vestiti stelle gialle e insistendo che “non sarebbero andati come pecore al macello”. Shaul Magid, il titolare della cattedra di “Studi ebraici” all’università dell’Indiana, sottolinea che così facendo i coloni hanno dato dell’antisemita al governo e all’esercito israeliani. Ai loro occhi il governo ed i soldati meritavano di essere chiamati antisemiti non perché odiano gli ebrei, ma perché stavano mettendo in atto una politica antisionista, danneggiando il progetto di fondazione del cosiddetto “Grande Israele”. Questa rappresentazione della decolonizzazione come antisemita è la chiave per una corretta comprensione di quello che è in gioco quando la gente viene accusata del “nuovo antisemitismo”. Quando il professore dell’università di Haifa mi ha bollato come antisemita, non ero io il vero bersaglio. Gente come me viene regolarmente attaccata, ma siamo considerati dalla macchina del “nuovo antisemitismo” scudi umani. Il vero obbiettivo sono i palestinesi.

C’è una certa ironia in questo. Storicamente la lotta contro l’antisemitismo ha inteso promuovere pari diritti e l’emancipazione degli ebrei. Quelli che denunciano il “nuovo antisemitismo” desiderano legittimare la discriminazione e la sottomissione dei palestinesi. Nel primo caso qualcuno che desidera opprimere, dominare e sterminare gli ebrei è bollato come antisemita; nel secondo, chi vuole partecipare alla lotta per la liberazione dal dominio coloniale è bollato come antisemita. In questo modo, ha osservato Judith Butler [nota filosofa statunitense di origine ebraica, ndt.], “un desiderio di giustizia” è “ridefinito come antisemitismo”.

Il governo israeliano ha bisogno del “nuovo antisemitismo” per giustificare le sue azioni e per proteggerle dalla condanna interna ed internazionale. L’antisemitismo è effettivamente utilizzato come un’arma, non solo per soffocare il discorso – “non importa se l’accusa è vera”, scrive Butler, il suo intento è “causare sofferenza, provocare vergogna, e ridurre l’accusato al silenzio” – ma anche per sopprimere una politica per la liberazione. La campagna non violenta del BDS contro il progetto coloniale e la violazione dei diritti da parte di Israele è etichettata come antisemita non perché i fautori del BDS odino gli ebrei, ma perché esso denuncia l’oppressione del popolo palestinese. Ciò evidenzia un ulteriore aspetto inquietante del “nuovo antisemitismo”. Convenzionalmente, chiamare qualcuno “antisemita” vuol dire mettere in evidenza e condannare il suo razzismo; nel nuovo caso, l’accusa di “antisemita” è utilizzata per difendere il razzismo e per appoggiare un regime che mette in atto politiche razziste.

Oggi la questione è come conservare una nozione di anti-antisemitismo che rifiuti l’odio contro gli ebrei, ma non promuova l’ingiustizia e l’espropriazione nei territori palestinesi o in qualunque altro luogo. C’è una via d’uscita dal dilemma. Possiamo opporci a due ingiustizie in una volta. Possiamo condannare i discorsi di odio ed i crimini contro gli ebrei, come quelli di cui siamo stati testimoni recentemente negli USA, o l’antisemitismo dei partiti politici di estrema destra europei, e allo stesso tempo denunciare il progetto coloniale di Israele ed appoggiare i palestinesi nella loro lotta per l’autodeterminazione. Ma per portare avanti questi compiti congiuntamente, bisogna prima rifiutare l’equazione tra antisemitismo e antisionismo.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Lieberman ha ragione, a Gaza non c’è una crisi, c’è una catastrofe

Amira Hass

12 febbraio 2018, Haaretz

Una ‘crisi’ implica un punto di rottura, e Gaza c’è arrivata molto tempo fa. Siamo oltre ad una rottura nella quotidianità. Siamo ad una catastrofe umanitaria

Nella disputa tra il capo di stato maggiore ed il ministro della Difesa sul fatto se vi sia una crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ragione. Non vi è crisi. Una crisi comporta un punto di rottura di un genere che interrompe la quotidianità, che colpisce come una meteora. Non è questa la situazione di Gaza, dove si verifica un costante e previsto deterioramento. Qualunque punto sulla linea di declino è un disastro umanitario.

Il paragrafo precedente ed ogni affermazione che seguirà potrebbero essere argomento di un intero articolo, ma non ne ho il tempo. Nella rubrica “Non dite che non sapevate” si affrontano questioni urgenti e nel nord (del Paese) c’è rischio di guerra. Quindi ci atterremo ai punti principali.

Ogni due o tre mesi un’organizzazione internazionale o palestinese avverte che Gaza è sull’orlo del collasso. Non mentono. Gli avvertimenti criticano i piccoli aiuti di emergenza che non affrontano le cause e semplicemente rallentano il tasso di deterioramento. Si può sicuramente ritenere che qualche carico di medicinali e di fondi per l’emergenza stiano arrivando.

I palestinesi di Gaza sono diventati una comunità di mendicanti. È una vergogna. E la vergogna non è loro.

Gli israeliani e gli americani hanno ragione, in tutta la loro scandalosa ipocrisia, quando chiedono a Hamas perché ha i soldi per le armi, ma non per pagare l’intero salario al personale medico o per gli ospedali e le terapie.

Hamas sta imitando Israele. Come Israele, sposta l’incombenza di prendersi cura dei civili di Gaza sull’Autorità Nazionale Palestinese e sui Paesi donatori. Come Israele, pretende di controllare di fatto la Striscia di Gaza, mentre si sottrae alla responsabilità per la sua popolazione, ma con una fondamentale differenza: Israele è un occupante astuto e malvagio, che mira ad usare i disastri economici ed umanitari per costringere i palestinesi alla resa e all’emigrazione di massa. Hamas è carne e sangue della peculiare comunità palestinese che vive nella Striscia. Scaricare la responsabilità su altri mentre si pavoneggia dei propri armamenti e della lotta armata, non ha fatto che indebolire il suo popolo, il 40% del quale vuole andarsene.

Quando alti dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese, in particolare Mahmoud Abbas, parlano di “Stato di Palestina”, riconosciuto dalle Nazioni Unite, esso comprende la Striscia di Gaza. Gaza è utile per la loro narrazione politica, ma nella pratica quei dirigenti si mostrano indifferenti al destino dei cittadini di Gaza.

Il taglio del 40% dei medicinali al sistema sanitario pubblico di Gaza non è un decreto divino. Hamas e gli abitanti di Gaza hanno ragione ad accusare l’Autorità Nazionale Palestinese di ritardare deliberatamente gli invii di medicinali per far pressione su Hamas. Questo non è neanche politicamente sensato. Gli abitanti di Gaza criticano apertamente l’Autorità Palestinese, non Hamas.

Il ritardo degli invii di medicinali non è economicamente saggio. I pazienti, invece di essere curati nella Striscia di Gaza, sono indirizzati in ritardo a curarsi altrove. L’Autorità Palestinese paga ed il costo risulta pari a decine di volte il prezzo dei farmaci. Che follia!

E’ ragionevole ritenere che il tasso di malattie sia alle stelle a causa dell’acqua non potabile, della riduzione delle falde acquifere sotterranee, delle acque di scolo non trattate che vanno a finire in mare, del terreno intriso di sostanze chimiche depositate dagli innumerevoli e incessanti bombardamenti da parte di Israele; della spazzatura di cui è così difficile disfarsi; del permanente stato di paura; del numero di persone ferite e rese disabili e dei tanti che soffrono di conseguenze post traumatiche dopo aver perso i loro cari negli attacchi di Israele.

Gli abitanti di Gaza hanno una resilienza ed una capacità di resistenza che ci risulta difficile immaginare. I chirurghi stranieri che lavorano da volontari a Gaza sono meravigliati di come i bambini riescano a stare sulle proprie gambe due giorni dopo l’intervento. Ai bambini di Madrid ci vuole una settimana, mi ha detto Steve Sosebee, direttore del ‘Palestine Children’s Relief Fund’, che porta nei territori occupati centinaia di medici volontari. Questo spiega, allora, la capacità dei gazawi di affrontare la lista di malattie elencate nel paragrafo precedente?

Invece di competere tra loro su chi sia il primo a far fuori il personale sanitario e a tagliare i suoi salari, le dirigenze delle due fazioni palestinesi non potrebbero magari impegnarsi nel genere opposto di competizione: su chi sia il primo ad aumentare i salari delle equipe mediche, in base al riconoscimento dell’importanza del loro lavoro e della loro diligenza ed abnegazione nel corso degli anni, per le quali non sono state ricompensate?

Sosebee ha detto che un volontario francese è andato via con l’impressione che tutti i medici nella Striscia di Gaza siano depressi; Sosebee l’ ha definita un’epidemia di depressione. I medici sanno esattamente come curare i loro pazienti, ma non ne hanno i mezzi. È una depressione indipendente dai bassi salari che ricevono e va al di là della depressione di due milioni di abitanti imprigionati, che non possono liberamente entrare ed uscire dalla Striscia.

Con la sua politica di incarcerazione di massa, che è iniziata nel 1991 e si è rafforzata negli anni 2000, Israele sperava di spingere l’Egitto ad annettere Gaza. Non ci è riuscito. È tempo che l’Europa chieda qualcosa in cambio dei suoi finanziamenti. Gli europei dovrebbero dire che per ogni 1000 dollari che donano per salvare la Striscia, Israele deve lasciare uscire altri 1000 gazawi per studiare, lavorare, proseguire la formazione come medici ed insegnanti e per viaggiare e visitare amici e parenti.

Questo dovrebbe essere ripetuto di continuo: il sistematico periodo di semicollasso potrà essere interrotto solo quando verrà reintrodotta la libertà di movimento per persone e merci. Lasciateli lavorare, anche in Israele, come prima. Si guadagneranno una vita onesta, scambieranno ed esporteranno beni, l’erario palestinese non dovrà raccogliere donazioni dal resto del mondo e la gente vorrà tornare a Gaza perché nessuno le impedirà di andarsene.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Una democrazia illiberale che funziona molto bene: la spiegazione del posto di Israele nella classifica mondiale della democrazia

Anshel Pfeffer

7 febbraio 2018, Haaretz

Nell’“Economist Intelligence Unit’s Democracy Index” [Indicatore della Democrazia dell’Unità di Intelligence dell’Economist], la positiva prestazione del Paese è danneggiata dall’egemonia del Gran Rabbinato [supremo organo religioso ebraico dello Stato di Israele, con due rabbini capo, uno sefardita e l’atro askenazita, ndt.] e dal modo in cui Israele tratta i palestinesi ed altre minoranze

Quanto è democratico Israele? Poco più del Belgio, un poco meno della Francia ed esattamente come l’Estonia.

Perché confrontare Israele con questi tre Paesi? Hanno lo stesso piazzamento nell’”Indicatore annuale della Democrazia dell’Unità di Intelligence dell’Economist”, una classifica di 167 Paesi e territori basata su una lunga lista di caratteristiche che gli estensori ritengono costitutivi di una moderna democrazia. Se lo preferite [espresso] in numeri, la democrazia israeliana è classificata trentesima a livello mondiale, con un punteggio medio di 7,79.

Potrebbe risultare rassicurante per chiunque sia preoccupato che la democrazia israeliana si stia erodendo: dopotutto essere nel quarto superiore dei Paesi in tutto il mondo sicuramente non dovrebbe essere male. Tuttavia, secondo l’indicatore, qualunque Paese con un punteggio di 8 o inferiore non è una “democrazia compiuta”.

Solo 19 Paesi, per lo più Nazioni dell’Europa occidentale insieme a Canada, Australia e Nuova Zelanda, ottengono un punteggio sufficientemente alto da essere definite democrazie “compiute”. Israele, insieme a Stati Uniti, Italia, Giappone e Francia, è tra le 57 “democrazie imperfette” del mondo. Se è di qualche consolazione, sono molto vicine al livello massimo. Imperfette, ma non così tanto.

La democrazia può essere misurata in numeri? Come possono essere messi a confronto in questo modo Paesi diversi con la loro storia, le loro tradizioni e culture? Qualunque elenco simile è per definizione arbitrario, la definizione di democrazia è controversa e il valore attribuito ad ognuno dei suoi componenti è diverso da Paese a Paese.

Gli stessi compilatori dell’Indicatore della Democrazia lo ammettono, ma continuano a pubblicarlo ormai da un decennio ed hanno affinato il modello, che attualmente include 60 diversi indicatori in cinque categorie. Come ogni altro modello statistico ha i suoi limiti, ma uno sguardo attento ai numeri ed alla metodologia racconta una storia interessante per quanto riguarda Israele.

Che cosa ne fa una democrazia? Secondo l’indicatore, Israele ha un punteggio particolarmente alto nella categoria “processo elettorale e pluralismo”. Ciò include tenere elezioni libere e corrette in cui l’opposizione ha una possibilità realistica [di vincere], il popolo gode del suffragio universale, tutti i partiti hanno pari opportunità di fare campagna elettorale e le procedure sono sufficientemente trasparenti.

In questi indicatori Israele ha un risultato medio di 9,17, il terzo punteggio più alto. Nella categoria della “partecipazione politica”, che misura l’affluenza dei votanti, il livello di partecipazione e rappresentanza delle donne e delle minoranze, l’impegno della pubblica opinione in politica, la libertà di protestare e l’alfabetizzazione degli adulti, Israele raggiunge l’8,89. È il secondo punteggio più alto della categoria, superato da un solo Paese, la Norvegia, e pari solo a Islanda e Nuova Zelanda. Nella partecipazione politica, Israele è nei primi quattro a livello mondiale.

Se la democrazia venisse misurata solo in base alla qualità del processo elettorale e al grado di partecipazione politica, Israele sarebbe al livello più alto con i Paesi scandinavi. Ma ci sono altre categorie, ovviamente. In entrambe le categorie “funzionamento del governo” – il potere dell’assemblea legislativa di influenzare le politiche, l’equilibrio dei poteri, la corruzione e la fiducia dell’opinione pubblica nel governo – e “cultura politica democratica” – che misura la coesione e il consenso sociale e la percezione e le opinioni dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni democratiche – il punteggio di Israele è ad una media di 7,50.

Tuttavia, prese insieme con le due categorie in cui eccelle, Israele sarebbe abbastanza ben piazzato da vincere il distintivo di “democrazia compiuta”. Ma ora arriviamo alla quinta categoria.

In materia di libertà civili Israele raggiunge solo il 5,88. Ed è basso, persino per una democrazia imperfetta. In effetti bisogna scorrere giù fino alla Malaysia al cinquantanovesimo posto ed all’Indonesia al sessantottesimo per trovare Paesi con libertà civili più scarse. La terribile situazione è ancora più evidente se si considerano i fattori che costituiscono le libertà civili: includono la libertà di parola e di espressione e l’esistenza di mezzi di informazione liberi e forti.

In questo Israele ha punteggi molto alti – quest’anno l’Indicatore della Democrazia include un punteggio separato per la libertà di parola e dei mezzi di informazione in cui Israele ottiene 9 su 10, e solo dieci Paesi in tutto il mondo arrivano a 10. È in tutto il resto delle libertà civili in cui Israele scende al di sotto delle democrazie mondiali – uguaglianza, diritti umani, tolleranza religiosa, discriminazione razziale e libertà personali.

In altre parole, se non fosse per l’egemonia del Gran Rabbinato e per il modo in cui Israele tratta le sue minoranze non ebree, soprattutto i palestinesi, sarebbe una democrazia modello. Ma riguardo solo alle libertà civili, Israele non ha il diritto di definirsi una democrazia, neppure imperfetta.

Allarghiamo l’immagine e si può fare ogni tipo di obiezioni e invocare circostanze attenuanti. I critici di Israele sosterranno che, dato che esercita vari livelli di controllo militare sui palestinesi in Cisgiordania e a Gaza (la Palestina ha un punteggio a parte nell’Indicatore della Democrazia, al posto 108), non può essere classificata come la trentesima democrazia al mondo, imperfetta o meno.

I difensori di Israele noteranno che non viene tenuto in nessun conto il fatto che Israele è circondato da autocrazie e che nel suo gruppo regionale del Medio Oriente e del Nord Africa supera di gran lunga gli altri Paesi, persino nelle libertà civili. (Con l’eccezione della Tunisia, che è al pari di Israele per le libertà civili ma è molto al di sotto in tutte le altre categorie). Ma è questa la compagnia in cui Israele si vuole trovare quando si tratta di democrazia?

Nessun altro Paese dell’indice ha una così clamorosa disparità tra i livelli di partecipazione, di qualità del processo elettorale, dei mezzi di comunicazione forti e di libertà di espressione e il misero risultato ottenuto per le libertà civili. Essenzialmente, Israele è l’unica democrazia illiberale al mondo che funziona bene. Oppure, come ha detto il deputato [arabo-israeliano, ndt.] Ahmad Tibi, “Democratico per gli ebrei ed ebreo per gli arabi”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mike Pence ha appena confermato l’uscita dell’America dal processo di pace in Medio Oriente

Sam Bahour

23 gennaio 2018, Haaretz

Quando Pence afferma: ‘Noi stiamo con Israele. La vostra causa è la nostra causa, la vostra lotta è la nostra lotta’, è chiaro che l’America è interessata solamente ad offrire ad Israele un cieco appoggio politico e ad abbandonare i palestinesi. Una vera pace ora non può che significare aggirare l’amministrazione USA

Il vicepresidente USA non avrebbe potuto dirlo più chiaramente.

Sono qui per trasmettervi un solo semplice messaggio. L’America sta con Israele. Noi stiamo con Israele perché la vostra causa è la nostra causa, i vostri valori sono i nostri valori e la vostra lotta è la nostra lotta,” ha detto lunedì alla Knesset (il parlamento) israeliana.

Ha rilanciato il piano dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme ed ha ripetuto come un mantra l’affermazione che la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele era giustificata in quanto “dato di fatto”. Il termine ‘palestinese’ non è stato quasi pronunciato e ‘Palestina’ – neanche una volta.

Pence ha anche detto che gli USA avrebbero sostenuto una soluzione dei due Stati, ma solo se entrambe le parti l’avessero appoggiata – ribadendo la posizione di Trump quando ha fatto l’annuncio. Che cosa significa? Che gli USA stanno rinunciando alla soluzione dei due Stati. Uno Stato palestinese sovrano non è più un obbiettivo necessario e centrale della politica estera americana.

Donald Trump, a quanto pare, non farà niente per bloccare o disapprovare l’accelerata costruzione di colonie da parte di Israele, o l’autorizzazione retroattiva degli avamposti costruiti su terre private palestinesi, avendo ammorbidito la vecchia e stanca retorica statunitense di “le colonie sono un ostacolo alla pace” con “le colonie potrebbero non aiutare” la pace. Quindi la loro costruzione continuerà, indefinitamente.

L’impresa coloniale israeliana ha acquisito, e gli USA hanno volontariamente venduto, tempo e spazio per consolidarsi, rendendo così sempre più impossibile la realizzazione di una soluzione di due Stati.

Alla luce di questa realtà, la comunità internazionale deve ora riconoscere che l’approccio “a guida USA” alla soluzione del conflitto israelo-palestinese è destinato al fallimento. Non vi è ora alcun dubbio che l’inafferrabile pace non si verificherà mai durante la presidenza Trump. È assolutamente chiaro – dopo due decenni di negoziati falliti sotto gli auspici USA – che la leadership americana è inutile e controproducente negli sforzi per la soluzione di questo conflitto.

Se la comunità internazionale intende ottenere due Stati per due popoli dovrà perseguire una posizione politica indipendente che aggiri gli americani. L’influenza politica della comunità internazionale in questo ambito è stata a lungo irrilevante, dato il monopolio USA sul processo di pace. Adesso è il momento che si faccia sentire.

La comunità internazionale per troppo tempo si è affidata alla leadership sbagliata. Questo tragico errore storico non solo è costato miliardi ai contribuenti della comunità internazionale, ma ha anche condotto ad una realtà diametralmente opposta a ciò che intendevano i responsabili delle politiche globali.

Dopo 24 anni, la fiducia nella “leadership” americana ha portato alla creazione di tanti bantustan palestinesi, finanziati dai contribuenti europei, circondati da una potenza militare occupante che continua ad occupare impunemente: l’UE ed i suoi Stati membri sono di gran lunga i maggiori donatori nei confronti dei palestinesi.

Israele – entusiasta che una parte terza intenda sovvenzionare la sua occupazione militare – continua ad ampliare e consolidare la sua impresa coloniale, con il sostegno di ampi settori dell’opinione pubblica e del governo americani.

Storicamente USA e UE hanno condiviso il comune obbiettivo di risolvere il conflitto israelo-palestinese nella cornice di una soluzione a due Stati. Ma da quando Trump occupa la Casa Bianca ed i repubblicani ora controllano i tre poteri del governo USA, vi è stato un significativo slittamento a destra nella politica del partito repubblicano verso Israele e Palestina.

Al contrario, gli europei si sono mossi verso un riconoscimento dello Stato di Palestina. Il riconoscimento svedese è ora ufficiale, mentre i parlamenti di Regno Unito, Irlanda, Spagna, Francia, Lussemburgo, insieme al Parlamento Europeo, hanno tutti approvato il riconoscimento. In seguito alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, tutto indica che più Paesi andranno verso il riconoscimento della Palestina per salvaguardare la soluzione dei due Stati.

L’America sostiene l’occupazione israeliana. L’Europa senza volerlo la sovvenziona. L’amministrazione Trump farà ben poco per contrastare il suo stesso partito o rischiare la collera dell’influente lobby israeliana negli USA, favorevole alle colonie. Trump continuerà a difendere l’approccio di non intervento, “tocca alle due parti decidere”. Il risultato è che Israele, che ha tutto il potere, è poco incentivato a fare concessioni, mentre i palestinesi, che non hanno potere e dovrebbero essere “protetti” in base al diritto internazionale, sono lasciati alla loro disperazione.

L’America è parte del problema

L’intransigenza di Israele e la sua palese violazione del diritto internazionale sono alimentate dalla sicurezza che, qualunque cosa faccia, gli USA lo proteggeranno sempre da un serio biasimo. La disperazione palestinese si basa sulla convinzione che l’enorme sostegno americano ad Israele renda inutili i negoziati, in quanto Israele ha poco interesse a fare concessioni, ricevendo così tanto denaro, armi e cieco sostegno politico.

Quindi che cosa può fare la comunità internazionale, più che votare contro la dichiarazione di Trump nelle varie istanze delle Nazioni Unite? La comunità internazionale può rimboccarsi le maniche, gestire una politica forte e affrontare l’occupante senza aspettare che la leadership americana ottenga risultati.

Se le esperienze di Bosnia, Kosovo, Timor est e Sudafrica insegnano qualcosa, un occupante o un regime di apartheid cambieranno direzione solo attraverso un’articolata combinazione di sanzioni, isolamento internazionale e, come ultima risorsa, forza militare.

La comunità internazionale deve cogliere l’occasione e dimostrare ai suoi componenti che l’Europa sta sprecando il suo denaro e la sua credibilità indulgendo al gioco americano dell’imparzialità. È chiaro che l’America non ha scrupoli morali o politici a che Israele resti una forza di occupazione. Una volta che la comunità internazionale finalmente riconoscerà questa realtà e andrà avanti, troverà la forza e la legittimazione per proporre politiche proprie, conformi al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite ed ai propri standard morali.

Sam Bahour è un analista politico per ‘Al-Shabaka: rete di informazione politica palestinese’ ed è membro del segretariato del Gruppo di Strategia per la Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




In parole e azioni: la genesi della violenza israeliana

Ramzy Baroud

16 gennaio 2018, The Palestinian Chronicle

Non passa giorno senza che un importante politico o intellettuale israeliano faccia una vergognosa dichiarazione oltraggiosa contro i palestinesi.

Molte di queste dichiarazioni tendono a raccogliere una scarsa attenzione o evocano giustamente un meritato sdegno.

Proprio di recente, il ministro dell’Agricoltura israeliano, Uri Ariel, ha auspicato più morti e feriti per i palestinesi di Gaza.

Cos’è quest’arma speciale che abbiamo, che spariamo e vediamo colonne di fumo e fuoco, ma nessuno rimane ferito? È tempo che là ci siano anche feriti e morti,” ha detto.

La richiesta di Ariel di uccidere più palestinesi è arrivata subito dopo altre dichiarazioni nauseabonde riguardanti una ragazzina di 16 anni, Ahed Tamimi. Ahed è stata arrestata durante una violenta incursione dell’esercito israeliano in casa sua nel villaggio cisgiordano di Nabi Saleh.

Un video l’ha ripresa mentre schiaffeggiava un soldato israeliano il giorno dopo che l’esercito israeliano aveva sparato alla testa a suo cugino, riducendolo in coma.

Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, noto per le sue posizioni politiche estremiste, ha chiesto che Ahed e altre ragazze palestinesi “passino il resto dei loro giorni in prigione”.

Un importante giornalista israeliano, Ben Caspit, ha auspicato una punizione ancora più dura. Ha suggerito che Ahed e ragazze come lei debbano essere violentate in carcere: “Nel caso delle ragazze, dovremmo far loro pagare un prezzo in qualche altra circostanza, al buio, senza testimoni né telecamere,” ha scritto in ebraico.

Questa mentalità violenta e rivoltante, tuttavia, non è una novità. È la prosecuzione di un vecchio, radicato sistema di pensiero che è fondato su una lunga storia di violenze.

Indubbiamente le opinioni di Ariel, Bennett e Caspit non sono affermazioni irose proferite in un momento di rabbia. Sono tutte un riflesso delle concrete politiche che sono state portate avanti per oltre 70 anni. Infatti violentare e imprigionare a vita sono comportamenti che hanno accompagnato lo Stato di Israele fin dai suoi inizi.

Questa eredità di violenza continua a caratterizzare Israele fino ai nostri giorni, attraverso l’uso di quello che lo storico israeliano Ilan Pappe descrive come “genocidio incrementale”.

Attraverso questa lunga tradizione, poco è cambiato, salvo nomi e titoli. Le milizie sioniste che hanno orchestrato il genocidio dei palestinesi prima della fondazione di Israele nel 1948 si unirono per formare l’esercito israeliano, ed i dirigenti di questi gruppi divennero leader israeliani.

La nascita violenta di Israele nel 1947-48 fu il culmine di un discorso violento che la precedette di molti anni. Fu il tempo in cui gli insegnamenti del sionismo dei primi anni vennero messi in pratica e i risultati furono semplicemente orribili.

La tattica di isolare ed attaccare un certo villaggio o cittadina e giustiziare la sua popolazione con un orribile massacro indiscriminato fu una strategia utilizzata ripetutamente dalle bande sioniste per obbligare la popolazione di villaggi e cittadine circostanti a fuggire,” mi ha detto Ahmad Al-Haaj quando gli ho chiesto di riflettere sul passato e sul presente di Israele.

Ahmad Al-Haaj è uno storico palestinese e un esperto della Nakba, la “Catastrofe” occorsa ai palestinesi nel 1948.

La competenza dell’ottantacinquenne intellettuale sull’argomento iniziò 70 anni fa, quando, a 15 anni, assistette al massacro di Beit Daras per mano della milizia ebraica “Haganah”.

La distruzione del villaggio palestinese del sud e l’uccisione di decine dei suoi abitanti ebbe come effetto lo spopolamento di molti villaggi delle vicinanze, compreso al-Sawafir, il villaggio natale di Al-Haaj’s.

Il ben noto massacro di Deir Yassin fu il primo esempio di tali uccisioni immotivate, un modello che venne replicato in altre zone della Palestina,” dice Al-Haaj.

All’epoca la pulizia etnica della Palestina venne orchestrata da molte milizie sioniste. La principale milizia ebraica fu l’”Haganah”, che dipendeva dall’Agenzia Ebraica. Quest’ultima funzionava quasi come un governo, sotto gli auspici del governo del Mandato britannico, mentre l’”Haganah” fungeva da suo esercito.

Tuttavia anche altri gruppi scissionisti operavano in base ad un proprio progetto. Tra questi, due principali bande erano l’”Irgun” (Organizzazione Militare Nazionale) e il “Lehi” (noto anche come “Banda Stern”). Questi gruppi misero in atto numerosi attacchi terroristici, comprese bombe sugli autobus ed assassinii mirati.

Menachem Begin, nato in Russia, era il leader dell’”Irgun” che, insieme alla “Banda Stern” e ad altre milizie ebraiche, massacrò centinaia di civili a Deir Yassin.

Dite ai soldati: avete fatto la storia di Israele con il vostro attacco e la vostra conquista. Continuate così fino alla vittoria. Come a Deir Yassin, così ovunque attaccheremo e puniremo il nemico. Dio, Dio, tu ci hai scelti per la conquista,” scrisse Begin all’epoca. Descrisse il massacro come uno “splendido atto di conquista”.

Il rapporto intrinseco tra parole ed azioni rimane immutato.

Circa 30 anni dopo Begin, un tempo un terrorista ricercato, divenne primo ministro di Israele. Accelerò il furto di terre della recentemente occupata Cisgiordania e di Gerusalemme est, scatenò una guerra in Libano, annesse Gerusalemme occupata ad Israele e perpetrò il massacro di Sabra e Shatila nel 1982.

Alcuni degli altri terroristi diventati politici e principali comandanti dell’esercito inclusero Begin, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon, Rafael Eitan e Yitzhak Shamir. Ognuno di questi dirigenti ha un curriculum costellato di violenza.

Shamir ricoprì il ruolo di primo ministro di Israele dal 1986 al 1992. Nel 1941 Shamir venne imprigionato dai britannici per il suo ruolo nella “Banda Stern”. In seguito, come primo ministro, ordinò una violenta repressione contro la ribellione palestinese, per lo più non violenta, nel 1987, in cui si rompevano deliberatamente gli arti dei ragazzini accusati di lanciare pietre contro i soldati israeliani.

Quindi, quando ministri del governo come Ariel e Bennett invocano una violenza ingiustificata contro i palestinesi, stanno semplicemente continuando un’eredità sanguinosa che nel passato ha caratterizzato ogni leader israeliano. È l’atteggiamento violento che continua a dominare il governo israeliano e i suoi rapporti con i palestinesi; di fatto con tutti i suoi vicini.

– Ramzi Baroud è un giornalista, autore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo libro di prossima pubblicazione è “The Last Earth: A Palestinian Story[“L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi Palestinesi all’università di Exeter ed è docente non residente presso l’“Orfalea Center for Global and International Studies” dell’università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele demolisce un’altra scuola finanziata dall’Unione Europea

Tamara Nassar,

6 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Il 4 febbraio le forze d’occupazione israeliane hanno demolito due edifici scolastici nella comunità di Abu Nuwwar, situata nella cosiddetta area E1 della Cisgiordania occupata, ad est di Gerusalemme.

La distruzione lascia più di 25 bambini di terza e quarta elementare senza un posto dove studiare.

“La demolizione di strutture scolastiche è uno degli strumenti che Israele usa nel tentativo di espellere le comunità palestinesi dalle loro case, in modo da poter concentrare i residenti in enclaves e utilizzare il territorio per i propri scopi”, ha dichiarato l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo B’Tselem, il 13 dicembre le forze d’occupazione hanno emesso un ordine di demolizione per l’aula di quarta elementare e la demolizione è proseguita domenica nonostante fosse in corso un procedimento legale contro l’ordine [di demolizione].

Le fotografie postate su Twitter da media palestinesi mostrano bambini seduti in mezzo alle macerie della loro scuola distrutta.

Uno di loro tiene un cartello che dice: “Ho il diritto di studiare. No alla demolizione della mia scuola. Siamo i bambini di Abu Nuwwar.”

Un testimone dice nel video che le forze occupanti israeliane hanno confiscato i cellulari prima della demolizione.

Complicità dell’Unione Europea

La scuola è stata costruita a settembre con il finanziamento dell’Unione Europea e dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma nessuna delle due ha fatto nulla per rendere responsabile Israele della distruzione delle aule.

Questo è in linea con l’inazione dell’UE relativamente alle decine di milioni di dollari di progetti che essa ha finanziato e che Israele ha distrutto negli ultimi anni.

L’UE non ha emesso alcuna dichiarazione di condanna della demolizione.

È la quinta volta che Israele demolisce quella scuola. Secondo la Reuters, ogni volta è stata ricostruita con l’aiuto di fondi dell’UE e di organizzazioni non governative.

Il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana, il COGAT (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori Occupati, ndtr.), ha affermato che “la struttura è stata costruita illegalmente e senza i permessi necessari.”

Israele nega il permesso praticamente ad ogni costruzione palestinese in area C, dove si trova Abu Nuwwar, costringendo molti a costruire senza l’autorizzazione militare ed a vivere nella costante paura che la propria casa venga demolita.

Secondo l’agenzia di informazioni ufficiale palestinese Wafa, oltre agli edifici, Israele vieta ai palestinesi di Abu Nuwwar anche di costruire strade che “permetterebbero ad uno scuolabus di accedere alla comunità e portare in modo sicuro i bambini avanti e indietro da scuola.”

L’area C include circa il 60% della Cisgiordania ed è sotto il totale controllo militare israeliano, in base a quanto previsto dagli accordi di Oslo firmati da Israele e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nei primi anni ’90.

Espulsione forzata

I politici israeliani stanno invocando sempre più spesso l’annessione permanente dell’area C, che lascerebbe la maggioranza dei palestinesi della Cisgiordania imprigionata in piccole isole territoriali.

La comunità di Abu Nuwwar, come molte altre nell’area C, ha subito continue aggressioni da parte dell’esercito israeliano nel tentativo di espellerle con la forza.

In ottobre le forze israeliane hanno confiscato le porte delle aule che hanno demolito domenica.

In agosto, le forze israeliane hanno dichiarato la comunità di Abu Nuwwar zona militare chiusa ed hanno confiscato i pannelli solari che fornivano elettricità all’asilo.

L’area E1 [ad est di Gerusalemme, ndt.] è destinata da Israele all’espansione della sua mega colonia di Maaleh Adumim, che completerebbe l’accerchiamento di Gerusalemme ed isolerebbe l’una dall’altra le aree settentrionale e meridionale della Cisgiordania.

Abu Nuwwar è una delle 12 comunità palestinesi, con un totale di circa 1.400 abitanti, nell’area est di Gerusalemme, che rischia l’espulsione da parte di Israele. Le altre includono Jabal al-Baba e Khan al-Ahmar.

Sempre in agosto Israele ha distrutto due scuole finanziate dall’Europa in Cisgiordania.

La mancanza di un’efficace risposta dell’UE ha quindi incoraggiato Israele a procedere con la demolizione di domenica.

Susiya sotto minaccia

Intanto il console generale francese ha visitato il villaggio di Susiya nell’area C, “per sostenere gli abitanti minacciati di trasferimento forzato”, secondo un tweet del consolato francese di Gerusalemme di lunedì.

Tali visite simboliche intendono segnalare la disapprovazione internazionale delle demolizioni di massa pianificate da Israele delle case della comunità – un crimine di guerra.

Ma in passato Israele le ha ignorate, con la certezza di non venire mai chiamato a rispondere di crimini di guerra ed altre violazioni contro i palestinesi.

La settimana scorsa la senatrice USA Dianne Feinstein ha twittato che è stato “un colpo al cuore” il fatto che l’Alta Corte israeliana abbia “approvato la demolizione di sette edifici nel villaggio palestinese di Susiya, distruggendo le case di 42 persone, metà delle quali sono bambini o malati.”

A dicembre Feinstein ed altri nove senatori hanno fatto appello direttamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché bloccasse le demolizioni.

Tamara Nassar è assistente redattrice di The Electronic Intifada.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Una balbettante risposta ad un rifugiato palestinese

Gideon Levy

4 febbraio 2018,Haaretz

Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione di Israele ed i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia.

AMMAN – A me è sembrato che l’uomo tremasse quando ha chiesto di parlare. Sembrava agitato. Voleva solo chiedere: “Come vi sentite vivendo in Israele, sulla nostra terra e nelle nostre case?” Una kefiah sulle spalle (il solo nella stanza ad indossarla), è il proprietario di un’agenzia giordana di pubbliche relazioni, un uomo anziano con i capelli brizzolati. Gli organizzatori avevano esitato ad invitarlo. È conosciuto come l’estremista del gruppo. Io ero felice che fosse venuto. Dice che non aveva mai incontrato un israeliano nella sua vita. Sua moglie non c’era; non aveva trovato il coraggio di venire.

La sera di martedì scorso l’ampia sala dell’appartamento nel quartiere occidentale Al Rabieh di Amman era gremito di rifugiati palestinesi – quelli nati sull’altro lato del fiume Giordano. Si incontrano una volta a settimana, ogni volta in una casa diversa, anziani cittadini borghesi invecchiati comodamente nel loro esilio. Alcuni sono stati espulsi o sono fuggiti dal loro Paese da bambini nel 1948; altri lo hanno dovuto fare nel 1967. Da allora si sono fatti una loro vita; sono gente che si è costruita una vita da benestanti. Alcuni di loro leggono Haaretz in inglese. Per la maggior parte hanno dato un taglio al passato e sono andati avanti.

Ma nessuno ha dimenticato e forse nessuno ha neppure perdonato. In Israele non hanno mai capito la forza di questi sentimenti e quanto siano profondi. Si possono accusare i palestinesi di crogiolarsi nel passato, si può sostenere che hanno avuto un ruolo nel decidere del proprio destino – ma non si possono ignorare i loro sentimenti.

Non sono possibili paragoni storici: è difficile paragonare l’espulsione di nativi centinaia di anni orsono all’espulsione di un popolo che ricorda ancora la propria casa in cui ora vivono degli stranieri. Gli ebrei d’Europa e dei Paesi arabi hanno ottenuto una nuova patria ed alcuni di loro hanno ricevuto addirittura un risarcimento. Non vale nemmeno la pena di discutere il maldestro confronto con una manciata di coloni evacuati.

La domanda è sorta nella sala del defunto “artista nazionale” palestinese Ismail Shammout e della sua vedova, l’artista Tamam al-Akhal, risuonando tra i muri coperti di quadri. Per un attimo la cruciale domanda resta là, messa a nudo: Com’ è vivere sulla terra rubata ad altri?

Un penoso silenzio è caduto nella stanza. Alcuni si sono sentiti a disagio. Non è bello mettere così in imbarazzo i propri ospiti.

Non so se ci sia una risposta. Bisogna riconoscerlo. Per la destra israeliana, i nazionalisti e i razzisti, per quelli che credono che questa terra appartenga agli ebrei perché Abramo è passato di qui ed ha acquistato una grotta o perché dio lo ha promesso, non è un problema rispondere. Si può anche sostenere che gli ebrei hanno sempre sognato questa terra, ma il fatto è che non si sono mai preoccupati di stanziarsi qui in massa. Si potrebbe dire – giustamente – che gli ebrei non avevano dove fuggire durante l’Olocausto. Ma queste non sono risposte per l’artista Akhal, nella cui casa d’infanzia a Jaffa vive un’artista israeliana, una donna che molti anni dopo l’ ha cacciata via e non le ha neanche permesso di vedere la casa.

Chi ha posto la domanda l’ ha ribadita: “Voglio capire come vi sentite vivendo in Israele.” Io ho risposto che mi sento molto in colpa verso il suo popolo, e provo anche vergogna. Non solo per il 1948, ma soprattutto per quanto accaduto da allora, che è stato una diretta continuazione della linea ideologica dell’espulsione del 1948 e che non è mai cessata.

Poi gli ho parlato di mio padre, che è stato gettato tra le onde in una barca illegale di migranti e di mia madre, che è venuta in Israele attraverso ‘Youth Aliyah’ [organizzazione sionista che ha salvato migliaia di bambini ebrei durante il nazismo portandoli in Palestina, ndtr.]. Non avevano altro luogo in cui fuggire se non questo Paese, che all’epoca non era il loro. Ed io non ho dove andare, perché questo Paese è oggi anche il mio Paese. “Ma voi tutte le mattine nuotate in una piscina su una terra che non vi appartiene”, ha insistito l’uomo. Io sono stato zitto.

Quale dovrebbe essere la risposta? Per loro questa è la loro terra che gli è stata tolta con la forza. Non si può negarlo. Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione dello Stato, anche se ciò era inevitabile e persino giustificato. Dobbiamo imparare a convivere con questo. E soprattutto dobbiamo trarre l’unica conclusione che ne emerge con forza: i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia, attraverso l’inizio di un nuovo capitolo, costruito interamente sull’uguaglianza in questa terra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Lasciamo che la soluzione dei due Stati muoia di morte naturale

Richard Falk

1 gennaio 2018,middleeasteye

Solo un movimento di solidarietà globale, che esercita una pressione sufficiente su Israele, può creare una trazione politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi

Nonostante tutte le apparenze contrarie, coloro che in Occidente  non vogliono unirsi al partito vittorioso israeliano si aggrappano fermamente alla soluzione dei due stati. Israele ha indicato in misura sempre crescente, con le sue azioni e parole, comprese quelle del primo ministro Benjamin Netanyahu, un’opposizione a una Palestina autenticamente indipendente e sovrana.

Il progetto di espansione degli insediamenti sta accelerando con le promesse fatte da una serie di figure politiche israeliane che nessun colono sarebbe mai stato espulso da un accordo anche se l’abitazione illegale non fosse situata in un blocco di insediamenti.

Domenica, il Partito del Likud di Netanyahu ha invitato unanimemente i legislatori a una risoluzione non vincolante  per unire efficacemente gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata, terra che i palestinesi vogliono per uno Stato futuro.

Aggrappato alla soluzione dei due Stati

Per di più, Netanyahu, anche se a volte parla come se preferisse una ripresa dei negoziati di pace, sembra più autentico quando chiede il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico come precondizione per qualsiasi ripresa dei colloqui con i palestinesi.

Per completare il tutto, la decisione di Trump del 6 dicembre dello scorso anno di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di dare un seguito spostando l’ambasciata degli Stati Uniti toglie dai futuri negoziati una delle questioni più delicate: lo status e la condivisione di Gerusalemme.

Tutto sommato sembra giunto il momento di riconoscere tre conclusioni correlate:

(1) La leadership di Israele ha respinto la Soluzione a due Stati come via per la risoluzione del conflitto;

(2) Israele ha creato condizioni, quasi impossibili da invertire, che rendono del tutto irrealistico aspettarsi la creazione di uno Stato palestinese;

(3) Trump, ancor più dei precedenti presidenti, ha fortemente e visibilmente impegnato la diplomazia americana  a favore di qualsiasi leader israeliano cerchi la fine di questa lotta epica tra i due popoli.

Eppure molte persone di buona volontà e dedite alla pace si aggrappano alla soluzione dei due Stati.

Le parole di Amos Oz, il celebre romanziere israeliano, esprimono un sentimento ampiamente condiviso:

“… nonostante le battute d’arresto, dobbiamo continuare a lavorare per una soluzione a due Stati: rimane l’unica soluzione pragmatica e pratica di questo nostro conflitto che ha portato così tanto spargimento di sangue e dolore in questa terra”.

È anche significativo che Oz abbia fatto questa dichiarazione nel corso di un appello per il finanziamento di fine anno 2017 a favore di ‘J Street’, la voce del sionismo moderato, negli Stati Uniti.

Quello che Oz dice, ed è opinione diffusa, è che non v’è alcuna soluzione disponibile per la Palestina a meno che non ci sia uno Stato ebraico sovrano indipendente lungo i confini del 1967 come nucleo essenziale di ogni credibile accordo diplomatico.

In altre parole, ogni alternativa non sarebbe “pragmatica, pratica” secondo Oz e molti altri. Poiché questo è raramente articolato, ma sembra poggiare sull’asserzione che il movimento sionista, fin dal suo inizio, ha cercato una patria per il popolo ebraico che potrebbe essere garantita ed adeguatamente proclamata solo se sotto la protezione di uno Stato ebraico

Per molti anni la leadership palestinese, riconosciuta a livello internazionale, ha condiviso questo punto di vista e ha dato la sua benedizione formale nella sua Dichiarazione PNC/OLP 1988 che guardava all’accettazione di Israele come Stato legittimo se l’occupazione fosse finita, le forze israeliane si fossero ritirate e la sovranità palestinese stabilita entro i confini del 1967 (che erano significativamente più estesi di quelli proposti dall’ONU attraverso  la risoluzione 181 dell’Assemblea generale – cioè, Israele avrebbe avuto il 78% anziché il 55% del territorio complessivo acquisito dal mandato britannico).

Questo tipo di risultato è stato avallato anche dall’Iniziativa Pace Araba del 2002 e presentato con fiducia come soluzione durante la presidenza di Obama.

Persino Hamas ha appoggiato lo spirito dell’approccio dei due Stati proponendo nel corso dell’ultimo decennio un cessate il fuoco a lungo termine, fino a 50 anni, se Israele dovesse porre fine all’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza che in effetti avrebbero materializzato la soluzione dei due Stati di fatto: Israele e Palestina

Seri dubbi

Ci sono almeno quattro problemi, opportunamente nascosti sotto il tappeto dai sostenitori dei due Stati, uno dei quali è sufficientemente grave da sollevare seri dubbi circa la fattibilità e l’opportunità della Soluzione dei due Stati:

1 – Il sionismo liberale espresse un punto di vista verso una soluzione diplomatica che non è stata condivisa dai governi israeliani più di destra guidati dal Likud che hanno dominato la politica israeliana nel corso del 21° secolo; l’obiettivo israeliano prevedeva l’espansione territoriale – in particolare per quanto riguarda un’allargata e annessa Gerusalemme, con una vasta rete di insediamenti e collegamenti di trasporto in Cisgiordania – sostenuto dalla convinzione fondamentale che Israele non dovesse stabilire confini permanenti fino a che l’intera ‘terra promessa’ come raffigurata nella Bibbia non fosse ritenuta parte di Israele.

Palestinesi si dirigono verso un checkpoint israeliano  / AFP PHOTO / Musa AL SHAER

In effetti, nonostante qualche timidezza nell’affrontare un processo diplomatico, Israele non ha mai credibilmente avallato un impegno nei confronti di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 basato sull’uguaglianza dei due popoli.

2 – In secondo luogo, Israele ha creato fatti concreti sul terreno che hanno definitivamente contraddetto la sua dichiarata intenzione di cercare una pace sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati.

3 – In terzo luogo, la soluzione dei due Stati, come previsto dai suoi sostenitori, ha di fatto trascurato la difficile situazione della minoranza palestinese in Israele, che ammonta al 20% della popolazione, ovvero a circa 1,5 milioni di persone. Aspettarsi che una minoranza non ebraica così numerosa accetti l’egemonia etnica e le politiche e le pratiche discriminatorie dello Stato israeliano è irrealistica, oltre a essere contraria agli standard internazionali sui diritti umani.

4 – E infine, oltre a questo, sostenere Israele in relazione al popolo palestinese espropriato e oppresso è dipeso dalla creazione di strutture di dominio etnico che costituiscono il crimine dell’apartheid.

Smantellare le strutture dell’apartheid

Come in Sud Africa, non può esserci pace con i palestinesi fino a quando non saranno smantellate completamente le strutture dell’apartheid utilizzate per soggiogare il popolo palestinese (comprese quelle imposte ai profughi e agli esiliati palestinesi), ciò non accadrà finché la leadership e il pubblico israeliano non rinunceranno a insistere sul fatto che Israele è esclusivamente lo Stato del popolo ebraico, includendo un illimitato ed esclusivo diritto al ritorno per gli ebrei e altri privilegi basati esclusivamente sull’identità etnica.

Tutto questo ci spinge a scartare la soluzione dei due Stati come indesiderata da Israele, inaccettabile per i palestinesi e non diplomaticamente raggiungibile, anche se emergesse inaspettatamente una forte volontà politica  sinceramente dedicata alla sua attuazione.

A fronte di una tale critica situazione siamo obbligati a fare del nostro meglio per rispondere a questa domanda inquietante: “C’è una soluzione che sia desiderabile e raggiungibile, anche se non è attualmente visibile nell’orizzonte politico?”

Seguendo queste linee, prefigurate 20 anni fa da Edward Said, due principi fondamentali devono essere raggiunti se si vuole raggiungere una pace sostenibile: agli israeliani deve essere data una patria ebraica all’interno di una Palestina riconfigurata e i due popoli devono stabilire un’autorità costituzionale che difenda i principi fondamentali di uguaglianza collettiva e dignità umana individuale.

Realizzare una simile visione sembrerebbe richiedere la creazione di uno stato unificato laico, magari con due bandiere e due nomi. Vi sono molte varianti, purché sia ​​rispettata l’uguaglianza dei due popoli nelle strutture costituzionali e istituzionali del governo.

Se l’approccio liberista sionista sembra impraticabile e inaccettabile, questa sarà  l’alternativa favorita, “una inutile utopia” o al massimo una fonte di false speranze?

Se i palestinesi dovessero proporre una tale soluzione nell’attuale atmosfera politica, Israele senza dubbio o la ignorerebbe o reagirebbe in modo sprezzante, e gran parte del resto della comunità internazionale li deriderebbe. Forse, ma ciò che viene proposto è un’utopia utile e l’unico percorso realistico verso una pace sostenibile e giusta.

Non v’è dubbio che l’attuale panorama di forze è tale che è prevedibile un rigetto iniziale. Anche se  l’Autorità palestinese dovesse presentare una visione del genere sotto forma di una proposta elaborata con molta attenzione, costituirebbe nuovo terreno per un dibattito più corrispondente alle effettive circostanze affrontate dagli israeliani e dai palestinesi.

Un movimento di solidarietà globale

La principale questione politica ed etica è come creare una spinta politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi. Ritengo che ciò possa avvenire solo in questo contesto se il movimento di solidarietà mondiale che attualmente sostiene la lotta nazionale palestinese eserciterà pressioni sufficienti su Israele in modo che la leadership israeliana riveda i suoi interessi. Il precedente caso sudafricano, pur differendo in molti aspetti, è tuttora istruttivo.

Pochi immaginavano che in Sudafrica una transizione pacifica dall’apartheid a una democrazia costituzionale basata sull’eguaglianza razziale fosse lontanamente possibile, fino a quando non è successo.

Prevedo una potenziale analogia riguardo Israele/Palestina, anche se indubbiamente sarebbero presenti  una serie di fattori che dimostrano l’originalità di quest’ultima fase di sviluppo. In politica, se la volontà politica e le capacità necessarie sono presenti e mobilitate, l’impossibile può verificarsi e realizzarsi, come in Sudafrica e nelle lotte contro i regimi coloniali europei nella seconda metà del XX secolo.

Inoltre, senza una tale politica di impossibilità, persisterà una sofferenza enorme. La strada per una vera pace e giustizia sia per i palestinesi che per gli israeliani deve basarsi sulla loro convivenza sulla base del rispetto reciproco in una versione matura e democratica dello Stato di diritto, sostenuta da pesi e contrappesi e diritti fondamentali costituzionalmente forti.

Chi è Richard Falk

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. È autore o coautore di 20 libri e redattore o co-editore di altri 20 volumi. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per un mandato di sei anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.”

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina

 




Israele ha creato una nuova categoria di terrorismo

Amira Hass

|30 gennaio, 2018 | Haaretz

Sul sito della Knesset compare una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore.” Quelli condannati in anticipo comprendono l’Autorità Nazionale Palestinese, i beduini e l’Unione Europea.

Coerenza esige che durante il loro viaggio a Bruxelles questa settimana, i delegati israeliani presentino alla responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, una convocazione al commissariato di polizia di Ma’aleh Adumim per essere interrogata su una sospetta attività terroristica.

Con una mano i rappresentanti israeliani, per via dei loro subappaltatori palestinesi, riceveranno un lauto assegno dall’UE per compensare l’ingente taglio di Donald Trump al finanziamento all’Autorità Nazionale Palestinese e all’UNRWA. (Vedi sotto: “Il taglio al finanziamento dell’ANP indebolisce il coordinamento della sicurezza”). Con l’altra mano consegneranno la convocazione per indagare su una sospetta attività e aiuto al terrorismo.

Per via di Auschwitz o a causa dei legami scientifici e militari con Israele, i rappresentanti europei accetteranno la convocazione con un sorriso. “Abbiamo sempre saputo che gli ebrei hanno uno sviluppato e alto senso dell’umorismo” diranno.

Ma si sbagliano. Questo non è uno scherzo. Si preparano altre espulsioni. Sul sito della Knesset è comparso una nuova categoria di terrorismo, “costruzione di terrore”. Quelli condannati in anticipo comprendono l’ANP, i beduini e l’Unione Europea. Il pubblico ministero, il giudice ed esecutore è il parlamentare Moti Yogev di Habayit Hayehudi [Casa Ebraica, il partito di estrema destra dei coloni ndt] che è anche presidente della sottocommissione del Comitato per la politica estera e la difesa della Knesset per l’espulsione dei palestinesi, anche conosciuta come sottocommissione per gli affari civili e la sicurezza nella Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania ndt]

Egli ha dichiarato che la costruzione palestinese nella Cisgiordania costituisce “terrorismo” quando avviene nel territorio che Israele con scaltrezza ha trasformato in un altro macigno sulla nostra esistenza – l’area C, nella quale ogni tenda, recinto per animali e condotto dell’acqua richiede un permesso israeliano di costruzione che non è mai concesso. Chiunque voglia alloggiare una giovane coppia in una stanza di sua proprietà, o ricostruirne una in pessime condizioni, [sostituire] una tenda fallata, o costruire un’aula di un asilo, è costretto a violare le leggi del padrone.

Giovedì scorso, la sottocommissione per le espulsioni era fuori di sé per la gioia: nel 2017 ci sono stati progressi nelle demolizioni di strutture palestinesi nell’area C, alcune delle quali costruite con finanziamento europeo. Nelle audizioni della commissione i parlamentari non si sono mai stancati di sottolineare la faccia tosta europea di finanziare strutture. Creando una realtà immaginaria con la loro terminologia, hanno definito le strutture “caravillas” [assente nel vocabolario inglese da assimilare a baracche ndt]. Le comunità palestinesi vengono chiamate “avamposti” e la loro presenza per decenni in questo territorio, “una sopraffazione”. Il territorio occupato [da Israele] è definito “territorio dello Stato”.

Abbiamo inventato il termine “terrorismo popolare” per descrivere le manifestazioni dei civili contro i nostri soldati armati. Abbiamo criminalizzato il BDS come terrorismo anche se il boicottaggio è lo strumento più antico nella storia della lotta nonviolenta contro i regimi oppressivi. Abbiamo chiamato “atto di guerra l’uso di istanze legali ”, quando i palestinesi hanno osato presentare il loro caso ai tribunali internazionali. Ora abbiamo anche accusato di terrorismo chiunque costruisca una scuola o una latrina. Presto li accuseremo di terrorismo per la loro tenace insistenza a respirare.

La riunione di giovedì scorso era incentrata sulla comunità [beduina] Jahalin che ha costruito una scuola con vecchi copertoni in un’area dove vivono da decenni, ma che la colonia di Kfar Adumim desidera [incamerare]. L’Amministrazione Civile [è l’istituzione israeliana che sovrintende al posto del potere militare, ndt] è determinata a deportare con la forza la comunità in un’area assegnata a loro a Abu Dis contro il parere di Abu Dis.

L’oratore più esplicito nella riunione è stato probabilmente il vice sindaco di Ma’aleh Adumim Guy Yifrah. Nell’interesse di espandere la sua colonia negli anni novanta , durante i negoziati di Oslo, i nostri soldati e burocrati hanno espulso centinaia di appartenenti alla tribù Jahalin dalle terre su cui hanno vissuto fin da quando furono espulsi dal Negev dopo il 1948.

Sono stati scaricati su una terra accanto alla discarica di Abu Dis. Ora, il vice sindaco ha detto che dare persino più terra nella stessa area a un altro clan della stessa tribù sarebbe un errore. “ Potrebbe far pensare ai Jahalin che stanno vicino a Ma’aleh Adumim , che lo Stato si è riconciliato con la loro residenza lì.”

Cosa stava dicendo esattamente? Che in effetti lo Stato non si è riconciliato con la loro presenza anche a Abu Dis. Il signor Yifrah ci sta dicendo che l’espulsione pianificata deve essere un altro passo verso l’espulsione finale in una località ignota.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)