Perché la Palestina è ancora il problema

John Pilger

18 settembre 2017,Defend Democracy Press

Quando andai per la prima volta in Palestina come giovane reporter negli anni ’60, soggiornai in un kibbutz. Le persone che incontrai erano grandi lavoratori, coraggiosi e si definivano socialisti. Mi piacevano.

Una sera a cena domandai chi fossero le figure che si vedevano in lontananza, al di là dell’area (del nostro kibbutz).

Arabi”, mi dissero, “nomadi”. Le parole vennero quasi sputate. Israele, dissero, intendendo la Palestina, era per la maggior parte una terra deserta e una delle grandi opere dell’impresa sionista è stata rendere verde il deserto.

Portarono ad esempio il loro raccolto di arance di Jaffa, che veniva esportato nel resto del mondo. Che grande vittoria sulle bizzarrie della natura e l’incuria degli uomini.

Fu la prima menzogna. La maggior parte degli aranceti e dei vigneti appartenevano a palestinesi che avevano coltivato la terra ed esportato arance ed uva in Europa fin dal diciottesimo secolo. L’ex città palestinese di Jaffa veniva chiamata dai precedenti abitanti come “il posto delle arance tristi”.

Nel kibbutz il termine “palestinese” non veniva mai pronunciato. Chiesi il perché. La risposta fu un silenzio imbarazzato.

In tutto il mondo colonialista, la vera sovranità del popolo autoctono fa paura a coloro che non possono mai nascondere del tutto il fatto, ed il crimine, che vivono su una terra rubata.

La negazione dell’umanità della popolazione è il passo successivo – come il popolo ebraico sa fin troppo bene. Infamare la dignità, la cultura e l’orgoglio del popolo viene di conseguenza, in modo altrettanto logico della violenza.

A Ramallah, dopo un’invasione della Cisgiordania da parte del defunto Ariel Sharon nel 2002, camminavo attraverso strade costellate da automobili sfasciate e case demolite, verso il “Centro Culturale Palestinese”. Fino a quel mattino i soldati erano accampati là.

Mi accolse la direttrice del Centro, la scrittrice Liana Badr, i cui manoscritti originali erano sparsi e a pezzi sul pavimento. Il disco rigido contenente il suo romanzo ed una raccolta di racconti e poesie erano stati portati via dai soldati israeliani. Quasi ogni cosa era in frantumi e insudiciata.

Neanche un libro era rimasto integro; neanche una bobina di una delle migliori collezioni del cinema palestinese.

I soldati avevano urinato e defecato sui pavimenti, sui tavoli, sui ricami e i manufatti artistici. Avevano imbrattato di escrementi i dipinti dei bambini e avevano scritto – con le feci – “Nato per uccidere”.

Liana Badr aveva gli occhi pieni di lacrime, ma la schiena dritta. “Lo rimetteremo a posto di nuovo”, disse.

Ciò che fa imbestialire quelli che colonizzano ed occupano, rubano ed opprimono, vandalizzano e violano, è il rifiuto delle vittime di piegarsi. E questo è il prezzo che tutti noi dobbiamo pagare ai palestinesi. Il rifiuto di sottomettersi. Loro tirano dritto. Aspettano – finché ricominceranno la lotta. E fanno così anche quando chi li governa collabora con i loro oppressori.

Nel mezzo dei bombardamenti israeliani su Gaza del 2014, il giornalista palestinese Mohammed Omer non ha mai smesso di scrivere. Lui e la sua famiglia erano stati danneggiati; lui faceva la coda per il cibo e l’acqua e li trasportava attraverso le macerie. Quando gli telefonavo potevo sentire le bombe fuori dalla sua porta. Si è rifiutato di arrendersi.

Gli articoli di Mohammed, accompagnati dalle sue fotografie, sono stati un esempio di giornalismo professionale che faceva vergognare il giornalismo corrivo e codardo del cosiddetto ‘mainstream’ britannico e statunitense. Il concetto di obbiettività della BBC – che diffonde le falsità e le menzogne dell’autorità, prassi di cui si fa vanto – viene quotidianamente confutato da gente come Mohammed Omer.

Per oltre 40 anni ho constatato il rifiuto del popolo palestinese di piegarsi ai suoi oppressori: Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Europea.

Dal 2008 la sola Gran Bretagna ha assicurato licenze di esportazione di armi e missili, droni e fucili di precisione verso Israele per un valore di 434 milioni di sterline.

Quelli che hanno resistito a questo, senza armi, quelli che hanno rifiutato di piegarsi, sono tra i palestinesi che ho avuto il privilegio di conoscere:

Il mio amico, il defunto Mohammed Jarella, che lavorava per l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA [per i rifugiati palestinesi, ndt.], nel 1967 mi ha mostrato per la prima volta un campo profughi palestinese. Era un gelido giorno d’inverno e gli scolari tremavano di freddo. “Un giorno….”, diceva. “Un giorno…”

Mustafa Barghouti, la cui eloquenza rimane intatta, ha descritto lo spirito di tolleranza che c’era in Palestina tra ebrei, musulmani e cristiani fino a quando, come mi disse, “I sionisti pretesero uno Stato a spese dei palestinesi.”

La dottoressa Mona El-Farra, medico a Gaza, la cui passione era raccogliere denaro per la chirurgia plastica per i bambini sfigurati dalle pallottole e dalle granate israeliane. Il suo ospedale è stato raso al suolo dalle bombe israeliane nel 2014.

Il dottor Khalid Dahlan, psichiatra, i cui ambulatori per bambini a Gaza – bambini resi quasi pazzi dalla violenza israeliana – erano oasi di civiltà.

Fatima e Nasser sono una coppia la cui casa si trovava in un villaggio vicino a Gerusalemme, designato come “Zona A e B”, che significava che la terra era destinata ai soli ebrei. I loro genitori avevano vissuto là; i loro nonni avevano vissuto là. Oggi i bulldozer spianano strade per soli ebrei, protetti da leggi per soli ebrei.

Era passata la mezzanotte quando Fatima iniziò il travaglio del suo secondo figlio. Il bimbo era prematuro; quando arrivarono ad un checkpoint in vista dell’ospedale, il giovane israeliano disse che c’era bisogno di un altro documento.

Fatima stava perdendo molto sangue. Il soldato rideva e imitava i suoi gemiti e disse loro: ”Andatevene a casa”. Il bambino nacque là in un camion. Era cianotico per il freddo e in breve, senza cure, morì assiderato. Il suo nome era Sultan.

Per i palestinesi, queste storie sono consuete. La domanda è: perché non lo sono a Londra e Washington, a Bruxelles e Sydney?

In Siria una recente campagna progressista– una campagna di George Clooney – viene lautamente finanziata in Gran Bretagna e Stati Uniti, anche se i beneficiari, i cosiddetti ribelli, sono capeggiati da jihadisti fanatici, il prodotto dell’invasione di Afghanistan e Iraq e della distruzione della moderna Libia.

E ancora, non viene riconosciuta la più lunga occupazione dell’epoca moderna. Quando le Nazioni Unite improvvisamente si risvegliano e definiscono Israele uno Stato di apartheid, come hanno fatto quest’anno, si grida allo scandalo – non contro uno Stato il cui “obiettivo fondamentale” è il razzismo, ma contro una commissione dell’ONU che ha osato rompere il silenzio.

La Palestina”, ha detto Nelson Mandela, “è la più grande questione morale dei nostri tempi.”

Perché questa verità è negata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno?

Su Israele – lo Stato di apartheid, colpevole di un crimine contro l’umanità e di violazioni del diritto internazionale più numerose di qualunque altro Stato – persiste il silenzio tra coloro che sanno ed il cui compito è di dire come stanno effettivamente le cose.

Riguardo a Israele, moltissimi giornalisti vengono intimiditi e controllati da un pensiero unico che chiede silenzio sulla Palestina, mentre il giornalismo onesto è diventato dissidenza: un metaforico movimento clandestino.

Una sola parola – “conflitto” – consente questo silenzio. “Il conflitto arabo-israeliano”, scandiscono i robot nelle loro suggestioni televisive. Quando un reporter della BBC di lunga esperienza, uno che conosce la verità, parla di “due narrazioni”, la distorsione morale è completa.

Non c’è un conflitto, non ci sono due narrazioni, con un proprio fulcro etico. C’è un’occupazione militare messa in atto da una potenza nucleare appoggiata dal potere militare più grande al mondo; e c’è un’enorme ingiustizia.

Il termine “occupazione” può essere bandito, cancellato dal vocabolario. Ma la memoria della verità storica non può essere cancellata: quella della sistematica espulsione dei palestinesi dalla loro patria. Gli israeliani nel 1948 l’hanno chiamata “Piano D”.

Lo storico israeliano Benny Morris racconta di quando uno dei suoi generali domandò a Ben-Gurion, il primo capo del governo israeliano: “Che cosa dobbiamo fare degli arabi?”

Il Primo Ministro, ha scritto Morris, “fece uno sprezzante e vigoroso gesto con la mano”. “Espelleteli!” disse.

Settant’anni dopo, questo crimine è sparito dalla cultura intellettuale e politica dell’Occidente. Oppure è opinabile, o semplicemente controverso. Giornalisti ben pagati accettano volentieri i viaggi, l’ospitalità e le lusinghe offerti dal governo israeliano, poi sono durissimi nel professare la propria indipendenza. Il termine “utili idioti” è stato coniato per loro.

Nel 2011 mi ha colpito la leggerezza con cui uno dei più famosi scrittori britannici, Ian McEwan, un uomo intriso dell’alone di illuminismo borghese, ha accettato il Jerusalem Prize per la letteratura nello Stato dell’apartheid.

McEwan sarebbe andato a Sun City nel Sudafrica dell’apartheid? Anche là attribuivano premi, con tutte le spese pagate. McEwan giustificò il suo comportamento con parole evasive circa l’indipendenza della “società civile”.

La propaganda – del tipo che McEwan ha espresso, con la sua simbolica tirata d’orecchi per i suoi deliziati ospiti – è un’arma in mano agli oppressori della Palestina. Come lo zucchero, oggi permea quasi ogni cosa.

Il nostro compito più importante è comprendere e decostruire la propaganda statale e culturale. Stiamo andando velocemente verso una seconda guerra fredda, il cui scopo finale è sottomettere e balcanizzare la Russia e intimidire la Cina.

Quando Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato in privato per oltre due ore al meeting del G20 di Amburgo, apparentemente della necessità di non entrare in guerra tra loro, gli oppositori più accesi sono stati quelli che si sono appropriati del liberismo, come il commentatore politico sionista del Guardian.

Non c’è da stupirsi che Putin sorridesse ad Amburgo”, ha scritto Jonathan Freedland. “Sa di aver raggiunto il suo principale obbiettivo: ha reso l’America di nuovo debole.”

Questi propagandisti non hanno mai conosciuto la guerra, ma amano il gioco imperialista della guerra. Ciò che McEwan chiama “società civile” è diventata una ricca fonte di propaganda ad esso connessa.

Prendete un termine spesso usato dai tutori della società civile – “diritti umani”. Come un altro nobile concetto, “democrazia”, “diritti umani” è stato semplicemente svuotato del suo significato e del suo scopo.

Così come il “processo di pace” e la “road map”, i diritti umani in Palestina sono stati sequestrati dai governi occidentali e dalle ONG da loro finanziate, che si arrogano un’utopica autorità morale.

Perciò quando Israele viene richiamata da governi ed ONG a “rispettare i diritti umani” in Palestina, non succede niente, perché tutti sanno che non c’è niente da temere; niente cambierà.

Notate il silenzio dell’Unione Europea, che accontenta Israele mentre rifiuta di mantenere gli impegni verso la popolazione di Gaza – come mantenere aperto il varco del confine di Rafah: una misura concordata come parte del suo ruolo nel cessate il fuoco del 2014. [Il progetto di] un porto marittimo per Gaza – concordato da Bruxelles nel 2014 – è stato abbandonato.

La commissione dell’ONU di cui ho parlato – il suo nome esatto è Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale – ha descritto Israele come, e cito testualmente, “finalizzato all’obiettivo fondamentale” della discriminazione razziale.

Milioni di persone lo capiscono. Ciò che i governi a Londra, Washington, Bruxelles e Tel Aviv non possono controllare è che l’opinione pubblica sta cambiando, forse come mai prima d’ora.

La gente ovunque si sta risvegliando ed è più consapevole, secondo me, di quanto lo sia mai stata prima d’ora. Alcuni sono già apertamente in rivolta. L’atrocità della Grenfell Tower [grattacielo con appartamenti popolari bruciato il 14 giugno 2017, ndt.] di Londra ha unificato la collettività in una attiva resistenza praticamente in tutta la Nazione.

Grazie ad una campagna popolare, la magistratura sta ora esaminando le prove di una possibile imputazione contro Tony Blair per crimini di guerra. Anche se questo non avverrà, si tratta di un importante sviluppo, che elimina un’ ulteriore barriera tra l’opinione pubblica ed il riconoscimento della natura vorace dei crimini del potere statale – il sistematico disprezzo dell’umanità perpetrato in Iraq, alla Grenfell Tower, in Palestina. Questi sono i punti che attendono di essere uniti.

Per la maggior parte del XXI secolo, l’imbroglio del potere delle imprese camuffato da democrazia ha poggiato sulla propaganda del diversivo: soprattutto su un culto dell’individualismo finalizzato a disorientare la nostra capacità di guardare agli altri e di agire insieme, il nostro senso di giustizia sociale e di internazionalismo.

Classe, genere e razza sono stati separati. Il personale è diventato politico e i media sono diventati il messaggio. La promozione dei privilegi borghesi è stata presentata come politica “progressista”. Non lo era. Non lo è mai stata. E’ la valorizzazione del privilegio e del potere.

Tra i giovani l’internazionalismo ha trovato una nuova vasta platea. Guardate l’appoggio a Jeremy Corbin e l’attenzione che ha ricevuto il G20 ad Amburgo. Se comprendiamo la verità e gli imperativi dell’internazionalismo, e rifiutiamo il colonialismo, comprendiamo la lotta della Palestina.

Mandela lo ha espresso così: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi.”

Il cuore del Medio Oriente è la storica ingiustizia in Palestina. Finché questa non venga risolta e i palestinesi abbiano la loro libertà e la loro patria e ci sia eguaglianza di fronte alla legge tra israeliani e palestinesi, non vi sarà pace nella regione, o forse in nessun luogo.

Ciò che Mandela diceva è che la libertà stessa è precaria finché i governi potenti possono negare la giustizia ad altri, terrorizzarli, imprigionarli ed ucciderli, in nostro nome. Certamente Israele comprende il rischio che un giorno potrebbe dover essere normale.

Ecco perché il suo ambasciatore in Gran Bretagna è Mark Regev, ben noto ai giornalisti come propagandista di professione, e perché il “grande bluff” delle accuse di antisemitismo, come lo ha definito Ilan Pappe, ha potuto sconvolgere il partito laburista e indebolire Jeremy Corbin come leader. Il punto è che non ci è riuscito.

I fatti procedono in fretta adesso. La notevole campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sta funzionando, ogni giorno di più; città e comuni, sindacati e organismi studenteschi la stanno supportando. Il tentativo del governo britannico di impedire agli enti locali di sostenere il BDS è stato sconfitto nei tribunali.

Queste non sono parole al vento. Quando i palestinesi si solleveranno di nuovo, e lo faranno, potrebbero non vincere subito – ma alla fine vinceranno, se noi comprendiamo che loro sono noi, e noi siamo loro.

Questa è una versione ridotta dell’intervento di John Pilger al Palestinian Expo di Londra l’8 luglio 2017.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Le forze israeliane mandano avvisi di sgombero a 300 palestinesi in un villaggio beduino

Ma’an News

17 novembre 2017

BETLEMME (Ma’an) – Secondo l’agenzia di informazioni Wafa, di proprietà dell’ANP, venerdì le autorità israeliane avrebbero distribuito avvisi di sgombero a tutti i 300 palestinesi residenti nel villaggio beduino di Jabal al-Baba, nel distretto centrale di Gerusalemme della Cisgiordania occupata.

La Wafa ha riferito che il personale dell’amministrazione civile israeliana, spalleggiato dall’esercito israeliano, avrebbe preso d’assalto il villaggio ed ordinato ai suoi abitanti di lasciare le proprie case.

Secondo la Wafa, Jabal al-Baba comprende 100 edifici, 58 dei quali sono case, mentre i restanti sono strutture per uso agricolo. “Poiché la comunità non è riconosciuta, la popolazione di Jabal al-Baba vive senza elettricità e riceve acqua solo da camion cisterna”, ha detto Wafa.

Negli ultimi anni le forze israeliane hanno demolito decine di case nella zona di Jabal al-Baba, molte delle quali costruite con l’aiuto dell’UE e di organizzazioni umanitarie.

In agosto hanno demolito un asilo infantile del villaggio.

La collina è popolata da circa 55 famiglie di beduini che hanno vissuto nella zona per 65 anni e sono costantemente minacciate di espulsione dalle loro case.

Circa 90 beduini palestinesi, in maggioranza bambini, sono rimasti senza casa quando, nel maggio 2016, le forze israeliane hanno smantellato le case prefabbricate donate dall’UE a Jamal al-Baba.

Jamal al-Baba, come altre comunità beduine della regione, è minacciata da Israele di espulsione forzata per il fatto di essere situata nel conteso “corridoio E1”, creato dal governo israeliano per collegare Gerusalemme est annessa con la grande colonia di Maale Adumim.

Le autorità israeliane pianificano di costruire nell’area E1 migliaia di case per colonie di soli ebrei , il che dividerebbe di fatto la Cisgiordania e renderebbe quasi impossibile la creazione di uno Stato palestinese contiguo – come ipotizzato dalla soluzione di due Stati al conflitto israelo-palestinese.

Le associazioni per i diritti umani e membri della comunità beduina hanno aspramente criticato i piani israeliani di ricollocazione dei beduini residenti vicino alla colonia israeliana illegale di Maale Adumim, sostenendo che lo sgombero espellerebbe palestinesi autoctoni in favore dell’espansione delle colonie israeliane in tutta la Cisgiordania occupata, in violazione del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele sta per tagliare l’approvvigionamento idrico a un villaggio palestinese al fine di prendere possesso dei terreni agricoli

Nir Hasson 16 novembre, 2017, Haaretz

Dopo che un checkpoint verrà posto più in profondità nell’area palestinese, i residenti di Al Walaja non potranno più accedere alla locale sorgente o ai loro campi [posti] al di là del posto di controllo.

Israele ha comunicato ai residenti del villaggio palestinese al-Walaja, a sud di Gerusalemme, che saranno tagliati fuori dai loro terreni e dai terrazzamenti coltivati a causa del riposizionamento di un checkpoint, trasferendo un’ampia porzione di terreno dal lato palestinese a quello israeliano.

Nel piano regolatore del distretto di Gerusalemme si afferma che il checkpoint Ein Yael sulla strada tra Gerusalemme e Har Gilo venga spostato più in profondità all’interno dell’area palestinese, che diventerà parte del parco metropolitano di Gerusalemme.

Questo territorio comprende Ein Hanya, la seconda più grande sorgente delle colline della Giudea [come gli israeliani chiamano parte della Cisgiordania ndt]; ai residenti di al-Walaja il luogo offre anche svago, bagni e acqua per il bestiame. Le famiglie palestinesi regolarmente si recano anche da molto lontano in Cisgiordania, come da Beit Jala e da Betlemme, alla sorgente e alle due profonde piscine della zona per fare il bagno e picnic.

Parte di al-Walaja cade sotto la giurisdizione di Gerusalemme, ma la recente ultimazione della barriera di separazione ha tagliato fuori completamente il villaggio da Gerusalemme. La barriera separa anche il villaggio da vaste aree agricole possedute dai residenti.

L’Autorità israeliana per le Antichità e quella per lo sviluppo di Gerusalemme hanno già iniziato i lavori di ristrutturazione della sorgente e dell’area circostante. Ora hanno programmato di circondare la sorgente con una rete, di costruire un centro per i visitatori e un ristorante, trasformandolo in uno degli ingressi del parco metropolitano di Gerusalemme, che confina a sud e a ovest con la capitale [Gerusalemme, annessa illegalmente, non è riconosciuta da nessun Paese della comunità internazionale come capitale di Israele, ndt].

Due giorni fa i residenti di al-Walaja hanno ricevuto una lettera che li informava dello spostamento del checkpoint più vicino al loro villaggio, circa due chilometri e mezzo all’interno del territorio palestinese. Attualmente esso è posto nei pressi dell’uscita da Gerusalemme, ad appena un chilometro e mezzo dal centro commerciale Malha.

Una volta spostato il checkpoint, ai palestinesi senza i documenti di residenza a Gerusalemme non verrà permesso il passaggio. Non potranno accedere all’area della sorgente o ai loro terreni e ai terrazzamenti al di là del posto di controllo. Agli abitanti sono stati dati 15 giorni per presentare un ricorso contro la decisione.

Paradossalmente, i terrazzamenti ben curati attentamente sistemati che gli agricoltori di al-Walaja hanno coltivato per anni sono stati una delle ragioni date dalle autorità israeliane per istituire il parco in quella zona. Ciononostante, una volta spostato il checkpoint, ai contadini verrà negato l’accesso.

Le scale in pietra sono una delle caratteristiche rilevanti del parco. Questo paesaggio ha caratterizzato le colline per più di 5000 anni, fin da quando l’uomo ha cominciato a coltivare la terra. Le coltivazioni dei terrazzamenti sono state salvaguardate nei villaggi arabi fino alla guerra dell’indipendenza” [cioè la guerra tra sionisti e Paesi arabi del maggio 1948, che comportò l’espulsione dal territorio di quello che diventò lo Stato di Israele la cacciata di circa 750.000 palestinesi e la distruzione di 500 villaggi, ndt] è scritto nel depliant del parco.

Aviv Tatarsky, un ricercatore di “Ir Amim”, un’associazione no profit [israeliana]che propone una Gerusalemme sostenibile e più giusta, ha detto “lo spostamento del checkpoint è un altro passo del piano del ministro dell ‘ambiente Zeev Elkin per porre al-Walaja e i rimanenti quartieri al di là della barriera di separazione fuori dal confine di Gerusalemme. Nella Gerusalemme di Elkin gli israeliani passeggeranno tra i meravigliosi terrazzamenti, creati e accuditi dagli abitanti di al-Walaja, con i proprietari bloccati poche decine di metri dietro una barriera con il filo spinato, impossibilitati ad accedere ai terreni che gli sono stati rubati.

Questa è la visione del governo di destra: invece di pace e giustizia, barriere e una brutale oppressione in continuo aumento” ha detto .

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




L’esercito israeliano si prepara a demolire centinaia di case palestinesi nel nord della Valle del Giordano

Amira Hass, 12 novembre 2017,Haaretz

E’ la prima volta che l’esercito utilizza un’ordinanza di sgombero contro i palestinesi basata su un ordine militare diretto a consentire l’evacuazione di insediamenti [israeliani] non autorizzati.

L’esercito ha ordinato a circa 300 palestinesi, che per decenni hanno vissuto nel nord della Valle del Giordano, di portare via dalla zona ogni loro proprietà – il che viene interpretato come un ordine di evacuazione e demolizione delle case.

A giudicare dalla risposta dell’esercito ad Haaretz, esso ha cambiato la sua posizione in seguito ad un’obiezione avanzata dall’avvocato degli abitanti.

E’ la prima volta che l’esercito utilizza un’ordinanza di sgombero contro i palestinesi basata su un ordine militare diretto a permettere l’evacuazione di avamposti di insediamenti [israeliani] non autorizzati. L’ordine in questione è noto come “ordine relativo a costruzioni non autorizzate.”

L’ordine non è stato consegnato a nessuno dei palestinesi colpiti dal provvedimento. Invece, giovedì mattina i soldati lo hanno semplicemente lasciato in strada accanto alle loro case, situate vicino al villaggio di Al-Maleh.

L’avviso, in data primo novembre, è stato firmato dal comandante dell’esercito israeliano in Cisgiordania, general maggiore Roni Numa. Conosciuto ufficialmente come “dichiarazione di terreno delimitato”, fa divieto a chiunque di entrare nell’area specificata con lo scopo di costruirvi ed ordina la rimozione di ogni proprietà dall’area entro otto giorni dalla data in cui è stato reso noto l’avviso.

L’ordine non specifica quante persone verranno sgomberate né fornisce i loro nomi. Ma, considerando la mappa allegata, riguarda un’area di circa 550 dunams ( 55 ettari) in cui vivono circa 300 palestinesi in due comunità di pastori, Ein al-Hilweh e Umm Jamal. Entrambi i villaggi rientrano nella giurisdizione del consiglio rurale di Al-Maleh.

I pastori allevano circa 4.000 pecore, 200 cammelli e 600 mucche. Tutta la terra in questione è proprietà privata di palestinesi o appartiene alla chiesa cattolica.

L’ “ordine relativo alle costruzioni non autorizzate”, sul quale si basa l’avviso di sgombero, sancisce al paragrafo 6 (b) che non si applica a “chiunque sia registrato nell’anagrafe dell’area”, intendendo i residenti palestinesi della Cisgiordania.

Perciò l’avvocato Tawfique Jabareen di Umm al-Fahm, che rappresenta gli abitanti, sostiene che l’avviso di sgombero non ha valore legale e non è valido. Questa è la sostanza dell’obiezione che ha presentato sabato mattina al comandante militare tramite il consulente legale di quest’ultimo.

Jabareen ha anche affermato che l’ordine non era stato consegnato ai residenti interessati, ma è stato semplicemente lasciato nella zona otto giorni dopo essere stato firmato. “ Ad un primo esame, è stata un’azione in malafede, dietro alla quale si nasconde l’intenzione di negare ai residenti palestinesi il loro diritto ad un’udienza o a presentare opposizione sia contro l’ordine che contro la dichiarazione”, ha scritto.

Come ha detto Jabareen, “Questo è un ordine di espulsione di massa contro la popolazione palestinese, che viola il diritto internazionale.”

Da parte sua, il Coordinatore israeliano delle Attività Governative nei Territori [palestinesi occupati, ndt.] ha dichiarato: “Il 9 novembre 2017 sono stati inviati gli ordini come parte dei tentativi di applicazione di misure contro le costruzioni illegali nel luogo. Gli ordini sono stati notificati secondo il protocollo, inclusa la consegna fisica nel luogo a cui l’ordine si riferisce. Il nuovo ordine è rivolto alle strutture costruite illegalmente, non alla presenza nel luogo.”

Tuttavia il COGAT non ha stabilito dove potrebbe andare la gente che vive là se le strutture venissero demolite. E nemmeno ha risposto alla domanda di Haaretz su quante persone sarebbero interessate dall’ordine.

Venerdì i residenti di Ein al-Hilweh hanno detto che circa due settimane fa nelle loro capanne si sono presentati dei soldati chiedendo di vedere le loro carte di identità, senza dare spiegazioni.

I soldati hanno anche usato un drone per scattare fotografie aeree delle comunità. Compilare elenchi di carte di identità e fare fotografie sono iniziative che spesso precedono gli sgomberi e le demolizioni da parte dell’esercito israeliano e della sua Amministrazione Civile in Cisgiordania, anche se i residenti hanno detto di non aver visto questa volta nessun addetto dell’Amministrazione Civile.

Nabil Daragmeh ha detto a Haaretz di aver visto giovedì scorso dei soldati che mettevano qualcosa sotto un masso sulla strada di fronte alla collina dove lui vive. Li ha anche visti fotografare quello che avevano lasciato sulla strada. Dopo che se ne sono andati, è andato a vedere che cosa fosse.

Ha trovato un ordine in ebraico firmato e datato, un altro ordine in ebraico senza firma né data ed un terzo ordine in arabo anch’esso senza firma né data. Lo ha immediatamente comunicato agli altri abitanti, che erano spaventati e confusi.

Queste comunità di pastori hanno vissuto nella zona per decenni, ma Israele non permette loro di collegarsi alle infrastrutture o di aggiungere nuove case ed edifici pubblici in base alla crescita della popolazione ed alle mutate necessità.

Israele ha anche usato il proprio controllo sull’anagrafe palestinese per impedire all’Autorità Nazionale Palestinese di avere un elenco dei villaggi dei pastori in base alla riga relativa alla residenza delle loro carte di identità. Ribadisce invece che la loro città di residenza figura come Bardala, Ein al-Beida o qualche altro villaggio.

Ordini di sgombero, demolizione e sequestro di beni sono stati emessi contro i residenti per anni, ma mai contro tutti contemporaneamente né mai sulla base di un “ordine relativo a costruzioni non autorizzate.”

Nel 2008, nel tentativo di ovviare alla carenza di abitazioni per i residenti, la FAO ha costruito per loro strutture in metallo, finanziate dal Giappone. Nella sua lettera al comandante militare, Jabareen ha scritto che il Giappone e le Nazioni Unite non avrebbero costruito quelle strutture senza il permesso dell’Amministrazione Civile e che quel permesso era stato effettivamente concesso. Ma ha detto che in seguito l’amministrazione ha revocato il suo consenso.

“Negli ultimi anni molte famiglie hanno ripetutamente costruito illegalmente nell’area. Chiunque ritenga di essere ingiustamente colpito dall’ordinanza può rivolgersi alle autorità entro otto giorni”, ha aggiunto il COGAT.

“Relativamente ad alcune delle strutture, le autorità stanno esaminando i ricorsi (da parte dei proprietari). Riguardo ad esse, non verrà attuata nessuna misura finché l’esame non sarà completato.”

Su una collina ad est dell’area destinata allo sgombero c’è la colonia di Maskiot. Nel 2005 vi è arrivato un flusso di coloni [israeliani] che erano stati evacuati dalla Striscia di Gaza.

Negli ultimi due anni sono sorti anche due avamposti di insediamenti [israeliani], uno a nord e l’altro a sud di Ein al-Hilweh. L’Amministrazione Civile ha emesso ordini di interruzione lavori contro gli avamposti, ma essi continuano ad espandersi. Uno di questi è una propaggine di un altro avamposto illegale in corso di legalizzazione – Givat Salit. Il secondo si trova nella riserva naturale di Umm Zuka.

In entrambi gli avamposti si allevano pecore e mucche e, secondo palestinesi del luogo ed attivisti delle organizzazioni (israeliane) Ta’ayush e MachsomWatch, i pastori degli avamposti spesso impediscono ai palestinesi di pascolare i loro greggi. Nel 2011 un abitante di Ein al-Hilweh è stato costretto a togliere la propria tenda a causa delle ripetute aggressioni dei coloni.

Ein al-Hilweh e Umm Jamal non sono gli unici casi. Nei mesi scorsi l’esercito israeliano e l’Amministrazione Civile hanno anche fatto dei passi per sgomberare altre tre comunità palestinesi nel nord della Valle del Giordano – Khalat Makhoul, Al-Farisiya (che ospita circa 150 persone) e Khumsa.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Dopo Balfour: cento anni di storia e le strade non intraprese

Zena Agha, Jamil Hilal, Rashid Khalidi, Najwa al-Qattan, Mouin Rabbani, Jaber Suleiman, Nadia Hijab 

31 ottobre 2017, Al-Shabaka

Sintesi

Un’ondata internazionale di analisi e di attivismo sta segnando il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour, il 2 novembre 2017.

La dichiarazione fornì un imprimatur imperiale alla risoluzione del movimento sionista nella sua prima conferenza a Basilea del 1897 per “fondare una patria per il popolo ebraico in Palestina garantita dal diritto pubblico” e diede inizio ad una guerra e una violenza infinite e alla spoliazione, dispersione e occupazione del popolo palestinese.1

La storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione? Durante il secolo scorso ci furono momenti in cui i palestinesi avrebbero potuto influenzare il corso degli eventi in una diversa direzione? Ci siamo rivolti agli storici ed analisti della rete politica Al-Shabaka e abbiamo chiesto loro di identificare e riflettere su un momento in cui le cose avrebbero potuto andare diversamente se il popolo palestinese avesse deciso un’altra linea d’azione e di trarne lezioni che possano essere messe in pratica in questa ricerca di autodeterminazione, libertà, giustizia ed uguaglianza.

La tavola rotonda inizia con Rashid Khalidi e con la sua incisiva riflessione sulla costante mancanza di comprensione da parte della dirigenza palestinese delle dinamiche del potere globale, utilizzando il “Libro Bianco” del 1939 [documento britannico in cui si prospettava un ribaltamento della posizione filosionista del potere coloniale inglese e la costituzione di uno Stato arabo in Palestina, ndt.] per illustrare questa debolezza fatale. Zena Agha prende le mosse dalla commissione Peel del 1936 – la prima volta in cui venne menzionata la spartizione [della Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, ndt.] come soluzione – e mette in discussione che essa sia effettivamente inevitabile, anche oggi, come la commissione asseriva.

Jamil Hilal affronta lo stesso Piano di Spartizione – la risoluzione ONU 181 del 1947 [da cui è nato lo Stato di Israele, ndt.] – notando le ragioni della minoranza dei palestinesi che sostenevano di accettarla per guadagnare tempo al fine di recuperare la forza del movimento nazionale dopo che era stato represso dagli inglesi e dai sionisti. Traendo insegnamento da Balfour, dal piano di spartizione e da Oslo, Hilal chiede: “Quando chiediamo quali lezioni noi, in quanto palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la domanda è sempre: chi trarrà le lezioni e come si può fare in modo che si intervenga su di esse?”

Quanto è stata importante la grande catastrofe dell’Olocausto nel portare alla creazione di Israele? Najwa al-Qattan afferma che, benché ci sia sicuramente una relazione storica, non c’è un rapporto di causa – effetto, e quindi auspica una lettura critica della storia per tracciare il futuro. Mouin Rabbani contesta la valutazione secondo cui la visita di Anwar Sadat a Gerusalemme del 1977 sia stata un’iniziativa promettente fallita, sottolineando che quando il leader egiziano escluse dalla discussione l’opzione militare araba contro Israele privò l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, principale organizzazione politico militare palestinese, ndt.] e gli Stati arabi di un’opzione diplomatica credibile.

Jaber Suleiman fa un confronto tra il destino dell’Intifada contro l’occupazione israeliana del 1987 e quello della rivolta palestinese del 1936 contro l’occupazione britannica e ne trae una serie di lezioni, in particolare sull’importanza di legare la tattica a una chiara visione strategica nazionale che guidi la lotta palestinese in ogni suo stadio. La tavola rotonda è stata moderata da Nadia Hijab.

Rashid Khalidi: il “Libro Bianco” e una sistematica incomprensione del potere

Il “Libro Bianco” del 1939 avrebbe potuto essere un punto di svolta nella storia palestinese? 2 Al massimo sarebbe stato un punto di svolta secondario. Se la dirigenza palestinese avesse accettato il “Libro Bianco”, si sarebbe riposizionata rispetto al potere coloniale. Ciò avrebbe potuto giovare alla sua posizione alla fine della rivolta del 1936-39 e l’avrebbe schierata dalla parte degli inglesi quando i sionisti si ribellarono ad essi.

Tuttavia la Gran Bretagna era un potere in declino. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano dietro le quinte e fecero irruzione sulla scena poco dopo. Nel 1941 i nazisti attaccarono l’URSS e il Giappone attaccò Pearl Harbor ed il mondo cambiò, per cui, qualunque cosa i palestinesi avessero potuto fare con la Gran Bretagna, probabilmente avrebbe avuto effetti limitati. In un certo senso la grande rivolta palestinese arrivò troppo tardi. Gli egiziani si ribellarono nel 1919, gli iracheni nel 1920 e i siriani nel 1925. Negli anni ’30, soprattutto una volta che i nazisti arrivarono al potere, il progetto sionista era pienamente radicato in Palestina.

Tuttavia ciò che quel periodo pose in chiara evidenza fu il problema cronico della dirigenza palestinese, che era, senza eccezioni, poco aiutata da una minima comprensione del rapporto di forze a livello mondiale. I palestinesi erano in competizione con un movimento colonialista che era sorto in Europa e negli USA ed era costituito da europei le cui lingue madri erano europee e che erano in rapporto con personaggi influenti sia in Europa che negli USA.

Per competere con un movimento come quello, i dirigenti palestinesi avrebbero dovuto avere persone con rapporti nel sistema che fossero capaci di parlare le lingue e comprendessero sia la politica locale che quella internazionale. I palestinesi durante il Mandato britannico non le ebbero – basta leggere le loro memorie. Alcuni avevano delle intuizioni, ma erano inadatti a competere prima e dopo la dichiarazione Balfour e prima e dopo il “Libro Bianco”. E non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, soprattutto riguardo agli USA. L’OLP aveva una buona comprensione del Terzo Mondo e di come funziona, una buona comprensione dell’Unione Sovietica e una certa competenza riguardo all’Europa occidentale, che è la ragione per cui ottenne vittorie diplomatiche negli anni ’70. Ma non aveva la minima idea della politica USA, e non ce l’ha tuttora.

La generazione palestinese più giovane che è cresciuta negli USA e in Europa si trova in una posizione molto migliore. Ha i rapporti e comprende come funzionano queste società, a differenza dei dirigenti palestinesi, o di certo della generazione dei loro genitori. Quando questa generazione diventerà più ricca e influente in qualità di avvocati, dottori, professionisti dell’informazione e dirigenti finanziari, non avrà inibizioni nell’utilizzare il proprio potere e la propria influenza per promuovere la giustizia per i palestinesi.

Se questo breve dibattito permette di trarre una lezione dalla storia, questa è che non si è riusciti ad arrivare al vertice. Non si è parlato a lord Balfour o non si parla al segretario [di Stato americano] Tillerson. E’ la struttura del potere che devi comprendere – Balfour era parte del governo, di un partito politico, di una classe, di un sistema, e lo stesso vale per Tillerson. Devi capire quelle strutture, così come i mezzi di comunicazione, e avere una strategia per trattare con loro. L’idea che puoi arrivare al vertice è un’illusione che i palestinesi e gli arabi hanno avuto in genere a causa del modo in cui funzionano i sistemi governati da re e dittatori arabi. La dirigenza nazionale è ben lontana dall’avere una strategia per trattare con gli USA, è penoso. Al contrario, la società civile palestinese sta facendo un lavoro fantastico, sia quella della diaspora che in Palestina: sono gli unici che capiscono come va il mondo.

Zena Agha: la spartizione non era un pilastro della politica

La lunga e funesta storia della conquista coloniale della Palestina presenta molti errori e molte opportunità mancate. Nel contesto del centenario della dichiarazione Balfour, la commissione Peel – un rapporto prodotto dallo stesso potere coloniale della dichiarazione del 1917 – è un momento centrale, anche se trascurato, nella storia della ricerca palestinese dell’autodeterminazione.

Condotta sotto la direzione di lord Peel, la commissione era il risultato della missione britannica in Palestina nel 1936. Il suo intento dichiarato era di “accertare le cause alla base degli scontri” in Palestina in seguito allo sciopero generale arabo di sei mesi e per “indagare sul modo in cui il Mandato in Palestina è stato messo in pratica per quanto riguarda gli obblighi mandatari rispettivamente verso gli arabi e gli ebrei.”

In base al rapporto stilato nel giugno 1937, il conflitto tra arabi ed ebrei era irriconciliabile e, di conseguenza, la commissione raccomandava la fine del Mandato Britannico e la spartizione della Palestina in due Stati: uno arabo, l’altro ebraico. Si supponeva che la spartizione fosse l’unico modo per “risolvere” le legittime e antitetiche ambizioni nazionali delle due parti e per liberare la Gran Bretagna dalla sua difficile situazione.

Nonostante gli impegni indicati nella dichiarazione Balfour, nell’accordo Sykes-Picot [tra Gran Bretagna e Francia per la spartizione del Medio oriente, ndt.] e nella corrispondenza tra McMahon e Hussein [tra l’alto commissario britannico al Cairo e il principe hashemita per definire lo status politico dei territori arabi liberati dal dominio turco, ndt.], la raccomandazione della spartizione riconobbe ufficialmente l’incompatibilità degli obblighi britannici verso le due comunità. La commissione Peel rappresentò la prima ammissione, quasi 20 anni dopo la sua istituzione, che la premessa del mandato britannico era insostenibile. Fu anche la prima volta che la spartizione venne menzionata come una “soluzione” del conflitto che i britannici avevano creato.

Entrambe le parti rifiutarono le raccomandazioni della commissione. I dirigenti sionisti erano insoddisfatti delle dimensioni del territorio a loro destinato, nonostante appoggiassero la spartizione come soluzione. Dal punto di vista palestinese, la spartizione era una violazione dei diritti degli abitanti arabi della Palestina. Il rapporto della commissione scatenò la rivolta araba spontanea dal 1936 fino alla sua violenta repressione da parte dei britannici nel 1939.

È difficile dire quale forma avrebbe potuto prendere un corso degli avvenimenti alternativo. Dopotutto la rivolta araba (ed il fallimento della conferenza anglo-arabo-ebraica a Londra nel febbraio 1939) portò alla pubblicazione del “Libro Bianco” del 1939, che affermava: “Il governo di Sua Maestà quindi ora dichiara inequivocabilmente che non è parte della sua politica che la Palestina debba diventare uno Stato ebraico.” Sotto ogni aspetto questa fu una vittoria per la comunità palestinese. È stato quello che è venuto dopo, cioè la Seconda Guerra Mondiale e gli orrori dell’Olocausto, che ha drasticamente sovvertito questo equilibrio in favore di uno Stato ebraico in Palestina.

La commissione Peel e le sue conseguenze offrono un opportuno promemoria che la spartizione della Palestina non è mai stato un pilastro del Mandato Britannico. Piuttosto, la spartizione venne suggerita come una misura disperata per liberare la Gran Bretagna, come potere coloniale, dal pantano palestinese. Quella spartizione allora diventò l’ortodossia stabilita per le recentemente create Nazioni Unite, e da allora praticamente ogni negoziato fu assolutamente inevitabile nonché ragionevole. Se cerchiamo di trarre lezioni per il futuro, è forse il caso di rimuovere il finora ben consolidato mito che la spartizione della Palestina storica sia l’unico modo per garantire la pace, qualunque forma essa possa prendere.

Jamil Hilal: Il Piano di Spartizione e il bivio

Per comprendere le strade non percorse quando la risoluzione ONU 181 (nota anche come il Piano di Spartizione) è stata approvata nel 1947, si deve riprendere in considerzione la dichiarazione Balfour del 1917 e i suoi risultati. La dichiarazione rifletteva gli interessi britannici nella regione, cioè l’uso della Palestina come garanzia del controllo [britannico] sul canale di Suez e come zona cuscinetto contro le ambizioni francesi sul sud della Siria. Le preoccupazioni britanniche erano quindi sia economiche (l’accesso al canale e l’accesso e il controllo di petrolio e gas) sia politiche (il controllo sulla Palestina che era stato ottenuto dalla Società delle Nazioni). Questo controllo è la ragione per cui la Gran Bretagna si impegnò a creare un “focolare ebraico” in Palestina, piuttosto che uno Stato ebraico.

Il colonialismo di insediamento da parte degli ebrei europei contro i desideri degli arabi palestinesi nativi mise in pratica la dichiarazione. Questa colonizzazione europea della Palestina, istigata dalla Gran Bretagna, iniziò molto prima delle terribili atrocità commesse dal regime nazista nella Germania di Hitler. Contro questa doppia colonizzazione della Palestina ci fu molta resistenza palestinese, la più nota delle quali fu la grande rivolta del 1936-39. La dirigenza del movimento nazionalista palestinese, che lottò contro la colonizzazione sionista, era divisa sul giudizio in merito al dominio britannico sulla Palestina. Alcuni dirigenti pensavano che la Gran Bretagna avrebbe potuto essere convinta, mentre altri la consideravano il loro maggiore nemico. Questa divisione sul ruolo del potere imperiale contro il nemico diretto è evidente ancora oggi.

Le misure che le forze britanniche e sioniste presero per schiacciare la ribellione del 1936-39 lasciarono esausto il movimento nazionalista, la dirigenza dispersa e l’economia palestinese in rovina. In seguito non ci fu una chiara strategia, salvo la richiesta di indipendenza, anche questa una situazione che ha delle somiglianze con l’attualità.

La risposta palestinese al piano di spartizione delle Nazioni Unite rispecchiò la stanchezza del movimento nazionale. Non c’era una strategia unitaria e nessuna discussione per chiedere l’opinione del popolo sulla cosa migliore da fare, sia dal punto di vista tattico che strategico. Solo una piccola parte del movimento nazionalista era pronta ad accettare il piano. La maggioranza lo rifiutò, ma non propose una chiara alternativa. La minoranza che sosteneva l’accettazione da parte dei palestinesi credeva che avrebbe potuto sventare il progetto sionista di occupare quanta più terra possibile con il minimo di popolazione nativa. Questo gruppo credeva che l’accettazione avrebbe dato ai palestinesi tempo e spazio per ricostituire la propria forza e le proprie possibilità, costruire uno Stato e sviluppare relazioni con la regione e con il mondo. Altri affermavano che una simile mossa non avrebbe ostacolato il progetto sionista.

Il rifiuto del piano di spartizione era ovviamente comprensibile. Per i palestinesi questo significava consegnare più di metà della loro patria a un movimento colonialista di insediamento europeo che invadeva e colonizzava il loro Paese con la forza e con la protezione dell’impero britannico. Violava il loro diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza e la loro richiesta di uno Stato democratico che avrebbe garantito i diritti di tutti i cittadini indipendentemente dalla religione, dall’etnia e dalla razza. Inoltre il progetto britannico-sionista non era solo contro i palestinesi: tutta la regione araba era coinvolta.

Il movimento sionista colse il rifiuto del piano come il rifiuto di un accordo pacifico e una giustificazione per scatenare una guerra contro i palestinesi quando questi erano impreparati, disorganizzati e senza dirigenti.

Quindi non furono pienamente sviluppate e discusse alternative al piano di spartizione. Gli argomenti proposti da quelli che erano favorevoli ad accettare il piano non vennero sufficientemente discussi e non vennero fatti tentativi di articolare una nuova strategia di opposizione al movimento sionista. Un simile percorso avrebbe potuto avere un impatto su Israele e portare in seguito alla riunificazione della Palestina su basi democratiche. Queste idee erano almeno da discutere.

Ironicamente, alcuni degli argomenti di quel periodo vennero ripresi nel 1974 quando venne sostenuto il programma di transizione, noto anche come il programma di 10 punti, che intendeva fondare uno Stato su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il programma, che venne approvato dal Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), favorì l’ingresso dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come membro senza diritto di voto.

Nel 1988 il CNP approvò la soluzione dei due Stati in un momento in cui la prima Intifada aveva mobilitato un grande appoggio globale alla causa palestinese. Tuttavia gli accordi di Oslo del 1993 e ciò che ne seguì rappresentarono una spartizione della Palestina ancora più dannosa persino del piano di spartizione originale e sono culminati nell’attuale situazione, in cui l’equilibrio di forze tra Israele e i palestinesi a livello locale, regionale e internazionale è pesantemente a favore di Israele.

Partendo dal fatto che gli accordi di Oslo non hanno dato vita a uno Stato palestinese indipendente, ci dobbiamo chiedere: i palestinesi devono insistere con il progetto dei due Stati, in attesa di un cambiamento nel rapporto di potere, o dovrebbero adottare una nuova strategia che chieda la costruzione di uno Stato unico democratico nella Palestina storica – lo slogan che elementi illuminati del movimento nazionalista palestinese proposero prima della Nakba e di nuovo all fine degli anni ’60? Questa volta, tuttavia, la domanda deve essere affrontata con una chiara visione e strategia e attraverso una decisione delle comunità palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora.

Tuttavia non è sufficiente discutere. Quando chiediamo quali lezioni noi, come palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la mia domanda è sempre: chi farà tesoro di queste lezioni? E quelli che hanno il potere sono disposti ad agire tenendo conto di queste lezioni? Spesso gli intellettuali pensano che le loro analisi raggiungeranno in qualche modo la classe politica che è nelle condizioni di prendere l’iniziativa. Ma senza l’azione di gruppi di pressione, movimenti sociali, partiti politici, sindacati e altre forme di potere, si potrà ottenere poco.

Najwa al-Qattan: leggere la storia attraverso le lenti della realtà

La nascita dello Stato di Israele nel 1948 fu la conseguenza di una serie di sviluppi storici iniziati nel XIX° secolo. Benché l’Olocausto abbia giocato un ruolo nella nascita di Israele, esso fu più simile a un’ostetrica che a un genitore. Ciononostante c’è la percezione, sia nell’Occidente che tra i palestinesi, che i due avvenimenti siano legati da un rapporto causale. Questa percezione non è semplicemente dovuta a un errore logico secondo cui post hoc ergo proctor hoc, ovvero B ha seguito A, quindi A ha causato B. In realtà sono proprio i sei corti anni che separano i due eventi che dovrebbero farci riflettere. Qui io contesto una relazione causale diretta tra i due avvenimenti, pur suggerendo anche le ragioni per cui nell’immaginazione popolare sono associati. Concludo con le lezioni che possono essere tratte da una storia più critica.

Quando David Ben Gurion annunciò la nascita di Israele nel maggio 1948, stava a malapena evocando uno Stato puramente immaginario. Semmai stava fissando l’obiettivo di 50 anni di tentativi sionisti. Israele era la conseguenza di sviluppi storici sia a lungo che a breve termine: l’antisemitismo razziale o moderno in Europa nel XIX° secolo; l’emergere del movimento sionista sia come una risposta all’antisemitismo moderno che ai movimenti nazionalisti in Russia e in Europa occidentale; il successo del primo sionismo nel tenere insieme il socialismo con il nazionalismo per colonizzare “una terra senza popolo” con “un popolo senza terra”; il Mandato britannico per la Palestina sotto il cui contesto protettivo – come sancito nella dichiarazione Balfour – ondate successive di immigrati ebrei europei costruirono istituzioni sociali, economiche, politiche e militari pre-statali.

Tra i circa 600.000 ebrei europei che erano immigrati in Palestina fino al 1948, i sopravvissuti [all’Olocausto] erano 120.000. La popolazione di Israele crebbe rapidamente nei primissimi anni della sua vita in quanto arrivarono nuovi immigrati. Nuove ondate di sopravvissuti all’Olocausto ammontarono a 300.000, ma c’erano anche oltre 475.000 ebrei del Medio Oriente e di altre provenienze. Considerando l’idea sionista che lo Stato ebraico dovesse offrire un rifugio dall’antisemitismo europeo e una patria per il popolo ebraico, questo era un colpo morale e politico per il sionismo. L’idea era che se l’avessero costruita, sarebbero arrivati, ma milioni [di ebrei] non lo fecero, anche dopo la catastrofe provocata dall’uomo dell’Olocausto, che sterminò sei milioni di ebrei.

Non si tratta di negare un rapporto storico tra i due fatti. Il primo collegamento tra l’Olocausto e la creazione dello Stato di Israele riguarda i tempi. Benché i fondatori dello Stato sionista dai primi decenni del XX° secolo fossero concordi riguardo all’obiettivo finale di costituire uno Stato ebraico in Palestina, dissentivano sul momento ideale (così come sull’estensione del suo territorio). In questo senso l’Olocausto sicuramente portò i dirigenti sionisti a sottolineare l’urgenza dello Stato, come durante il programma Biltmore [dichiarazione da parte di Ben Gurion durante la conferenza all’hotel Biltmore di New York sulla necessità di costituire lo Stato ebraico, ndt.] nel 1942, così come fece l’annuncio britannico dei piani di disimpegno dalla Palestina nel 1947. Tuttavia ciò non significa che uno fosse la causa dell’altro; i progetti e le attività relativi alla costituzione dello Stato all’epoca erano in fase avanzata.

Il secondo collegamento è una questione di propaganda politica: il legame tra l’Olocausto ed Israele è stato spesso utilizzato per denunciare le critiche di Israele come antisemitismo e per eliminare dalla narrazione la mancanza di uno Stato e la diaspora del popolo palestinese. Due anni fa il primo ministro Benjamin Netanyahu è arrivato a fare la falsa affermazione che furono i palestinesi che suggerirono l’idea della soluzione finale a Hitler.

Sotto occupazione o sparsi nella diaspora provocata da Israele, a volte i palestinesi immaginano che se l’Olocausto non fosse mai avvenuto non ci sarebbe neanche stato Israele. Piuttosto che reimmaginarci il passato, faremmo meglio a imparare da esso in modo da costruire un futuro pacifico e umano. In primo luogo, il segreto per costruire uno Stato palestinese (indipendentemente dalla sua forma) sono la densità e il benessere del suo popolo, delle sue istituzioni e della sua società civile, così come la determinazione della sua dirigenza politica e della società civile a sfidare l’occupazione e la negazione dei diritti palestinesi da parte di Israele. In secondo luogo, benché l’Olocausto non abbia provocato direttamente la nascita dello Stato di Israele, dovremmo desiderare che non ci fosse mai stato per l’unica ragione che conta: quella morale.

Mouin Rabbani: le ripercussioni della pace separata di Sadat

Sembra che il popolo palestinese abbia un rapporto difficile con gli anni che finiscono con il numero sette. Il primo congresso sionista si tenne nella città svizzera di Basilea nel 1897; il 1917 vide Arthut Balfour emanare la vergognosa dichiarazione che impegnava la Gran Bretagna a trasformare la Palestina in un focolare nazionale ebraico; la commissione Peel, che raccomandava che Londra adottasse la spartizione come politica ufficiale, pubblicò il suo rapporto nel 1937; la risoluzione 181 dell’assemblea generale dell’ONU che raccomandava la spartizione della Palestina venne adottata il 29 novembre 1947; il risultante staterello di Israele occupò ciò che restava della Palestina ed altri territori arabi nel 1967. Mezzo secolo dopo, nel 2017, sembra che vi si sia installato in modo più o meno permantente. L’importante eccezione a questa costante di sconfitte e tragedie è il 1987, l’anno in cui l’Intifada, la rivolta popolare nei Territori Palestinesi Occupati, scoppiò per dare ancora una volta ai palestinesi di ogni luogo la speranza di una liberazione nazionale.

Il 1977, l’anno in cui il leader egiziano Anwar Sadat lanciò la sua iniziativa per fare una pace separata con Israele, è spesso assente da questo elenco. L’auto-proclamato “pellegrinaggio” di Sadat verso l’abbraccio di Menachem Begin è normalmente presentato come l’inizio benaugurante di un processo di pace arabo-israeliano che in seguito è fallito. Non c’è bisogno del senno di poi per capire che non era, e non avrebbe mai potuto essere, niente del genere.

Sadat dedicò molti degli anni ’70, e in particolare quelli successivi alla guerra dell’ottobre 1973 [la guerra dello Yom Kippur, ndt.], a riconfigurare l’Egitto. Precedentemente centro di gravità del mondo arabo, che cercò e ottenne un’importanza globale, fu sotto la dirigenza di Sadat che l’Egitto venne gradualmente ridotto a Stato “cliente” di USA e Arabia Saudita. Le riforme socioeconomiche che ne derivarono – la politica dell’infitah [apertura neoliberista, ndt.] – per pagare il prezzo di ammissione aprirono le porte dell’Egitto ad ogni capitalista corrotto e ad ogni disponibilità clientelare. All’inizio del 1977 tali cambiamenti produssero anche un’esplosione di rivolta popolare, senza precedenti dal colpo di Stato del 1952, che per poco non portò alla fine del potere di Sadat. Il suo volo a Tel Aviv alla fine di quell’anno era un risultato diretto di quegli sviluppi. Eppure l’aria di inevitabilità di cui la sua iniziativa venne da allora rivestita – presentata come una conseguenza logica e necessaria del disimpegno [israeliano] dal Sinai nel 1974-75 in seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973 – equivale a leggere la storia a posteriori. Per una buona ragione prese assolutamente di sorpresa allo stesso modo amici e nemici.

In un sol colpo lo stravagante e sempre più imprevedibile leader egiziano eliminò dalle possibilità l’opzione militare araba contro Israele. Così facendo privò anche l’OLP e gli Stati arabi di una credibile opzione diplomatica.

Le immediate conseguenze furono la devastante invasione del Libano nel 1982 e l’espulsione del movimento nazionale palestinese dal Libano. Un decennio dopo, gli accordi di Oslo del 1993 non furono altro che un’elaborazione del piano di autonomia inserito nel trattato di pace tra israeliani ed egiziani del 1979. Che Israele non abbia ancora dato il nome di Anwar Sadat a una sua colonia è uno dei grandi misteri della regione.

Se alla fine degli anni ’70 l’Egitto – come quasi fece – avesse resistito alla tentazione di una pace separata con Israele, il Medio Oriente oggi sarebbe un posto molto diverso e quasi sicuramente molto migliore. I palestinesi e gli Stati arabi avrebbero conservato un’opzione diplomatica credibile e sarebbero stati nelle condizioni di esercitare significative pressioni militari se Israele avesse rifiutato di fare altrettanto.

Jaber Suleiman: reimparare la lezione della prima Intifada

La prima Intifada del 1987 fu un brillante modello di lotta palestinese contro l’occupazione israeliana. Impegnò tutti gli strati della popolazione palestinese e fu caratterizzata da unità, organizzazione e creatività. Rivitalizzò con successo anche la causa palestinese a livello internazionale dopo che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) venne espulsa da Beirut nel 1982, perdendo la propria base.

Da allora ogni volta che i palestinesi si ribellano contro l’occupazione israeliana ci chiediamo: ci sarà una nuova Intifada – una terza Intifada, dato che l’Intifada degli anni 2000 fu la seconda? Qualche analista usa sbrigativamente il termine “intifada” per riferirsi a qualunque promettente azione popolare, come il movimento dei giovani nel 2015 e, più recentemente, l’”ondata di rabbia” di Gerusalemme, che continua in modo intermittente nel 2017. Ciò sottolinea la posizione centrale della prima Intifada, che durò tre anni. Infatti è comparabile solo con la grande rivolta palestinese del 1936-39. Sia l’Intifada che la rivolta andarono incontro allo stesso tragico destino, benché nel contesto di circostanze storiche diverse.

La dirigenza palestinese degli anni ’30 rispose all’appello dei leader arabi di fermare la rivolta per “dare ascolto alle buone intenzioni del nostro alleato britannico”, che si era impegnato a rispettare le richieste arabe. Nel 1988, durante la 19° sessione del Consiglio Nazionale, l’OLP decise di capitalizzare politicamente la prima Intifada per ottenere libertà e indipendenza. Credeva di appropriarsi della lotta e che l’Intifada avesse fornito la spinta necessaria per mettere in atto il programma politico provvisorio che aveva adottato nel 1974, che comprendeva la formazione di un’entità palestinese su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il risultato fu uno Stato abortito come conseguenza degli accordi di Oslo.

Dato che le circostanze della rivolta del 1936 non portarono alla realizzazione del diritto palestinese all’auto-determinazione, perché la prima Intifada non fu in grado di avvalersi di questa ricca esperienza per evitare il suo tragico destino? Anzi, la prima Intifada soffrì lo stesso destino perché fu coinvolta troppo frettolosamente negli accordi di Oslo, e il popolo palestinese continua a raccoglierne le amare conseguenze. Ciò include la divisione, la frammentazione e la debolezza del suo movimento nazionale dopo che negli anni ’70 aveva guadagnato un posto di rilievo tra i movimenti di liberazione nazionale mondiali.

Questa domanda è diventata ancora più pressante nel centenario della dichiarazione Balfour, in quanto lo sventurato processo di pace di Oslo è arrivato alla fine dopo più di due decenni di futili negoziati. I fatti sul terreno determinati dalle colonie israeliane – e il rifiuto israeliano di ritirarsi dalla terra occupata nel 1967 – hanno reso impossibile la soluzione dei due Stati. Oggi è urgente chiedersi come le lezioni della prima Intifada ed i suoi risultati possano essere messi in pratica per una giusta soluzione del conflitto arabo-israeliano.

  • La storia svela l’importanza per la lotta nazionale palestinese di avere una chiara visione strategica e di essere sicuri che le mosse tattiche si inseriscano in quelle strategiche, e viceversa, durante tutte le fasi della lotta e alla luce dei cambiamenti sul terreno e delle alleanze globali. Ciò garantisce che, qualunque sia la fase della lotta, l’opportunismo politico non abbia la priorità sugli obiettivi finali.

  • È fondamentale sostenere le basi giuridiche del conflitto, fondate sui principi di giustizia contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, che sostituisce le leggi internazionali in base all’articolo 1 della Carta. Ciò garantisce che le basi legali dei diritti dei palestinesi non vengano manipolate e che quei diritti rimangano il punto di riferimento per ogni negoziato. Non è stato così nel caso di Oslo.

  • La dirigenza palestinese – attuale o futura – dovrebbe ispirarsi allo spirito combattivo che il popolo ha dimostrato durante un secolo di resistenza al progetto sionista. La resistenza dovrebbe imparare da queste esperienze storiche per rafforzare la propria fiducia nel potenziale rivoluzionario del popolo palestinese, ed evitare il meschino e miope sfruttamento politico di consistenti risultati nella lotta che leda i diritti nazionali dei palestinesi.

Notes:

  1. Al-Shabaka ringrazia gli sforzi dei sostenitori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile di eventuali cambiamenti del significato.

  2. Il governo britannico adottò il Libro Bianco nel 1939, e lo applicò fino alla fine del suo mandato nel 1948. Il “Libro Bianco” escluse la spartizione e affermò che il focolare nazionale ebraico avrebbe dovuto essere all’interno di una Palestina indipendente con limiti all’immigrazione [degli ebrei, ndt.].

Zena Agha è l’esperta di politica USA per Al-Shabaka. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, sulla diplomazia e sul giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena a Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e all’ “Economist”. Oltre ad editoriali su “The Indipendent”, le collaborazioni di Zena includono El País, i servizi internazionali di PRI [Public Radio International, rete radiofonica indipendente con sede negli USA, ndt.], i servizi esteri della BBC e la BCC in arabo. A Zena è stata assegnata una borsa di studio Kennedy per studiare all’università di Harvard, completando il suo master in studi sul Medio oriente. I suoi principali interessi di ricerca comprendono la storia moderna, memorie e produzioni narrative, prassi territoriali in Medio oriente.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è sociologo e scrittore indipendente palestinese e ha pubblicato vari libri e numerosi articoli sulla società palestinese, sul conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente. Hilal ha ottenuto, e tuttora ricopre, il ruolo di ricercatore esperto in una serie di istituti di ricerca palestinesi. Le sue recenti pubblicazioni includono lavori sulla povertà, sui partiti politici palestinesi e sul sistema politico dopo Oslo. Ha pubblicato Where Now for Palestine: The Demise of the Two-State Solution [Dove va ora la Palestina: il fallimento della soluzione dei due Stati] (Z Books, 2007), e con Ilan Pappe ha pubblicato Across the Wall [“Attraverso il muro”] (I.B. Tauris, 2010).

Il commentatore politico di Al-Shabaka Rashid Khalidi è titolare della cattedra Edward Said di Studi Arabi al dipartimento di storia della Columbia University. È stato presidente dell’Associazione degli Studi sul Medio Oriente, consulente della delegazione palestinese per i negoziati di pace arabo-israeliani del 1991-93 ed è direttore del Journal of Palestine Studies. Khalidi è autore di Brokers of Deceit: How the U.S. has Undermined Peace in the Middle East (2013); Sowing Crisis: American Dominance and the Cold War in the Middle East (2009); The Iron Cage: The Story of the Palestinian Struggle for Statehood (2006); Resurrecting Empire: Western Footprints and America’s Perilous Path in the Middle East (2004); Palestinian Identity: The Construction of Modern National Consciousness (1997); Under Siege: PLO Decision-making during the 1982 War (1986); e British Policy towards Syria and Palestine, 1906-1914 (1980). Ha scritto oltre novanta articoli su aspetti della storia del Medio Oriente.

La commentatrice politica di Al-Shabaka Najwa al-Qattan è professoressa associata di storia alla Loyola Marymount University di Los Angeles. Si è laureata all’American University di Beirut, alla Georgetown e ad Harvard. Ha scritto sulla corte ottomana musulmana, su ebrei e cristiani nell’impero ottomano e sulla Grande Guerra.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato in questioni palestinesi e nel conflitto arabo-israeliano. È ricercatore all’Istituto di Studi Palestinesi ed è un redattore di Middle East Report [rivista indipendente sul Medio Oriente, ndt.]. I suoi articoli sono apparsi anche su “The National [rivista in inglese degli Emirati Arabi Uniti, ndt.] ed è commentatore del The New York Times.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jaber Suleiman è un ricercatore e consulente indipendente in studi sui rifugiati. Dal 2011 ha lavorato come consulente e coordinatore per il Forum di Dialogo libanese-palestinese presso l’Iniziativa per uno Spazio Comune, il progetto di supporto dell’UNDP [il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndt.]

sulla Costruzione di Consenso e Pace Civile in Libano. Tra il 2007 ed il 2010 ha lavorato come consulente per il programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano. È stato ricercatore ospite del programma di studi sui rifugiati dell’università di Oxford. È anche co-fondatore del gruppo e centro per i diritti dei rifugiati Aidoun e ha scritto numerosi studi riguardanti i profughi palestinesi e il diritto al ritorno.

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, scrittrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, Womanpower: The Arab debate on women at work [“Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro”] è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è coautrice di Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel [“Cittadini ai margini: un ritratto dei palestinesi in Israele”] (I. B. Tauris). E’ stata capo redattrice del giornale con sede a Londra “Middle East magazine”, prima di aver ricoperto un incarico alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-condirettrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi, ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 24 ottobre – 6 novembre (due settimane)

Il 30 ottobre, le forze israeliane hanno fatto esplodere un tunnel sotterraneo che, a quanto riferito, correva sotto la recinzione che separa Gaza da Israele; 12 membri di gruppi armati palestinesi sono morti e altri 12 sono rimasti feriti. Si tratta del maggior numero di vittime registrate in un singolo episodio dopo le ostilità del 2014. Il 5 novembre, l’esercito israeliano ha recuperato dal tunnel cinque cadaveri che, al momento, sono trattenuti da Israele. Altri cinque addetti della Difesa Civile palestinese sono rimasti feriti durante un tentativo di salvataggio delle vittime.

L’UNRWA ha annunciato che il 15 ottobre ha scoperto quello che sembrava essere un tunnel sotto una delle sue scuole in Gaza. Secondo l’Agenzia, essa attuò tutte le misure necessarie per rendere la scuola sicura, consentendo la ripresa della attività dopo dieci giorni. L’UNRWA ha chiesto a tutti i soggetti interessati il ​​pieno rispetto per la neutralità e l’inviolabilità dei locali dell’ONU in ogni tempo.

[nota: UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) è stata istituita nel 1948 dalle Nazioni Unite per il soccorso, lo sviluppo, l’istruzione, l‘assistenza sanitaria, i servizi sociali e gli aiuti di emergenza ad oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi che vivono in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza.]

Il 31 ottobre, le forze israeliane hanno fatto fuoco, uccidendo un palestinese 29enne e ferendo la sorella; i due stavano viaggiando sulla strada 465, nei pressi dell’insedia-mento colonico di Halamish (Ramallah). Secondo fonti israeliane, i soldati hanno aperto il fuoco contro il veicolo poiché il conducente ha proseguito nonostante gli fosse stato ordinato di fermarsi. Le autorità israeliane hanno riferito di aver avviato un’indagine penale sulle circostanze dell’episodio. Il corpo dell’uomo, che era del villaggio di Deir Ballut (Salfit), è stato trattenuto per tre giorni.

29 palestinesi, nove dei quali minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante scontri nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Gaza]. Diciotto feriti sono stati registrati nel contesto di operazioni di ricerca-arresto condotte in Campi Profughi, tra cui: Al Jalazun (Ramallah), Qalandiya (Gerusalemme), Ad Duhaisha e Ayda (Betlemme), Balata (Nablus), Jenin ed anche nelle città di Al Bireh (Ramallah) ed Hebron. In totale, le forze israeliane hanno condotto 166 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 179 palestinesi. Altri 11 feriti sono stati segnalati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale contro le restrizioni di accesso e durante quattro proteste attuate accanto alla recinzione perimetrale che circonda Gaza.

In almeno 15 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori per far rispettare le restrizioni di accesso imposte ai palestinesi in terraferma [ai terreni di Gaza lungo la recinzione] e nelle zone di pesca; due pescatori sono stati feriti, arrestati e la loro barca confiscata. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, vicino a Khan Younis e nell’area centrale, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale. Due palestinesi, tra cui un paziente, sono stati arrestati dalle forze israeliane al valico di Erez controllato da Israele.

Per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito cinque strutture in due località solo parzialmente situate nell’Area C, compromettendo il sostentamento di nove famiglie. Si tratta di quattro botteghe artigiane in Barta’a ash Sharqiyeh (Jenin), un villaggio situato nell’area chiusa dietro la Barriera (la zona di Seam), e una struttura agricola nel Campo Profughi di Al ‘Arrub (Hebron).

Presso la Comunità di Ad Dawa (Nablus), un’altra struttura agricola è stata colpita e distrutta da un colpo di cannone durante una esercitazione militare; ne risulta compromesso il sostentamento di quasi 100 persone. La Comunità si trova in un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco”. Negli ultimi anni, a causa soprattutto della violenza e delle intimidazioni dei coloni, i residenti in questa comunità hanno abbandonato le proprie abitazioni, accedendovi esclusivamente per le attività agricole.

In un’altra “zona per esercitazioni a fuoco” situata nel sud di Hebron, la vita di tre comunità è stata stravolta da esercitazioni, svolte con elicotteri, in prossimità delle loro abitazioni. Le comunità coinvolte sono Tuba, Sfai e Majaz, situate in un’area conosciuta come Massafer Yatta. Le coperture di alcuni ripari e i foraggi per gli animali sono stati spazzati via, mentre i bambini hanno sofferto paura e traumi. Le “zone per esercitazioni a fuoco” coprono quasi il 30% della Zona C ed in esse vivono circa 6.200 persone, distribuite in 38 comunità che presentano alti livelli di necessità umanitaria.

A metà ottobre, la sentenza di una corte israeliana ha aperto la strada alla demolizione (per mancanza di permessi edilizi) di quattro edifici nella zona Kafr ‘Aqab di Gerusalemme Est. Gli edifici comprendono circa 100 unità abitative, di cui sei abitate, e si trovano sul tracciato di una strada progettata per raggiungere il checkpoint di Qalandiya. Di conseguenza, sei famiglie (25 persone, tra cui 13 minori) rischiano lo sfollamento. Successivamente, a seguito dell’emissione di un provvedimento provvisorio, l’esecuzione delle demolizioni è stata sospesa fino a dicembre. Kafr ‘Aqab si trova all’interno dei confini comunali di Gerusalemme, ma dal 2002 è stata fisicamente separata dal resto della città dalla costruzione della Barriera; fruisce quindi di pochissimi servizi comunali.

Nel contesto della raccolta delle olive, ancora in corso, sono stati segnalati otto episodi di intimidazione e/o furto di prodotti da parte di coloni israeliani. Sette di questi episodi sono avvenuti in aree vicine agli insediamenti colonici; per i palestinesi, l’accesso a tali aree è soggetto a “coordinamento preventivo” con le autorità israeliane. Le comunità colpite comprendono: Deir al Hatab, As Sawiya, Deir Sharaf e Huwwara (Nablus), At Tuwani (Hebron), Sinjil (Ramallah), Al Jaba’a (Betlemme). Secondo quanto riferito, da ottobre di quest’anno, inizio della stagione della raccolta delle olive, almeno 1.073 alberi di proprietà palestinesi sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Sono stati inoltre segnalati alcuni episodi di lancio di pietre ad opera di coloni contro agricoltori palestinesi.

Due palestinesi sono stati feriti e una rete di irrigazione è stata vandalizzata da coloni israeliani. I ferimenti si sono verificati nel contesto di due aggressioni fisiche: nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della Comunità di Ein al Beida, nella valle del Giordano settentrionale. In quest’ultima zona si è avuto un secondo episodio: secondo testimoni oculari palestinesi, un gruppo di coloni israeliani ha divelto circa 1.000 metri di tubature per l’acqua da una rete di irrigazione e li ha gettati in una fossa vicino al confine con la Giordania. Le tubature erano state collocate nell’ambito di un progetto umanitario finanziato da donatori a sostegno degli agricoltori della zona che, in seguito ad una sentenza della Corte Suprema israeliana, avevano riacquistato il diritto di accesso ai propri terreni privati.

Secondo rapporti di media israeliani, a Ramallah e nei governatorati di Betlemme ed Hebron, un colono israeliano è stato ferito e diversi veicoli sono stati danneggiati dal lancio di pietre da parte di palestinesi. Per gli stessi motivi ha subito danni anche la metropolitana leggera nel tratto che attraversa il quartiere di Shu’fat (Gerusalemme Est).

Il 1° novembre le Autorità di Hamas hanno ceduto all’Autorità Nazionale Palestinese il controllo, sul versante di Gaza, dei valichi di Erez e Kerem Shalom [confine israeliano] e Rafah [confine egiziano]. In conseguenza, le precedenti restrizioni imposte dalle autorità di Hamas, sono state attenuate. Questo passaggio fa parte degli accordi di riconciliazione nazionale tra Fatah e Hamas, raggiunti il 12 ottobre. Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano è rimasto chiuso in entrambe le direzioni.

[nota: Gli accordi di riconciliazione nazionale sono stati raggiunti grazie alla mediazione dell’Egitto. Il valico di Rafah, fra due settimane, riaprirà al transito di persone e merci sotto la sorveglianza della guardia presidenziale di Abu Mazen e possibilmente del contingente europeo di osservatori. (fonte ANSA)]

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Una conferenza europea sull’attività di colonizzazione dichiara Israele un “regime di apartheid”

Ma’an News

10 novembre 2017

Betlemme (Ma’an) – Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania.

Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:

1. Israele, il potere occupante dei territori palestinesi dal 1967, continua la sua politica di confisca, ebraicizzazione della terra palestinese e costruzione di colonie su di essa. Queste colonie, con il passare del tempo, sono diventate l’incubatrice di “organizzazioni terroristiche” di coloni come HiiltopYouth, Paying the Price and Revenge [rispettivamente “I giovani delle colline”, “Pagare il prezzo” e “Vendetta”, gruppi di coloni estremisti e violenti, ndt.].

2. Pertanto, con questa politica predeterminata di espansione delle colonie, è improprio parlare di smantellamento di colonie politiche o per la sicurezza, ma piuttosto occorre inquadrare questo movimento come una politica coloniale strutturale in grado di colonizzare una larga parte della Cisgiordania, non meno del 60% della sua estensione. Questa politica, di fatto, ha costituito un regime di apartheid, che viola la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che nel suo articolo 8 stabilisce che le colonie sono un crimine di guerra, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso il 9 luglio 2004 riguardo al Muro dell’apartheid, che è stato definito una grave violazione delle leggi internazionali, e le risoluzioni ONU, soprattutto la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza. Questa risoluzione afferma chiaramente che ogni attività israeliana di colonizzazione nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, è illegale in base alle leggi internazionali e costituisce un ostacolo alla costituzione di uno Stato palestinese contiguo, sostenibile e pienamente sovrano.

3. La conferenza di Bruxelles, prendendo nota dei fatti summenzionati, considera che la continuazione delle attività di colonizzazione pone fine a ogni possibilità per una soluzione dei due Stati e piuttosto concretizza il sistema di apartheid attuato dalla politica di occupazione. La conferenza chiede la fine immediata di ogni attività di colonizzazione perseguita dallo Stato occupante nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.

4. La conferenza di Bruxelles chiede alla comunità internazionale di assumersi le responsabilità giuridiche opponendosi a queste politiche razziste del potere occupante e imporre una seria pressione su di esso per il rispetto delle fondamentali leggi internazionali. L’Unione Europea, che ha intense relazioni e un accordo di associazione con lo Stato israeliano occupante, dovrebbe fare pressione su Israele in modo che essa [l’UE] si assuma la responsabilità di superare la differenza tra le sue parole e le sue azioni nel contesto della politica israeliana di colonizzazione, attivando l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti i suoi obblighi in quanto potere occupante.

5. La conferenza di Bruxelles chiede anche ai Paesi dell’UE di far seguire alle parole i fatti, non solo rilasciando dichiarazioni di denuncia e di condanna, ma adottando piuttosto misure concrete per rendere Israele responsabile, imponendo un divieto assoluto su ogni attività finanziaria, economica, commerciale e di investimenti, diretta o indiretta, con le colonie israeliane finché non si atterranno alle leggi internazionali.

6. I partecipanti a questa conferenza, mentre condannano la politica di colonizzazione nei territori palestinesi occupati come una violazione del diritto internazionale, sottolineano al contempo l’importante ruolo che può essere giocato da forze politiche, parlamenti, organizzazioni dei diritti umani e della società civile nei Paesi dell’UE per opporsi ai progetti israeliani di espansione e di costruzione di colonie. Chiedono anche ai governi dell’UE e alle loro istituzioni costituzionali di rispettare le proprie responsabilità in base alla responsabilità collettiva di rifiutare le violazioni da parte di Israele dei diritti dei cittadini palestinesi sotto occupazione, in modo da obbligare Israele almeno a rispettare i suoi obblighi in base all’Accordo di Associazione e da non permettere ai coloni e ai loro dirigenti di entrare nei Paesi dell’UE e da portarli davanti alla giustizia internazionale come criminali di guerra nel caso lo facciano.

7. I partecipanti alla conferenza chiedono ai popoli del mondo e alle loro forze democratiche amanti della pace di partecipare attivamente al movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, noto come BDS, e di fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale.

8. La conferenza afferma anche il proprio totale sostegno all’iniziativa palestinese di deferire alla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra la costruzione di nuove colonie, l’espansione di quelle esistenti e la violenza dei coloni contro i palestinesi.

9. I partecipanti alla conferenza plaudono alla crescente solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta causa. Elogiano anche il rifiuto da parte dei popoli del mondo delle politiche israeliane di pulizia etnica e di apartheid perseguite dallo Stato occupante israeliano.

10. I partecipanti alla conferenza chiedono di contrastare questa politica costituendo un comitato europeo di Paesi partecipanti rappresentati in questa conferenza per denunciare le continue violazioni da parte delle forze di occupazione e per rafforzare la pressione per perseguire i criminali di guerra israeliani finché Israele non rispetterà il diritto internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Hamas: il coordinamento per la sicurezza con Israele è la principale minaccia all’unità

Middle East Monitor

10 novembre 2017

Ieri Hamas ha detto che il coordinamento per la sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ed Israele danneggerà gli interessi nazionali palestinesi ed influenzerà negativamente le possibilità di promuovere una riconciliazione nazionale.

In una dichiarazione ufficiale il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha sottolineato che “Hamas è sorpreso dalla ripresa, da parte dell’ANP in Cisgiordania, del coordinamento e della cooperazione per la sicurezza con il nemico sionista, fatto che rappresenta il maggior pericolo per il popolo palestinese, la sua unità ed i suoi legittimi diritti, compreso il diritto a resistere all’occupazione.”

“Il coordinamento per la sicurezza dell’ANP pregiudica la reputazione del popolo palestinese, delle sue lotte e della sua storia”, ha aggiunto.

Barhoum ha chiamato il popolo palestinese a far pressione sull’ANP perché interrompa quelle che ha descritto come azioni “che danneggiano l’interesse nazionale”.

Ha sottolineato che l’ANP deve lavorare per assicurare che i colloqui per la riconciliazione abbiano successo e per promuovere il progetto nazionale palestinese.

Le osservazioni di Hamas sono giunte il giorno dopo che il capo della polizia dell’ANP Hazem Atallah ha comunicato che due settimane fa tutte le forze di sicurezza dell’ANP hanno completamente ristabilito la cooperazione per la sicurezza con Tel Aviv. “E’ per il nostro popolo, per la sicurezza del nostro popolo e per i diritti del nostro popolo”, ha detto.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva interrotto il coordinamento con Israele il 21 luglio, chiedendo che (Israele) rimuovesse i metal detector che aveva installato fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa. Secondo un sondaggio effettuato a settembre dal Centro palestinese di ricerca politica e statistica, circa il 73% dei palestinesi appoggiava la decisione di Abbas.

Di fronte a proteste di massa in tutto il mondo ed al rifiuto dei palestinesi di passare attraverso i metal detector, due settimane dopo Israele ha smantellato le barriere ed ha comunicato che avrebbe installato misure di sicurezza meno invasive. L’agenzia di informazioni Safa [che secondo Israele è legata ad Hamas, ndt.] ha riferito che all’inizio di questa settimana la polizia israeliana ha iniziato a sistemare telecamere ai cancelli della moschea di Al-Aqsa per controllare l’ingresso e l’uscita dei palestinesi dal luogo sacro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Mettere in chiaro le cose su Yitzhak Rabin

Amira Hass

6 novembre 2017, Haaretz

L’assassinio dell’ex primo ministro nel 1995 non è la ragione principale per cui non è stato creato uno Stato palestinese – nonostante ciò che credeva Yasser Arafat.

Una delle assurde considerazioni che Yasser Arafat soleva fare – e che si possono ancora sentir dire oggi da alcuni dei suoi seguaci – era che, se Ygal Amir [estremista ebreo che uccise il primo ministro Rabin per aver firmato gli accordi di Oslo, ndtr.] non avesse assassinato il primo ministro Yitzhak Rabin nel 1995, il processo di Oslo sarebbe proseguito e sarebbe sfociato in una conclusione positiva: uno Stato palestinese accanto a Israele.

Arafat ed il suo entourage dovevano giustificare gli accordi di Oslo di fronte a se stessi ed al loro popolo. Dovevano scusarsi per i gravi errori che avevano fatto durante i negoziati (inizialmente in modo ingenuo e disattento, in seguito con un misto di ingenuità, negligenza, stupidità, incompetenza, debolezza, crescente impotenza, miopia e considerazioni personali legate alla sopravvivenza e alla corruzione).

La politica israeliana non era e non è formulata sulla base delle decisioni di una sola persona. E certamente non quando si tratta della questione fondamentale del nostro essere sionisti: cosa diavolo fare con questi arabi che si sono introdotti nella nostra patria ebraica. L’orgogliosa risposta sionista a questa domanda può essere trovata oggi nella realtà delle sovraffollate enclave palestinesi, ridotte al minimo dallo spazio ebraico affamato di proprietà immobiliari che dio ci ha promesso. Che egli esista o meno.

Una sola persona non può essere responsabile di questa comoda realtà – nemmeno i più maturi tra i nostri pensatori geopolitici, Shimon Peres o Ariel Sharon, o Shlomo Moskowitz, che dal 1988 al 2013 è stato a capo del supremo comitato di programmazione dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.], che ha consolidato la pianificazione dell’apartheid in Cisgiordania.

Per dare forma alla realtà delle enclave c’è stato bisogno di un’intera rete di ideologi, generali, avvocati, ufficiali, architetti, rabbini, politici, geografi, storici, imprenditori e molti altri ancora. Perciò una sola persona non è sufficiente a fermare una politica impostata da una rete ben determinata e pienamente coordinata. Nemmeno Rabin – nemmeno ipotizzando per un momento che si sia reso conto che un accordo logico avrebbe potuto basarsi solamente su uno Stato palestinese contiguo.

E’ vero, Rabin definì i coloni sulle Alture del Golan “repulsivi”, ma disse anche che si augurava che Gaza affogasse nel mare. Ha anche fatto un ottimo lavoro definendo le aspettative di Israele nei confronti del suo subappaltatore palestinese, quando affermò che l’Autorità Nazionale Palestinese doveva governare senza l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] e senza l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem. E poi, più importanti delle sue affermazioni politicamente scorrette, ci sono i fatti sul terreno, avvenuti ancor prima del suo assassinio.

E queste sono le fondamenta della realtà delle enclave – che sono il contrario di uno Stato: separazione della Striscia di Gaza dalla Cisgiordania; separazione di Gerusalemme est dal resto dell’area palestinese; Area C [circa il 60% del territorio della Cisgiordania, in cui si trovano le principali risorse naturali e, in base agli accordi di Oslo, sotto completo controllo israeliano, ndtr.]; una leadership palestinese indebolita; rafforzamento delle colonie e dei coloni; due sistemi giuridici ineguali – uno per gli ebrei ed uno per i palestinesi; uso del pretesto della sicurezza come strumento di colonizzazione. Questa è una realtà che non può essere costruita in un giorno.

All’epoca di Rabin il blocco della Striscia di Gaza – cioè il regime che iniziò a vietare la libertà di movimento – divenne sempre più rigido. Gli studenti non potevano ritornare nella Striscia di Gaza dopo i loro studi. E poi, improvvisamente, egli concesse di tornare solo agli studenti di Bir Zeit. Alla domanda del perché solo loro, rispose (secondo quanto mi riferì all’epoca un membro del comitato di contatto palestinese): “Quando Arafat mi ha chiesto di permettere agli studenti di tornare, ha nominato solo l’università di Bir Zeit.”

Rabin sostenne la costruzione di una rete di strade di collegamento in Cisgiordania – una condizione importante per attrarre nuovi coloni e per spezzare la contiguità geografica palestinese, rafforzando la fase transitoria [degli accordi di Oslo, ndtr.] in cambio di rendere inutile la fase dello Stato palestinese.

Marwan Barghouti, con un tipico insieme di incredulità e serietà, mi raccontò la seguente conversazione tra Rabin ed Arafat:

Rabin: “Ma come faranno i coloni ad andare a casa nella fase transitoria se non dispongono di strade separate?”

Arafat: “Sono i benvenuti se attraversano le nostre città.”

Rabin: “Ma se qualcuno farà loro del male, noi interromperemo i negoziati e il ridispiegamento.”

Arafat: “Dio non voglia! Ok, allora costruite le strade.”

In qualità di primo ministro e ministro della Difesa, Rabin punì i palestinesi di Hebron per il massacro perpetrato contro di loro da Baruch Goldstein [autore del massacro di 29 palestinesi ed il ferimento di altri 125 ch pregavano nella moschea della Tomba dei Patriarchi, ndtr.] nel 1994. L’esercito, sotto il suo controllo, impose ai palestinesi draconiane restrizioni di movimento– che nel tempo non fecero che peggiorare – e si rese responsabile dell’espulsione dei palestinesi residenti dal centro della città. Rabin fu colui che rifiutò di evacuare i coloni di Hebron dopo il massacro.

Durante il suo mandato come primo ministro iniziò segretamente a Gerusalemme – come di consueto, senza alcuna dichiarazione ufficiale – la silenziosa politica di espulsione (attraverso la revoca dello stato di residenti ai palestinesi nati a Gerusalemme). La lotta contro ciò iniziò solamente dopo che le prove divennero evidenti, nel 1996. La divisione artificiale della Cisgiordania nelle aree A, B e C come guida per il graduale ridispiegamento dell’esercito venne imposta nel corso dei negoziati per l’Accordo Transitorio, firmato nel settembre 1995.

E’ impossibile sapere se Rabin collaborò a quel diabolico inganno, attraverso il quale, sotto le spoglie di un processo graduale e per ragioni di sicurezza, Israele si riservò l’area C come terra per gli ebrei. Ma è stato lui a coniare la frase “Non esistono scadenze sacre”, relativamente all’applicazione degli Accordi di Oslo.

L’assassino riuscì così bene nella sua impresa perché, contrariamente alla propaganda di destra, il governo guidato dai laburisti non aveva intenzione di spezzare il cordone ombelicale con cui era legato ai suoi metodi e obiettivi colonialisti. La disputa con gli oppositori del Likud  non fu mai sui principi, ma solo sul numero e sulla dimensione dei bantustan da riservare ai palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




I carcerieri incatenati di Gaza

Amira Hass

7 novembre 2017, Haaretz

Gli israeliani si rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi siamo i carcerieri.

Ho visto gazawi felici. Un giornalista di Kan, l’emittente pubblica israeliana, alcuni giorni fa è andato al checkpoint di Erez, ha sbattuto un microfono e una telecamera in faccia agli abitanti della Striscia di Gaza e li ha stimolati a sospirare di sollievo. Fantastico! Il posto di controllo di Hamas dal lato di Gaza è stato tolto e il barbuto personale di sicurezza non ci ha interrogati.

L’impressione che si ricava dal servizio televisivo e da un precedente reportage su Haaretz è che l’unico ostacolo che affrontano quelli che vogliono lasciare Gaza sia Hamas, ma ci sono alcune domande che non sono state fatte ai gazawi sul confine, insieme alle risposte che ne sarebbero seguite:

D. Adesso, dopo la rimozione dei posti di blocco di Hamas, chiunque voglia lasciare Gaza può farlo? R. Stai scherzando? Dal 1991 noi possiamo andarcene solo con l’autorizzazione di Israele.

D. Quanto dura il periodo di attesa per un permesso di uscita israeliano? R. Circa 50 giorni. A volte solo un intervento legale da parte di un’organizzazione israeliana come il ‘Centro legale Gisha per la libertà di movimento’ o ‘Medici per i diritti umani’ può far ottenere un permesso.

D. Quali sono gli strumenti di controllo al checkpoint israeliano? R. Uno scanner girevole, istruzioni gridate con i megafoni, a volte una perquisizione personale.

D. Che cosa vi è consentito portare? R. Non si possono portare computer portatili, panini, valigie con le ruote o deodoranti.

D. Oltre a quelli della Jihad islamica e di Hamas, a chi è vietato uscire? R. La maggior parte della gente non può uscire. La figlia di un mio vicino è stata in cura a Gerusalemme negli scorsi nove mesi e lui sta ancora aspettando un permesso per andare a visitarla. Lo stesso vale per tre amici che hanno avuto bisogno di un esame medico di controllo l’anno scorso. Giovani che vorrebbero studiare in Cisgiordania non possono farlo perché Israele non glielo consente. Circa 300 studenti che hanno avuto la possibilità di studiare all’estero stanno aspettando un permesso ed il loro visto è a rischio.

D. Sei stato interrogato dal servizio di sicurezza (interno) israeliano Shin Bet? R. Non oggi. Ma a volte arriviamo al checkpoint e ci prendono da parte, ci fanno sedere su una sedia per un giorno intero ed alla fine ci fanno alcune domande sui vicini di casa, per 10 minuti, o ci mandano a casa senza farci domande. E’ così che perdiamo un appuntamento all’ospedale o un incontro di lavoro.

Gli israeliani rifiutano di capire che Gaza è una gigantesca prigione e che noi ne siamo i carcerieri. Ecco perché essi [gli israeliani] sono incatenati dalla loro volontaria ignoranza. Riferire sulla situazione viene facilmente trasformato in propaganda ad uso dei politici. D’altro lato, le omissioni e le distorsioni negli articoli scritti dai dirigenti che fanno politica sono un fatto naturale. Come ad esempio l’articolo scritto dal Coordinatore delle attività governative nei territori [il governo militare israeliano sui territori palestinesi occupati, ndt], general maggiore Yoav Mordechai e da due suoi colleghi, pubblicato la scorsa settimana sul sito web dell’Istituto di Studi per la sicurezza nazionale.

Le omissioni e le distorsioni sono rivolte al pubblico in generale. Per esempio, l’articolo afferma: “Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza con la forza.” Invece, il quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite e Unione Europea) e Fatah hanno agito in vari modi aggressivi per ribaltare i risultati delle elezioni democratiche per il Consiglio Legislativo Palestinese nel 2006, che Hamas aveva vinto.

“Hamas è diventato il potere sovrano”, hanno scritto Mordechai ed i suoi colleghi. Il potere sovrano? Anche se è Israele a controllare le frontiere, gli spazi aerei e marittimi ed il registro della popolazione palestinese? “Il governo di Hamas si sta indebolendo a causa della sua responsabilità relativamente all’impoverimento e alla disoccupazione.” I lettori che leggono questa frase nell’articolo hanno già dimenticato una precedente affermazione: “La situazione dei cittadini di Gaza è enormemente peggiorata dal 2007, soprattutto a causa delle restrizioni imposte alla Striscia da Israele (in termini di possibilità di muoversi da e per l’area ed in termini di attività economica).”

Gli autori del rapporto dell’Ufficio del Coordinatore delle Attività Governative nei Territori sono prigionieri della loro stessa posizione. Il COGAT impone rigorosamente queste restrizioni e le ha rese ancor più rigide. Gli autori mettono in guardia nell’articolo sulla prospettiva di un peggioramento della situazione, sia economicamente che psicologicamente, ma da ciò non consegue un coraggioso richiamo ai politici perché rimuovano i divieti al movimento della popolazione, delle materie prime e della produzione locale.

Gli autori suggeriscono al governo che sarebbe preferibile permettere che il processo di riconciliazione interna palestinese vada avanti. Ed invitano coraggiosamente i gentili [cioè i non ebrei, ndt] a finanziare la ricostruzione di ciò che Israele ha distrutto e sta distruggendo. Dopotutto, è ciò che essi hanno fatto dal 1993 – inviando un fiume di denaro per evitare un deterioramento ancor peggiore e per mantenere uno status quo conveniente ad Israele. E’ giunto il momento che i gentili utilizzino quei soldi come pressione politica che costringa Israele a ripristinare la libertà di movimento per i palestinesi a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)