Rapporto OCHA del periodo 24 ottobre – 6 novembre (due settimane)

Il 30 ottobre, le forze israeliane hanno fatto esplodere un tunnel sotterraneo che, a quanto riferito, correva sotto la recinzione che separa Gaza da Israele; 12 membri di gruppi armati palestinesi sono morti e altri 12 sono rimasti feriti. Si tratta del maggior numero di vittime registrate in un singolo episodio dopo le ostilità del 2014. Il 5 novembre, l’esercito israeliano ha recuperato dal tunnel cinque cadaveri che, al momento, sono trattenuti da Israele. Altri cinque addetti della Difesa Civile palestinese sono rimasti feriti durante un tentativo di salvataggio delle vittime.

L’UNRWA ha annunciato che il 15 ottobre ha scoperto quello che sembrava essere un tunnel sotto una delle sue scuole in Gaza. Secondo l’Agenzia, essa attuò tutte le misure necessarie per rendere la scuola sicura, consentendo la ripresa della attività dopo dieci giorni. L’UNRWA ha chiesto a tutti i soggetti interessati il ​​pieno rispetto per la neutralità e l’inviolabilità dei locali dell’ONU in ogni tempo.

[nota: UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) è stata istituita nel 1948 dalle Nazioni Unite per il soccorso, lo sviluppo, l’istruzione, l‘assistenza sanitaria, i servizi sociali e gli aiuti di emergenza ad oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi che vivono in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza.]

Il 31 ottobre, le forze israeliane hanno fatto fuoco, uccidendo un palestinese 29enne e ferendo la sorella; i due stavano viaggiando sulla strada 465, nei pressi dell’insedia-mento colonico di Halamish (Ramallah). Secondo fonti israeliane, i soldati hanno aperto il fuoco contro il veicolo poiché il conducente ha proseguito nonostante gli fosse stato ordinato di fermarsi. Le autorità israeliane hanno riferito di aver avviato un’indagine penale sulle circostanze dell’episodio. Il corpo dell’uomo, che era del villaggio di Deir Ballut (Salfit), è stato trattenuto per tre giorni.

29 palestinesi, nove dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante scontri nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Gaza]. Diciotto feriti sono stati registrati nel contesto di operazioni di ricerca-arresto condotte in Campi Profughi, tra cui: Al Jalazun (Ramallah), Qalandiya (Gerusalemme), Ad Duhaisha e Ayda (Betlemme), Balata (Nablus), Jenin ed anche nelle città di Al Bireh (Ramallah) ed Hebron. In totale, le forze israeliane hanno condotto 166 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 179 palestinesi. Altri 11 feriti sono stati segnalati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale contro le restrizioni di accesso e durante quattro proteste attuate accanto alla recinzione perimetrale che circonda Gaza.

In almeno 15 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori per far rispettare le restrizioni di accesso imposte ai palestinesi in terraferma [ai terreni di Gaza lungo la recinzione] e nelle zone di pesca; due pescatori sono stati feriti, arrestati e la loro barca confiscata. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, vicino a Khan Younis e nell’area centrale, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale. Due palestinesi, tra cui un paziente, sono stati arrestati dalle forze israeliane al valico di Erez controllato da Israele.

Per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito cinque strutture in due località solo parzialmente situate nell’Area C, compromettendo il sostentamento di nove famiglie. Si tratta di quattro botteghe artigiane in Barta’a ash Sharqiyeh (Jenin), un villaggio situato nell’area chiusa dietro la Barriera (la zona di Seam), e una struttura agricola nel Campo Profughi di Al ‘Arrub (Hebron).

Presso la Comunità di Ad Dawa (Nablus), un’altra struttura agricola è stata colpita e distrutta da un colpo di cannone durante una esercitazione militare; ne risulta compromesso il sostentamento di quasi 100 persone. La Comunità si trova in un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco”. Negli ultimi anni, a causa soprattutto della violenza e delle intimidazioni dei coloni, i residenti in questa comunità hanno abbandonato le proprie abitazioni, accedendovi esclusivamente per le attività agricole.

In un’altra “zona per esercitazioni a fuoco” situata nel sud di Hebron, la vita di tre comunità è stata stravolta da esercitazioni, svolte con elicotteri, in prossimità delle loro abitazioni. Le comunità coinvolte sono Tuba, Sfai e Majaz, situate in un’area conosciuta come Massafer Yatta. Le coperture di alcuni ripari e i foraggi per gli animali sono stati spazzati via, mentre i bambini hanno sofferto paura e traumi. Le “zone per esercitazioni a fuoco” coprono quasi il 30% della Zona C ed in esse vivono circa 6.200 persone, distribuite in 38 comunità che presentano alti livelli di necessità umanitaria.

A metà ottobre, la sentenza di una corte israeliana ha aperto la strada alla demolizione (per mancanza di permessi edilizi) di quattro edifici nella zona Kafr ‘Aqab di Gerusalemme Est. Gli edifici comprendono circa 100 unità abitative, di cui sei abitate, e si trovano sul tracciato di una strada progettata per raggiungere il checkpoint di Qalandiya. Di conseguenza, sei famiglie (25 persone, tra cui 13 minori) rischiano lo sfollamento. Successivamente, a seguito dell’emissione di un provvedimento provvisorio, l’esecuzione delle demolizioni è stata sospesa fino a dicembre. Kafr ‘Aqab si trova all’interno dei confini comunali di Gerusalemme, ma dal 2002 è stata fisicamente separata dal resto della città dalla costruzione della Barriera; fruisce quindi di pochissimi servizi comunali.

Nel contesto della raccolta delle olive, ancora in corso, sono stati segnalati otto episodi di intimidazione e/o furto di prodotti da parte di coloni israeliani. Sette di questi episodi sono avvenuti in aree vicine agli insediamenti colonici; per i palestinesi, l’accesso a tali aree è soggetto a “coordinamento preventivo” con le autorità israeliane. Le comunità colpite comprendono: Deir al Hatab, As Sawiya, Deir Sharaf e Huwwara (Nablus), At Tuwani (Hebron), Sinjil (Ramallah), Al Jaba’a (Betlemme). Secondo quanto riferito, da ottobre di quest’anno, inizio della stagione della raccolta delle olive, almeno 1.073 alberi di proprietà palestinesi sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Sono stati inoltre segnalati alcuni episodi di lancio di pietre ad opera di coloni contro agricoltori palestinesi.

Due palestinesi sono stati feriti e una rete di irrigazione è stata vandalizzata da coloni israeliani. I ferimenti si sono verificati nel contesto di due aggressioni fisiche: nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della Comunità di Ein al Beida, nella valle del Giordano settentrionale. In quest’ultima zona si è avuto un secondo episodio: secondo testimoni oculari palestinesi, un gruppo di coloni israeliani ha divelto circa 1.000 metri di tubature per l’acqua da una rete di irrigazione e li ha gettati in una fossa vicino al confine con la Giordania. Le tubature erano state collocate nell’ambito di un progetto umanitario finanziato da donatori a sostegno degli agricoltori della zona che, in seguito ad una sentenza della Corte Suprema israeliana, avevano riacquistato il diritto di accesso ai propri terreni privati.

Secondo rapporti di media israeliani, a Ramallah e nei governatorati di Betlemme ed Hebron, un colono israeliano è stato ferito e diversi veicoli sono stati danneggiati dal lancio di pietre da parte di palestinesi. Per gli stessi motivi ha subito danni anche la metropolitana leggera nel tratto che attraversa il quartiere di Shu’fat (Gerusalemme Est).

Il 1° novembre le Autorità di Hamas hanno ceduto all’Autorità Nazionale Palestinese il controllo, sul versante di Gaza, dei valichi di Erez e Kerem Shalom [confine israeliano] e Rafah [confine egiziano]. In conseguenza, le precedenti restrizioni imposte dalle autorità di Hamas, sono state attenuate. Questo passaggio fa parte degli accordi di riconciliazione nazionale tra Fatah e Hamas, raggiunti il 12 ottobre. Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano è rimasto chiuso in entrambe le direzioni.

[nota: Gli accordi di riconciliazione nazionale sono stati raggiunti grazie alla mediazione dell’Egitto. Il valico di Rafah, fra due settimane, riaprirà al transito di persone e merci sotto la sorveglianza della guardia presidenziale di Abu Mazen e possibilmente del contingente europeo di osservatori. (fonte ANSA)]

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Una conferenza europea sull’attività di colonizzazione dichiara Israele un “regime di apartheid”

Ma’an News

10 novembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania.

Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:

1. Israele, il potere occupante dei territori palestinesi dal 1967, continua la sua politica di confisca, ebraicizzazione della terra palestinese e costruzione di colonie su di essa. Queste colonie, con il passare del tempo, sono diventate l’incubatrice di “organizzazioni terroristiche” di coloni come HiiltopYouth, Paying the Price and Revenge [rispettivamente “I giovani delle colline”, “Pagare il prezzo” e “Vendetta”, gruppi di coloni estremisti e violenti, ndt.].

2. Pertanto, con questa politica predeterminata di espansione delle colonie, è improprio parlare di smantellamento di colonie politiche o per la sicurezza, ma piuttosto occorre inquadrare questo movimento come una politica coloniale strutturale in grado di colonizzare una larga parte della Cisgiordania, non meno del 60% della sua estensione. Questa politica, di fatto, ha costituito un regime di apartheid, che viola la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che nel suo articolo 8 stabilisce che le colonie sono un crimine di guerra, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso il 9 luglio 2004 riguardo al Muro dell’apartheid, che è stato definito una grave violazione delle leggi internazionali, e le risoluzioni ONU, soprattutto la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza. Questa risoluzione afferma chiaramente che ogni attività israeliana di colonizzazione nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, è illegale in base alle leggi internazionali e costituisce un ostacolo alla costituzione di uno Stato palestinese contiguo, sostenibile e pienamente sovrano.

3. La conferenza di Bruxelles, prendendo nota dei fatti summenzionati, considera che la continuazione delle attività di colonizzazione pone fine a ogni possibilità per una soluzione dei due Stati e piuttosto concretizza il sistema di apartheid attuato dalla politica di occupazione. La conferenza chiede la fine immediata di ogni attività di colonizzazione perseguita dallo Stato occupante nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.

4. La conferenza di Bruxelles chiede alla comunità internazionale di assumersi le responsabilità giuridiche opponendosi a queste politiche razziste del potere occupante e imporre una seria pressione su di esso per il rispetto delle fondamentali leggi internazionali. L’Unione Europea, che ha intense relazioni e un accordo di associazione con lo Stato israeliano occupante, dovrebbe fare pressione su Israele in modo che essa [l’UE] si assuma la responsabilità di superare la differenza tra le sue parole e le sue azioni nel contesto della politica israeliana di colonizzazione, attivando l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti i suoi obblighi in quanto potere occupante.

5. La conferenza di Bruxelles chiede anche ai Paesi dell’UE di far seguire alle parole i fatti, non solo rilasciando dichiarazioni di denuncia e di condanna, ma adottando piuttosto misure concrete per rendere Israele responsabile, imponendo un divieto assoluto su ogni attività finanziaria, economica, commerciale e di investimenti, diretta o indiretta, con le colonie israeliane finché non si atterranno alle leggi internazionali.

6. I partecipanti a questa conferenza, mentre condannano la politica di colonizzazione nei territori palestinesi occupati come una violazione del diritto internazionale, sottolineano al contempo l’importante ruolo che può essere giocato da forze politiche, parlamenti, organizzazioni dei diritti umani e della società civile nei Paesi dell’UE per opporsi ai progetti israeliani di espansione e di costruzione di colonie. Chiedono anche ai governi dell’UE e alle loro istituzioni costituzionali di rispettare le proprie responsabilità in base alla responsabilità collettiva di rifiutare le violazioni da parte di Israele dei diritti dei cittadini palestinesi sotto occupazione, in modo da obbligare Israele almeno a rispettare i suoi obblighi in base all’Accordo di Associazione e da non permettere ai coloni e ai loro dirigenti di entrare nei Paesi dell’UE e da portarli davanti alla giustizia internazionale come criminali di guerra nel caso lo facciano.

7. I partecipanti alla conferenza chiedono ai popoli del mondo e alle loro forze democratiche amanti della pace di partecipare attivamente al movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, noto come BDS, e di fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale.

8. La conferenza afferma anche il proprio totale sostegno all’iniziativa palestinese di deferire alla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra la costruzione di nuove colonie, l’espansione di quelle esistenti e la violenza dei coloni contro i palestinesi.

9. I partecipanti alla conferenza plaudono alla crescente solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta causa. Elogiano anche il rifiuto da parte dei popoli del mondo delle politiche israeliane di pulizia etnica e di apartheid perseguite dallo Stato occupante israeliano.

10. I partecipanti alla conferenza chiedono di contrastare questa politica costituendo un comitato europeo di Paesi partecipanti rappresentati in questa conferenza per denunciare le continue violazioni da parte delle forze di occupazione e per rafforzare la pressione per perseguire i criminali di guerra israeliani finché Israele non rispetterà il diritto internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Hamas: il coordinamento per la sicurezza con Israele è la principale minaccia all’unità

Middle East Monitor

10 novembre 2017

Ieri Hamas ha detto che il coordinamento per la sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ed Israele danneggerà gli interessi nazionali palestinesi ed influenzerà negativamente le possibilità di promuovere una riconciliazione nazionale.

In una dichiarazione ufficiale il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha sottolineato che “Hamas è sorpreso dalla ripresa, da parte dell’ANP in Cisgiordania, del coordinamento e della cooperazione per la sicurezza con il nemico sionista, fatto che rappresenta il maggior pericolo per il popolo palestinese, la sua unità ed i suoi legittimi diritti, compreso il diritto a resistere all’occupazione.”

“Il coordinamento per la sicurezza dell’ANP pregiudica la reputazione del popolo palestinese, delle sue lotte e della sua storia”, ha aggiunto.

Barhoum ha chiamato il popolo palestinese a far pressione sull’ANP perché interrompa quelle che ha descritto come azioni “che danneggiano l’interesse nazionale”.

Ha sottolineato che l’ANP deve lavorare per assicurare che i colloqui per la riconciliazione abbiano successo e per promuovere il progetto nazionale palestinese.

Le osservazioni di Hamas sono giunte il giorno dopo che il capo della polizia dell’ANP Hazem Atallah ha comunicato che due settimane fa tutte le forze di sicurezza dell’ANP hanno completamente ristabilito la cooperazione per la sicurezza con Tel Aviv. “E’ per il nostro popolo, per la sicurezza del nostro popolo e per i diritti del nostro popolo”, ha detto.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva interrotto il coordinamento con Israele il 21 luglio, chiedendo che (Israele) rimuovesse i metal detector che aveva installato fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa. Secondo un sondaggio effettuato a settembre dal Centro palestinese di ricerca politica e statistica, circa il 73% dei palestinesi appoggiava la decisione di Abbas.

Di fronte a proteste di massa in tutto il mondo ed al rifiuto dei palestinesi di passare attraverso i metal detector, due settimane dopo Israele ha smantellato le barriere ed ha comunicato che avrebbe installato misure di sicurezza meno invasive. L’agenzia di informazioni Safa [che secondo Israele è legata ad Hamas, ndt.] ha riferito che all’inizio di questa settimana la polizia israeliana ha iniziato a sistemare telecamere ai cancelli della moschea di Al-Aqsa per controllare l’ingresso e l’uscita dei palestinesi dal luogo sacro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Mettere in chiaro le cose su Yitzhak Rabin

Amira Hass

6 novembre 2017, Haaretz

L’assassinio dell’ex primo ministro nel 1995 non è la ragione principale per cui non è stato creato uno Stato palestinese – nonostante ciò che credeva Yasser Arafat.

Una delle assurde considerazioni che Yasser Arafat soleva fare – e che si possono ancora sentir dire oggi da alcuni dei suoi seguaci – era che, se Ygal Amir [estremista ebreo che uccise il primo ministro Rabin per aver firmato gli accordi di Oslo, ndtr.] non avesse assassinato il primo ministro Yitzhak Rabin nel 1995, il processo di Oslo sarebbe proseguito e sarebbe sfociato in una conclusione positiva: uno Stato palestinese accanto a Israele.

Arafat ed il suo entourage dovevano giustificare gli accordi di Oslo di fronte a se stessi ed al loro popolo. Dovevano scusarsi per i gravi errori che avevano fatto durante i negoziati (inizialmente in modo ingenuo e disattento, in seguito con un misto di ingenuità, negligenza, stupidità, incompetenza, debolezza, crescente impotenza, miopia e considerazioni personali legate alla sopravvivenza e alla corruzione).

La politica israeliana non era e non è formulata sulla base delle decisioni di una sola persona. E certamente non quando si tratta della questione fondamentale del nostro essere sionisti: cosa diavolo fare con questi arabi che si sono introdotti nella nostra patria ebraica. L’orgogliosa risposta sionista a questa domanda può essere trovata oggi nella realtà delle sovraffollate enclave palestinesi, ridotte al minimo dallo spazio ebraico affamato di proprietà immobiliari che dio ci ha promesso. Che egli esista o meno.

Una sola persona non può essere responsabile di questa comoda realtà – nemmeno i più maturi tra i nostri pensatori geopolitici, Shimon Peres o Ariel Sharon, o Shlomo Moskowitz, che dal 1988 al 2013 è stato a capo del supremo comitato di programmazione dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.], che ha consolidato la pianificazione dell’apartheid in Cisgiordania.

Per dare forma alla realtà delle enclave c’è stato bisogno di un’intera rete di ideologi, generali, avvocati, ufficiali, architetti, rabbini, politici, geografi, storici, imprenditori e molti altri ancora. Perciò una sola persona non è sufficiente a fermare una politica impostata da una rete ben determinata e pienamente coordinata. Nemmeno Rabin – nemmeno ipotizzando per un momento che si sia reso conto che un accordo logico avrebbe potuto basarsi solamente su uno Stato palestinese contiguo.

E’ vero, Rabin definì i coloni sulle Alture del Golan “repulsivi”, ma disse anche che si augurava che Gaza affogasse nel mare. Ha anche fatto un ottimo lavoro definendo le aspettative di Israele nei confronti del suo subappaltatore palestinese, quando affermò che l’Autorità Nazionale Palestinese doveva governare senza l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] e senza l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem. E poi, più importanti delle sue affermazioni politicamente scorrette, ci sono i fatti sul terreno, avvenuti ancor prima del suo assassinio.

E queste sono le fondamenta della realtà delle enclave – che sono il contrario di uno Stato: separazione della Striscia di Gaza dalla Cisgiordania; separazione di Gerusalemme est dal resto dell’area palestinese; Area C [circa il 60% del territorio della Cisgiordania, in cui si trovano le principali risorse naturali e, in base agli accordi di Oslo, sotto completo controllo israeliano, ndtr.]; una leadership palestinese indebolita; rafforzamento delle colonie e dei coloni; due sistemi giuridici ineguali – uno per gli ebrei ed uno per i palestinesi; uso del pretesto della sicurezza come strumento di colonizzazione. Questa è una realtà che non può essere costruita in un giorno.

All’epoca di Rabin il blocco della Striscia di Gaza – cioè il regime che iniziò a vietare la libertà di movimento – divenne sempre più rigido. Gli studenti non potevano ritornare nella Striscia di Gaza dopo i loro studi. E poi, improvvisamente, egli concesse di tornare solo agli studenti di Bir Zeit. Alla domanda del perché solo loro, rispose (secondo quanto mi riferì all’epoca un membro del comitato di contatto palestinese): “Quando Arafat mi ha chiesto di permettere agli studenti di tornare, ha nominato solo l’università di Bir Zeit.”

Rabin sostenne la costruzione di una rete di strade di collegamento in Cisgiordania – una condizione importante per attrarre nuovi coloni e per spezzare la contiguità geografica palestinese, rafforzando la fase transitoria [degli accordi di Oslo, ndtr.] in cambio di rendere inutile la fase dello Stato palestinese.

Marwan Barghouti, con un tipico insieme di incredulità e serietà, mi raccontò la seguente conversazione tra Rabin ed Arafat:

Rabin: “Ma come faranno i coloni ad andare a casa nella fase transitoria se non dispongono di strade separate?”

Arafat: “Sono i benvenuti se attraversano le nostre città.”

Rabin: “Ma se qualcuno farà loro del male, noi interromperemo i negoziati e il ridispiegamento.”

Arafat: “Dio non voglia! Ok, allora costruite le strade.”

In qualità di primo ministro e ministro della Difesa, Rabin punì i palestinesi di Hebron per il massacro perpetrato contro di loro da Baruch Goldstein [autore del massacro di 29 palestinesi ed il ferimento di altri 125 ch pregavano nella moschea della Tomba dei Patriarchi, ndtr.] nel 1994. L’esercito, sotto il suo controllo, impose ai palestinesi draconiane restrizioni di movimento– che nel tempo non fecero che peggiorare – e si rese responsabile dell’espulsione dei palestinesi residenti dal centro della città. Rabin fu colui che rifiutò di evacuare i coloni di Hebron dopo il massacro.

Durante il suo mandato come primo ministro iniziò segretamente a Gerusalemme – come di consueto, senza alcuna dichiarazione ufficiale – la silenziosa politica di espulsione (attraverso la revoca dello stato di residenti ai palestinesi nati a Gerusalemme). La lotta contro ciò iniziò solamente dopo che le prove divennero evidenti, nel 1996. La divisione artificiale della Cisgiordania nelle aree A, B e C come guida per il graduale ridispiegamento dell’esercito venne imposta nel corso dei negoziati per l’Accordo Transitorio, firmato nel settembre 1995.

E’ impossibile sapere se Rabin collaborò a quel diabolico inganno, attraverso il quale, sotto le spoglie di un processo graduale e per ragioni di sicurezza, Israele si riservò l’area C come terra per gli ebrei. Ma è stato lui a coniare la frase “Non esistono scadenze sacre”, relativamente all’applicazione degli Accordi di Oslo.

L’assassino riuscì così bene nella sua impresa perché, contrariamente alla propaganda di destra, il governo guidato dai laburisti non aveva intenzione di spezzare il cordone ombelicale con cui era legato ai suoi metodi e obiettivi colonialisti. La disputa con gli oppositori del Likud  non fu mai sui principi, ma solo sul numero e sulla dimensione dei bantustan da riservare ai palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I carcerieri incatenati di Gaza

Amira Hass

7 novembre 2017, Haaretz

Gli israeliani si rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi siamo i carcerieri.

Ho visto gazawi felici. Un giornalista di Kan, l’emittente pubblica israeliana, alcuni giorni fa è andato al checkpoint di Erez, ha sbattuto un microfono e una telecamera in faccia agli abitanti della Striscia di Gaza e li ha stimolati a sospirare di sollievo. Fantastico! Il posto di controllo di Hamas dal lato di Gaza è stato tolto e il barbuto personale di sicurezza non ci ha interrogati.

L’impressione che si ricava dal servizio televisivo e da un precedente reportage su Haaretz è che l’unico ostacolo che affrontano quelli che vogliono lasciare Gaza sia Hamas, ma ci sono alcune domande che non sono state fatte ai gazawi sul confine, insieme alle risposte che ne sarebbero seguite:

D. Adesso, dopo la rimozione dei posti di blocco di Hamas, chiunque voglia lasciare Gaza può farlo? R. Stai scherzando? Dal 1991 noi possiamo andarcene solo con l’autorizzazione di Israele.

D. Quanto dura il periodo di attesa per un permesso di uscita israeliano? R. Circa 50 giorni. A volte solo un intervento legale da parte di un’organizzazione israeliana come il ‘Centro legale Gisha per la libertà di movimento’ o ‘Medici per i diritti umani’ può far ottenere un permesso.

D. Quali sono gli strumenti di controllo al checkpoint israeliano? R. Uno scanner girevole, istruzioni gridate con i megafoni, a volte una perquisizione personale.

D. Che cosa vi è consentito portare? R. Non si possono portare computer portatili, panini, valigie con le ruote o deodoranti.

D. Oltre a quelli della Jihad islamica e di Hamas, a chi è vietato uscire? R. La maggior parte della gente non può uscire. La figlia di un mio vicino è stata in cura a Gerusalemme negli scorsi nove mesi e lui sta ancora aspettando un permesso per andare a visitarla. Lo stesso vale per tre amici che hanno avuto bisogno di un esame medico di controllo l’anno scorso. Giovani che vorrebbero studiare in Cisgiordania non possono farlo perché Israele non glielo consente. Circa 300 studenti che hanno avuto la possibilità di studiare all’estero stanno aspettando un permesso ed il loro visto è a rischio.

D. Sei stato interrogato dal servizio di sicurezza (interno) israeliano Shin Bet? R. Non oggi. Ma a volte arriviamo al checkpoint e ci prendono da parte, ci fanno sedere su una sedia per un giorno intero ed alla fine ci fanno alcune domande sui vicini di casa, per 10 minuti, o ci mandano a casa senza farci domande. E’ così che perdiamo un appuntamento all’ospedale o un incontro di lavoro.

Gli israeliani rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi ne siamo i carcerieri. Ecco perché essi [gli israeliani] sono incatenati dalla loro volontaria ignoranza. Riferire sulla situazione viene facilmente trasformato in propaganda ad uso dei politici. D’altro lato, le omissioni e le distorsioni negli articoli scritti dai dirigenti che fanno politica sono un fatto naturale. Come ad esempio l’articolo scritto dal Coordinatore delle attività governative nei territori [il governo militare israeliano sui territori palestinesi occupati, ndt], general maggiore Yoav Mordechai e da due suoi colleghi, pubblicato la scorsa settimana sul sito web dell’Istituto di Studi per la sicurezza nazionale.

Le omissioni e le distorsioni sono rivolte al pubblico in generale. Per esempio, l’articolo afferma: “Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza con la forza.” Invece, il quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite e Unione Europea) e Fatah hanno agito in vari modi aggressivi per ribaltare i risultati delle elezioni democratiche per il Consiglio Legislativo Palestinese nel 2006, che Hamas aveva vinto.

“Hamas è diventato il potere sovrano”, hanno scritto Mordechai ed i suoi colleghi. Il potere sovrano? Anche se è Israele a controllare le frontiere, gli spazi aerei e marittimi ed il registro della popolazione palestinese? “Il governo di Hamas si sta indebolendo a causa della sua responsabilità relativamente all’impoverimento e alla disoccupazione.” I lettori che leggono questa frase nell’articolo hanno già dimenticato una precedente affermazione: “La situazione dei cittadini di Gaza è enormemente peggiorata dal 2007, soprattutto a causa delle restrizioni imposte alla Striscia da Israele (in termini di possibilità di muoversi da e per l’area ed in termini di attività economica).”

Gli autori del rapporto dell’Ufficio del Coordinatore delle Attività Governative nei Territori sono prigionieri della loro stessa posizione. Il COGAT impone rigorosamente queste restrizioni e le ha rese ancor più rigide. Gli autori mettono in guardia nell’articolo sulla prospettiva di un peggioramento della situazione, sia economicamente che psicologicamente, ma da ciò non consegue un coraggioso richiamo ai politici perché rimuovano i divieti al movimento della popolazione, delle materie prime e della produzione locale.

Gli autori suggeriscono al governo che sarebbe preferibile permettere che il processo di riconciliazione interna palestinese vada avanti. Ed invitano coraggiosamente i gentili [cioè i non ebrei, ndt] a finanziare la ricostruzione di ciò che Israele ha distrutto e sta distruggendo. Dopotutto, è ciò che essi hanno fatto dal 1993 – inviando un fiume di denaro per evitare un deterioramento ancor peggiore e per mantenere uno status quo conveniente ad Israele. E’ giunto il momento che i gentili utilizzino quei soldi come pressione politica che costringa Israele a ripristinare la libertà di movimento per i palestinesi a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Con uno sbadiglio – è così che la maggioranza degli israeliani risponde al furto di terre

Amira Hass

1 novembre 2017, Haaretz

Finché è ancora terra palestinese. Sanno che prima o poi potranno comprare a prezzo stracciato una villa con una fantastica vista su quella terra.

Cosa sarebbe successo se individui non identificati in Iran, Francia o Venezuela avessero aggredito commercianti ebrei e li avessero obbligati a chiudere i loro negozi? Quali scuse e manifestazioni di sconcerto i nostri diplomatici avrebbero chiesto all’Unione Europea, alle Nazioni Unite e chissà a chi altro? E con quanta esultanza vari ricercatori avrebbero tracciato un grafico dell’odio globale e sarebbero stati intervistati a lungo, con espressione seria, sulle inquietanti caratteristiche antisemite – così evocatrici di un oscuro passato – del privare ebrei dei loro mezzi di sostentamento e della distruzione delle loro proprietà?

Ma per noi israeliani questa domanda retorica ha perso il suo potere di educarci, di metterci in imbarazzo e di farci vergognare. Il fatto che così tanti israeliani siano coinvolti nel derubare così tanti palestinesi dei loro mezzi di sostentamento non è registrato neppure dai nostri sismografi. Questi sismografi sono calibrati per registrare, si dice, furti agricoli che sarebbero stati commessi da palestinesi. Al contrario, tutte le azioni che regolarmente noi portiamo a termine in modo che i palestinesi perdano le loro fonti di reddito provocano un grande sbadiglio. Ascolta, lo puoi già sentire.

Questa domanda retorica non è rivolta agli israeliani, perché essi sono i potenziali beneficiari del furto, se non quelli che già ne stanno beneficiando. Ecco un piccolo, parziale esempio recente: secondo rapporti complementari dell’Ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari e di due organizzazioni non governative, “Rabbini per i Diritti Umani” e “Yesh Din”, nelle ultime settimane individui non identificati hanno rubato olive da più di 1.000 alberi in 11 villaggi palestinesi in Cisgiordania – Azmut, Awarta, Yanun, Burin, Qaryut, Far’ata, Jit, Sinjil, Al-Magheir, Al-Jinya, Al-Khader. Inoltre individui non identificati, che sembravano ebrei, hanno aggredito raccoglitori dei villaggi di Deir al-Khattab, Burin, As-Sawiya e Kafr Kalil e li hanno cacciati dai loro campi.

A parte Burin, dove l’esercito ha individuato alcuni dei ladri ebrei e riportato il raccolto ai proprietari, questi furti significano che un investimento di tempo, denaro e fatica è andato in fumo. Nella maggioranza dei villaggi il saccheggio è avvenuto in zone che avamposti e colonie hanno recintato con l’uso di intimidazioni e violenze e in cui l’esercito, in cambio, ha punito i palestinesi limitandone l’accesso alle loro terre.

E’ così che ci garantiamo il fatto che nel giro di qualche anno ci saranno terre vuote su cui costruire un altro quartiere di lusso. Gli israeliani indifferenti sanno che presto là potranno comprarsi a prezzi stracciati una villa con una fantastica vista. Quindi sbadigliano.

Ci sono furti perpetrati in apparenza da singoli individui, e poi ci sono i furti di Stato – nel villaggio di Al-Walaja, per esempio. E’ molto probabile che questo sia l’ultimo anno in cui la raccolta delle olive vi abbia luogo come al solito. Il prossimo anno gli abitanti saranno soggetti a un sistema di permessi per poter raggiungere le loro terre attraversando un cancello agricolo nel muro di separazione, che verrà aperto quando l’ufficiale di stato maggiore per l’agricoltura dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania deciderà che debba essere aperto – per due o tre mesi all’anno. La mattina verrà aperto e chiuso immediatamente, e così alla sera.

Venerdì scorso un abitante di Al-Walaja e volontari israeliani di Engaged Dharma, che stavano aiutando nella raccolta, hanno preferito parlare di cose piacevoli: della qualità dell’olio d’oliva, delle olive succose che stavano crescendo vicino alla cisterna, di quelle più avvizzite che erano state raccolte dalla terrazza inferiore, dell’ottimo sapore dei rapanelli e delle cipolle verdi che egli coltiva tra gli alberi. Ma il prossimo anno gli abitanti del villaggio dovranno fare i conti con le restrizioni per avere un permesso – condizioni in contraddizione con l’abitudine palestinese di lavorare collettivamente la terra e che molto probabilmente non consentiranno loro di continuare a coltivarvi ortaggi.

Quelli che sbadigliano stanno già facendo un giro sulle terre di Al-Walaja, che sono state dichiarate dagli ebrei parco nazionale per l’ozio e il relax, per giostre ed immersioni rituali. E, se dio vorrà, il prossimo anno, quando la costruzione del muro sarà completata, non vi si vedranno palestinesi – i proprietari legittimi della terra.

Qui il discorso chiarisce perché, diciamo, un boicottaggio europeo e sudamericano dei, diciamo, prodotti agricoli israeliani sia necessario e giustificato. Questa sarebbe l’unica cosa che potrà far smettere gli israeliani di sbadigliare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché l’occupazione non è casuale

Rod Such

 18 settembre 2017 The Electronic Intifada

La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati, di Ilan Pappe, Oneworld Books (2017)

Secondo “La più grande prigione al mondo”, il nuovo libro dello storico israeliano Ilan Pappe, fin dal 1963 – quattro anni prima della guerra del 1967 – il governo israeliano stava progettando l’occupazione militare ed amministrativa della Cisgiordania.

La pianificazione dell’operazione – nome in codice “Granit” (granito)- ebbe luogo durante un mese nel campus dell’università Ebraica nel quartiere di Givat Ram a Gerusalemme ovest. Gli amministratori militari israeliani responsabili del controllo dei palestinesi si riunirono con funzionari legali dell’esercito, figure del ministero dell’Interno e avvocati privati israeliani per stilare le norme giuridiche ed amministrative necessarie per governare sul milione di palestinesi che all’epoca vivevano in Cisgiordania.

Questi piani facevano parte di una strategia più complessiva per mettere la Cisgiordania sotto occupazione militare. Questa strategia era denominata in codice “Piano Shacham”, dal nome del colonnello israeliano Mishael Shacham che ne era l’autore, e venne ufficialmente presentata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano il 1 maggio 1963.

Pappe ha sostenuto a lungo che la guerra del 1967 e l’occupazione che ne seguì non furono “l’impero casuale” descritto dai sionisti progressisti. Pappe ritiene che un “Grande Israele” fosse stato prospettato fin dal 1948, e la sua pianificazione sia avvenuta fin dalla guerra di Suez del 1956.

La novità contenuta in “La più grande prigione al mondo” è il resoconto dettagliato da parte di Pappe esattamente di quello che i pianificatori israeliani avevano stabilito nel 1963: ossia “la più grande mega-prigione per un milione e mezzo di persone – un numero che sarebbe cresciuto fino a quattro milioni – che sono ancor oggi, in un modo o nell’altro, incarcerati all’interno dei muri reali o virtuali di questa prigione.”

Sistema di controllo

La descrizione da parte di Pappe degli incontri di Givat Ram ricorda il modo in cui aprì il suo libro più venduto, “La pulizia etnica della Palestina”, con la sua descrizione della “Casa Rossa” a Tel Aviv in cui il “Piano Dalet” (il Piano D) – per espellere quasi un milione di palestinesi – fu ordito 15 anni prima.

E in un certo senso “La più grande prigione al mondo” completa una trilogia, che comprende anche “I palestinesi dimenticati: una storia dei palestinesi in Israele”, che include la storia del popolo palestinese sotto il sionismo dal 1948 ad oggi.

Pappe afferma che il governo israeliano comprese nel 1963 che non sarebbe stato in grado di condurre un’espulsione di massa delle dimensioni della Nakba, espulsione forzata dei palestinesi nel 1948, a causa del controllo internazionale. Ciò spiega perché cominciò a disegnare un sistema di controllo e di divisione che avrebbe garantito una colonizzazione di successo in Cisgiordania, avrebbe privato i palestinesi dei diritti umani fondamentali, non concedendo loro la cittadinanza, e avrebbe garantito che la loro condizione di non cittadini nel loro stesso Paese non sarebbe mai stata negoziabile.

Benché la guerra del 1967 abbia determinato l’espulsione di altri 180.000 palestinesi (secondo le Nazioni Unite) e forse addirittura 300.000 (secondo il libro di Robert Bowker “Palestinian refugees: Mythology, Identity, and the Search for Peace [Rifugiati palestinesi: mitologia, identità e la ricerca della pace]), secondo Pappe gli incontri di Givat Ram e quelli che seguirono prospettarono una specie di amministrazione carceraria per i palestinesi rimasti.

Già il 15 giugno, tre giorni dopo la fine della guerra, una commissione di direttori generali, compresi tutti i ministri del governo responsabili dei territori appena occupati, iniziò ad edificare quella che Pappe chiama una “infrastruttura per l’incarcerazione” dei palestinesi. Tutta questa pianificazione, egli scrive, ora si può trovare in due volumi di resoconti resi pubblici, per un totale di migliaia di pagine, derivanti dai verbali degli incontri del comitato.

Quasi subito dopo la conclusione della guerra, Israele iniziò a mettere in atto un piano ideato da Yigal Alon – membro del parlamento israeliano, la Knesset. Il piano era di creare dei “cunei” de-arabizzati, serie di colonie solo di ebrei in Cisgiordania “che avrebbero separato palestinesi da palestinesi ed essenzialmente annesso parti della Cisgiordania ad Israele.”

Questi cunei, inizialmente nella valle del Giordano e sulle montagne orientali, sarebbero stati più tardi perfezionati da Ariel Sharon, ministro dell’Edilizia di Israele e più tardi primo ministro. Alla fine avrebbero assunto le caratteristiche concrete di una prigione, nella forma di posti di blocco, di un muro dell’apartheid e di altre barriere fisiche.

Pappe contesta la tesi secondo cui le colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale, siano state il risultato di un movimento messianico nazional –religioso, un argomento sostenuto in modo più articolato da Idith Zertal e Akiva Eldar nel loro libro “Lords of the Land: The War Over Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007.” [“Signori della terra: la guerra sulle colonie israeliane nei territori occupati, 1967-2007]. Al contrario fornisce prove che dimostrano il fatto che i governi sionisti laici, compreso quello di Golda Meir, del partito Laburista, corteggiarono questo movimento e lo utilizzarono per promuovere l’espansione coloniale da parte di Israele.

Percepibile

Non ci volle molto, comunque, prima che lo schema del governo provocasse una resistenza di massa, iniziata con la Prima Intifada del 1987-1993. Gli accordi di Oslo cercarono di affrontare questa resistenza. Pappe mostra che gli accordi di Oslo non ebbero mai l’obbiettivo di arrivare ad uno Stato palestinese e che definirono semplicemente la creazione di piccoli cantoni simili ai bantustan dell’apartheid sudafricano, con benefici aggiuntivi per il fatto che i costi e le responsabilità dell’occupazione vennero in larga misura trasferiti a importanti donatori ed organizzazioni internazionali – soprattutto l’Unione Europea – ed all’Autorità Nazionale Palestinese appena creata.

E’ qui che la metafora della prigione di Pappe diventa più percepibile. Finché l’ANP darà seguito alle proprie responsabilità riguardo alla sicurezza, la resistenza palestinese verrà messa a tacere, i palestinesi potranno vivere in una prigione di minima sicurezza “senza diritti civili ed umani fondamentali”, ma con l’illusione di una limitata autonomia. Appena la resistenza si manifesta, tuttavia, Israele impone i controlli di una prigione di massima sicurezza.

Quindi negli anni seguenti la Cisgiordania è diventata la prigione di minima sicurezza e Gaza- con Hamas alla guida della resistenza – è diventata quella di massima sicurezza. I palestinesi, scrive Pappe, “potrebbero essere sia i detenuti della prigione aperta della Cisgiordania o incarcerati in quella di massima sicurezza della Striscia di Gaza.” Tutto quello che è avvenuto dopo la guerra del 1967, nota Pappe, segue la “logica del colonialismo di insediamento” e quella logica prevede la possibile eliminazione dei palestinesi autoctoni. Tuttavia questo risultato non è inevitabile. Un’alternativa è possibile, afferma Pappe, se Israele smantella le colonie e apre la strada “alla logica dei diritti umani e civili.”

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Boook” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Dichiarazione Balfour dissezionata: 67 parole che hanno cambiato il mondo

Amanda Thomas-Johnson

1 novembre 2017, Nena News

Middle East Eye

Un secolo dopo il sostegno del governo britannico per una patria ebraica genera ancora controversie. Ecco perché

È battuta a macchina su un singolo foglio di carta. È lunga meno di 70 parole. Il suo linguaggio è privo di emozioni e difficilmente potrebbe essere chiamata poetica. Ma la Dichiarazione Balfour, emessa dal governo britannico cento anni fa questa settimana, ha cambiato il corso della storia per ebrei, arabi e resto del mondo.

Dietro alla breve asserzione – nascosta in una lettera di 112 parole – sta la promessa ai sionisti di una patria per il popolo ebraico. Una promessa corroborata dalla spinta di Londra verso la vittoria nella guerra, dal romanticismo biblico dei cristiani dell’establishment e, nelle parole di Avi Shlaim, professore israeliano, dal “freddo calcolo degli interessi imperialisti britannici”.

Capire come la dichiarazione è stata prodotta è la chiave per comprendere come, un secolo dopo, resta fonte di intensa controversia, celebrata da molti ebrei ma anche avversata da molti arabi.

Tempo di guerra

È l’autunno 1917, tre anni dall’inizio della prima guerra mondiale. Le truppe britanniche sono quasi alle porte della città di Gerusalemme in Palestina. Il territorio, insieme a buona parte del Medio Oriente, è sotto il controllo dell’impero ottomano che, con la Germania, sta combattendo la Gran Bretagna.

Per farsi aiutare a vincere la guerra, i britannici incoraggiano gli arabi alla rivolta contro gli ottomani in cambio di una patria pan-araba. Ma nel 1916 Francia e Gran Bretagna avevano firmato in segreto gli Accordi di Sykes-Picot, che hanno fatto a pezzi il Medio Oriente e lo hanno spartito tra i due poteri europei.

In quello che è il secondo tradimento delle aspirazioni politiche arabe, Arthur Balfour, il segretario agli Affari esteri britannico, scrive il 2 novembre a Lord Walter Rothschild, preminente membro della comunità ebraica britannica. La dichiarazione è il culmine di numerose bozze, che erano state attentamente lette dai membri del governo.

Rothschild, un finanziere, è membro di una delle più ricche famiglie europee. È anche il primo ebreo a sedere nella Camera dei Lord e un leader del movimento sionista che ha lavorato per creare uno Stato per gli ebrei in Palestina – anche se la sua popolazione all’epoca era per oltre il 90% araba.

Il Regno Unito appoggia la causa sionista

Gli ebrei stavano immigrando in Palestina da qualche decennio, spinti dai pogrom antisemiti nell’impero russo alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo. Ma è nel 1897, con la fondazione dell’Organizzazione Sionista in Svizzera per volere di Theodore Herzl, giornalista austro-ungarico, che le aspirazioni del sionismo politico – una casa per il popolo ebraico in Palestina – cominciano a prendere forma.

Negli anni a seguire, i sionisti iniziano a fare premere per una maggiore migrazione in Palestina nella speranza che i grandi poteri – Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti – sostengano la loro campagna. Ma mentre una parte dell’establishment britannico è simpatetica con la causa sionista, il governo passa nel 1905 una legge che limita l’ingresso di ebrei nel paese.

Il primo ministro britannico, David Lloyd George, che l’accademico israeliano Avi Shlaim ha descritto come “l’energia” dietro la Dichiarazione, è un gallese di origine cristiano-evangelica. È un membro del gruppo di devoti politici cristiani che guardano alla creazione di uno Stato ebraico come il compimento di una profezia biblica: che un popolo a lungo perseguitato sarà in grado di tornare dall’esilio alla propria patria.

Subito dopo lo scoppio della guerra nel 1914, il leader sionista Chaim Weizmann prende contatti con Rothschild e comincia a fare lobby sui membri del governo britannico. Nel gennaio 1915 il governo discute per la prima volta l’idea di una patria per gli ebrei in Palestina.

John Bond del Progetto Balfour spuega che la discussione tra i politici britannici era focalizzata poco sulla religione e molto sulla sicurezza geopolitica: “I motivi non erano religiosi, ma di cocciuto imperialismo. La loro religione era l’impero britannico ben prima che esistesse il sionismo”.

La Gran Bretagna vede il beneficio strategico nel creare quello che Ronald Storrs, un futuro governatore di Gerusalemme, avrebbe descritto come “un’Irlanda del Nord ebraica fedele in un mare di arabismo potenzialmente ostile”. La Palestina, realizza Londra, è essenziale alla protezione dei propri interessi nella regione, specialmente il Canale di Suez e le vie di comunicazione con l’India, il gioiello della corona imperiale britannica a quel tempo.

E i palestinesi?

Nel 1917 la popolazione della Palestina (700mila persone) è dominata da arabi – parte della “esistente comunità non ebraica” di cui parla la Dichiarazioni. La maggior parte delle comunità è musulmana, ma ci sono anche cristiani. C’è anche un piccolo numero di palestinesi ebrei che vivono in Palestina da secoli e condividono con gli altri palestinesi la lingua, gli usi e le tradizioni.

I palestinesi sono vissuti sotto il dominio dell’impero ottomano per quattro secoli, ma con la prima guerra mondiale il sostegno ai turchi è precipitato. Un nuovo regime turco nazionalista è ora a capo dell’impero e, con l’appoggio britannico, le aspirazioni politiche arabe sembrano più raggiungibili che mai.

Durante la guerra, la Gran Bretagna e i suoi alleati inseguono i territori ottomani. Ma le tensioni iniziano a montare in Palestina quando ondate di ebrei europei cominciano ad arrivare, a comprare le terre e a utilizzare la lingua ebraica, il tutto con l’obiettivo di creare uno Stato. Costruiscono anche insediamenti: uno viene chiamato Tel Aviv. I leader palestinesi temono una sconfitta e si lamentano con le autorità ottomane.

Lo scrittore arabo Abdullah Mukhlis riassume le parole di molti palestinesi quando, in anticipo sui tempi, nel 1910, scrive: “La creazione di uno Stato ebraico dopo migliaia di anni di declino…noi (arabi) temiamo che la nuova colonia espellerà gli indigeni e dovremo lasciare il nostro paese in massa”.

Prima della Dichiarazione non c’era unità tra i sionisti fuori dal Medio Oriente. Nel Regno Unito, ad esempio, solo 8mila dei 300mila ebrei presenti appartenevano ad un’organizzazione sionista prima della Dichiarazione Balfour.

Chris Doyle, il direttore del Council for Arab-British Understanding, spiega: “Gli ebrei sicuramente non erano uniti. Ce n’erano molti che pensavano che avrebbe avuto un impatto negativo. Il sionismo non aveva catturato l’immaginazione delle comunità ebraiche”

Come è stata ricevuta la Dichiarazione

Quando è divenuta pubblica, la Dichiarazione Balfour ha segnato un punto di svolta nella campagna tra gli ebrei. In Gran Bretagna è guidata dalla Federazione Sionista, un gruppo ombrello che preme per l’idea che il principale obiettivo del sionismo sia l’aliyah, ovvero l’immigrazione in Palestina. Una celebrazione viene organizzata nella Royal Opera House, durante la quale intervengono importanti leader sionisti e membri del governo.

I membri delle organizzazioni sioniste aumentano drasticamente anche negli Stati Uniti. Tuttavia, alcuni ebrei ortodossi si oppongono alla creazione di una patria ebraica in Palestina sulla base di convinzioni religiose.

Weizmann continua a fare lobby sui ministri, i diplomatici, i funzionari. Partecipa alla Conferenza di pace di Versailles nel 1919, quella che definisce i termini della pace per gli sconfitti. Weizmann prova a tenere i britannici ancorati alle loro promesse.

Herbert Samuel, il parlamentare sionista che aveva avviato le discussioni nel governo su una patria ebraica in Palestina, viene nominato governatore della Palestina nel 1920.

I successivi cento anni

I leader arabi palestinesi diventano furiosi quando la notizia della Dichiarazione emerge, nelle settimane successive. Dal 1920 in avanti, i palestinesi commemorano l’anniversario della Dichiarazioni con proteste che in alcuni casi si fanno violente.

Nel 1922 la Palestina finisce sotto il mandato britannico, che avrebbe dovuto preparare la popolazione all’eventuale auto-determinazione. Ma il documento del mandato lascia fuori la parola “arabo”. Al contrario, consacra la Dichiarazione Balfour all’interno di un contesto legale internazionale.

La Dichiarazione porta nel 1947 alla realizzazione del sogno sionista di una patria per gli ebrei quando le neonate Nazioni Unite si accordano per la spartizione della Palestina in un territorio arabo e uno ebreo. ,a questo genera ulteriore ostilità tra i vicini arabi di Israele. Quando Israele dichiara l’indipendenza nel 1948, la guerra scoppia. Israele esce vincitore ma i suoi abitanti vivranno da quel momento in poi sotto la costante minaccia del conflitto.

Nel 1948 i palestinesi vivono la Nakba, la catastrofe: centinaia di migliaia di loro vengono violentemente portati via dalle loro case e costretti a vivere sotto occupazione o fuori dalla Palestina.

I sionisti, intanto, celebrano Balfour. Strade delle principali città, compresa Gerusalemme, prendono il suo nome. Balfouria, un insediamento a sud di Nazareth, era stata fondata in suo onore nel 1922. La sua scrivania si trova nel Museo del Popolo Ebraico a Tel Aviv. La Giornata Balfour viene celebrata ogni anno il 2 novembre.

Da parte sua Balfour non ha mai mostrato alcun rimorso. Nel 1919 dice al suo successore, George Curz

on, che non concordava con lui sulla politica britannica verso la Palestina, che “il sionismo, che sia giusto o sbagliato, è radicato in tradizioni vecchie di anni, nei bisogni presenti e nelle speranze future ed è di più profonda importanza dei desideri e i pregiudizi dei 700mila arabi che oggi vivono quell’antica terra”.

La lettera è conservata alla British Library.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)




Le pressioni USA fanno naufragare la “Legge per una Gerusalemme Più Grande”

Shlomi Eldar

30 ottobre 2017,Al-Monitor

SINTESI DELL’ARTICOLO

Pressioni esercitate dall’amministrazione Trump hanno provocato la sospensione da parte di Netanyahu della sua “Legge per una Gerusalemme Più Grande”

Il 29 ottobre il comitato ministeriale della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] sulle proposte di legge avrebbe dovuto approvare la proposta di legge nota come “Legge per una Gerusalemme Più Grande”, che avrebbe annesso a Gerusalemme le colonie di Maale Adumim, Givat Zeev, Beitar Illit e del blocco di Etzion (compresa Efrat), in Cisgiordania. Circa 150.000 israeliani vivono in quelle città e consigli locali.

L’idea di annettere colonie israeliane adiacenti ai confini della municipalità di Gerusalemme per aumentare la popolazione della città e garantirne la maggioranza ebraica ha circolato per decenni. Nel 2007 il parlamentare del Likud  Yisrael Katz portò avanti un simile progetto, che non è mai decollato a causa delle preoccupazioni per le dure reazioni internazionali e dei palestinesi.

La preoccupazione che gli ebrei non costituiranno più una maggioranza nella capitale israeliana entro meno di un decennio – a causa sia della crescita demografica dei palestinesi che vivono a Gerusalemme est, sia dell’emigrazione di ebrei israeliani laici dalla città – nel febbraio 2016 ha portato l’ex ministro Haim Ramon a lanciare un movimento d’opinione per “salvare la Gerusalemme ebraica”. Il gruppo era composto da un gran numero di esperti della difesa, di accademici e di attivisti di sinistra e del centro. Prima dei festeggiamenti annuali della “Giornata di Gerusalemme” del 2016, il movimento ha lanciato una vasta campagna pubblica per mettere in guardia gli israeliani indifferenti che, se non fossero state prese presto iniziative preventive, si sarebbero “svegliati con una maggioranza palestinese a Gerusalemme”.

La campagna ha fatto ricorso a varie tattiche intimidatorie, compreso persino un video di Hamas che mostrava incitamenti all’odio contro gli ebrei postati sulle reti sociali. Tuttavia i suoi toni esasperati quasi razzisti portarono importanti sostenitori dell’iniziativa, come l’ex capo dell’agenzia di sicurezza Shin Bet Ami Ayalon, ad andarsene.

In luglio il presidente di HaBayit HaYehudi [“La casa ebraica” il partito di estrema destra dei coloni, ndt.] Naftali Bennett ha presentato una sua proposta di legge – la “Legge per una Gerusalemme unificata” – che ha proposto al voto della Knesset. Questa proposta era già stata approvata il 18 giugno dal comitato ministeriale per le proposte di legge. La legge stabiliva che sia necessaria una maggioranza speciale di 80 membri della Knesset (su 120) per dividere la capitale tra la parte occidentale, ebrea, e una parte est prevalentemente palestinese. La Knesset ha votato 51 a 42 per approvare la legge in prima lettura.

Tuttavia il primo ministro Benjamin Netanyahu non voleva essere da meno rispetto al suo nemico politico Bennett per il titolo di maggior difensore di Gerusalemme, soprattutto dopo il fiasco di luglio riguardo ai metal detector che Israele ha piazzato alle entrate del complesso del Monte del Tempio e poi è stato obbligato a rimuovere in seguito alle pressioni internazionali. Il primo ministro ha deciso di appoggiare la “Legge per una Gerusalemme Più Grande” stilata da un parlamentare del suo stesso partito, Yoav Kish, che era stata lasciata da parte per mesi, insieme ad una legge simile proposta da Yehuda Glick, un altro parlamentare del Likud.

La proposta di Kish gode del sostegno del ministro dei Trasporti Yisrael Katz, considerato uno dei più moderati e pragmatici parlamentari del Likud e un rivale di Netanyahu, dei membri del partito HaBayit HaYehudi e del partito di centro destra Kulanu.

Nell’introduzione della sua legge Kish ha scritto: “Il concetto di Gerusalemme come ‘eterna capitale’ di Israele è diventato sfumato, ha perso il suo valore simbolico.” Kish aggiunge che invece la questione della posizione di Gerusalemme è centrata su questioni demografiche e sulla determinazione dei palestinesi a controllare Gerusalemme ed i suoi luoghi santi. “Viene pertanto proposto che le comunità [ebraiche, ndt.] che circondano Gerusalemme siano annesse alla capitale. Ciò incrementerà la popolazione [ebraica, ndt.], consentirà di preservare l’equilibrio demografico e aggiungerà terre per la costruzione di case, zone commerci e turismo, conservando aree verdi.”

Come detto, il comitato ministeriale per le proposte di legge avrebbe dovuto approvare la legge il 29 ottobre e inviarla alla Knesset, dove probabilmente sarebbe passata con una larga maggioranza alla prima lettura. Ci sono pochi problemi più condivisi nel discorso pubblico israeliano, per non parlare della Knesset, che preservare una maggioranza ebraica a Gerusalemme. Tuttavia, dodici ore prima che i ministri si riunissero, l’ufficio del primo ministro ha annunciato che il voto sulla proposta di legge era posticipato a tempo indefinito. Il primo ministro aveva bloccato la sua presentazione.

Ci sono state pressioni americane, è chiaro,” ha detto a Al-Monitor una fonte anonima palestinese nella città cisgiordana di Ramallah. Quando i palestinesi hanno sentito che Netanyahu stava per portare avanti la “legge dell’annessione”, ha affermato la fonte, hanno inviato un messaggio a Jason Greenblatt, inviato per il Medio Oriente del presidente Donald Trump. Gli hanno detto che la mossa sancisce la fine di ogni possibile iniziativa diplomatica con Israele.

La reazione ufficiale palestinese è stata stranamente silenziosa. L’unica dirigente palestinese importante che ha espresso pubblicamente rabbia e condanna è stata Hanan Ashrawi, membro del Consiglio Esecutivo dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, principale organizzazione politica palestinese, ndt.]. “E’ un fatto indiscutibile che ogni colonia è un crimine di guerra in base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale e una diretta violazione delle leggi e convenzioni internazionali, compresa la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 2334,” ha affermato nella sua dichiarazione. Tuttavia neppure il portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas si è espresso contro la legge, salvo che per dare una risposta laconica quando gli è stato chiesto in proposito dai mezzi di comunicazione palestinesi.

La fonte palestinese ha detto ad Al-Monitor che gli americani hanno chiesto ai palestinesi di mantenere un basso profilo per consentire a Netanyahu di ritirare la legge, affermando che la diplomazia silenziosa era l’unico modo per raggiungere il risultato desiderato. Gli americani avevano ragione. La velocità con cui Greenblatt e il suo entourage hanno agito nei confronti di Netanyahu ha messo in chiaro ai palestinesi quanto l’amministrazione USA sia seria riguardo ai progressi dell’iniziativa di pace israelo-palestinese e ancor più quanto Netanyahu sia ansioso di evitare di irritare l’amministrazione Trump.

In quanto persona così preoccupata della sua immagine di guardiano di Gerusalemme, ci si sarebbe aspettati che Netanyahu ignorasse le ammonizioni americane e gli dicesse che il problema è una questione interna israeliana che riguarda confini municipali e che non costituisce in alcun modo una dichiarazione di sovranità su parti della Cisgiordania. Invece nell’incontro settimanale del Consiglio dei ministri egli ha detto ai suoi ministri che gli americani “volevano comprendere l’essenza della legge. Poiché ci siamo coordinati con loro fino ad ora, conviene (continuare a) parlare e coordinarci con loro. Stiamo lavorando per avanzare e sviluppare l’impresa di colonizzazione e non per promuovere altre considerazioni.”

Shlomi Eldar è un editorialista per “Israel Pulse” di Al-Monitor [Pulsazioni di Israele, sezione dedicata ad Israele del sito informativo con sede a Washington, ndt.]. Negli ultimi 20 anni si è occupato dell’Autorità Nazionale Palestinese e soprattutto della Striscia di Gaza per i canali israeliani 1 e 10, informando sulla comparsa di Hamas. Nel 2007 per questo lavoro ha ottenuto il premio Sokolov, il più importante riconoscimento israeliano per i media.

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




Un ministro israeliano sta promuovendo un piano per ridurre il numero di arabi a Gerusalemme

Nir Hasson e Jonathan Lis

29 ottobre 2017,Haaretz

Zeev Elkin vuole dividere Gerusalemme e creare una municipalità israeliana per i palestinesi di alcuni quartieri che si trovano al di là della barriera di separazione nella città.

Il ministro degli Affari Esteri Zeev Elkin ha svelato la sua proposta di divisione municipale di Gerusalemme, che dovrebbe vedere alcuni quartieri arabi al di là del muro di separazione della Cisgiordania scorporati dalla municipalità di Gerusalemme e finire sotto la giurisdizione di una o più nuove amministrazioni comunali.

La vicenda richiederà l’approvazione del primo ministro Benjamin Netanyahu e l’espletamento dell’esame di diversi emendamenti legislativi, già approvati in prima lettura dalla Knesset in luglio.

Elkin ha detto di ritenere che il suo piano, che intende promuovere nelle prossime settimane, non incontrerà particolari resistenze né da destra né da sinistra.

Si tratta del primo tentativo di ridurre l’area municipale di Gerusalemme da quando è stata ampliata dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967. E’ anche il primo tentativo di stabilire un consiglio comunale israeliano straordinario, i cui residenti non siano cittadini israeliani, ma palestinesi con il solo status di residenti permanenti.

I quartieri al di là del muro di separazione sono il campo profughi di Shaufat, l’omonimo quartiere ad esso adiacente, a nordest di Gerusalemme, Kafr Aqab ed anche Walajah, nella parte sud della città, nonché una piccola parte del quartiere di Sawahra.

Nessuno sa con precisione quante persone vivano in queste aree. La cifra si presume vada dalle 100.000 alle 150.000, da un terzo a una metà delle quali è in possesso di carte di identità israeliane e status di residenza. Dalla costruzione del muro di separazione circa 13 anni fa (a Walajah il muro è attualmente in fase di completamento), queste zone sono state tagliate fuori da Gerusalemme, benché ricadano ancora sotto la sua giurisdizione.

In seguito alla costruzione del muro il Comune di Gerusalemme, la polizia ed altri enti israeliani hanno smesso di fornire servizi in queste zone. L’anarchia ha preso piede, nella quasi totale assenza della polizia e di agenti incaricati di controllare le attività edili, con problemi infrastrutturali molto seri. Decine di migliaia di unità abitative sono state costruite senza permessi e le organizzazioni criminali e gli spacciatori sono proliferati.

L’attuale sistema ha fallito del tutto”, ha detto Elkin. “L’errore è stato nel momento in cui hanno fatto passare il muro in quel modo. Ma ora ci sono due aree municipali – Gerusalemme e questi quartieri – e il raccordo tra di esse è molto debole.”

L’esercito non può agire ufficialmente là, la polizia vi entra solo per specifiche operazioni e la zona è diventata una ‘terra di nessuno’”, ha aggiunto. “Fornire servizi di qualunque tipo è diventato pericoloso, costruzioni così alte e una così alta densità abitativa non si possono vedere nemmeno a Tel Aviv.”

Elkin ha anche evocato il rischio che gli edifici potrebbero crollare per un terremoto.

Comunque non ci sono solo questi problemi ad affliggere Elkin. E’ preoccupato anche della rapida crescita demografica in queste zone e dal suo impatto sull’equilibrio tra ebrei ed arabi a Gerusalemme.

Molte delle famiglie che vivono in questi quartieri hanno un componente che è residente israeliano e perciò i figli hanno la residenza israeliana – il che accresce il numero dei palestinesi residenti a Gerusalemme.

Secondo Elkin il basso prezzo delle abitazioni, la vicinanza a Gerusalemme e l’assenza di legge che vi regna hanno fatto di questi quartieri una calamita per la popolazione di Gerusalemme e della Cisgiordania. “Ci sono anche gravi conseguenze in termini di maggioranza ebraica e per il fatto che non si può migliorare il tenore di vita là, in quanto ci aspettiamo che la popolazione continui ad aumentare”, ha detto Elkin.

Il ministro ha aggiunto: “Proprio perché credo nel loro diritto al voto e voglio che venga esercitato, non posso essere indifferente al pericolo della perdita di una maggioranza ebraica provocata non da processi naturali, ma da una migrazione illegale nello Stato di Israele che non ho modo di impedire.”

Elkin ha detto che sono state precedentemente prese in esame varie soluzioni per affrontare il problema. Per motivi di sicurezza e ideologici, il ministro ha detto di aver respinto soluzioni quali trasferire i quartieri all’Autorità Nazionale Palestinese. Ha anche respinto, per ragioni di sicurezza, finanziarie e legali, la modifica del percorso del muro di separazione.

I dettagli del piano di Elkin non sono definitivi. Non è chiaro se vi sarà un solo consiglio regionale senza contiguità territoriale o due consigli regionali. Al momento, i residenti non hanno accettato di tenere elezioni per istituire il nuovo ente municipale e nei primi anni esso opererà sotto un’amministrazione nominata dal ministro dell’Interno.

Non ho dubbi che si debba sviluppare una collaborazione con la leadership locale, perché il piano possa avere successo”, ha detto Elkin. “Il loro interesse è cambiare le loro intollerabili condizioni di vita. Può volerci tempo, perché vi è grande diffidenza – ma non può andare peggio di così”, ha aggiunto. Elkin ha promesso un importante investimento governativo nei quartieri.

Elkin ha lavorato al suo piano per parecchi mesi. Quando il ministro dell’Educazione Naftali Bennett (di estrema destra, ndtr.) ha lanciato la sua proposta di modifica della Legge Fondamentale su Gerusalemme, Elkin ha temuto che, se il disegno di legge fosse passato nella sua attuale forma, avrebbe messo a rischio il suo piano – giacché la proposta di Bennett avrebbe impedito una futura divisione di Gerusalemme.

Per affrontare la questione, Elkin ha inserito una clausola ambigua nella proposta di legge di Bennett: essa renderebbe impossibile cedere qualsiasi parte di Gerusalemme all’ANP, ma la municipalità potrebbe essere divisa in enti locali israeliani più piccoli.

La maggior parte dei deputati che sostenevano la proposta di legge di Bennett non sapeva che stava votando una legge che avrebbe potuto comportare lo scorporo di parti della municipalità di Gerusalemme. Ma l’accettazione della clausola da parte di Bennett ha consentito alla coalizione di governo di sostenere la proposta e la legge è passata con il sostegno automatico della maggioranza della coalizione.

Elkin ha detto che la stesura del piano sarebbe stata completata a novembre e quindi presentata a Netanyahu. Se il primo ministro, che è a conoscenza dei dettagli del piano, lo sosterrà, potrà andare avanti rapidamente. Legalmente il piano non necessita di un passaggio parlamentare, ma solo di una decisione del ministro dell’Interno.

Questa idea non è facile da accettare né per la sinistra né per la destra”, ha aggiunto. “Ognuna delle parti vi può trovare dei vantaggi, ma anche dei rischi. E’ vero che se qualcuno vuole trasferire quest’area (all’amministrazione palestinese), sarà più facile farlo”, ha aggiunto.

Negli ambienti politici si ritiene che il maggior oppositore del piano sarà il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, perché la municipalità perderà importanti finanziamenti se perde il controllo amministrativo di questi quartieri. Ci si aspetta che anche l’ANP si opporrà al piano, vedendolo come un tentativo di accrescere il numero degli ebrei a Gerusalemme.

Nel frattempo, la coalizione sta anche promuovendo un piano del deputato del Likud Yoav Kish, che prevedrebbe l’annessione in un unico contesto municipale – a livello comunale, non politico – dei residenti delle colonie che si trovano vicino alla capitale. Questo aggiungerebbe centinaia di migliaia di elettori ebrei alla municipalità di Gerusalemme e modificherebbe sulla carta l’equilibrio demografico della città.

Benché sia prevista nel programma della riunione di domenica del Comitato ministeriale per la legislazione, durante questa riunione non vi sarà votazione sulla proposta di legge. Secondo un importante membro della coalizione, il motivo è che la legge nell’attuale forma “provoca la pressione internazionale e contiene gravi problemi legali. Netanyahu non può permettersi di promuovere questa stesura della legge in questo momento.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)