Per poter lasciare Gaza, Israele chiede ai minorenni palestinesi di impegnarsi a non ritornare per un anno

Amira Hass

24 febbraio 2018, Haaretz

Israele impone drastiche restrizioni ai ragazzi di Gaza che lasciano la Striscia per andare all’estero, chiedendo loro di firmare un impegno a rimanere lontani.

Il 24 gennaio la diciassettenne Hadil ed i suoi tre fratelli sono arrivati al checkpoint di Erez al confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Il giorno prima avevano ricevuto un permesso israeliano per lasciare Gaza, passando da Israele alla Giordania attraverso il ponte Allenby (ponte sul fiume Giordano, passaggio tra Cisgiordania e Giordania, ndtr). Poiché Israele non ha permesso al loro fratello maggiore di accompagnarli nel viaggio per incontrare il loro padre, che vive in Svezia, Hadil ha assunto il ruolo di adulta responsabile.

A Erez un rappresentante dell’Ufficio israeliano di Coordinamento e Contatto ha chiesto ai quattro di firmare un impegno a non rientrare a Gaza per un intero anno, aggiungendo che, se non avessero firmato, non avrebbero potuto partire. Non avendo scelta, Hadil ha firmato per tutti loro.

Hadil non avrebbe mai immaginato che la sua firma su quell’accordo avrebbe fatto sì che l’Ufficio di Contatto emettesse disposizioni ancora più restrittive alla sua controparte palestinese, la Commissione palestinese per gli Affari Civili, e che quest’ultima sfidasse le nuove regole.

Questo caso getta luce su un problema generale relativo allo status della Commissione per gli Affari Civili, il cui compito è ricevere le richieste palestinesi di uscita da Gaza e trasmetterle ad Israele per l’approvazione o il respingimento. Il problema che sorge qui, e non per la prima volta, è dove stia il confine tra una necessaria cooperazione su questioni civili che riguardano la vita dei palestinesi e una collaborazione da parte dei responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese con i burocrati israeliani che sabotano i diritti fondamentali dei palestinesi.

Far firmare a dei minori un accordo così impegnativo è illegale, secondo Gisha – Centro Legale per la Libertà di Movimento, il cui intervento ha garantito i permessi di uscita a Hadil e ai suoi fratelli. L’avvocata di Gisha, Osnat Cohen-Lifshitz, lo ha scritto al capitano Nadav Glass, consulente legale del dipartimento di Gaza dell’Ufficio di Contatto.

“Non è la prima volta che i rappresentanti dell’Ufficio di Contatto fanno firmare a dei minori accordi la cui legittimità è dubbia persino quando siano degli adulti costretti a firmarli”, ha scritto. “Questo è ancor più vero quando dei minori non accompagnati sono costretti a firmare un documento senza il consenso e la firma dei loro genitori.”

Il 7 febbraio Glass ha risposto che le firme dei minori non erano valide. D’ora in poi, ha scritto, l’ufficio avrebbe controllato che gli impegni a non ritornare a Gaza per un anno sarebbero stati firmati da un genitore o da un tutore del minore.

“Per assicurare un comportamento corretto su questa questione in particolare, e sulla firma di accordi in generale, abbiamo deciso di ribadire che le richieste da parte di residenti della Striscia di Gaza, sia adulti che minori, di entrare in Israele per viaggiare all’estero per lunghi periodi siano trasmesse dalla Commissione Affari Civili con già allegato un impegno legalmente sottoscritto”, ha aggiunto. “Se le richieste vengono inoltrate senza il richiesto documento firmato, verranno respinte. E’ stata inviata una dichiarazione in tal senso alla Commissione Affari Civili.”

A partire dal 1997 Israele ha vietato agli abitanti di Gaza di andare all’estero attraverso il ponte Allenby senza un permesso speciale, che viene rilasciato col contagocce. Questa nuova disposizione era una delle tante restrizioni israeliane alla libertà di movimento, divenute più severe dopo la firma degli Accordi di Oslo del 1993, che hanno progressivamente isolato Gaza dalla Cisgiordania.

Finché il valico di confine di Rafah tra Gaza e l’Egitto restava aperto più o meno regolarmente, come nel 1997, questa restrizione era tollerabile. Ma attualmente Rafah è aperto solo alcuni giorni all’anno.

Inoltre nel 2007 Israele ha istituito un divieto indiscriminato per i palestinesi ad uscire da Gaza attraverso il checkpoint di Erez, tranne in alcuni casi umanitari rigorosamente stabiliti (malattia, morte, matrimonio o parentele di primo grado). Nel tempo questa restrizione si è un poco allentata, ma anche oggi solo poche migliaia dei due milioni di abitanti di Gaza hanno il permesso di uscire attraverso Erez.

Nel febbraio 2016 Israele ha deciso di permettere ai gazawi di andare all’estero attraverso Allenby, ma solo se promettevano di non ritornare per un anno. Questa condizione non costituiva un problema per le persone alle quali era destinata la modifica – i palestinesi residenti all’estero rimasti “bloccati” a Gaza durante una visita, o che avessero programmato lunghi soggiorni all’estero per studio o lavoro.

Una fonte palestinese ha detto che la Commissione Affari Civili e le autorità israeliane avevano stabilito questo accordo tra di loro. Le persone che viaggiavano a causa di malattie o eventi familiari e gli accademici che uscivano per brevi viaggi dovevano essere esonerati dall’impegno a non tornare per un anno.

Tuttavia, la Commissione non ha mai preteso che le persone che richiedevano permessi di uscita firmassero l’impegno a non tornare per un anno. Perciò veniva loro richiesto di firmare a Erez o ad Allenby. Chiunque rifiutasse doveva ritornare a casa.

In seguito al caso di Hadil e i suoi fratelli, la Commissione ha detto a Gisha che l’Ufficio di Contatto israeliano aveva iniziato a chiedere che fosse accluso ad ogni richiesta di uscita un impegno firmato. L’ufficio rifiuta di esaminare richieste che arrivano prive del documento firmato, ma la Commissione Affari Civili (palestinese) continua a rifiutarsi di chiedere alle persone di firmarlo.

L’Ufficio di Contatto recentemente ha anche chiesto alla Commissione di classificare più richieste di uscita come “per lungo soggiorno” all’estero, anche in casi umanitari come la partecipazione ad un matrimonio o la visita ad un ammalato. Effettivamente, in base alle ultime indicazioni ricevute dalla Commissione, chiunque si rechi all’estero deve firmare un impegno a non rientrare a Gaza per un anno.

Un mese fa, per esempio, Gisha ha inviato una petizione all’Alta Corte di Giustizia a nome di una giovane donna, suo padre e una zia, che volevano andare in Giordania per il suo matrimonio. L’Ufficio di Contatto ha detto a Gisha che tutte le tre richieste sarebbero state classificate come “lungo soggiorno”, chiedendo loro di firmare l’impegno a non tornare per un anno.

La Corte ha ordinato all’ufficio di riconsiderare il caso e i legali del governo hanno detto che non avrebbero insistito per la firma della sposa. Ma quando i tre sono arrivati a Erez, alla sposa è stato chiesto di firmare l’impegno. Solo l’intervento di Gisha ha fatto in modo che venisse annullato.

I dati ottenuti da Gisha, in base alla Legge sulla libertà di informazione, dal Coordinatore israeliano per le Attività di Governo nei Territori (COGAT) rivelano un largo scarto tra il numero di gazawi che richiedono permessi di uscita attraverso Allenby ed il numero di concessioni, ed anche tra questo ed il numero effettivamente utilizzato. Per esempio, nell’agosto 2017, sono state sottoposte 475 richieste, ne sono state approvate 169 e 39 respinte. Ma solo 96 persone sono realmente uscite, compresi 28 minori.

Il COGAT non ha detto se questa discrepanza fosse dovuta ad un rifiuto di firmare l’impegno a Erez. Ha anche rifiutato di dire quanti gazawi abbiano cercato di tornare a Gaza prima della scadenza dell’impegno annuale, o di specificare i “motivi umanitari” che consentono a chi ha firmato di chiedere di tornare a casa prima.

Un portavoce del COGAT, alla richiesta di spiegare la logica retrostante all’impegno a non tornare, ha risposto: “ Nel 2016 è stata presa la decisione di aiutare i residenti della Striscia di Gaza che non possedevano i requisiti vigenti per andare all’estero (essere pazienti, studenti ed accademici). All’interno di quella decisione, è stato aggiunto un criterio per i residenti di Gaza che andavano all’estero attraverso Israele. Per ottemperare a questa decisione, devono firmare che si tratta di un lungo soggiorno all’estero, di oltre un anno. Da quando è stato aggiunto il suddetto criterio le procedure per la firma di questo documento non sono cambiate. Tuttavia, per regolare e semplificare il procedimento, è stato recentemente deciso che i documenti firmati devono essere inoltrati con largo anticipo.”

Gisha ha detto che i criteri, “che Israele ha inventato e che cambia quando vuole”, sono rigidi e che chiedere alle persone di promettere di non ritornare per un anno è immorale, illegale e inumano.

La Commissione Affari Civili, come rappresentante dell’ANP, mantiene finora il rifiuto di inviare le richieste per permessi di uscita all’Ufficio di Contatto con un impegno firmato di non tornare a casa per un anno. Questa posizione di principio significa che le richieste di permesso di uscita non vengono esaminate, per cui le persone non possono andare all’estero. Ma è molto probabile che l’impellente bisogno delle persone di spostarsi avrà la meglio su questa istanza di principio nazionale, come è successo più di una volta nei rapporti tra l’ANP e Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un palestinese detenuto dai militari muore a Gerico in seguito alle percosse dei soldati israeliani

Jack Khoury, Yaniv Kubovich

22 febbraio 2018 | Haaretz

I militari dicono che l’uomo avrebbe minacciato i soldati con una sbarra di ferro. Le riprese mostrano i soldati che sopraffanno il palestinese sbattendolo a terra. Testimonianze: non è stata trovata alcuna ferita da arma da fuoco nel corpo.

Un palestinese è morto dopo essere stato arrestato martedì durante la notte da soldati israeliani nella città di Gerico, nei Territori Occupati. Una ONG palestinese ha affermato che l’uomo è stato percosso a morte dai soldati.

La risposta ufficiale dei militari sostiene che l’uomo sia stato ucciso dai soldati mentre li minacciava con una sbarra di ferro. Fonti militari hanno poi sostenuto che si sarebbe sparato all’uomo durante l’arresto, ma sul corpo non è stata trovata alcuna ferita da proiettile. Dunque si sta imponendo l’opinione che l’uomo sia morto per le percosse subite da parte dei soldati.

Un video visibile in rete mostra un incidente in cui un palestinese viene assalito da soldati israeliani durante un’operazione militare a Gerico. L’esercito ha confermato che il palestinese è morto più tardi per le ferite riportate. Il video mostra i soldati che sopraffanno il palestinese e continuano a picchiarlo mentre è steso a terra circondato da molti soldati.

I militari hanno confermato che il video documenta un incidente accaduto mercoledì notte a Gerico, ma sostiene che le riprese non permettono di capire pienamente l’incidente.

L’esercito israeliano ha sostenuto che durante un raid nella città della Cisgiordania sono scoppiate delle rivolte in cui “un terrorista armato di una sbarra di ferro ha minacciato i soldati cercando di attaccarli. I militari hanno risposto sparando, e affrontando il terrorista da vicino sono riusciti a fermarlo. Gli hanno trovato addosso un coltello. E’ stato portato via dalla zona dai militari per essere curato. Più tardi è stato dichiarato morto.”

Una dichiarazione precedente dell’esercito affermava che l’uomo avrebbe attaccato i soldati con un coltello e tentato di rubare un fucile, aggiungendo che sarebbe stato curato sul posto dai medici militari. Il video non mostra alcun tentativo di rubare un fucile. Più tardi, l’esercito ha ritrattato la dichiarazione e ne ha rilasciata una nuova.

Il ‘Palestinian Prisoners’ Club’ ha identificato l’uomo nel trentatreenne Yasin al-Saradih.

La dichiarazione afferma che l’uomo è stato picchiato e ferito con inalazione di gas lacrimogeno. La sua famiglia ha detto ad Haaretz che al-Saradih non soffriva di malattie né di altri disturbi di salute, che era single e che faceva ogni specie di lavoro, dall’ edilizia all’agricoltura. Era anche calciatore e giocava nel centro Alhalhel di Gerico.

Nel 2002 era stato ferito da un proiettile durante la seconda intifada, ma non faceva parte di alcuna fazione palestinese né di alcuna organizzazione. La sua famiglia dice che, per quanto ne sapessero, non era ricercato da alcuna struttura di sicurezza.

Secondo la famiglia, spesso i giovani trascorrono la notte in centro città, specialmente chi non ha un lavoro fisso. Quando l’esercito israeliano entra in città, si hanno spesso scontri e scoppi di violenza.

Eid Barahmeh, capo del Prisoners’ Club di Gerico, ha detto ad Haaretz che Yasin è stato arrestato intorno alle 2 di notte. Due ore dopo è stata notificata la morte alla famiglia. Secondo Barahmeh, il corpo di al-Saradih è stato trasferito all’Istituto Legale di Abu Kabir, e un medico incaricato dalla famiglia era presente all’autopsia.

L’esercito ha confermato che il video si riferisce ad un incidente avvenuto durante la notte a Gerico.

Lo scorso venerdì, due palestinesi sono stati uccisi e altri due feriti dalle granate israeliane mentre si avvicinavano al confine di Gaza, ha detto il Ministro della Sanità palestinese. Le salme sono state identificate come Salem Mohammed Sabah e Abdullah Ayman Sheikha, entrambi diciassettenni di Rafah.

Durante lo stesso fine settimana, l’esercito ha colpito 18 obbiettivi nella striscia di Gaza in seguito ad un intensificarsi delle attività sul confine. Sabato un razzo sparato da Gaza ha colpito una casa in un insediamento israeliano, causando danni materiali.

(Traduzione di Luciana Galliano)




La storia mai raccontata degli ebrei che se ne andarono dalla Palestina mandataria

Nir Hasson

Haaretz 16 febbraio 2018

Nei tre decenni precedenti la fondazione di Israele circa 60.000 ebrei lasciarono il Paese per ragioni finanziarie o ideologiche. Un nuovo libro rivela una pagina nera della storia sionista, compresa l’espulsione forzata degli immigrati ebrei “onerosi”.

Nell’ottobre 1926 a Varsavia ebbe luogo un avvenimento decisamente inusuale: si tenne un processo pubblico contro il movimento sionista per il modo in cui aveva trattato quelli che erano immigrati nella Palestina sotto mandato britannico durante quel periodo. A testimoniare erano ex-immigrati che avevano tentato senza successo la sorte nella Palestina mandataria e poi se n’erano andati. Uno di loro, un industriale di nome Rubin era partito quando la fabbrica di sigarette che aveva fondato non riuscì ad entrare nel mercato locale perché i fumatori preferivano marche importate, per cui chiuse la sua fabbrica e tornò in Polonia.

Nella sua testimonianza Rubin raccontò di come venne convocato ad una riunione con la “Brigata dei Difensori della Lingua” – un gruppo di appoggio alla recentemente rinata lingua ebraica nella Palestina mandataria. Lo rimproverarono per i suoi pacchetti di sigarette, che mostravano diciture in inglese, mentre sulla scrivania del segretario [della brigata, ndt.] che lo rimproverava si trovava un pacchetto di sigarette “Mabrouk” di fabbricazione egiziana.

Il testimone concluse affermando che nella Palestina sotto Mandato britannico venivano semplicemente boicottati i prodotti degli ebrei polacchi – anche se erano i migliori ed i più economici”, riferì il quotidiano “Doar Hayom” [uno dei primi giornali sionisti in Palestina e di destra, ndt.].

Il processo pubblico mette in luce una storia sconosciuta e, secondo qualcuno, deliberatamente messa a tacere nella storia sionista: quella degli ebrei che prima immigrarono, ma in seguito emigrarono durante il periodo dell’incremento della comunità ebraica (l’Yishuv) nella Palestina del Mandato britannico. Ebrei che erano immigrati per ragioni ideologiche o per necessità, tentarono la sorte ma ripartirono quando le cose non gli andarono bene. (In ebraico quelli che lasciano lo Stato ebraico sono chiamati “yordim”, che letteralmente significa “scendere”).

Il dottor Meir Margalit ha fatto una ricerca sulla storia degli emigranti ed ha recentemente pubblicato un libro in ebraico: “Tornare in lacrime. L’emigrazione durante il periodo del Mandato britannico.”

Margalit, un ex-consigliere comunale del Meretz [partito della sinistra sionista, ndt.] a Gerusalemme e immigrato dall’Argentina, a cui spesso è stato chiesto se ha fatto una buona scelta a venire qui, ha scritto lo studio come tesi di dottorato, prima all’Università Ebraica e poi all’università di Haifa. Spiega che lo spostamento di università è dovuto al soggetto della sua dissertazione e alla contrarietà per il suo interesse riguardo all’argomento.

Mi hanno etichettato come un ‘nuovo storico’ [corrente storiografica israeliana che ha messo in dubbio la versione ufficiale delle vicende precedenti e successive alla fondazione dello Stato, ndt.]” dice Margalit, raccontando come la sua ricerca ha innescato molte discussioni accese. “Per esempio, è stato scritto che, negli anni dal 1927 al 1929, gli emigranti se ne andarono per la carestia. Il tutor della mia tesi ha sostenuto che, in base ai dati macroeconomici, non c’è stata nessuna carestia nell’Israele pre-statale. Alla fine siamo arrivati alla conclusione che non ci fu una carestia ma c’era gente affamata.”

Margalit ha deciso che si doveva attenere al principio di ascoltare la narrazione degli emigranti come loro stessi l’hanno raccontata, senza mettersi a discutere con loro.

Quando la famiglia Mendelsohn lasciò (la Palestina mandataria) nel 1942 – dopo che l’esercito di Erwin Rommel aveva raggiunto le vicinanze del Paese – spiegando che ‘non erano fuggiti dalla furia di Hitler in Germania per caderne preda in Palestina,’ non abbiamo voluto verificare se in termini militari la paura fosse giustificata,” dice Margalit, per fare un esempio.

Egli sostiene che quelle voci rivelano un lato oscuro e ignorato della narrazione sionista.

Un fenomeno significativo

In termini demografici questo è un fenomeno significativo. Secondo stime, durante la Prima e la Seconda Aliyahs [lett. “salita”, l’emigrazione degli ebrei in Palestina, avvenuta in varie fasi, ndt.] (1882-1903 e 1904-1914 rispettivamente), oltre la metà di tutti i nuovi immigrati aveva lasciato il Paese persino prima che scoppiasse la Prima Guerra Mondiale nel 1914. Margalit si è concentrato sui circa 60.000 immigrati ebrei che se ne andarono durante il periodo del Mandato, dal 1923 al 1948. Negli anni di maggior insediamento ebraico nella Palestina mandataria – alla vigilia della fondazione dello Stato nel 1947 – circa il 10% di tutti i nuovi immigrati sarebbe emigrato.

Insieme a quelli che se ne andarono prima dell’inizio del dominio britannico nel 1917, gli emigranti furono circa 90.000 persone. Tuttavia Margalit sottolinea che, confrontata con altre ondate di immigrazione durante lo stesso periodo, questa dovrebbe essere considerata un successo. Per esempio, degli italiani che lasciarono la loro patria durante lo stesso periodo e andarono in Sud America, circa il 30% tornò più tardi in Italia.

Ma, a differenza degli italiani, gli ebrei della Palestina mandataria affrontarono difficoltà molto maggiori dopo essere emigrati. Ovviamente durante la Seconda Guerra Mondiale non c’erano possibilità di tornare in Europa, ma era pericoloso persino viaggiare verso altre destinazioni.

Margalit afferma che c’erano migliaia di persone che avrebbero voluto emigrare dalla Palestina mandataria, ma mancavano di mezzi. “A volte non avevano le otto sterline palestinesi per comprare un biglietto. Ci sono prove di persone che si riunivano nei porti e gridavano ai nuovi immigrati: “Perché venite qui?” O andavano agli uffici delle compagnie di navigazione per vedere se fosse possibile avere un posto in quarta o quinta classe.”

Altre crude testimonianze descrivevano come alcune persone erano riuscite a raggiungere un porto europeo, ma rimanevano bloccate là senza alcuna speranza di raggiungere le città d’origine, morendo lentamente di inedia e malattie. Questi racconti, sostiene Margalit, scoraggiavano quelli che volevano lasciare la Palestina mandataria.

Una delle storie più sconvolgenti riguardante quelli che volevano andarsene dalla Palestina mandataria è quella delle migliaia di aspiranti ad emigrare che si rivolgevano all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale, chiedendo di essere inclusi nelle liste dei rifugiati con diritto a tornare ai loro Paesi d’origine in Europa – come gli sfollati dispersi in tutta Europa.

Un gruppo chiamato “Organizzazione per il Ritorno degli Immigrati Tedeschi” si rivolse all’ONU con la richiesta di rimandarli in Austria e in Cecoslovacchia. Nel 1947 vennero inoltrate 485 richieste per un passaporto austriaco nella Palestina mandataria. E il console polacco a Tel Aviv parlò di 14.500 ebrei polacchi che chiedevano visti per tornare alla loro patria.

La dirigenza sionista lavorò per impedire che agli ebrei venisse concesso il “diritto al ritorno” nei Paesi europei, sostiene Margalit.

Ci sono prove di un accordo tra l’Agenzia Ebraica [una delle principali istituzioni sioniste, ndt.] e il consolato polacco nella Palestina mandataria, affinché provocasse ritardi infiniti per gli ebrei che volevano tornare, in modo che perdessero il desiderio di andarsene,” dice Margalit. “È chiaro perché l’Agenzia non voleva che tornassero, ed è anche chiaro perché non lo volevano neanche i polacchi – c’erano parecchi problemi di antisemitismo e di odio, così come questioni di proprietà. Ma è chiaro che se la porta fosse stata aperta il numero sarebbe notevolmente aumentato,” afferma.

Secondo Margalit, non furono solo quelli che ebbero successo e si fermarono qui che scrissero la storia dell’‘Israele pre-statale’, ma anche quelli che non rimasero. “Non sono solo i vincitori che hanno fatto la storia,” dice. “Quando ho osservato la storia con gli occhi degli emigranti, ho scoperto cose che non conoscevo.”

Per esempio, continua: “In generale descriviamo l’assimilazione delle prime ondate di aliyah come una storia di successo – eppure ho improvvisamente capito che non era vero. La dirigenza ebraica nella Palestina mandataria semplicemente perse il controllo e quelli che rimasero – lo fecero solo grazie ai propri sforzi.”

Triste e vergognoso

Il libro di Margalit racconta che la questione più triste e vergognosa riguardo al movimento sionista fu l’emigrazione forzata – soprattutto dei malati cronici o dei disadattati sociali, che vennero deportati dalle organizzazioni sioniste in modo che non diventassero un peso per la comunità ebraica.

Yehoshua Gordon era direttore dell’ufficio immigrazione a Tel Aviv durante il periodo del Mandato, e nel 1921 si lamentò che gli immigrati malati non solo venivano rimandati in Europa, ma che non stavano ricevendo le cure necessarie in Europa e stavano persino “morendo di malattia per le strade.” Ma, nonostante le critiche, rimandare indietro questi immigrati diventò una politica ufficiale nel 1926.

Margalit scrive che, un anno più tardi, vennero rese pubbliche istruzioni secondo le quali un immigrato che non fosse in grado di provvedere a se stesso potesse ricevere danaro per coprire le spese del viaggio di ritorno, mentre quelli che sceglievano di rimanere avrebbero ricevuto “assistenza economica a breve termine perché trovassero un contratto di lavoro – se erano in grado di dimostrare che, con questo contratto, avrebbero potuto sistemarsi stabilmente nel Paese.”

Uno degli immigrati, Moshe Ashberg, a cui venne detto che se ne doveva andare, effettivamente in lettere agli impiegati dell’ufficio immigrazione implorò che lo risparmiassero: “Ho paura di non poter vivere qui, perché non ho nessuno da cui andare,” scrisse.

Ma la maggior parte degli emigrati se ne andò di spontanea volontà. Tra costoro c’erano imprenditori borghesi che decisero di tentare la fortuna altrove, e anche pionieri [gli ebrei che fondarono le prime comunità in Palestina, ndt.]. Margalit ha scoperto che le difficoltà finanziarie erano la ragione principale citata per persone che tornarono al Paese d’origine o emigrarono del tutto in un altro Paese. La gente che non trovò lavoro o che vide che la propria situazione stava costantemente peggiorando scelse di andarsene per “salvare il salvabile”, come dice Margalit.

C’erano anche quelli che se ne andarono perché temevano per la propria vita – sia a causa dei tumulti arabi del 1929, della rivolta araba del 1936-39 o per timore delle truppe di Rommel e di una possibile occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale. E poco prima della guerra d’Indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra contro i Paesi arabi dopo la fondazione dello Stato di Israele, ndt.] gli inglesi aiutarono la comunità degli ebrei messianici [movimento ebreo cristiano di matrice evangelica, ndt.] a lasciare il Paese, dato che avevano paura sia degli ebrei che degli arabi.

Rivoluzione ideologica

Ci furono anche quelli che lasciarono la Palestina mandataria per pura e semplice nostalgia della patria. “Si trovano documenti strazianti, gente che scrive: ‘Ho sognato di venire qui, e improvvisamente sto sognando la casa e la famiglia.’” Altri se ne andarono per ragioni ideologiche: socialisti che ritenevano che il sionismo stesse tradendo la sua missione di fondare una società modello; ultraortodossi (o haredi) che vedevano i pionieri come profanatori della terra, e che preferirono praticare l’ebraismo nelle “corti” hassidiche in Polonia piuttosto che nel pre-Stato di Israele.

Capisco quelli che se ne andarono per ragioni ideologiche più degli altri – ho avuto pensieri simili,” ammette Margalit. “Tuttavia a un certo momento, mentre stavo scrivendo e vedevo le difficoltà dell’epoca, ho pensato che la domanda non fosse perché la gente emigrava, ma perché rimase.”

Il fatto che fosse così difficile lasciare il Paese è stata la fortuna del movimento sionista,” ritiene Margalit. “Se non fosse stato per le circostanze storiche, saremmo arrivati all’aprile 1948 molto più deboli di quanto eravamo all’epoca. E allora la decisione di (David) Ben-Gurion (di dichiarare la fondazione dello Stato) sarebbe stata diversa.”

Margalit, 65 anni, padre di tre figli e con un nipote, immigrò dall’Argentina nel 1972 come membro del movimento giovanile del Betar [della destra sionista, ndt.]. Poco dopo il suo arrivo, venne arruolato nell’esercito israeliano e fu uno dei fondatori della colonia di Netzarim nella Striscia di Gaza. Però venne ferito durante la guerra dello Yom Kippur, e durante la sua convalescenza in ospedale subì una rivoluzione ideologica, spostandosi da destra a sinistra.

Per anni è stato attivo nel “Israeli Committee Against House Demolitions” [Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case”, ndt.] e, quando era consigliere del consiglio comunale della Città di Gerusalemme, ha lavorato a favore dei palestinesi a Gerusalemme est.

Ammette che la storia degli emigrati ebrei lo tocca al di là dell’aspetto della ricerca: “Nel 2012 ho visitato l’Argentina e mi sono incontrato con membri del movimento (Betar) che sono rimasti o sono tornati, e ho fatto un confronto tra me e loro,” racconta. “Tutti attorno a me erano benestanti, ma io sono uno di quelli che il 4 di ogni mese si chiede dove troverà i soldi per pagare l’affitto. Mi domando anche che diritto ho di far crescere i bambini in questo Paese pericoloso, sull’orlo di un vulcano. Questo è qualcosa che passa per la testa di molti israeliani sani di mente che conosco.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Incoraggiato da Trump, Israele stringe la presa su Gerusalemme

Tamara Nassar

15 febbraio 2018, Electronic Intifada

Israele ha iniziato i lavori per un nuovo grande progetto di insediamento nella Gerusalemme est occupata. Secondo il “Palestinian Center for Human Rights” [“Centro Palestinese per i diritti umani”, ndt.] (PCHR), lo scorso martedì pomeriggio sono iniziati i lavori per la costruzione di un centro per studi religiosi ebraici nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il centro è a poca distanza dalla moschea di Al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per l’Islam. Il PCHR ha affermato che il progetto è una diretta violazione dei diritti palestinesi su Gerusalemme, e che “altererebbe e cambierebbe gravemente le caratteristiche storiche della città.”

Fa parte di un piano per eliminare la cultura palestinese, reinventare la storia di Gerusalemme in base ad una narrazione sionista ed espellere i palestinesi dalla città.

Il progetto è iniziato nello stesso momento in cui le autorità israeliane stanno installando un posto di blocco militare alla Porta di Damasco, una delle entrate della Città Vecchia, frequentemente utilizzata dai palestinesi.

La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sembra aver dato “via libera alle autorità israeliane per espropriare il territorio palestinese, in particolare nella Gerusalemme occupata, a favore dei progetti di colonizzazione,” ha aggiunto il PCHR.

Le autorità israeliane hanno approvato il piano nel 2015. Il progetto prevede la costruzione di un edificio di tre piani su 2.800 m2 a Gerusalemme est.

La costruzione di questa colonia violerebbe le leggi internazionali.

Violerebbe anche una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel dicembre 2016, che afferma che Israele deve “cessare immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto ai governi del resto del mondo di bloccare la costruzione del progetto e di fare pressioni su Israele perché rispetti le leggi internazionali.

Imposizione di tasse alle Chiese palestinesi

I palestinesi stanno anche condannando la decisione di Israele di iniziare a raccogliere tasse dalle Chiese e dalle istituzioni delle Nazioni Unite a Gerusalemme.

Le autorità dell’occupazione israeliana hanno preso questa iniziativa – che è l’ultima aggressione contro la nostra capitale, Gerusalemme occupata, e contro i suoi abitanti originari – per realizzare le illusioni delle autorità occupanti di espellerli a forza,” ha affermato Yousef al-Mahmoud, un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La decisione del consiglio comunale di Gerusalemme controllato da Israele si basa su una richiesta da parte di Gabriel Hallevy, un professore israeliano di diritto, secondo cui le esenzioni di imposta per le Chiese riguardano solo le proprietà utilizzate per il culto o per insegnare la religione.

Il consiglio comunale ha iniziato a raccogliere circa 186 milioni di dollari da 887 proprietà a Gerusalemme che sono di Chiese e delle agenzie ONU, dopo aver congelato i loro conti bancari.

Le organizzazioni colpite comprendono l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Il municipio ha già sequestrato circa 3 milioni di dollari dalla Chiesa cattolica, 2 milioni da quella anglicana, 500.000 dollari da quella armena e 161.000 dalla Chiesa greco ortodossa.

Svuotare Gerusalemme

I capi religiosi hanno affermato che Nir Barkat, il sindaco israeliano di Gerusalemme, sta violando i trattati internazionali che esentano le Chiese dalle tasse statali.

Al-Ahmoud dell’ANP ha affermato che non ci sono leggi al mondo che impongono tasse su luoghi di preghiera, tranne le leggi dell’occupazione.

Ora Israele cerca di reinterpretare queste leggi, che sono rimaste in vigore fin dai giorni dell’Impero Ottomano.

Atallah Hanna, un arcivescovo della Chiesa greco ortodossa, ha affermato che l’imposizione di tasse segna l’ultimo tentativo di Israele di svuotare Gerusalemme dalle sue istituzioni religiose e dagli abitanti palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




54 pazienti sono morti in attesa che Israele gli permettesse di uscire da Gaza

Ali Abunimah

14 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Cinquantaquattro palestinesi sono morti l’anno scorso aspettando che Israele permettesse loro di lasciare la Striscia di Gaza per curarsi.

Una di loro era Faten Ahmed, una ragazza ventiseienne con una rara forma di cancro. E’ morta in agosto mentre aspettava da Israele il permesso di viaggiare per ricevere trattamenti di chemioterapia e radioterapia non disponibili a Gaza.

Aveva già mancato otto appuntamenti ospedalieri a causa di ritardi o rifiuti da parte di Israele del “benestare di sicurezza”, riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ahmed è una delle cinque donne morte di cancro nello stesso mese in attesa del permesso da Israele che non è mai arrivato.

In totale, fra i morti l’anno scorso in attesa del permesso, 46 erano malati di cancro.

Uno scioccante numero di morti

Questo sconcertante pedaggio evidenzia l’impatto letale dell’assedio sempre più stretto di Israele sui due milioni di persone che vivono a Gaza.

Vediamo sempre più Israele ritardare o negare l’accesso a trattamenti che potrebbero salvare delle vite, che sia il cancro o altro, e di conseguenza un numero impressionante di malati palestinesi muoiono, mentre il sistema sanitario di Gaza – sottoposto a mezzo secolo di occupazione e a un decennio di blocco totale – è sempre meno in grado di provvedere ai bisogni della popolazione” ha detto martedì Aimee Shalan, amministratore delegato di Medical Aids for Palestinians.

La sua associazione assistenziale, insieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e i Medici per i Diritti Umani di Israele, ha rivolto un urgente appello a Israele affinché “tolga le illegali restrizioni totali alla libertà di movimento della popolazione di Gaza, molto problematiche per coloro con gravi problemi di salute.”

Nel 2017 le autorità di occupazione israeliane hanno accettato solo il 54% delle domande di permesso a lasciare Gaza per ragioni mediche, la percentuale più bassa da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cominciato a raccogliere dati nel 2008.

Israele ha tragicamente rafforzato la stretta mortale; la percentuale di permessi concessi è caduta dal 92 % del 2012 all’82% del 2014 per poi scendere al 62 % nel 2016 prima di raggiungere l’anno scorso il punto più basso.

Le associazioni per la salute e i diritti umani segnalano che l’ONU e il Comitato Internazionale della Croce Rossa hanno dichiarato il blocco di terra, navale e aereo di Israele su Gaza, che impedisce i movimenti della popolazione, una “punizione collettiva” – un crimine di guerra.

I palestinesi di Gaza hanno perso più di 11.000 appuntamenti medici programmati nel 2017 in seguito al rifiuto o alla risposta fuori tempo delle autorità israeliane alle richieste di permessi”, dichiarano le associazioni.

La complicità di Egitto e Autorità Nazionale Palestinese

Le associazioni sottolineano anche come l’Egitto e l’Autorità Nazionale Palestinese con sede a Ramallah abbiano avuto un ruolo nel peggiorare la situazione: “L’Egitto ha per lo più tenuto chiuso dal 2013 il valico di Rafah alla popolazione di Gaza, contribuendo così a diminuire l’accesso alle cure mediche.”

In quanto Stato confinante con un territorio che soffre di una lunga crisi umanitaria, l’Egitto dovrebbe facilitare l’accesso della popolazione agli aiuti umanitari”, affermano. “Ciò nonostante, la responsabilità finale resta a Israele, la forza di occupazione.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha anche drasticamente ridotto il sostegno finanziario alle cure mediche fuori Gaza come parte delle sanzioni intese a forzare Hamas perché ceda il controllo sulla gestione di Gaza.

Queste restrizioni da parte dell’ ANP hanno causato almeno un morto, secondo le associazioni. Ma le autorità mediche di Gaza hanno detto che più di una dozzina di persone, inclusa una bimba di tre anni con un problema cardiaco, sono morte aspettando un sostegno economico da Ramallah.

Tutto questo accade nel mezzo di una crisi prodotta dal prolungato assedio, che ha portato al collasso di pezzi fondamentali del sistema sanitario.

In una condizione di diffusa povertà e disoccupazione, almeno il 10% dei bambini più piccoli soffre di malnutrizione cronica, a Gaza manca più della metà di tutte le medicine e le dotazioni mediche necessarie o è inferiore al fabbisogno mensile, e la cronica mancanza di elettricità ha fatto sì che le autorità abbiano tagliato sulla sanità e altri servizi essenziali”, affermano le associazioni della sanità e dei diritti umani.

Fine dell’assedio

All’inizio di questo mese, gli ospedali di Gaza hanno cominciato a chiudere i battenti poiché i generatori d’emergenza sono rimasti senza combustibile, costringendo a rimandare centinaia di operazioni chirurgiche.

Mercoledì, RT (Russia Today) ha mandato in onda questo resoconto da Gaza sulla situazione critica dei malati di cancro. La corrispondente Anya Parampil ha parlato con Zakia Tafish il cui marito Jamil è morto dopo che gli è stato più volte impedito di andare a Gerusalemme a operarsi.

L’emittente ha anche trasmesso un notiziario sul peggioramento della situazione degli ospedali nei territori.

A seguito dell’allarme ONU sull’incombente catastrofe, il Qatar e gli Emirati Arabi si sono impegnati la scorsa settimana ad un finanziamento a breve termine di 11 milioni di dollari per prevenire per qualche altro mese una catastrofe ancora peggiore.

Comunque, come notano le associazioni dei diritti umani, non c’è altra soluzione a lungo termine che la fine dell’assedio.

Le restrizioni di movimento imposte dal governo israeliano sono direttamente legate alla morte dei pazienti e all’aggravarsi delle sofferenze, dovendo i malati chiedere i permessi”, ha detto Issam Younis direttore di Al Mezan.

Queste pratiche fanno parte del regime di chiusura e di permessi che impedisce ai malati di vivere dignitosamente, e viola il diritto alla vita.”

Medical Aid for Palestinian, con sede in Inghilterra, si sta appellando alla gente perché si rivolga ai legislatori del parlamento britannico e “chieda loro di premere sul governo britannico affinché agisca per salvare delle vite a Gaza.”

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




Dalla destra israeliana un appello alla deportazione di centinaia di migliaia di persone. E poi? Una Nakba?

Bradley Burston

13 febbraio 2018,Haaretz

Che cosa dovremmo pensare? Che ci sono problemi che possiamo soltanto espellere? Bene, perché no? Per qualcuno, frustrato dalla mancanza di politiche chiare, è un pensiero accattivante. Ma ecco perché no.

All’inizio di questo mese un articolo su “Makor Rishon” [giornale israeliano vicino alla destra religiosa ed ai coloni, ndt.], portabandiera ideologico della destra israeliana, affermava: “E’ giunto il tempo per una campagna pubblica per la deportazione degli illegali.” L’autore, Tzachi Levy, citava dati governativi che mostrano che almeno 230.000 non cittadini risiedono in Israele senza permesso, compresi, ha detto, non meno di 100.000 palestinesi della Cisgiordania, alcuni nelle città arabe israeliane, altri a Gerusalemme est, altri ancora tra i beduini del Negev.

Levy ha detto che le persone senza documenti costituiscono sia una minaccia alla sicurezza, sia il pericolo di “un tentativo di mettere in atto un ‘diritto al ritorno’ (dei palestinesi) dalla porta di servizio, sfruttando lo stato sociale israeliano.”

Che cosa dovremmo pensare? Che ci sono dei problemi che possiamo solamente espellere? Bene, perché no? Per qualcuno in Israele, frustrato da un governo che ha poche politiche chiare su qualunque questione, compreso il futuro della Cisgiordania, della Palestina e della democrazia all’interno di Israele, questo è un pensiero accattivante.

Il mese scorso, quando Raziel Shevach, un rabbino della Cisgiordania, paramedico e padre di sei figli, è stato ucciso in un attacco armato terroristico, il ministro dell’Agricoltura Uri Ariel, di estrema destra, ha invitato immediatamente il governo “ad espellere la famiglia dell’assassino per creare un deterrente.” Non vi era nessuna indicazione che la famiglia dello sparatore fosse in alcun modo coinvolta.

Ma ecco perché no:

Nella psiche nazionale sia degli israeliani che dei palestinesi l’orrore trasmesso dallo spettro della deportazione e dell’esilio non ha eguali. In molti modi lo stesso ebraismo, le sue scritture, la sua liturgia, il suo fulcro sono uno sforzo di superare e affrontare il dolore di migliaia di anni di esilio. In molti modi la cultura, la nazionalità e l’essere popolo dei palestinesi sono inseparabili dalla memoria e dall’angoscia evocate dal termine Nakba, la catastrofe – l’esodo di oltre 700.000 palestinesi che fuggirono o vennero espulsi dalle loro case nel periodo della guerra del 1948.

Persino in quest’epoca apparentemente moderna vi sono molti, da entrambe le parti, che affermerebbero senza riserve che, se dovessero scegliere, preferirebbero sinceramente la morte rispetto all’espulsione dalla propria casa e dalla propria terra.

Questo è il motivo per cui, in momenti in cui si fanno appelli da parte della destra israeliana ad usare la deportazione come strumento per risolvere i problemi di Israele, l’appello stesso può avere effetti incendiari.

Questo è uno di quei momenti.

Per settimane attivisti e commentatori di sinistra hanno messo in guardia che le deportazioni di massa di richiedenti asilo africani potrebbero servire come una specie di prova da parte del governo condotta in vista di una futura “soluzione” su basi demografiche, senza compromessi e fuori dalle vie diplomatiche, alle questioni poste da una numerosa, popolazione palestinese priva di diritti in Cisgiordania – lo spettro del

trasferimento” di popolazione e, in questo processo, della dissoluzione degli ultimi legami rimasti tra Israele e la democrazia.

Ora, benché non sia chiaro se suonino come avvertimento o come auspicio, toni simili si sono sentiti provenire dalla destra.

Che cosa dovremmo pensare quando Eldad Beck [famoso giornalista israeliano di centro destra, ndt.], un sostenitore del piano del governo di deportare decine di migliaia di richiedenti asilo africani, richiama la nostra attenzione sull’articolo di opinione di “Makor Rishon”, commentando così in un post su Facebook di sabato:

Non escluderei la possibilità che la lotta per sventare la deportazione di infiltrati dall’Africa sia in realtà finalizzata a promuovere una lotta contro una più significativa deportazione di infiltrati arabi.”

Per di più, mentre l’amministrazione Netanyahu – sfidando gli appelli di esperti di diritto internazionale e l’indignazione espressa da ampi strati del mondo ebraico e del pubblico israeliano – proseguiva i preparativi per espellere molti dei 37.000 richiedenti asilo africani residenti in Israele, la ministra della Giustizia di estrema destra Ayelet Shaked lunedì ha esternato un semplice ma sconvolgente messaggio in difesa del governo: la pulizia etnica al servizio del sionismo. Per essere precisi, Shaked non ha usato né il termine sionismo né la forte espressione pulizia etnica. Non ne aveva bisogno.

Citando le leggi emanate per preservare demograficamente una maggioranza ebraica in Israele – Shaked ha affermato che “lo Stato dovrebbe dire che è giusto conservare la maggioranza ebraica anche al prezzo della violazione dei diritti.”

Difendendo la determinazione del governo a tenere il termine “eguaglianza” fuori dalla proposta di legge sullo Stato-Nazione ebraico, Shaked ha detto: “ci sono luoghi in cui il carattere dello Stato di Israele come Stato ebraico deve essere mantenuto, e questo a volte avviene a scapito dell’eguaglianza.”

E, per paura che il vero motivo della deportazione da parte del governo dei richiedenti asilo africani sia frainteso rispetto a ciò che è – una malaccorta, non necessaria retata razzista ed una persecuzione che fa di migranti rispettosi della legge dei capri espiatori, invece di occuparsi dei reali problemi sociali degli israeliani nel sud di Tel Aviv – Shaked ha rilanciato: parlando lunedì al Congresso su giudaismo e democrazia, ha detto che, se non fosse stato per il muro che Israele ha costruito sul confine egiziano col Sinai, che riduce efficacemente il flusso dei richiedenti asilo, “qui assisteremmo ad una specie di strisciante conquista da parte dell’Africa.”

Lasciamo da parte, per il momento, il fatto che il governo, procedendo con le deportazioni, agisce in modo opposto al parere di alcuni dei suoi più forti sostenitori, in particolare il procuratore e difensore di Israele Alan Dershowitz [famoso avvocato e docente di diritto internazionale statunitense, sostenitore incondizionato di Israele, ndt.], che all’inizio di quest’anno ha detto: “Non si può evitare l’odore di razzismo quando c’è una situazione in cui 40.000 persone di colore vengono deportate in massa, senza che siano prese in considerazione individualmente ed ogni caso analizzato nel merito.”

O la conclusione di Dershowitz che la “Legge sul Ritorno”, che concede automaticamente il diritto alla cittadinanza a chiunque venga riconosciuto come ebreo dai dirigenti di Israele, “non dovrebbe essere una legge che esclude altri dal venire valutati come cittadini.”

E lasciamo da parte anche i punti deboli che non vedono gli avamposti [insediamenti illegali dei coloni israeliani in Ciagiordania, ndt.] nell’argomentazione di Makor Rishon, che afferma:” In uno Stato di diritto, chiunque si trovi qui illegalmente dovrebbe essere gentilmente mandato via da Israele.”

E tralasciamo anche, per il momento, le menzogne che il governo ha detto e continua a diffondere, a sostegno di un piano che ha dimostrato sempre più di essere utilizzato dal Likud e dallo Shas [partito religioso di destra, ndt.] nelle campagne di incitamento contro la popolazione nera.

E’ ora di chiedere che cosa stia facendo al popolo di questo Paese il discorso – e le prove – di un Israele che cerca di deportare lontano i suoi problemi.

E’ ora di chiedere se ciò che si sta tradendo siano esattamente la compassione e la generosità del “cuore ebraico”, che i ministri del governo esaltano così spesso come un dato di fatto.

Per fare un esempio, Mr. Macho ringhia in difesa dell’espulsione di bambini. Ecco Levy di “Makor Rishon” che biasima il governo per aver deciso, almeno in questa fase, di esentare alcune famiglie dalla deportazione – compresi bambini che non hanno mai conosciuto una patria e una cultura oltre Israele:

Dovunque nel mondo le famiglie migrano e i bambini si adattano.

Chiaramente, non è piacevole tornare in un Paese del Terzo Mondo, ma smettiamola con il politicamente corretto – non stiamo mandando nessuno a morire e, anche se la situazione non è bella, Israele non può caricare sulle sue deboli spalle tutti i problemi del Terzo Mondo.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele colpisce Gaza dopo che due soldati sono stati feriti, due palestinesi morti

MEE e agenzie

Domenica 18 febbraio 2018,Middle East Eye

L’esercito israeliano afferma che le sue forze hanno sparato “colpi di avvertimento” verso palestinesi che si stavano avvicinando alla barriera di confine tra Israele e Gaza

Fonti ospedaliere hanno affermato che domenica le forze israeliane hanno ucciso due adolescenti palestinesi nella Striscia di Gaza, mentre cresce la tensione dopo un presunto attacco con bombe che ha ferito alcuni soldati israeliani sul confine dell’enclave.

L’esplosione di sabato e i successivi attacchi aerei israeliani hanno segnato una delle più gravi escalation nel territorio governato da Hamas da quando il movimento islamico e Israele hanno combattuto un conflitto nel 2014 [l’attacco denominato “Margine protettivo”, ndt.].

Domenica medici di Gaza hanno affermato di aver recuperato i corpi di due palestinesi di 17 anni uccisi dal fuoco di un carro armato israeliano. L’esercito israeliano ha sostenuto che le sue forze hanno sparato” colpi di avvertimento” verso un certo numero di palestinesi che si stavano avvicinando alla recinzione di confine “in modo sospetto”.

Sono stati identificati dal ministero della Salute di Gaza come Salam Sabah e Abdullah Abu Sheikha, entrambi di 17 anni, che sono stati uccisi a est di Rafah nel sud dell’enclave. Dovevano essere sepolti più tardi domenica.

Sabato quattro soldati israeliani sono rimasti feriti, due in modo grave, quando un ordigno esplosivo artigianale è scoppiato lungo la barriera di confine di Gaza, ma secondo l’esercito nessuno di loro è in pericolo di vita.

Israele ha risposto con quelli che l’esercito ha definito attacchi aerei e fuoco dei carri armati contro 18 obiettivi di Hamas e della Jihad Islamica, compresi impianti per la fabbricazione di armi, campi di addestramento e postazioni di osservazione.

L’ala militare di Hamas, Izz ad Din al Qassam, ha sostenuto sabato notte di aver utilizzato missili antiaerei contro i jet israeliani sul territorio costiero.

Ciò è avvenuto nel quadro della resistenza contro la continua aggressione sionista contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza,” ha detto il gruppo senza ulteriori spiegazioni.

Escalation”

Nessun gruppo armato a Gaza ha rivendicato la responsabilità dell’esplosione di sabato. Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha detto che i “Comitati di Resistenza Popolare”, uno dei gruppi armati minori di Gaza, ha fatto esplodere la bomba che ha ferito i soldati.

Scoveremo i responsabili dell’incidente di ieri,” ha detto Lieberman a Radio Israele domenica, aggiungendo che Hamas é in ultima istanza responsabile di quanto avviene a Gaza.

Il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha accusato Israele delle violenze.

Hamas ritiene l’occupazione israeliana totalmente responsabile delle conseguenze per la sua continua escalation contro il nostro popolo,” ha affermato Barhoum in una dichiarazione.

Hamas e Israele hanno combattuto tre conflitti dal 2008. Il conflitto più recente, nel 2014, è stato in parte combattuto a causa di tunnel da Gaza che venivano utilizzati per lanciare attacchi.

Israele ha ripetutamente colpito obiettivi di Hamas nel sud della Striscia di Gaza all’inizio di febbraio, sostenendo che i palestinesi là avevano sparato un missile nel suo territorio.

La tensione tra i palestinesi e Israele è stata alta da quando il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico in dicembre.

Venerdì una fonte ufficiale dell’amministrazione USA ha detto all’agenzia AFP che Netanyahu visiterà la Casa Bianca il prossimo mese.

La visita del 5 marzo arriva mentre Netanyahu deve affrontare uno scandalo che ha visto la polizia raccomandare che sia imputato per corruzione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 30 gennaio – 12 febbraio 2018 ( due settimane)

Il 30 gennaio, nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante un episodio di lancio di pietre, un ragazzo palestinese di 16 anni è stato ucciso dalle forze israeliane.

Il ragazzo è stato colpito al collo con arma da fuoco, secondo quanto riferito, dopo aver lanciato pietre contro due veicoli militari israeliani che attraversavano il villaggio. Secondo testimoni oculari e fonti della comunità locale, in quel momento nel villaggio non erano in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine da parte della polizia militare. Dall’inizio del 2018, questo è il quarto ragazzo palestinese ucciso nei territori occupati in episodi di lancio di pietre; gli altri minori sono stati uccisi in Iraq Burin (Nablus), Deir Nidham (Ramallah) e nel Campo profughi di Al Bureij (Deir Al-Balah).

Un colono israeliano e un palestinese sono stati uccisi in due distinte aggressioni con coltello. Un colono israeliano di 29 anni è stato accoltellato e ucciso al raccordo stradale di Ariel (Salfit); l’aggressore è fuggito. A quanto riferito, si tratta di un palestinese 19enne, cittadino di Israele. Il 7 febbraio, un giovane palestinese di 18 anni ha ferito con coltello una guardia di sicurezza dell’insediamento di Kermei Tsur (Hebron) e successivamente è stato ucciso da un’altra guardia; il suo corpo è stato trattenuto dalle forze israeliane. Il 12 febbraio, due soldati israeliani sono entrati inavvertitamente nella città di Jenin dove sono stati circondati da un folto gruppo di palestinesi; prima di essere soccorsi da poliziotti palestinesi sono stati bersagliati e feriti con lanci di pietre.

Tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane durante tre distinte operazioni di ricerca-arresto. Due di queste ricerche sono state effettuate il 3 ed il 6 febbraio nei villaggi di Birqin e Yamoun (entrambi a Jenin) e, a quanto riferito, erano finalizzate all’arresto dei presunti responsabili dell’attacco con armi da fuoco che, il 9 gennaio, ha provocato la morte di un colono israeliano. Sempre a quanto riferito, l’uomo ucciso a Yamoun era armato e, secondo le autorità israeliane, è risultato coinvolto nell’attacco del 9 gennaio. Un altro uomo, accusato del coinvolgimento nello stesso attacco, è stato ucciso dalle forze israeliane il 18 gennaio, durante un’operazione di ricerca. La terza uccisione registrata durante questo periodo (un giovane di 19 anni) è avvenuta il 6 febbraio, durante scontri con le forze israeliane scoppiati nella città di Nablus, nel corso di un’operazione di ricerca finalizzata all’arresto del presunto colpevole dell’aggressione con coltello avvenuta all’incrocio di Ariel (vedi sopra).

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 211 operazioni di ricerca-arresto di cui almeno sette hanno innescato scontri e conseguenti ferimenti (vedi sotto). Durante queste operazioni sono stati arrestati, in totale, 330 palestinesi, tra cui almeno 51 minori. A Gerusalemme Est, i residenti hanno tenuto dimostrazioni e recitato le preghiere del venerdì all’ingresso del quartiere di Al ‘Isawiya, come protesta per le ricorrenti operazioni di ricerca-arresto da parte delle forze israeliane.

Nei Territori palestinesi occupati, nel corso di scontri, le forze israeliane hanno complessivamente ferito 464 palestinesi, tra cui 92 minori. 365 di questi ferimenti (78%) sono stati registrati durante manifestazioni contro il riconoscimento da parte degli Stati Uniti (6 dicembre 2017) di Gerusalemme quale capitale di Israele. 85 delle lesioni totali sono state segnalate vicino alla recinzione perimetrale di Gaza e le rimanenti in Cisgiordania: il maggior numero nella città di Al Bireh vicino al DCO [District Coordination Office] di Beit El e, a seguire, al checkpoint di Huwwara (Nablus) e nelle vicinanze dell’ingresso nord della città di Qalqiliya. La maggior parte degli altri ferimenti (147) sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto: nella città di Nablus (l’operazione più vasta, in cui è stato ucciso un palestinese di 19 anni – vedi sopra), nel villaggio di Beita (Nablus) e nei villaggi di Birqa e di Al Yamun (entrambi a Jenin). Analogamente al precedente periodo di riferimento, più della metà delle lesioni (245, pari al 53%) sono state causate da inalazioni di gas lacrimogeno necessitanti cure mediche, seguite da ferite da proiettili di gomma (122, pari al 26%).

Il 7 febbraio, nell’area H2 della città di Hebron controllata dagli israeliani, 58 minori in età scolare e due insegnanti hanno subito lesioni a causa dell’inalazione di gas lacrimogeno: in cinque scuole le lezioni sono state interrotte. Secondo fonti israeliane, le forze israeliane hanno lanciato bombolette di lacrimogeni in risposta al lancio di pietre, da parte di minori, contro veicoli di coloni israeliani. Nelle cinque scuole le lezioni sono state sospese per il resto della giornata, coinvolgendo oltre 1.200 studenti. Sempre nell’area H2, nel corso di alterchi verificatisi in diversi checkpoint, tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da soldati israeliani, mentre un ragazzo palestinese di 15 anni che stava tornando a casa è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani.

Il 5 febbraio, le forze israeliane hanno svolto esercitazioni di addestramento militare nella parte settentrionale della Valle del Giordano, in prossimità della Comunità pastorale di Al Farisiya Ihmayyer, danneggiando circa 7 mila mq di terra coltivata e determinando la necessità di ricovero in ospedale di un bambino di quattro mesi. La Comunità si trova in un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco” ed è considerata ad alto rischio di trasferimento forzato. Le “zone per esercitazioni a fuoco” coprono quasi il 30% dell’Area C e ospitano circa 6.200 persone in 38 comunità che vivono situazioni di elevato bisogno umanitario.

In tre diverse occasioni, gruppi armati palestinesi di Gaza hanno lanciato verso il sud di Israele tre razzi, tutti caduti, a quanto riferito, in aree non abitate di Israele. Questi lanci sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani, che hanno provocato danni ad un sito militare di un gruppo armato palestinese, ma anche a cinque appartamenti di un vicino edificio residenziale.

In Gaza, in almeno 46 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa: due pescatori sono stati colpiti da proiettili rivestiti di gomma e arrestati; successivamente sono stati rilasciati. Inoltre, quattro minori palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane mentre tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione. In un caso, nelle vicinanze della recinzione perimetrale di Khan Yunis, le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

In area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 25 strutture, tra cui una scuola finanziata da donatori. L’esecuzione di tali provvedimenti ha causato lo sfollamento di 33 palestinesi, tra cui 18 minori, mentre altri 135 ne sono stati diversamente colpiti. Il 4 febbraio, nella Comunità di beduini e rifugiati di Abu Nuwar (in zona C, alla periferia di Gerusalemme), sono state demolite due aule scolastiche che ospitavano 26 alunni palestinesi di 3a e 4a elementare. Questa è una delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale che subisce un contesto coercitivo (compresi i progetti di ricollocazione da parte delle autorità israeliane) ed è a rischio di trasferimento forzato. Si stima che almeno 44 scuole (36 nella zona C e 8 a Gerusalemme Est) siano in attesa di ordini di demolizione o di blocco-lavori. Delle altre strutture prese di mira durante il periodo di riferimento, 15 erano a Gerusalemme Est (Silwan, Beit Hanina e Al ‘Isawiya) e nove nell’Area C, compresa la Comunità di pastori di Um al Jmal (Tubas) e in Wadi Qana (Salfit ).

Un palestinese è stato ferito e sono stati segnalati danni alle proprietà in distinti episodi che hanno coinvolto coloni israeliani o che si sono verificati in prossimità di insediamenti israeliani. Nelle vicinanze di Qabalan (Nablus), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese. Nell’area di Silwan, a Gerusalemme Est, e vicino a Khirbet Zakariya (Betlemme), otto veicoli palestinesi sono stati vandalizzati da coloni. In tre diversi episodi, secondo fonti locali, circa 246 alberi di proprietà palestinese, su terreni appartenenti a palestinesi dei villagi di Bitillu (Ramallah), Yasuf (Salfit) e Burin (Ramallah) sono stati vandalizzati da coloni israeliani provenienti, secondo quanto riferito, dagli insediamenti di Nahliel, Rechalim, Yitzhar. Inoltre, in tre diversi episodi, 12 palestinesi, tra cui un minore, sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane intervenute a seguito di risse tra palestinesi e coloni israeliani. Questi episodi si sono verificati dopo l’ingresso di coloni in terreno privato nel villaggio Madama (Nablus), e in seguito a risse presso Abu Dis (Gerusalemme) e vicino all’insediamento colonico di Kokhav Ya’kov a Gerusalemme.

Secondo resoconti di media israeliani, sono stati segnalati almeno 14 episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: feriti tre coloni israeliani, inclusa una donna, e danni a cinque veicoli privati. Gli episodi si sono verificati sulle strade vicine ai villaggi di Tuqu’a (Betlemme), Beit ‘Ur at Tahta e Ni’lin (Ramallah), nella città di Abu Dis e nel villaggio di Hizma (Gerusalemme). Dal 1 febbraio, l’esercito israeliano ha chiuso l’ingresso principale del villaggio di Hizma, affermando che ciò veniva attuato in risposta al lancio di pietre [ad opera di palestinesi] contro veicoli di coloni israeliani transitanti sulla strada 437. La chiusura ha condizionato direttamente gli spostamenti di circa 7.000 palestinesi che vivono nel villaggio.

Nel periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato aperto, per tre giorni, in entrambe le direzioni, consentendo l’attraversamento a 1.894 persone (890 in uscita, 1.004 in entrata). Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Insegnante palestinese dilaniato da un cane dell’esercito israeliano mentre i soldati stavano a guardare

Gideon Levy, Alex Levac

16 febbraio 2018, Haaretz

Dopo aver fatto irruzione nella casa di un insegnante a notte fonda, i soldati gli hanno aizzato contro il loro cane. Il cane lo ha azzannato e bloccato, mentre i suoi familiari assistevano inorriditi

Non è un bello spettacolo. Sua moglie ci mostra le foto sul suo telefonino: il suo braccio ferito, malconcio e sanguinante, morsicato e lacerato, deturpato in tutta la sua lunghezza. Lo stesso vale per la sua gamba. È il risultato della notte di orrore che ha trascorso, insieme a sua moglie e ai suoi bambini.

Immaginatevi: la porta d’ingresso viene sfondata in piena notte, i soldati irrompono con violenza in casa e gli scatenano contro un cane. Lui cade sul pavimento, terrorizzato, mentre il feroce animale addenta la sua carne per un quarto d’ora. Per tutto il tempo, sia lui che sua moglie e i bambini gridano in modo straziante. Poi, ferito e sanguinante, viene ammanettato e arrestato dai soldati, gli vengono negate per ore cure mediche, finché viene portato in ospedale, dove questa settimana lo abbiamo incontrato insieme alla moglie. Anche là è rimasto agli arresti, costretto a giacere incatenato al letto.

Quel semilinciaggio è stato perpetrato da soldati dell’esercito israeliano nei confronti di Mabruk Jarrar, un insegnante arabo trentanovenne del villaggio di Burkin, vicino a Jenin, nel corso della brutale caccia all’uomo seguita all’assassinio, il 9 gennaio, del rabbino Raziel Shevach della colonia di Havat Gilad. E, come se non bastasse, pochi giorni dopo quella notte di terrore i soldati sono tornati nel cuore della notte. Le donne della casa sono state costrette a svestirsi completamente, compresa l’anziana madre di Jarrar e sua sorella muta e disabile, a quanto pare per cercare denaro.

Reparto ortopedico dell’ospedale Haemek di Afula, lunedì: una piccola stanza con tre letti. In quello di mezzo c’è Jarrar, che è qui da circa due settimane. Domenica mattina l’insegnante era ancora legato al letto con catene di ferro ed i soldati impedivano alla moglie di avvicinarsi. Se ne sono andati a mezzogiorno dopo che il tribunale militare ha ordinato il rilascio incondizionato di Jarrar.

Non è chiaro perché sia stato arrestato né perché i soldati gli abbiano aizzato contro il cane.

Il suo braccio sinistro e la sua gamba sinistra sono bendati, il dolore acuto che ancora accompagna ogni movimento è chiaramente visibile sul suo viso. Sua moglie Innas, di 37 anni, è accanto a lui. Si sono sposati appena 45 giorni fa, il secondo matrimonio per entrambi. I suoi due bambini nati dal primo matrimonio – Suheib, di nove anni, e Mahmoud, di cinque – sono stati testimoni di ciò che i soldati ed il loro cane hanno fatto al padre. I bambini adesso stanno con la loro madre a Jenin, ma il loro sonno è disturbato, come ci dice Jarrar: si svegliano con gli incubi, chiamandolo e bagnando il letto per la paura.

Jarrar insegna arabo nella scuola elementare Hisham al-Kilani di Jenin. Venerdì 2 febbraio lui e sua moglie sono andati a dormire circa a mezzanotte. Nella stanza accanto stavano dormendo i suoi due figli, che trascorrono con lui i fine settimana. Intorno alle 4 del mattino la famiglia è stata svegliata da un’esplosione proveniente dalla porta d’ingresso. Parecchie finestre sono state distrutte dalla potenza dell’esplosione. Jarrar è balzato dal letto ed è corso dai bambini. Fuori dalla casa erano ferme delle jeep dell’esercito. Secondo la coppia, un grosso cane, probabilmente dell’“Oketz”, l’unità cinofila dell’esercito, è stato portato dentro la casa, seguito da almeno 20 soldati. È facile immaginare il terrore che ha assalito loro ed i bambini.

Il cane si è lanciato su Jarrar, affondando i denti nel suo fianco sinistro, gettandolo a terra e trascinandolo sul pavimento. All’inizio i soldati non hanno fatto niente. Sua moglie è corsa verso di lui con una coperta, cercando di coprire il cane e salvare suo marito. I bambini guardavano e piangevano mentre i genitori gridavano aiuto; adesso dicono che le loro grida erano molto forti. Innas non è riuscita a liberare il marito dalla presa del cane.

Ci sono voluti alcuni minuti, ricordano, prima che anche i soldati cercassero di trattenere il cane, ma l’animale non gli obbediva. Mabruk era certo che stesse per essere fatto a pezzi ed ucciso; anche Innas temeva il peggio.

I soldati hanno strappato via i vestiti di Jarrar, a quanto pare nel tentativo di liberarlo dalle fauci del cane, ed alla fine ci sono riusciti – dopo circa un quarto d’ora, secondo la sua impressione. Poi uno dei soldati lo ha colpito due volte in faccia. Lui era ferito e barcollava per lo spavento ed in quello stato i soldati gli hanno legato le mani dietro la schiena. Lo hanno portato di sotto e a quel punto è arrivato un ufficiale che ha chiesto a Jarrar il suo nome, lo ha liberato dalle manette ed ha fotografato le sue ferite. L’ufficiale, ci dice ora Jarrar, è sembrato anche lui sconvolto dalle ferite sanguinanti, dal braccio e dalla gamba dilaniati.

Dopo essere stato nuovamente ammanettato, l’insegnante è stato portato con un veicolo militare al centro di detenzione di Salem, vicino a Jenin, dove dice di essere rimasto per circa tre ore senza nessuna assistenza medica. Alla fine è stato portato all’ospedale Haemek, dove è arrivato circa alle 10,30 del mattino. A quel punto era in arresto, anche se non era chiaro per quale motivo.

Quella stessa notte sono stati arrestati anche i suoi due fratelli, Mustafa e Mubarak Jarrar. Mubarak è stato rilasciato, Mustafa resta detenuto. Hanno tutti lo stesso cognome della persona ricercata per l’assassinio del rabbino Shevach, Ahmed Jarrar, che è stato in seguito ucciso dall’esercito.

Sempre quella stessa notte è accaduto un evento simile, che ha coinvolto altre forze dell’esercito, nel villaggio di Al-Kfir, vicino a Jenin. Circa alle 4 del mattino i soldati hanno fatto irruzione nella casa di Samr e Nour Adin Awad, genitori di quattro bambini piccoli. Insieme ai soldati è stato fatto entrare in camera da letto un cane dell’unità “Oketz”, che ha azzannato e ferito entrambi i genitori.

Come ha spiegato Nour a Abd Al-Karim a-Saadi, ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem: “Stringevo al petto mio figlio Karem di due anni, che piangeva. Ho aperto la porta, su cui i soldati stavano picchiando, ed un cane mi ha attaccata, saltandomi addosso. Karem è caduto dalle mie braccia. Poi ho visto che mio marito lo ha sollevato da terra. Ho cercato di cacciare via il cane dopo che mi ha morsicato il petto. Sono riuscita ad allontanarlo, ma poi ha afferrato coi denti la mia gamba sinistra. Con tutte le mie forze sono riuscita a scacciarlo. In quel momento i soldati guardavano il cane, ma non facevano niente. Per tutto quel tempo mio marito pregava i soldati di togliermi il cane di dosso. Un soldato ha parlato al cane in ebraico e allora esso mi ha afferrato per il braccio sinistro tenendomi stretta per alcuni minuti, finché è arrivato un soldato da fuori e lo ha allontanato. Io sanguinavo ed avevo molto male.”

La seconda irruzione dei soldati è avvenuta qualche giorno dopo, l’8 febbraio. C’erano solo donne e bambini in casa Jarrar: Innas, i due figli di suo marito ed anche sua madre e sua sorella, che vivono nello stesso edificio. Erano le 3,30 di notte. Secondo Innas, circa 20 soldati, maschi e femmine, hanno preso parte al raid. Le hanno detto che nella casa c’era del denaro di Hamas e che loro erano venuti per confiscarlo. Hanno calpestato i letti, ignorando le preghiere di Innas di fermarsi. Hanno chiesto dove fosse Mabruk – probabilmente non sapendo che era già detenuto dall’esercito in ospedale.

Poi ci sono state le perquisizioni corporali. Una donna soldato ha portato le tre donne – la moglie di Jarrar, sua madre di 75 anni e sua sorella cinquantenne disabile – in una stanza ed ha loro ordinato di spogliarsi completamente. La ricerca non ha portato a niente: niente soldi, niente Hamas. Di conseguenza i soldati hanno dato ad Innas un permesso di ingresso in Israele, per visitare suo marito ad Afula. Dice che le hanno detto che lui si trovava nel carcere di Megiddo. Vi si è recata il giorno dopo, solo per scoprire che lui non era là. Ha chiamato Abed Al-Karim a-Saadi di B’Tselem, che lei descrive come il suo gentile salvatore. Lui ha fatto qualche telefonata e ha scoperto che Mabruk era in realtà in ospedale ad Afula. Era ancora in arresto quando lei vi è arrivata e le è stato permesso solo di fargli visita per 45 minuti.

In risposta alla richiesta di una dichiarazione, il portavoce dell’esercito ha detto questa settimana ad Haaretz: “Il 3 febbraio 2018 le forze di sicurezza sono arrivate nel villaggio di Burkin, alla casa di Mabruk Jarrar, che è sospettato di attività dannose alla sicurezza in Giudea e Samaria (la Cisgiordania). Una volta giunti alla casa, i soldati lo hanno invitato ad uscire. Dopo ripetuti richiami e dato che non usciva, i soldati hanno agito secondo la procedura ed è stato inviato un cane a cercare la gente dentro casa. Il sospettato si era chiuso in una stanza al piano superiore dell’edificio insieme alle donne della sua famiglia.

Quando si è aperta la porta, il cane ha azzannato il sospettato, ferendolo. Egli ha ricevuto immediata assistenza dai medici dell’esercito fino a quando è stato trasferito all’ospedale. In seguito sono state svolte altre attività di ricerca di individui ricercati. Sottolineiamo che, contrariamente a quanto si sostiene nell’articolo, le donne della casa non sono state denudate dalle forze dell’esercito.”

Jarrar è seduto sul suo letto d’ospedale, parla con difficoltà, ogni movimento gli costa fatica. Innas viene ogni giorno da Burkin. “Come pensate che mi sentissi?”, risponde alla domanda su come si sentisse mentre il cane lo aggrediva. “Ho pensato che stavo per morire.”

Data la composizione etnica di medici, pazienti, infermieri e visitatori, questo è effettivamente un ospedale bi-nazionale ebreo-arabo – come molti degli ospedali nel nord del Paese. Ma un addetto alla manutenzione ebreo entra improvvisamente nella stanza, fremente di rabbia. “Perché state intervistando degli arabi? Perché non degli ebrei?”, chiede. L’uomo minaccia di chiamare l’ufficiale di sicurezza dell’ospedale, perché il ferito e straziato Mabruk Jarrar stava parlando con noi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La crisi per la corruzione di Netanyahu: ne faranno le spese i palestinesi

Danny Rubinstein

Giovedì 15 febbraio 2018, Middle East Eye

L’iniziativa di imputare il primo ministro israeliano per corruzione potrebbe spingerlo ancor di più nelle braccia della destra nazionalista: i palestinesi ne subiranno le conseguenze

In quanto anziano giornalista israeliano che ha scritto di palestinesi praticamente fin dalla fine della guerra del 1967 [la “guerra dei Sei Giorni”, ndt.], desidero testimoniare che nelle ultime settimane i palestinesi hanno continuato a dire che la loro situazione attuale è la peggiore di sempre.

Ed è ulteriormente peggiorata in seguito al terremoto politico provocato dalla raccomandazione della polizia israeliana che Netanyahu venga imputato di corruzione. Più la situazione di Netanyahu vacilla, più dovrà appoggiarsi alla sua base tradizionale: la destra ed i coloni. Ed il prezzo verrà pagato dai palestinesi. Per spiegare il rapporto tra Netanyahu ed i palestinesi dobbiamo tornare indietro a un episodio del suo passato.

Qualche anno fa, durante una sorta di incontro a Gerusalemme tra israeliani e palestinesi, il poeta israeliano Avoth Yeshurun (il nome d’arte di Yehiel Perlmutter), si alzò e si rivolse al poeta arabo Hanna Abu Hanna.

Solo un poco”

Yeshurun spiegò di essere arrivato come un pioniere nella terra di Israele, dopo le persecuzioni in Europa, per costruire una nuova società ebraica, una società giusta. Parlò a lungo della sua scoperta di una società ed una cultura arabe che per centinaia di anni erano state all’avanguardia della civilizzazione nel mondo. “Voi arabi siete grandi e forti,” disse.

Avete avuto le prime scuole di medicina al mondo; avete portato l’algebra in Europa insieme al sistema decimale e allo zero; avete rilanciato la filosofia aristotelica; avete guidato il mondo nell’arte, nella poesia, nella scienza, nella geografia e nell’astronomia, e avete rapidamente conquistato la vastità dell’Est e parte dell’Europa.”

Yeshurun guardò Hanna Abu Hanna e gridò: “Ecco quello che vi chiedo: spostatevi un poco, solo un poco. Voi dominate dall’oceano occidentale (il Marocco) fino al Golfo Persico, 300 milioni di persone, lasciate un po’ di spazio per noi, spostatevi un poco, solo un poco!!!”

Ricordo molto bene quell’incontro perché chi parlò dopo fu un anonimo giovane arabo che si alzò per affrontare Avoth Yeshurun e disse, in sostanza: “Cosa intendi per spostarci un poco? Cosa sarebbe un poco? Sono nato a Jaffa e tutta la mia famiglia vi aveva vissuto per centinaia di anni, e non mi sono spostato un poco, mi sono spostato di un bel po’, mi sono spostato del tutto. Noi siamo rifugiati. Abbiamo perso tutto. La casa e il giardino sono persi, la famiglia si è sparpagliata dappertutto. Questo è ‘un poco’?”

Debole – e forte

Tra i palestinesi che ho conosciuto, c’è sempre stata una tensione tra la loro identificazione come arabi e quella come palestinesi. In quanto arabi fanno parte di una nazione vasta, potente e prospera, ma come palestinesi sono deboli e impotenti. Recentemente abbiamo commemorato i 100 anni dalla emanazione della dichiarazione Balfour (novembre 1917), che nella cronologia palestinese è considerata l’inizio del conflitto tra la Palestina ed Eretz Yisrael [la Terra di Israele, ndt.].

E nel corso di questo secolo i palestinesi hanno continuamente cercato l’aiuto del grande e potente mondo arabo nella loro lotta contro l’Yishuv (pre-Stato) ebraico [la comunità degli ebrei sionisti in Palestina prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ndt.] prima e contro Israele poi. I Paesi arabi tentarono di aiutare i palestinesi. Ci furono un tentativo durante la rivolta araba del 1936-39 e ovviamente le guerre del 1948 e poi del 1967 e dell’ottobre 1973. Ma tutti questi tentativi fallirono.

Spesso a Yasser Arafat è stato chiesto cosa avesse determinato il problema palestinese ed egli ha sempre dato la stessa risposta: “Siamo stati traditi dagli arabi.” Arafat pensava che gli arabi avessero tradito i palestinesi quando firmarono l’armistizio del 1949 con Israele, e che li tradirono di nuovo quando non consentirono ai palestinesi di continuare la loro lotta popolare contro Israele.

Lui stesso venne incarcerato in Egitto quando era studente al Cairo. In seguito fu imprigionato in Libano, in Siria (1966), e perseguitato in Giordania durante il “Settembre Nero” [repressione dei palestinesi da parte dell’esercito giordano, ndt.] nel 1970. La ragione fu sempre la stessa: Arafat e i suoi nazionalisti palestinesi lealisti chiedevano che gli Stati arabi li aiutassero a lottare – e ormai da molto tempo i governanti arabi si sono rifiutati.

Il “tradimento arabo” dei palestinesi continua tuttora – più che mai. Si prenda, ad esempio, l’Egitto, lo Stato arabo più grande e forte e quello che ha lottato per i palestinesi più di quanto abbia fatto qualunque altro Paese arabo. Il regime del Cairo sotto il generale al-Sisi è in una pessima situazione. Oggi la popolazione egiziana è circa di 100 milioni di abitanti. I problemi economici sono senza precedenti.

Una volta il presidente Sadat disse a noi, un gruppo di israeliani, che comprendeva i problemi di sicurezza di Israele. “Avete sempre paura che gli arabi vi attacchino, ma la nostra paura è diversa: ogni giorno temiamo che, alla sera, non avremo abbastanza da mangiare.”

Oltre alla terribile sfida economica di alimentare un centinaio di milioni di egiziani, il regime del Cairo è minacciato dai gruppi estremisti islamici. L’ISIS [lo Stato islamico, ndt.] è attivo nella penisola del Sinai; recentemente ha operato un attacco contro una moschea a ovest di El Arish e ucciso più di 300 fedeli. Il generale al-Sisi ha grandi problemi ad affrontare l’estremismo islamico.

In questo contesto posso immaginare il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che arriva per un incontro al Cairo con al-Sisi e gli dice: “Mi devi aiutare. Gli israeliani hanno costruito altre 50 unità abitative nella loro colonia di Ma’ale Adumim ed hanno espulso e demolito le case di decine di famiglie palestinesi, e un soldato ha arrestato una ragazza a Nabi Saleh, nei pressi di Ramallah…”

In un immaginario scenario piuttosto stravagante come questo, il generale al-Sisi starebbe pensando che Abu Mazen ha perso la testa. L’Egitto sta affrontando problemi di vita o di morte di decine di milioni di persone e Abu Mazen sta parlando al leader egiziano di qualche casa mobile parcheggiata in qualche colonia. Questi sono i problemi dei palestinesi?

In questo contesto la cooperazione militare e di intelligence tra Israele e l’Egitto è migliore di quanto non sia mai stata. Israele aiuta l’Egitto nella sua guerra contro gli estremisti islamici nel Sinai. L’Egitto è diventato un vero alleato di Israele.

La situazione è simile tra Israele e la Giordania, dove il re Abdullah ha problemi economici da affrontare, con centinaia di migliaia di rifugiati siriani, e deve respingere militanti islamici sulle frontiere con la Siria e l’Iraq. La cooperazione di intelligence tra Israele ed Amman è un fatto consolidato e ben noto da molto tempo.

Alleati arabi

E c’è di più. C’è anche una cooperazione politica di livello piuttosto alto tra Israele, Arabia saudita ed Emirati. Israele, i sauditi e gli Stati del Golfo hanno un nemico comune: l’Iran. I sauditi stanno combattendo gli iraniani in Yemen – dove gli iraniani lanciano missili verso il territorio saudita – così come sul suolo siriano e libanese. Quindi ha preso forma una specie di alleanza strategica tra Israele e gli Stati arabi sunniti contro l’Iran sciita. Tutto sotto il patrocinio del presidente americano Donald Trump.

In Medio Oriente i palestinesi non hanno prospettive. Assolutamente nessuna. Nessun Paese arabo li aiuterà, ma potrebbe piuttosto danneggiarli. Benjamin Netanyahu ed il suo governo lo sanno. Possono fare tutto quello che vogliono ai palestinesi. E quindi il governo israeliano di destra continua a costruire e sviluppare le colonie della Cisgiordania.

Il 60% della Cisgiordania che, in base agli accordi di Oslo, è controllato da Israele, è stato quasi completamente annesso a Israele. Praticamente ogni settimana sentiamo di nuove leggi o regolamenti che discriminano gli arabi in Cisgiordania e in Israele. Nell’ultima settimana, per esempio, è stata approvata una legge speciale per accordare all’università della colonia di Ariel lo stesso status di cui godono le istituzioni accademiche all’interno di Israele.

Riguardo a Gaza, non c’è praticamente più niente da dire. I due milioni di palestinesi a Gaza sono stati sotto assedio per un decennio. Gli egiziani ed il regime di Ramallah fanno molto poco per aiutarli. Il risultato è che Gaza è sull’orlo di un disastro umanitario di massa. C’è energia elettrica solo da quattro a otto ore al giorno. L’acqua non è potabile. La disoccupazione è circa del 50%. L’economia è limitata alla generosità delle organizzazioni umanitarie internazionali, guidate dall’ONU, che recentemente hanno fatto notizia quando Trump ha annunciato progetti per ridurre drasticamente il loro bilancio.

Non tanto bene

Come già detto, oggi la situazione dei palestinesi è la peggiore da molto tempo a questa parte. Una società frammentata sprofondata nell’indigenza e sottoposta al potere limitato dell’Autorità Nazionale Palestinese, le cui forze di sicurezza sono diventate, in gran parte, complici di Israele.

Molti israeliani pensano che, finché i palestinesi stanno male, noi qui in Israele stiamo bene.

È così nei conflitti a somma zero. Ma nel nostro caso, non è così.

In Israele ci sono ambienti progressisti che pensano che anche noi siamo in una brutta situazione. Ormai da qualche tempo qui molte organizzazioni dei diritti umani hanno operato come l’opposizione più decisa al governo di Netanyahu.

La prova sta nella dura campagna di attacchi del regime contro le Ong. “Breaking the Silence” e i suoi soldati della riserva apertamente critici contro la condotta dell’esercito in Cisgiordania, “B’Tselem”, “Machsom Watch”, l’“Association for Civil Rights in Israel” [“Associazione per i Diritti Civili in Israele, ndt.], il “New Israel Fund” [“Nuovo Fondo Israele, ndt.]: tutte esistono da almeno 20 anni, ma solo ultimamente il governo Netanyahu le ha definite come il “Nemico numero uno”.

Netanyahu gode di ampio prestigio internazionale. È invitato nelle capitali internazionali, da Delhi a Varsavia, da Mosca a Washington. I suoi problemi sono principalmente in patria. Le critiche sono per lo più degli ambienti progressisti, all’interno di Israele, che non possono sopportare la realtà di quanto sta succedendo ai palestinesi. Egli sostiene sempre che tutte le critiche dirette contro il suo comportamento corrotto vengono da circoli progressisti di sinistra che cercano di rovesciare il suo governo.

Persino la raccomandazione della polizia di imputarlo di corruzione è vista da Netanyahu come nient’altro che un ulteriore tentativo politico da parte della sinistra traditrice di fare un colpo di stato. Quindi il grande timore è che l’attuale situazione lo spinga ancor di più nelle braccia della destra nazionalista e verso nuovi passi contro i palestinesi e contro i suoi nemici di sinistra. Mentre la presa di Netanyahu sul potere si indebolisce, i palestinesi e la sinistra progressista in Israele rischiano di pagarne il prezzo.

Danny Rubinstein è un giornalista e scrittore israeliano. In precedenza ha lavorato per “Haaretz”, dove è stato analista delle questioni arabe e membro del comitato editoriale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)