Un pogrom scuote un villaggio palestinese strangolato dai coloni israeliani

di Gideon Levy e Alex Levac – 11 novembre 2016 Haaretz

Una dozzina di coloni mascherati che brandivano coltelli e bastoni e gridavano “morte agli arabi” ha attaccato cinque contadini palestinesi che stavano raccogliendo olive. “Sono venuti per uccidere”, ha detto una vittima.

E’ stato un pogrom [attacchi antisemiti contro la popolazione ebraica nei Paesi dell’Est Europa. Ndtr.].

I sopravvissuti sono cinque pacifici contadini palestinesi che parlano un ebraico smozzicato e lavorano nell’edilizia in Israele, con permessi di ingresso validi. Durante i fine settimana coltivano ciò che è rimasto delle loro terre, la maggior parte delle quali sono state depredate a favore dei coloni che strangolano il loro villaggio, Janiya, fuori Ramallah. Sono convinti di essere sopravvissuti solo per miracolo all’attacco di sabato scorso.

“Pogrom” è davvero la sola parola per descrivere quello che hanno subito. “Vi uccideremo!” hanno gridato gli assalitori, mentre picchiavano gli uomini sulla testa e sul corpo con mazze e tubi di ferro, e brandivano coltelli a serramanico. L’unico “crimine” dei palestinesi, che stavano raccogliendo le loro olive quando i coloni si sono gettati su di loro, era il fatto di essere palestinesi che hanno avuto l’ardire di lavorare la loro terra.

Il periodo della raccolta delle olive è tradizionalmente la stagione dei pogrom in Cisgiordania, ma questo è stato uno dei più violenti. Nessun rappresentante ufficiale israeliano ha condannato l’assalto, nessuno si è indignato. Uno degli aggrediti è stato medicato con 10 punti in testa, un altro ha avuto un braccio e una spalla rotti, un terzo zoppica, un quarto ha perso gli incisivi. Solo uno è riuscito a scappare agli assalitori, ma anche lui si è fatto male quando si è ferito a una gamba sul terreno roccioso mentre fuggiva.

I contadini, che giorni dopo l’aggressione erano ancora in stato di shock per questa brutta esperienza, sono stati portati via dai compaesani; le olive sono rimaste sparse sul terreno. Ora hanno paura di tornare nell’oliveto. Questo fine settimana, si sono ripromessi, manderanno giovani di Janiya a prendere quello che avevano raccolto e a finire il lavoro. Per quanto riguarda loro, con il corpo e l’anima acciaccati, dicono di non essere in grado di fare niente.

Gli assalitori, circa una dozzina di coloni mascherati, si vedono in un video girato da un abitante, Ahmed al-Mazlim, mentre, palesemente in preda all’eccitazione per la loro azione, tornano alle loro baracche, sparse sotto la colonia di Neria, nota anche come “Nord Talmon”, tra Modi’in e Ramallah. Questo è stato il loro “oneg Shabbat” la loro festa del sabato: scendere nella valle e picchiare persone che stavano lavorando la propria terra, innocenti quanto indifese, forse addirittura con l’intenzione di uccidere. Un fine settimana pacifico.

Si vedono i coloni risalire lentamente verso le baracche del loro avamposto illegale, che si trova sulla collina sotto Neria. Non hanno fretta, in fin dei conti nessuno li sta inseguendo. Alla fine si siedono sulla soglia di una delle baracche per dissetarsi con una borraccia.

Non avevo mai visto prima criminali lasciare la scena del delitto con tale indifferenza. Forse erano esausti del loro lavoro – picchiare arabi – stanchi ma contenti. Yotam Berger, il giornalista di Haaretz che è stato il primo a pubblicare il video, ha visitato le baracche il giorno dopo il pogrom. Sapeva bene che dei coloni vivevano lì, anche se le strutture erano vuote quando è arrivato. Fino a quel momento non erano stati fatti arresti, ed esperienze precedenti suggeriscono che non ne verrà fatto nessuno. La polizia sta indagando.

Janiya, un piccolo villaggio di 1.400 anime nella parte centrale della Cisgiordania, si guadagnava di che vivere lavorando la sua terra finché gran parte di questa è stata portata via dalle vicine colonie, dalla fine degli anni ’80. Poche regioni sono altrettanto popolate di coloni come questa; pochi villaggi hanno avuto tanta terra rubata come Janiya. Degli originali 50.000-60.000 dunam (5.000-6.000 ettari) posseduti dai suoi abitanti, solo 7.000 (700 ettari) rimangono di loro proprietà. Il villaggio è stato strangolato.

Da una buona posizione ai suoi confini, si può vedere la valle in cui è stato perpetrato l’attacco, e le colonie vicine. La nostra guida è Iyad Hadad, un ricercatore sul campo dell’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem. Sotto di noi le case di Talmon A confinano con le rimanenti terre di Janiya, molto vicino alle case dei paesani. Basta allungare la mano per toccarle; un altro progetto di espansione e arrivano fin dentro Janiya.

A destra, verso sudest, c’è la colonia di Dolev, a vantaggio dei cui abitanti Israele ha bloccato per anni la strada principale per Ramallah. Appollaiata sulla collina c’è Talmon B; lì vicino c’è Talmon C; e là, all’orizzonte, si trova Talmon D. Sulla cima della collina, ad una certa distanza, c’è una base dell’esercito israeliano.

Ogni cima di collina rappresenta un’altra minaccia per il tranquillo villaggio. Neria si trova sopra l’uliveto della famiglia Abu Fuheida e i pendii terrazzati che scendono da lì. Le costruzioni della “gioventù delle colline” [gruppo di giovani coloni molto violenti. Ndtr.] sono sparse su tutto il territorio, tra le varie Talmon, a decine di metri le une dalle altre.

La valle è tranquilla. Alcuni degli oliveti ora sono di proprietà delle colonie; quando si fa la raccolta, ci si mette d’accordo con l’esercito israeliano. Per esempio, la scorsa settimana le olive sono raccolte nelle parti di Talmon A coltivate dai palestinesi. Ma l’aggressione da parte dei coloni è stata perpetrata in un luogo in cui il coordinamento non è richiesto, perché non è proprietà di alcuna colonia.

Siamo alla fine della stagione del raccolto, e questo è un canalone chiamato Natashath. E’ sabato mattina, una giornata stupenda, e cinque membri della famiglia Abu Fuheida – Sa’il, Hassan, Sabar, Sa’ad e Mohammed – scendono all’oliveto di famiglia, dove hanno una settantina di ulivi. Sono circa le 8,30; non ci sono altri contadini lì attorno. Portano sacchi (“Nessun coltello”, chiarisce subito uno di loro) sparsi per terra per raccogliere le olive cadute, con una bottiglia di Coca Cola, pomodori, pane pita e affettati. Non è una buona annata per le olive, il raccolto è stato scarso.

Lavorano fino a mezzogiorno, si siedono per mangiare e ritornano alle scale. Il loro piano è di finire il raccolto entro il pomeriggio. Ma in quel momento gli aggressori gli piombano addosso all’improvviso: i raccoglitori, sulle scale, con la testa in mezzo ai rami, non li vedono. Solo Sa’il, con i suoi 57 anni il più vecchio del gruppo e l’unico che non è su una scala, riesce a scappare, ferendosi solo fuggendo in preda al panico.

Secondo Sa’il e il suo fratello ferito, Hassan, erano 10, forse 15 assalitori. Sembravano giovani e robusti. Uno dei quattro che hanno aggredito Hassan portava occhiali; Hassan ha visto solo i suoi occhi. E’ stato quello che gli ha inflitto i colpi peggiori, aggiunge Hassan. Tutti avevano tubi, mazze, randelli o coltelli. Ce n’era anche uno che sembrava di vedetta: è rimasto sulla collina vicino a Neria, con un fucile, osservando a quanto pare quello che stava succedendo. “Morte agli arabi! Morte agli arabi!” gridavano gli aggressori. “Vi uccideremo, porci.”

Sa’il: “Erano aggressivi, violenti, non ho mai visto un attacco del genere. Erano venuti per uccidere.”

I contadini si sono precipitati giù dalle scale, dritti nelle mani degli assalitori, che hanno afferrato prima Sabar, poi Hassan, circondandoli, alcuni coloni per ogni palestinese, e li hanno percossi. Sabar è stato il primo a perdere conoscenza, Hassan dice di essere svenuto anche lui. Gli autori del pogrom hanno cercato di colpirli in testa, ma Hassan se l’è protetta con le mani. La sua mano destra ora è bendata, con dei punti e fasciata, ha perso quattro denti e ha anche un labbro tagliato. Si muove a malapena e parla a fatica.

L’aggressione è durata tra i cinque e i dieci minuti. Uno dei cugini, Mohammed, ad un certo punto è riuscito a scappare, dopo essere stato leggermente ferito, e ha chiesto aiuto al villaggio. Quando gli aggressori se ne sono andati, i feriti sono stati portati via su ambulanze ed auto private all’ospedale pubblico di Ramallah. Hassan ha raccontato di aver ripreso conoscenza in casa di suo fratello, dove era stato portato dagli abitanti del villaggio prima di essere trasportato in ospedale. Quando si è alzato gli è venuto un capogiro. Era sicuro che sarebbe morto, dice Hassan, un lavoratore edile (“con regolare permesso”) a Rishon Letzion [in Israele. Ndtr.].

Solo Hassan e Sa’il erano al villaggio quando ci siamo andati questa settimana (le altre tre vittime erano andate al comando della regione di Binyamin per testimoniare alla polizia). La loro casa era affollata di visitatori che confortavano gli aggrediti. Gli assalitori sono pazzi, ci ha detto il loro cugino Sahar: “Odiano gli arabi, odiano l’odore degli arabi, vedono un arabo e lo vogliono calpestare. Vogliono ucciderci. Non vogliono arabi qui. E fanno quello che vogliono.”

Ci siamo seduti all’ombra della buganvillea nel cortile della casa della famiglia. Ho chiesto ad Hassan cosa pensi di quello che è successo. Un tenue sorriso ha attraversato le sue labbra ferite mentre ripeteva: “Non so cosa pensare. Succede ogni anno.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I crescenti attacchi israeliani contro civili a Gaza mettono a rischio il cessate il fuoco in vigore da due anni.

Ben White, 8 settembre 2016 Middle East Monitor

Esprimendo preoccupazione che tale violenza possa mettere a rischio l’attuazione del cessate il fuoco che ha posto fine all’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, un’informativa delle Nazioni Unite ha rivelato che nel secondo trimestre del 2016 l’esercito israeliano ha significativamente incrementato gli attacchi contro civili palestinesi nella Striscia di Gaza.

Nel periodo da aprile a giugno vi sono state in media più di 90 sparatorie al mese da parte delle forze armate israeliane nelle cosiddette zone ad accesso limitato (ARA) – circa 60 a terra e 30 in mare. Si tratta di oltre il doppio della media corrispondente a gli ultimi 6 mesi del 2015.

Le forze israeliane hanno attaccato da molto tempo agricoltori, pescatori ed altri civili nelle ARA di Gaza. Come ha riportato l’ONU a luglio, le limitazioni all’accesso imposte unilateralmente da Israele sono “applicate facendo fuoco con proiettili letali direttamente o con spari di avvertimento, con la distruzione di proprietà, arresti e confisca di attrezzature.”

Presentando gli ultimi dati in un aggiornamento trimestrale pubblicato il mese scorso, l’Ufficio per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie dell’ONU (OCHA) nei territori palestinesi occupati (OPT) ha definito “l’uso della forza da parte di Israele” nelle ARA “una particolare fonte di preoccupazione”.

Secondo James Heenan, capo dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU nei territori palestinesi occupati, “ci sono quasi quotidianamente episodi in cui le forze israeliane sparano a Gaza, causando spesso feriti o anche morti e distruzioni di proprietà.”

Nella maggior parte dei casi, ha detto Heenan a Middle East Monitor, “non ci sono indicazioni che le forze israeliane fossero di fronte a una minaccia imminente tale da giustificare il livello di forza impiegato, incluso l’uso di armi da fuoco. Spesso le vittime sono contadini, pescatori, bambini e manifestanti.”

Il 3 aprile le autorità israeliane hanno annunciato un ampliamento della zona con permesso di pesca dalla costa sud di Gaza da 6 a 9 miglia (da notare che gli Accordi di Oslo prevedevano un limite di 20 miglia). Comunque il 26 giugno, meno di tre mesi dopo, è stato nuovamente imposto il limite di 6 miglia.

Secondo l’OCHA a luglio sono stati arrestati ed imprigionati più di 90 pescatori, “il numero più alto all’anno da quando, nel 2009, si è iniziato a tenere il conto.” In nove giorni di agosto, per esempio, le forze israeliane hanno attaccato pescatori palestinesi in sei diverse occasioni (il 21, 23, 25, 27, 28 e 29 agosto).

Intanto, a maggio, è stato comunicato che l’esercito israeliano avrebbe permesso ai contadini di accedere alle terre vicine alla barriera di confine, sotto il controllo del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC). Dal 2014 l’ICRC aiuta i contadini di Gaza a recuperare la terra e a garantirsi l’ accesso.

Mentre alcuni contadini hanno certamente beneficiato di questo, un portavoce dell’ICRC di Gerusalemme ha rifiutato di commentare i continui attacchi israeliani nelle ARA, dicendo che “tutte le questioni che suscitano preoccupazione sono affrontate come parte del nostro dialogo riservato e bilaterale con tutte le parti in conflitto.”

Come ha detto recentemente un agricoltore agli attivisti: “I miei terreni sono relativamente vicini alla barriera, perciò io non posso metterci piede dalle 6 del pomeriggio alle 6 di mattina senza che mi sparino addosso. Cosa ci posso fare se l’elettricità non c’è prima delle 6 del pomeriggio? Devo lasciare la mia terra senz’acqua, rischiando di perdere il raccolto.”

La violenza usata dalle forze israeliane contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza non è quasi per niente citata dai media occidentali di lingua inglese. La maggioranza degli attacchi a pescatori, contadini e manifestanti non viene nemmeno menzionata.

.Comunque questi attacchi non possono essere separati dal più vasto scenario della Striscia di Gaza, compresa la dimensione della “sicurezza”, che è tipicamente intesa da giornalisti, analisti e politici in termini di lancio di razzi [da parte dei palestinesi] e reazioni militari israeliane.

Secondo Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas a Gaza, Hamas considera l’impiego metodico della violenza contro i palestinesi da parte delle forze israeliane nelle ARA come una violazione del cessate il fuoco del 2014. “Hamas registra tutte le violazioni ed aggiorna regolarmente i garanti regionali del cessate il fuoco”, ha dichiarato.

Inoltre, ha aggiunto Barhoum, questi attacchi delle forze israeliane “mettono a rischio lo status quo.”

“Ogni volta Hamas discute ciò che accade con le altre fazioni palestinesi, che valutano insieme quale sia la risposta migliore alla violazione israeliana in questione; se il silenzio, la condanna, l’avvertimento, il lancio di razzi a breve gittata, piazzare cecchini ai confini, ecc.”

Quindi, oltre al costo per contadini e pescatori della politica israeliana di imporre una “zona interdetta” all’interno di Gaza, questi attacchi, che sono chiaramente in aumento, rischiano anche di minare ulteriormente un accordo di cessate il fuoco che ha portato “tranquillità” per Israele, ma nulla di simile per i palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La censura dell’IDF ha cancellato 1 ogni 5 articoli che controlla per la pubblicazione

di Haggai Matar – 26 settembre 2016

+972 Magazine

La censura militare israeliana ha cancellato, del tutto o in parte, oltre 17.000 articoli dal 2011. Mentre pochi articoli sono stati censurati nel 2015 e nel 2016, la nuova censura dell’IDF (esercito israeliano) sta tentando di censurare con allarmante frequenza informazioni già pubblicate.

La censura militare israeliana ha totalmente proibito la pubblicazione di 1.936 articoli e ha cancellato alcune informazioni da 14.196 articoli negli ultimi 5 anni. Ciò significa che 1.936 articoli che giornalisti professionisti e persone che hanno pubblicato notizie ritenute di pubblico interesse su internet non hanno mai visto la luce.

In effetti la censura dell’IDF ha eliminato almeno qualche informazione da uno su cinque degli articoli che le sono stati presentati dal 2011, secondo dati forniti dall’esercito israeliano su richiesta di “+972 Magazine”, del suo omologo in ebraico “Local Call” e del “Movimento per la Libertà di Informazione”.

Sotto il nuovo capo della censura dell’IDF, entrato in carica lo scorso anno, c’è stato un notevole incremento nel numero di casi in cui l’ufficio della censura ha contattato persone che hanno pubblicato notizie con richieste di modificare o eliminare articoli che erano già stati pubblicati – circa il doppio del numero di tentativi di interventi censori dopo la pubblicazione rispetto agli scorsi anni. Allo stesso tempo, la nuova censura dell’IDF sta intervenendo leggermente meno su articoli sottoposti al suo ufficio per essere controllati prima della pubblicazione.

Dall’inizio del 2011, gli anni che hanno visto la maggior presenza di interventi censori sono stati quelli in cui Israele era impegnato nella guerra contro la Striscia di Gaza. I più alti tassi e frequenze di censura hanno avuto luogo nel 2014, l’anno dell’operazione “Margine Protettivo”, e il secondo livello più alto è stato nel 2012, l’anno dell’operazione “Pilastro di Nuvola”.

Inoltre i dati confermano che l’ufficio della censura dell’IDF proibisce la pubblicazione di documenti e materiali dell’Archivio di Stato, che sono già stati approvati per la pubblicazione, e alcuni dei quali sono già stati divulgati.

La censura militare israeliana nel territorio di Israele trae la propria autorità da regolamenti d’emergenza istituiti durante il periodo del Mandato Britannico, molti dei quali sono rimasti nei codici israeliani per oltre 70 anni.

Mentre altri Paesi hanno meccanismi formali per chiedere che i giornalisti si astengano dal pubblicare certe informazioni relative alla sicurezza nazionale, Israele è l’unico tra gli Stati democratici occidentali che abbia una censura statale giuridicamente vincolante. Da nessun’altra parte dei materiali acquisiti devono essere sottoposti ad un controllo preventivo.

In Israele ai mezzi di comunicazione, recentemente estesi per includere blog e siti web indipendenti (come +972 Magazine), è richiesto di sottoporre al controllo della censura dell’IDF ogni articolo che rientri nell’ampia lista riguardante argomenti legati alla sicurezza nazionale ed alle relazioni internazionali. La censura può proibire in parte o del tutto un articolo. Ciò detto, la decisione di quali articoli e notizie sono sottoposte alla censura per un controllo è presa di volta in volta dalle organizzazioni dell’informazione e dagli stessi redattori. Tuttavia, una volta che un articolo è stato censurato dall’esercito, al giornalista viene vietato di rivelare quale informazione è stata eliminata, o persino di indicare che un’informazione è stata censurata.

Ad incrementare la mancanza di trasparenza è il fatto che la censura dell’IDF è tecnicamente parte del settore dell’intelligence. A causa di questa posizione istituzionale, “non è sottoposta alle leggi sulla libertà di informazione”, spiega l’avvocato Nirit Blayer, direttore esecutivo del Movimento per la Libertà di Informazione. “Ciononostante la persona incaricata della libertà di informazione nell’IDF ha la tendenza a rendere pubblico tutto ciò che può essere pubblicato.” Pertanto abbiamo ottenuto l’informazione richiesta rapidamente e senza molte difficoltà.

Questi sono i dati:

Tra il 2011 e l’agosto 2016 da 13.000 a 14.000 articoli sono stati sottoposti ogni anno alla censura dell’IDF per un controllo preventivo. Durante il 2011 e il 2013, dal 20 al 22% degli articoli sottoposti a controllo da parte della censura dell’IDF sono stati in parte o del tutto cancellati, anche se nella stragrande maggioranza dei casi solo una o più parti dell’articolo sono state bloccate per la pubblicazione.

Nel 2014 c’è stato un aumento significativo nella frequenza della censura, spiegabile per lo più con la guerra a Gaza di quell’anno. Degli articoli sottoposti al controllo previo dal censore in quell’anno, il 26% (3.719 articoli) è stato parzialmente o totalmente bloccato (il 22% è stato parzialmente cancellato, il 4% totalmente censurato).

Nei ultimi due anni, tuttavia, c’è stata una lieve riduzione della percentuale di articoli che sono stati modificati o censurati. L’ufficio dell’IDF ha parzialmente o totalmente censurato il 19% degli articoli sottoposti a controllo previo per la pubblicazione. Dall’inizio del 2016 ad agosto questo numero è sceso ulteriormente al 17% – il livello più basso di interventi censori negli ultimi cinque anni e mezzo.

Tuttavia, fin dall’inizio della sua nomina come attuale censore dell’IDF nello scorso anno, il colonnello Ariella Ben-Avraham ha esteso il raggio di competenza della censura dell’IDF, con una particolare attenzione alle pagine Facebook e ai blog che si qualificano come pagine di notizie o media. Alla fine del 2015 ha contattato decine di queste pagine Facebook ( compresa quella di +972 Magazine) ed ha inviato loro un ordine militare di censura chiedendo di presentare i materiali importanti prima della pubblicazione.

Ora è evidente che la politica aggressiva di Ben-Avraham non si limita a chiedere di sottoporle i materiali. L’attuale ufficio censura dell’IDF si è anche attivato per cercare di rimuovere, in parte o totalmente (i dati che abbiamo ricevuto non fanno distinzione) materiali che sono già stati pubblicati.

Tra il 2011 e il 2013 la censura dell’IDF ha chiesto la cancellazione di materiali già pubblicati, mediamente 9, 19 e 16 volte al mese, e 37 volte al mese nel 2014 (durante la guerra). Nel 2015, un anno in cui non ci sono state guerre, la censura dell’IDF ha contattato gli editori mediamente 23 volte al mese con richieste di eliminazione di contenuti già resi pubblici. Finora nel 2016 (fino ad agosto) questo numero è salito a una media di 37 volte al mese, lo stesso numero che durante la guerra, o, in altre parole, con una frequenza di circa 2 volte superiore rispetto al 2012.

Il censore ha anche rivelato che tra il 2014 e il 2016 circa 9.500 files degli Archivi di Stato riguardanti la sicurezza nazionale sono stati sottoposti a controllo. Secondo il censore, circa lo 0,5% di questi documenti sono stati parzialmente o totalmente censurati. Non è chiaro quanti singoli documenti fossero contenuti nei 9.500 files.

L’ufficio della censura dell’IDF, in risposta alle nostre domande, ha affermato di non avere mai interpellato servizi di notizie on line o media di parti terze (come fornitori di servizi internet o piattaforme di social media) per cercare di far eliminare informazioni pubblicate nonostante i tentativi di censura. Tuttavia le autorità di Israele utilizzano altri metodi di controllo del flusso di informazioni e di censura online, anche quando queste informazioni non sono state pubblicate da una persona sotto giurisdizione israeliana, come è stato riportato su +972 all’inizio di quest’estate.

In quel caso, come in molti altri, lo Stato ha utilizzato un altro sistema per bloccare la pubblicazione di informazioni che intendeva rimanessero segrete – ordini giudiziari riservati. Gli ordini riservati sono emessi da giudici, spesso senza molte discussioni e quasi sempre senza tenere alcun conto dell’interesse dell’opinione pubblica a saperlo. Il numero e la frequenza degli ordini giudiziari riservati in Israele sono aumentati notevolmente negli ultimi anni.

Il numero di questi ordini emessi dai tribunali israeliani è più che triplicato negli ultimi 15 anni, secondo una ricerca che verrà presto pubblicata condotta da Noa Landau, giornalista dell’edizione inglese di Haaretz, durante una borsa di studio presso il “Reuter Institute” di Oxford lo scorso anno. Raccogliendo dati della polizia israeliana, del sistema giudiziario, dell’esercito israeliano e di Haaretz, Landau ha scoperto che, solo negli ultimi 5 anni, il numero di richieste in base ad ordini riservati è aumentato del 20% circa.

Così, mentre il censore dell’IDF – con l’eccezione del periodo di guerra – sta mantenendo l’uso dei propri poteri a livelli che rimangono relativamente costanti, e in una certa misura persino riducendoli, le autorità israeliane hanno trovato una scappatoia negli ordini giudiziari riservati.

Tuttavia la parte di informazioni che manca in questo quadro è l’autocensura. Quanto spesso giornalisti e redattori decidono da soli di non indagare, verificare o scrivere in merito ad argomenti sensibili perché ritengono che la censura militare o un giudice impediranno la pubblicazione del loro articolo? Quante vicende scompaiono semplicemente in questo modo ogni anno? Non lo sapremo mai.

Michael Schaeffer Omer-Man ha contribuito a questo articolo. Una versione in ebraico di questo articolo è comparasa anche su “Local Call”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La risposta dei palestinesi agli incendi in Israele: se fossero intenzionali, sarebbe una follia.

di Amira Hass – 25 novembre 2016, Haaretz

Gli incendi in Israele sono stati acclamati in commenti online da Gaza e da Paesi arabi, ma molti altri palestinesi dicono: questi sono i nostri alberi e le nostre terre, quindi perché distruggerli?

“Cosa pensate del fatto che l’incendio sia scoppiato vicino a voi, accanto alla base militare di Neveh Yair?” ho chiesto per telefono, parlando ad amici del villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, dopo essermi assicurata che il fuoco fosse sufficientemente lontano e loro fossero in salvo.

“Oh, è l’esercito.” ha detto un amico – ancor prima che fosse data la notizia che un soldato sbadato potesse aver gettato via una sigaretta accesa.

La gente del villaggio ha smesso di contare quante volte i loro campi hanno preso fuoco a causa di granate assordanti e di lacrimogeni lanciati dai soldati per reprimere manifestazioni contro il furto di una sorgente da parte dei coloni.

Aggiornamenti in tempo reale: incendi imperversano in Israele da quattro giorni

“Siete sicuri che non siano intenzionali?” ho chiesto; era chiaro che mi stavo riferendo alla possibilità che un palestinese avesse appiccato il fuoco.

Un amico ha affermato: “E’ impossibile. E se qualcuno lo avesse fatto di proposito, sarebbe folle, irrazionale e sbagliato. Sono la natura e l’ambiente ad essere danneggiati: alberi ed animali.”

C’erano informazioni su un incendio scoppiato nei pressi della colonia di Mevo Horon, e sull’evacuazione di escursionisti dal “Canada Park” nell’enclave di Latrun. Ho chiamato un conoscente che vive nel villaggio di Beit Liqya, al di là della barriera di separazione [cioè in territorio israeliano. Ndtr.].

“Cosa pensi che sia accaduto?” chiedo dopo essermi assicurata che stesse bene. “Qualcuno ha buttato una sigaretta da un’auto di passaggio,” ha sostenuto.

Il mio conoscente è originario di Beit Nuba. L’esercito espulse i residenti di questo villaggio e dei villaggi circostanti di Yalo e Imwas subito dopo che furono conquistati nella guerra del 1967. Mevo Horon fu costruito sulle terre di Beit Nuba. Il Fondo Nazionale Ebraico [organizzazione che promuove la colonizzazione della Palestina. Ndtr.] ha costruito il “Canada Park” sulle rovine di Yalo e Imwas. Il nome commemora gli ebrei canadesi che hanno donato fondi per crearlo.

” Secondo te l’incendio non è intenzionale?” ho chiesto. Il mio conoscente ha pensato che mi stessi riferendo ai sospetti che i palestinesi avessero appiccato il fuoco.

“In primo luogo, nessun palestinese ha il permesso di entrare in quell’area, salvo gli operai che si guadagnano lo stipendio nella colonia,” ha detto. “Secondo, ci sono i nostri alberi là, i nostri morti sepolti nei cimiteri, le cisterne d’acqua scavate dai nostri nonni. Ci ritorneremo, perché distruggerli?”

Le informazioni sui siti di notizie arabi sono deliranti. Ci sono commenti secondo cui l’entità (sionista) sarà bruciata – come punizione per la legge che proibisce di diffondere il richiamo alla preghiera con altoparlanti, la mano di dio. Ci sono citazioni dal Corano che avvalorano questo, come anche critiche all’Autorità Nazionale Palestinese, che vorrebbe ancora una volta offrire le proprie attrezzature per combattere gli incendi.

Un esame approssimativo mostra che molte delle persone che si rallegrano risiedono in Paesi limitrofi (Egitto, Giordania). Gli abitanti di Gaza che tifano per gli incendi rivelano solo quanto il blocco israeliano della Striscia li abbia separati dal resto del loro popolo. Non sanno che ci sono palestinesi che vivono ad Haifa e nei dintorni? Non sanno che ci sono carcerati palestinesi nella prigione di Damon (costruita sul villaggio di Damon distrutto nel 1948)?

Ovviamente ci sono molti altri post, scritti da palestinesi, che si prendono gioco di quelli che plaudono e sono furiosi contro di loro perché dimenticano che “gli alberi sono i nostri, la terra è la nostra, il Paese è il nostro.”

Qualcuno ha scritto: “Smettetela con le fesserie. Gli incendi sono scoppiati anche in Giordania. Per che cosa dio la starebbe punendo?” I sospetti comuni contro i palestinesi espressi dal ministro dell’Educazione Naftali Bennett e dal primo ministro Benjamin Netanyahu si diffondono nel sottobosco israeliano di arroganza e pregiudizio.

“Il sospetto automatico nasconde una profonda, sorprendente visione, non solo ignoranza e razzismo, ” ha affermato un amico palestinese della Galilea. ” A quanto pare gli ebrei israeliani si rendono conto che l’oppressione e l’espropriazione del popolo palestinese da parte di Israele e la nostra perdita della speranza stanno prendendo dimensioni apocalittiche. Gli israeliani si aspettano che la nostra risposta all’oppressione sia anch’essa apocalittica. E non lo è.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Di colpo si può essere filoisraeliani ed antisemiti

di Gideon Levy, 21 novembre 2016 Haaretz

Quando l’amicizia verso Israele viene giudicata solamente in base al sostegno all’occupazione, Israele non ha altri amici se non i razzisti e i nazionalisti.

All’improvviso non è così terribile essere antisemiti. Tutto ad un tratto diventa scusabile, nella misura in cui odiate i musulmani e gli arabi e “amate Israele”. Il diritto ebraico ed israeliano ha concesso una radicale amnistia agli amanti antisemiti di Israele – sì, succede questo e loro stanno per prendere il potere negli Stati Uniti.

Adesso lo sappiamo: non solo la pornografia, ma anche l’antisemitismo è una questione di geografia e di prezzo. Gli antisemiti americani di destra non sono più considerati antisemiti.

La definizione è stata aggiornata: d’ora in poi gli antisemiti si trovano solo nei ranghi della sinistra. Roger Waters (ex-leader dei Pink Floyd e sostenitore del boicottaggio contro Israele, ndtr.), un coraggioso uomo di coscienza senza macchia, è un antisemita. Steve Bannon, un razzista dichiarato ed esplicitamente antisemita che è stato nominato capo della strategia della Casa Bianca di Trump, è un amico di Israele.

Gli attivisti ebrei ed israeliani che non risparmiano sforzi per scoprire segnali di antisemitismo, che considerano ogni multa per sosta vietata ad un ebreo americano come un gesto di odio, che muovono cielo e terra ogni volta che un ebreo viene derubato o una lapide ebrea viene infranta, adesso riabilitano un antisemita. Improvvisamente non sono sicuri che si stia parlando di quel particolare morbo.

Alan Dershowitz (docente di diritto ed accanito sostenitore di Israele negli USA, ndtr.), uno dei maggiori propagandisti in questo campo, è già insorto in difesa del razzista Bannon. In un articolo su Haaretz della scorsa settimana Dershowitz ha scritto che l’uomo la cui moglie ha detto che non ha permesso ai suoi figli di andare a scuola insieme agli ebrei non è un antisemita. “L’accusa è semplicemente stata fatta dalla sua ex moglie in un processo, senza dare al fatto un particolare peso,” ha scritto Dershowitz, con logica pretestuosa.

Dopo tutto, l’ex assistente ricercatore di Dershowitz, un ebreo ortodosso che ha successivamente lavorato con Bannon, gli ha assicurato di non aver riscontrato elementi di antisemitismo in Bannon. E questo è improvvisamente sufficiente per Dershowitz. Di punto in bianco è possibile separare il razzismo dall’antisemitismo.

L’ambasciatore israeliano a Washington, Ron Dermer, ovviamente si è affrettato ad unirsi alla compagnia. Nel weekend ha detto di aspettarsi di lavorare con Bannon. E, cavoli, si aspetta di lavorare con quel razzista. In fondo, saranno d’accordo su tutto: che non esiste un popolo palestinese, che non esiste l’occupazione, che la colonia di Yitzhar ([una delle colonie più violente ed estremiste, ndtr.) dovrà restare per sempre, che quelli di sinistra sono dei traditori.

Per Dermer – ambasciatore dell’avamposto illegale di Amona, amico del Tea Party , uno che boicotta J Street (gruppo liberale statunitense che promuove la pace tra Israele e Palestina, ndtr.), un uomo che, se la relazione bilaterale fosse stata normale, sarebbe stato dichiarato persona non gradita dagli Stati Uniti – le nuove nomine sono l’alba di un nuovo giorno.

Si sentirà a casa con Frank Gaffney, un altro che odia i musulmani, che probabilmente otterrà un’alta carica nella nuova amministrazione; sarà felice di lavorare con Bannon. E Mike Huckabee (politico repubblicano e pastore battista statunitense, ndtr.) gli va proprio a genio. Dermer, dopo tutto, ha ricevuto il Premio Fiamma della Libertà dal Centro per la politica di sicurezza, un gruppo razzista che sventola orgogliosamente la bandiera dell’islamofobia.

Questi razzisti e quelli della loro risma sono i migliori amici di Israele negli Stati Uniti. Ad essi si uniscono i razzisti della destra europea. Se non si contano i sensi di colpa per l’olocausto, essi sono gli unici amici rimasti ad Israele. Quando l’amicizia per Israele si misura solamente sulla base del sostegno all’occupazione, Israele non ha altri amici che i razzisti ed i nazionalisti. Questo avrebbe dovuto suscitare qui una profonda vergogna: dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei.

Questi razzisti amano Israele perché realizza i loro sogni: opprimere gli arabi, offendere i musulmani, spossessarli, espellerli, ucciderli, distruggere le loro case, calpestare la loro dignità. Questo mucchio di spazzatura vorrebbe tanto comportarsi come noi.

Ma per ora ciò è possibile solo in Israele, per cui esso è il faro tra le nazioni in questo campo. Che cosa ne è dei tempi in cui gli ebrei in Sudafrica andavano in prigione con Nelson Mandela? Oggi gli attivisti ebrei in America sostengono i nuovi governanti – i razzisti e gli antisemiti.

Nel weekend la scrittrice palestinese-americana Susan Abulhawa ha scritto su Facebook: i palestinesi definiscono il nazionalista bianco Bannon un antisemita, mentre l’AIPAC (gruppo di pressione statunitense che sostiene politiche a favore di Israele, ndtr.) e Dershowitz pensano che non sia una cattiva persona. Di quale altra prova c’è bisogno sul fatto che il sionismo è un aspetto della supremazia bianca e in definitiva è antitetico all’ebraismo?

La scorsa estate Abulhawa è stata deportata dal ponte di Allenby [cioè in Giordania, ndtr.]. Ed ha ragione. Gli Stati Uniti e Israele condividono oggi gli stessi valori – e guai a vergognarsene.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nonostante le obiezioni degli Stati Uniti, Netanyahu pensa di trasferire i coloni nelle terre palestinesi abbandonate

di Barak Ravid, 20 novembre 2016 Haaretz

 

Il primo ministro dice di star lavorando ad una soluzione per bloccare la demolizione dell’avamposto illegale di Amona rilanciando una vecchia idea.

Domenica il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che sta ancora cercando una soluzione per impedire l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona, costruito su terreno privato palestinese.

Ha detto ai ministri del suo partito Likud che sta considerando l’idea di spostare le case dei coloni su una terra che si crede sia appartenuta ai palestinesi fuggiti durante e dopo la Guerra del 1967 – terra rivendicata da Israele come “abbandonata e non reclamata.”

Il ministro degli esteri ha già messo in guardia contro tale trasferimento, nel timore che violi il diritto internazionale e rechi un danno diplomatico ad Israele.

Anche l’amministrazione americana ha sollevato obiezioni a questa soluzione, benché la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali potrebbe aver incoraggiato Netanyahu ad ignorare l’ammonimento.

Gli americani considerano questo piano come un allontanamento dall’impegno, preso da Netanyahu verso il presidente Barak Obama, che Israele non si sarebbe appropriato della terra palestinese in Cisgiordania per costruire nuovi insediamenti o espandere quelli già esistenti.

La demolizione di Amona – che l’Alta Corte di Giustizia ha ordinato che avvenga entro il 25 dicembre – ha scatenato tensioni all’interno del governo Natanyahu.

Tribunale della terra’

Domenica Netanyahu ha anche detto che sta promuovendo la costituzione di un “tribunale della terra” in vista di altri casi di strutture costruite illegalmente e su terreni privati palestinesi come insediamenti e avamposti che potrebbero rischiare la demolizione.

Nelle ultime settimane la proposta di tribunale della terra è stata criticata dalla ministra della giustizia Ayelet Shaked, dal ministro della difesa Avigdor Lieberman e dal procuratore generale Avichai Mendelblit.

La proposta è un tentativo di adottare il modello arbitrale utilizzato per risolvere le dispute territoriali tra Cipro e la parte settentrionale del paese , sotto il controllo militare della Turchia. Il sistema consente ai residenti di ricevere compensi in denaro per i terreni di loro proprietà su cui sono state fatte delle costruzioni.

In una riunione di pochi giorni fa Netanyahu e i ministri competenti hanno discusso la questione con il professor Joseph Weiler, esperto di diritto internazionale presso il dipartimento di giurisprudenza dell’università di New York.

Secondo Netanyahu, verrà costituito un gruppo di esperti legali guidato da Roy Schondorf, vice procuratore generale per le leggi internazionali e da Ahaz Ben-Ari, consulente legale alla difesa. Il gruppo dovrebbe suggerire al governo un modo per istituire un tribunale sulla base del modello cipriota.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il disegno di legge di legalizzazione delle colonie israeliane ottiene una prima approvazione della Knesset

di Jonathan Lis e Chaim Levinson,

16 novembre 2016 Haaretz

Il ministro delle finanze Moshe Kahlon, capo di Kulanu (partito israeliano di centro, ndtr.), ha cambiato voto in favore del disegno di legge dopo aver riveduto la sua intenzione di opporvisi.

Mercoledì pomeriggio un disegno di legge per legalizzare retroattivamente le colonie illegali ha superato la sua prima lettura alla Knesset, con l’appoggio del gruppo parlamentare Kulanu del ministro delle finanze Moshe Kahlon.

All’inizio della giornata Kahlon, dopo un incontro col primo ministro Benjamin Netanyahu, ha annunciato che il suo gruppo avrebbe appoggiato il disegno di legge.

Il disegno di legge è stato messo ai voti in tre versioni, ognuna delle quali conteneva una controversa clausola per legalizzare retroattivamente le colonie che sono state costruite illegalmente, come quella di Amona.

Sabato l’Alta Corte ha confermato, in risposta ad una petizione dello stato perché la rinviasse, la sua anteriore sentenza in base alla quale Amona deve essere evacuata entro il 25 dicembre.

La prima versione del disegno di legge ha superato la prima lettura con 58 voti contro 50; la seconda con 57 contro 52 e la terza con 58 contro 51.

Nonostante il voto in prima lettura, il capo della coalizione di governo David Bitan ha dichiarato di non intendere portarlo in seduta plenaria per la seconda lettura.

I voti di Kulanu sono stati ritenuti decisivi per l’approvazione del disegno di legge alla Knesset. Precedentemente si era pensato che i deputati di Kulanu si sarebbero astenuti, in base alla dichiarazione di martedì di Kahlon secondo cui non avrebbe appoggiato il disegno di legge a causa del danno che potrebbe provocare alla Corte Suprema.

Nel suo annuncio, Kahlon ha detto che il suo gruppo si sarebbe limitato a formulare riserve sul potenziale danno che il disegno di legge potrebbe causare alla Corte.

Ho appena incontrato il primo ministro ed abbiamo concordato che il portavoce della Knesset dichiarerà che il disegno di legge non danneggia l’Alta Corte”, ha detto Kahlon.

Se esso dovesse danneggiare la Corte Suprema in qualunque fase dell’iter legislativo, Kulanu farà opposizione”, ha aggiunto.

Successivamente Bitan ha fatto la dichiarazione in parlamento.

La legge consentirà ai coloni di vivere su terreni privati palestinesi pagando una compensazione ai proprietari. Il procuratore generale Avichai Mendelblit ha affermato ripetutamente che non difenderà il disegno di legge contro una contestazione nell’Alta Corte, perché esso contraddice il diritto internazionale.

Nel corso del dibattito precedente al voto, il leader dell’opposizione Isaac Herzog ha definito il disegno di legge “orribile proposta della Knesset.” Ha fatto appello a tutti i deputati ad opporsi ad esso, affermando che “mai prima, nella storia del paese, la Knesset ha votato in contraddizione con la legge nazionale ed internazionale.”

Il deputato Ilan Gilon (Meretz, partito laico di sinistra sionista socialdemocratica, ndtr.), che è stato espulso dalla camera durante l’aspro dibattito, ha detto che il disegno di legge “ricorda le leggi dei paesi del terzo mondo, che vengono scritte retroattivamente per cancellare i loro crimini.”

Dopo il voto, il ministro dell’istruzione Naftali Bennet ha detto: “Proprio come abbiamo vinto in questa votazione, vinceremo in futuro – con tenacia, fede ed in accordo con il primo ministro Benjamin Netanyahu e con gli altri partiti dello schieramento nazionalista.”

I membri del partito di Bennet Habayit Hayehudi (Casa Ebraica [partito ultranazionalista dei coloni, ndtr.]) sono stati i promotori di tutte le tre versioni del disegno di legge.

Chiunque voglia avere ulteriore prova della crudeltà, immoralità e violenza dell’occupazione, la trova in questo disegno di legge”, ha dichiarato il deputato della Lista Comune (alleanza politica di quattro partiti arabi israeliani, ndtr.) Yousef Jibrin. “Regala la terra a ladri crudeli e sputa in faccia alla legge e alla comunità internazionale.”

Il capo della coalizione di governo Bitan ha inizialmente esitato a portare il disegno di legge in votazione alla Knesset mercoledì, preoccupato di non essere in grado di ottenere la maggioranza per approvarlo. Comunque l’opposizione ha fatto in modo di accelerare l’iter rimandando la discussione su altre questioni in agenda.

Fonti del Likud hanno riferito mercoledì mattina che il primo ministro Benjamin Netanyahu probabilmente non sarebbe stato presente al voto – dopo essersi assicurato che anche un membro dell’opposizione era assente, in modo da mantenere la parità – per non sfidare direttamente la comunità internazionale.

Ma Bennet e la sua collega di partito ministro della giustizia Ayelet Shaked hanno chiarito che, se la votazione non si fosse svolta mercoledì, Casa Ebraica non avrebbe appoggiato i disegni di legge proposti dalla coalizione nel prossimo futuro.

Un funzionario del partito ha detto che non si stava svolgendo nessun colloquio per giungere ad un compromesso: “Bennet è determinato ad andare a fondo della questione. Dopo un anno di tergiversazioni, non c’è altro modo per salvare migliaia di case in Giudea e Samaria.”

Netanyahu avrebbe potuto impedire il voto facendo ricorso contro l’approvazione del disegno di legge al Comitato Ministeriale per la Legislazione, o a titolo personale o attraverso un altro membro del governo. Ciò avrebbe costretto ad una discussione nell’intero governo prima della presentazione del disegno di legge alla Knesset.

I dirigenti della campagna dei coloni di Amona hanno risposto agli annunci secondo cui il disegno di legge avrebbe potuto essere approvato senza la clausola di retroattività, il che significherebbe la loro evacuazione, affermando: “Noi dichiariamo qui chiaramente che chiunque sia complice della disgustosa manovra di cancellare quella clausola sarà personalmente responsabile, di fronte alle future generazioni, della distruzione di una comunità ebraica nella Terra di Israele.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come rendere la vendetta ancora più gradevole

  1. di Amira Hass | 16 novembre, 2016 | Haaretz

Perché Israele ha bisogno di tenere in prigione per 12 anni un ragazzino palestinese di quattordici anni che non ha ferito nessuno?

Ogni palestinese conosce l’espressione infantile del suo viso, che il dolore ha trasformato [in quella] di un adulto. Nei media israeliani è permesso pubblicare solo la prima lettera del suo nome, A. Quello, e il fatto che questo processo si è tenuto a porte chiuse è stata la sommatoria di un trattamento speciale adeguato ad un adolescente di 13 anni e 9 mesi quando avrebbe commesso i reati per i quali è stato condannato.

E tutto il resto – il suo arresto dopo che la folla l’aveva aggredito, le sue ferite, l’interrogatorio brutale, l’accusa più grave, il giudizio e la sentenza – il sistema giudiziario lo ha trattato esattamente nel modo in cui l’opinione pubblica israeliana chiedeva: vendetta, vendetta, vendetta.

I giudici Yoram Noam, Rivka Friedman-Feldman e Moshe Bar-Am lo hanno giudicato colpevole di due tentativi di omicidio, sebbene non abbia accoltellato nessuno. Fin da principio ha raccontato a coloro che lo interrogavano e ai giudici che lui e suo cugino, Hassa Manasra, sono andati circa un anno fa a Pisgat Ze’ev [colonia israeliana, ndt.]per spaventare gli ebrei con i coltelli che avevano con sé ( a causa del modo in cui il regime israeliano opprime i palestinesi ), forse per accoltellare qualcuno, ma senza volere ammazzare nessuno. È stato condannato perché il quindicenne Manasra ha accoltellato un giovane e un ragazzo ( la squadra della polizia di frontiera avrebbe potuto arrestarlo ma lo hanno ucciso come è di moda da queste parti).

I giudici non hanno dato importanza alla testimonianza di A, che lui e Manasra avevano deciso fin dall’inizio che non avrebbero ferito donne, bambini o anziani; di proposito non hanno provato a colpire un vecchio che hanno incrociato sul loro cammino. I giudici non hanno dato credito al racconto di A, che ha provato a evitare che suo cugino ferisse il ragazzo. I giudici non hanno dato il debito peso al fatto che A. avrebbe potuto confessare subito il tentato omicidio, così sarebbe stato condannato prima di raggiungere i 14 anni ( e così non sarebbe stato mandato in prigione). Semplicemente non ha accettato di confessare qualcosa che non aveva intenzione di fare.

L’ ufficiale responsabile della libertà vigilata, che ha dato parere favorevole per un processo di rieducazione di A, ha raccomandato la corte di seguire il consiglio dell’assistente e di tenere il ragazzo fino all’età di 18 anni in una comunità residenziale vigilata. Ma i giudici hanno imposto una condanna di 12 anni di prigione al ragazzo quattordicenne che non aveva ferito nessuno. Non hanno nemmeno dato ascolto alla richiesta di mettere A in una comunità residenziale vigilata fino al raggiungimento dei 18 anni.

“Fin da oggi!” ha decretato il giudice Noam la scorsa settimana nel giorno della sentenza. Il ragazzo deve essere immediatamente condotto in prigione(Megiddo). La vendetta è gradevole e per renderla ancora più dolce i giudici hanno ordinato al minore di pagare un risarcimento di 180.000 shekel (pari a 44mila euro) alle parti lese. Che la famiglia si rovini completamente, perché no?

I giudici avrebbero potuto considerare altre sentenze , che affermano come sia impossibile giudicare i comportamenti dei bambini con gli stessi criteri di quelli usati per un adulto. Avrebbero potuto prendere spunto dai giudici che hanno decretato condanne di 24 mesi e di 54 mesi rispettivamente [da scontare] in una comunità residenziale vigilata a due minori ebrei che hanno ucciso un vecchio che aveva rifiutato di dargli una sigaretta. Ma Noam e i suoi colleghi hanno preferito considerare “l’ondata di terrore” e “il fattore nazionalistico” piuttosto che il ragazzino.

Se avessero tenuto in considerazione il fatto che si trattava di un ragazzino avrebbero giudicato così:

“Dinanzi a noi sta un altro adolescente che dal momento della nascita a Gerusalemme ha subito una discriminazione metodica e intenzionale a favore dei bambini ebrei suoi coetanei: riguardo alla casa, alla scuola, alle opportunità lavorative, alle infrastrutture, alla libertà di movimento e alle scelte, al diritto ad avere un’identità collettiva.

Dinanzi a noi sta un altro ragazzo che sfortunatamente ha subito quotidianamente la brutalità della polizia, il disprezzo della municipalità e la malvagità del sistema. Un altro ragazzo che è confuso dalla [reazione]debole degli adulti nei confronti di tutta questa malvagità e la tendenza all’emulazione lo ha spinto a compiere un gesto assurdo e pericoloso a cui i suoi genitori si sono opposti e di cui oggi egli stesso si è pentito. Lo manderemo in una comunità residenziale vigilata per pochi anni, per riflettere, per capire e per rieducarsi.

“Il mutamento della situazione generale non dipende solamente da noi, ma è stato già dimostrato che le uccisioni, le demolizioni di case e le sproporzionate condanne alla detenzione e al pagamento di multe non sono dei deterrenti. Al contrario. Mandano un messaggio ad altri palestinesi che gli ebrei li odiano, li perseguono, li opprimono e li espellono solo perché sono palestinesi.”

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Rapporto OCHA del periodo 1 – 14 novembre 2016 (due settimane)

Nei pressi dell’insediamento colonico israeliano di Ofra (Ramallah), le forze israeliane hanno ucciso, con arma da fuoco, un 23enne palestinese mentre tentava di aggredire con un coltello i soldati israeliani. Questo episodio porta a 73 il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane, dall’inizio del 2016, nel corso di attacchi e presunti attacchi.

Un altro palestinese è stato ferito con arma da fuoco, e successivamente arrestato, in un presunto tentativo di accoltellamento verificatosi nel villaggio di Huwwara (Nablus). In nessuno di tali episodi sono stati riportati ferimenti di israeliani. In un altro caso, ad un posto di blocco vicino alla città di Tulkarem, palestinesi hanno aperto il fuoco e ferito un soldato, riuscendo poi a fuggire.

Nei Territori Palestinesi Occupati (oPt), nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 57 palestinesi, tra cui 19 minori. Nove dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e in mare. I rimanenti feriti sono stati registrati in Cisgiordania: durante scontri scoppiati nel corso di operazioni di ricerca-arresto (la maggior parte), durante le manifestazioni settimanali contro la Barriera e gli insediamenti a Ni’lin (Ramallah) e Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso di eventi commemorativi del 12° anniversario della morte dell’ex presidente palestinese Yasser Arafat.

In tre diversi episodi, che hanno visto coinvolte forze israeliane e coloni, altri nove palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti mentre raccoglievano olive sui propri terreni. In particolare: in una zona vicino all’insediamento colonico israeliano di Qedumim (Qalqiliya), in circostanze poco chiare, soldati israeliani hanno aggredito fisicamente due persone che erano entrate nella propria terra dopo aver ottenuto una “preventiva autorizzazione” all’accesso; nel villaggio Al Janiya (Ramallah), coloni israeliani hanno fisicamente aggredito quattro persone che stavano lavorando vicino all’insediamento colonico di Talmon; altre quattro persone sono rimaste ferite, nei pressi di Bani Na’im (Hebron), dall’esplosione di una granata assordante abbandonata dalle forze israeliane. In altri due episodi, sempre nel contesto della raccolta delle olive, coloni israeliani hanno vandalizzato 70 ulivi in Sa’ir (Hebron) mentre, presso l’insediamento colonico di Shave Shomron (Nablus), hanno raccolto olive da alberi di proprietà palestinese.

In Cisgiordania, in Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 47 strutture di proprietà palestinese, sfollando 26 palestinesi, dieci dei quali minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 330 persone. Nove di queste strutture erano state fornite come assistenza umanitaria, in risposta a demolizioni precedenti. Dall’inizio del 2016, il numero di strutture prese di mira ammonta a 1.033: più del doppio rispetto al dato relativo allo stesso periodo del 2015. Nel periodo di riferimento sono stati emessi almeno 24 ordini di demolizione, di arresto-lavori e di sfratto.

Nella comunità pastorale di Khirbet Tana (Nablus), i funzionari israeliani hanno sequestrato un generatore elettrico e una macchina per il taglio dei metalli, appartenenti ad una organizzazione assistenziale; hanno inoltre fatto rilievi fotografici di strutture precedentemente fornite come assistenza; tra queste, una struttura adibita a scuola, quattro cisterne per l’acqua e sei ricoveri abitativi. La comunità si trova all’interno di un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco” e, dall’inizio del 2016, ha subito quattro ondate di demolizioni.

In una dichiarazione rilasciata il 10 novembre, Robert Piper, Coordinatore delle Nazioni Unite per gli Aiuti Umanitari e lo Sviluppo, ha condannato il continuo osteggiamento dell’assistenza umanitaria da parte delle autorità israeliane, affermando che “colpire i più vulnerabili tra i vulnerabili ed impedire loro di ricevere assistenza – in particolare con l’arrivo dell’inverno – è inaccettabile e contraddice gli obblighi di Israele quale potenza occupante”.

In tre occasioni, per consentire l’addestramento militare, le forze israeliane hanno trasferito, per diverse ore ogni volta, 23 famiglie (123 persone, tra cui 59 minori) appartenenti a due comunità di pastori palestinesi nel nord della Valle del Giordano (Khirbet ar Ras al Ahmar e Ibziq). Le due comunità devono far fronte anche ad ripetute demolizioni e restrizioni ai loro spostamenti che acuiscono le crescenti preoccupazioni legate al rischio di trasferimento forzato.

Cinque famiglie palestinesi (29 persone) che vivono nella zona di Silwan di Gerusalemme Est, hanno ricevuto avvisi di sfratto connessi a cause intentate da organizzazioni di coloni israeliani che rivendicano la proprietà delle abitazioni. Un sondaggio esplorativo, effettuato a Gerusalemme Est da OCHA [Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari], indica che su almeno 180 famiglie palestinesi pende una causa di sfratto presentata contro di loro principalmente da organizzazioni di coloni israeliani: sono pertanto a rischio di sfollamento più di 818 palestinesi, tra cui 372 minori.

Nella zona H2 di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un ragazzo palestinese che si stava recando a scuola. Nel corso del periodo di riferimento almeno quattro episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani hanno causato danni a veicoli palestinesi.

Secondo i media israeliani, si sono verificati otto casi di lancio di pietre ad opera di palestinesi contro veicoli israeliani: ferito un colono israeliano, danneggiati almeno sei veicoli e la metropolitana leggera di Gerusalemme. Vicino a Betlemme un altro veicolo è stato danneggiato da un ordigno esplosivo.

A Rafah, nella Striscia di Gaza, un 15enne palestinese è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico con il quale stava giocando nei pressi della scuola.

In almeno 23 occasioni durante il periodo cui si riferisce questo Rapporto (due settimane), le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti o in avvicinamento ad Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare della Striscia di Gaza. In altri tre casi, le forze israeliane sono entrate nelle ARA di terra per livellare il terreno ed effettuare scavi. Non sono stati segnalati feriti, ma è stato interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, nell’ultimo giorno del periodo di riferimento [14 novembre] è stato eccezionalmente aperto per i casi umanitari, consentendo l’uscita dalla Striscia di Gaza a 386 palestinesi ed il rientro a 274 (dopo tale data il passaggio è rimasto ancora aperto per alcuni giorni). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, dall’inizio del 2016, circa 20.000 persone sono registrate ed in attesa di uscire da Gaza attraverso Rafah. Il valico è stato eccezionalmente aperto il 6 novembre, per consentire a una delegazione di 93 palestinesi l’ingresso in Egitto; è stato quindi riaperto il 12 novembre per consentire il loro rientro.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Pregare per la libertà: perché Israele impedisce l’appello alla preghiera a Gerusalemme?

di Ramzy Baroud

14 novembre 2016,Middle East Monitor

Negli anni della mia infanzia mi rassicurava sempre la voce del “ muezzin” che chiamava alla preghiera nella principale moschea del nostro campo profughi a Gaza.

Quando alla mattina presto sentivo il richiamo che annunciava con voce melodiosa che stava arrivando il momento della preghiera dell’aurora (‘Fajr’), sapevo che potevo andare a dormire tranquillamente.

Ovviamente il richiamo alla preghiera nell’Islam, così come il suono delle campane nelle chiese, implica un profondo significato religioso e spirituale, come accade ininterrottamente, per cinque volte al giorno, da 15 secoli. Ma in Palestina queste tradizioni religiose hanno anche un profondo significato simbolico.

Per i rifugiati del mio campo la preghiera dell’aurora significava che l’esercito israeliano era andato via dal campo, ponendo fine ai suoi terribili e violenti raid notturni, lasciandosi alle spalle rifugiati in lutto per i loro morti, feriti o arrestati, e consentendo al muezzin di aprire le vecchie porte arrugginite della moschea ed annunciare ai fedeli l’arrivo del nuovo giorno.

Era quasi impossibile andare a dormire in quei giorni della prima rivolta palestinese, quando la punizione collettiva delle comunità palestinesi nei territori occupati superava ogni livello tollerabile.

Questo accadeva prima che la moschea del nostro campo – il campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza – fosse attaccata e l’Imam arrestato. Quando le porte della moschea furono sigillate per ordine dell’esercito, la gente salì sui tetti delle case durante il coprifuoco militare per annunciare comunque il richiamo alla preghiera.

Lo fece persino il nostro vicino ‘comunista’ – un uomo di cui si diceva che non avesse mai messo piede in una moschea in tutta la sua vita!

Non era soltanto una questione religiosa, ma un atto di sfida collettiva, che dimostrava che nemmeno gli ordini dell’esercito avrebbero fatto tacere la voce del popolo.

Il richiamo alla preghiera significava continuità, sopravvivenza, rinascita, speranza e una serie di significati che non furono mai capiti, ma sempre temuti, dall’esercito israeliano.

L’offensiva contro le moschee non è mai terminata.

Secondo fonti del governo e dei media, un terzo delle moschee di Gaza è stato distrutto durante la guerra di Israele contro la Striscia nel 2014. 73 moschee sono state completamente distrutte da missili e bombe e 205 parzialmente demolite, compresa la moschea Al-Omari di Gaza, che risale al 649 d.C.

E’ accaduto anche alla principale moschea di Nuseirat, dove il richiamo alla preghiera durante la mia infanzia mi portava la pace e la tranquillità sufficienti per andare a dormire.

Ora Israele sta tentando di bandire il richiamo alla preghiera in diverse comunità palestinesi, a cominciare da Gerusalemme est occupata.

Il bando è stato emesso solo poche settimane dopo che l’UNESCO ha approvato due risoluzioni di condanna delle attività illegali di Israele nella città araba occupata.

L’UNESCO ha chiesto ad Israele di cessare tali imposizioni, che violano il diritto internazionale e minacciano di modificare lo status quo della città, che è centrale per tutte le religioni monoteistiche.

Dopo aver organizzato una fallimentare campagna per contrastare l’iniziativa dell’ONU, arrivando ad accusare l’istituzione internazionale di antisemitismo, i dirigenti israeliani adesso stanno attuando misure punitive: la punizione collettiva dei residenti non ebrei di Gerusalemme per le decisioni dell’UNESCO.

Questo comporta la costruzione di ulteriori abitazioni ebree illegali, la minaccia di demolire migliaia di case arabe e, da ultimo, il divieto dell’invocazione alla preghiera in diverse moschee.

Tutto è cominciato il 3 novembre, quando una piccola folla di coloni dell’insediamento illegale di Psigat Zeev si è riunita davanti alla casa del sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barakat. Chiedevano che il governo ponesse termine all’ “inquinamento acustico” proveniente dalle moschee della città.

L’ ‘inquinamento acustico’ – così definito dalla maggior parte dei coloni europei arrivati in Palestina solo recentemente – sono i richiami alla preghiera che si svolgono nella città fin dal 637 d.C., quando il califfo Omar entrò nella città e ordinò di rispettare tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla loro fede religiosa.

Il sindaco israeliano si è prontamente e immediatamente preso l’impegno. Senza perdere tempo, i soldati israeliani hanno incominciato ad irrompere nelle moschee, comprese quelle di al-Rahman, al-Taybeh e al-Jamia di Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme.

Secondo quanto riportato da International Business Times, citando Ma’an ed altri media, “prima dell’alba sono arrivati ufficiali militari per informare del bando i muezzin, gli uomini responsabili del richiamo alla preghiera attraverso gli altoparlanti della moschea, ed hanno impedito ai musulmani del posto di raggiungere i luoghi di culto.”

La preghiera per cinque volte al giorno è il secondo dei cinque pilastri dell’Islam e il richiamo alla preghiera è la chiamata ai musulmani perché adempiano a tale dovere. E’ anche un elemento essenziale dell’identità intrinseca di Gerusalemme, dove le campane delle chiese e il richiamo alla preghiera delle moschee spesso si intrecciano in un armonico monito che la coesistenza è una possibilità reale.

Ma la coesistenza non è possibile con l’esercito, il governo ed il sindaco della città israeliani, che trattano Gerusalemme occupata come una base d’appoggio per la vendetta politica e la punizione collettiva.

Bandire il richiamo alla preghiera è unicamente un modo per ricordare il dominio israeliano sulla Città Santa ferita ed un messaggio che il controllo di Israele va oltre quello sulle situazioni concrete, arrivando ad incidere su tutti gli altri ambiti.

La versione israeliana del colonialismo d’insediamento non ha quasi precedenti. Non mira semplicemente al controllo, ma alla totale supremazia.

Quando la moschea del mio vecchio campo profughi venne distrutta, e subito dopo che furono estratti da sotto le macerie alcuni corpi per essere bruciati, i residenti del campo pregarono in cima ed intorno alle rovine. Questa prassi si è ripetuta altrove a Gaza, non solo durante l’ultima guerra, ma anche durante quelle precedenti.

A Gerusalemme, quando viene loro impedito di raggiungere i loro luoghi sacri, spesso i palestinesi si radunano dietro ai checkpoint dell’esercito e pregano. Anche questa è stata una pratica testimoniata per circa cinquant’anni, da quando Gerusalemme è caduta sotto l’esercito israeliano.

Nessuna coercizione e nessun ordine del tribunale potrà mai cambiare questo.

Se Israele ha il potere di imprigionare gli imam, demolire le moschee ed impedire i richiami alla preghiera, la fede dei palestinesi ha dispiegato una forza molto più imponente, per cui comunque Gerusalemme non ha mai smesso di chiamare i suoi fedeli ed essi non hanno mai smesso di pregare. Per la libertà e per la pace.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)