Rapporto sulla Protezione dei Civili nei Territori Palestinesi occupati riguardante il periodo: 12 – 25 gennaio 2016 (2 settimane)

Nelle due settimane di riferimento sono stati registrati otto aggressioni e presunte aggressioni palestinesi con conseguente uccisione di due colone israeliane e otto degli autori e presunti autori palestinesi, tra cui quattro minori (una 13enne e tre 17enni).

Altre due israeliane, una delle quali incinta, sono rimaste ferite. Solo uno dei presunti responsabili, un ragazzo di 16 anni fuggito dal luogo dell’aggressione, è stato successivamente arrestato. Tutti gli episodi sono avvenuti in Cisgiordania: quattro ai posti di blocco militari nei governatorati di Nablus e Hebron e altri quattro all’interno o all’ingresso degli insediamenti israeliani di ‘Otniel, Teqoa, Anatot e Beit Horon. In un ulteriore episodio, secondo quanto riferito, palestinesi hanno aperto il fuoco contro un veicolo israeliano nei pressi dell’insediamento di Dolev (Ramallah), senza causare vittime. Dal 1° ottobre 2015, nei Territori palestinesi occupati e in Israele, nel corso di attacchi palestinesi e presunti attacchi contro israeliani, sono stati uccisi 105 palestinesi, tra cui 25 minori, e 25 israeliani [1].

Le autorità israeliane attualmente trattengono i corpi di 12 palestinesi sospettati di aver compiuto aggressioni contro israeliani; alcuni sono stati trattenuti fino a 110 giorni. All’inizio di questo mese, le autorità israeliane hanno restituito decine di corpi che avevano trattenuto, ad accezione dei residenti in Gerusalemme Est.

In due diversi scontri, uno scoppiato durante una operazione di ricerca-arresto a Beit Jala (Betlemme) e l’altro durante manifestazioni ad est del Campo profughi di Al Bureij, vicino alla recinzione che circonda Gaza, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, tre palestinesi. Durante scontri con le forze israeliane vicino alla città di Al ‘Eizariya, un altro palestinese 17enne è rimasto ucciso allorché un ordigno che egli stava maneggiando è prematuramente esploso.

Durante proteste e scontri avvenuti in varie zone dei Territori palestinesi occupati, sono stati feriti dalle forze israeliane 400 palestinesi, tra cui 130 minori. Anche se, rispetto alle due settimane precedenti, questo numero risulta raddoppiato, tuttavia equivale ad un quinto della media bisettimanale dei ferimenti (2.090) dell’ultimo trimestre del 2015. Dei 400 ferimenti, 30 si sono verificati durante proteste e scontri vicino alla recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza. I rimanenti 370 sono stati registrati in Cisgiordania: durante le manifestazioni settimanali a Bil’in, Ni’lin (entrambi a Ramallah) e Kafr Qaddum (Qalqiliya); durante scontri nei pressi della Barriera nella città di Adu Dis (Gerusalemme) e all’ingresso di Silwad (Ramallah); e nel corso di dodici distinte operazioni di ricerca-arresto. In due delle operazioni di ricerca-arresto, sono stati feriti tre soldati e poliziotti di frontiera israeliani, uno dei quali colpito da arma da fuoco. Almeno venti dei ferimenti registrati in Cisgiordania (pari al 5%) e otto di quelli avvenuti nella Striscia di Gaza (pari al 27%) sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono dovuti a proiettili di gomma e gas lacrimogeni (solo le persone che ricevono assistenza medica vengono registrate come “feriti”).

Il 13 gennaio, le forze israeliane hanno sparato un missile contro un sito vicino alla città di Beit Lahiya, uccidendo un membro di un gruppo armato e ferendone altri due; ferito anche un civile. Secondo quanto riferito, in almeno un caso, un gruppo armato di Gaza ha lanciato un razzo contro Israele, senza provocare feriti o danni. Inoltre, in tre diverse circostanze, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno spianato il terreno ed effettuato scavi; in un altro caso, hanno arrestato due pescatori e requisito la loro barca.

In Area C e a Gerusalemme Est, in 24 distinte circostanze, per mancanza di permessi edilizi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, oppure smontato e confiscato, 58 strutture di proprietà palestinese; 39 persone, tra cui 21 minori, sono state sfollate ed altre 333 sono state in vario modo coinvolte. Tre degli episodi hanno avuto luogo nelle comunità beduine di Jabal al Baba e Abu Nuwar, ad est di Gerusalemme, e ad Al Mashru’, in Gerico: sono state distrutte o confiscate 16 strutture, 14 delle quali fornite come assistenza umanitaria per rimediare a precedenti demolizioni. Queste comunità sono a rischio di trasferimento forzato, a seguito di un piano di “rilocalizzazione” avanzato dalle autorità israeliane. Le prime due comunità si trovano all’interno di un’area attribuita [da Israele] al piano di insediamento E1 che servirà a collegare l’insediamento [colonico] di Ma’ale Adumim a Gerusalemme Est. Il 19 gennaio, in seguito ad una visita alla comunità di Abu Nuwar, compiuta insieme ad un folto gruppo di diplomatici, Robert Piper, Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati (OPT), e Felipe Sanchez, Direttore delle Operazioni UNRWA [Agenzia ONU per i rifugiati] in Cisgiordania, hanno condannato lo smantellamento dell’assistenza umanitaria ed hanno chiesto la fine immediata dei piani israeliani di trasferimento forzato dei beduini palestinesi nella zona di Gerusalemme. Questa richiesta è stata ribadita il 26 gennaio dal Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Sempre in Area C, in episodi diversi, le forze israeliane hanno requisito veicoli ed attrezzature, con la motivazione che gli stessi erano impiegati per realizzare “opere non autorizzate”. Le requisizioni includono: due veicoli da cantiere utilizzati per un progetto di agricoltura, finanziato da donatori, nel villaggio di Tayaseer (Tubas); tre trattori privati a Jenin, Nablus e Betlemme; attrezzature per scavi in Um Fagarah, a sud di Hebron.

Coloni israeliani, sostenuti da militari, hanno occupato due edifici nella zona della città di Hebron controllata da Israele (H2), rivendicandone la proprietà e sgomberando con la forza una famiglia di nove persone residenti in uno degli edifici; il giorno successivo, a seguito di denunce da parte dei proprietari palestinesi, le forze israeliane hanno evacuato i coloni dalle proprietà. Inoltre, durante il periodo di riferimento, per proteggere un gruppo di coloni israeliani entrati nel villaggio di ‘Awarta per visitare un sito religioso, soldati israeliani hanno occupato per alcune ore il tetto della Scuola Secondaria maschile, causando danni alle porte della scuola. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, presunti coloni israeliani hanno spruzzato graffiti offensivi sui muri e sulle porte di una chiesa.

Durante questo periodo, in quattro diversi episodi verificatisi sulle strade della Cisgiordania, due autisti di autobus israeliani sono rimasti feriti in seguito a lanci di sassi da parte di palestinesi, e due veicoli palestinesi sono stati danneggiati da sassi lanciati da coloni israeliani.

In tutta la Cisgiordania le forze israeliane hanno dispiegato centinaia di posti di blocco “volanti”, ostacolando il movimento dei palestinesi. Nuovi cncelli stradali e barriere di terra sono stati posizionati agli ingressi dei villaggi di Nahalin (Betlemme), ‘Awarta e Odala (Nablus), Beit Imra (Hebron). Nella città di Hebron ed in altre località del governatorato, la maggior parte delle strade principali, aperte all’inizio di gennaio, sono rimaste aperte. L’accesso dei palestinesi alla zona di insediamento israeliano della città di Hebron è rimasto fortemente limitato, incluso il divieto di ingresso in alcune aree (Shuhada Street e Tel Rumeida) per i maschi tra i 15 ed i 25 anni di età, fatta eccezione per i residenti i cui nomi sono stati registrati dalle forze israeliane.

Nel periodo cui si riferisce questo rapporto, nella Striscia di Gaza la fornitura di energia elettrica ha subito un ulteriore deterioramento, a causa di ripetuti guasti nelle linee di alimentazione israeliane ed egiziane. I blackout si sono protratti fino a 20 ore al giorno, in concomitanza di difficili condizioni meteorologiche invernali. La perdurante crisi energetica continua ad ostacolare pesantemente la fornitura dei servizi di base.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è stato chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno indicato che sono registrati, e in attesa di attraversare, oltre 25.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 necessitanti cure mediche.

[1] I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.




L’alfabeto di Oslo, linguaggio della colonizzazione

Professor Kamel Hawwash –Middle East Monitor

Sabato 23 gennaio 2016

Le prime tre lettere dell’alfabeto, A, B e C, sono diventate il marchio dell’occupazione e della strisciante colonizzazione della Palestina da parte di Israele. Le linee che delimitano queste aree sono state tracciate negli accordi di Oslo II firmati a Taba nel 1995. Dividono la Cisgiordania in tre zone, con Israele e la Palestina che beneficiano di differenti livelli di diritti amministrativi e relativi alla sicurezza in ognuna di queste.

L’area che copre tutte le città della Cisgiordania e la maggior parte della popolazione palestinese è stata etichettata come A, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che gode del controllo “integrale”, sia amministrativo che per quanto riguarda la sicurezza. L’area B include vaste zone rurali con l’ANP che ha diritto solo al controllo amministrativo. Il rimanente 60% è stato denominato area C e ricade sotto il totale controllo israeliano, tranne per quello che riguarda i servizi educativi e quelli medici. Significativamente, Israele controlla tutte le questioni relative alla terra, comprese l’assegnazione e le pratiche per la costruzione sia di strutture private che di infrastrutture.

Per completare il quadro del controllo coloniale che Israele esercita sulla Cisgiordania, bisogna aggiungere l’impatto del Muro o Barriera, che Israele ha costruito dopo gli accordi di Oslo e le strade che servono alle colonie, molte delle quali possono solo essere utilizzate dai coloni, nella versione israeliana dell’apartheid.

E’ importante capire che le aree A, B e C non sono tre zone geografiche separate che sono facilmente identificabili, ma piuttosto una divisione amministrativa definita in pratica da Israele per perseguire i propri progetti espansionistici e coloniali. Basta fare un passo fuori dalle città palestinesi e ci si trova quasi sicuramente nell’area C e quindi sotto il totale controllo israeliano. L’area C è abitata da un numero stimato di 300.000 palestinesi, che vivono per lo più in piccoli villaggi e comunità, e di 350.000 coloni israeliani, che vivono in 135 insediamenti e 100 avamposti. Una parte delle terre palestinesi più fertili si trova nella valle del Giordano, che rientra nell’area C.

I 22 anni da Oslo e gli inutili negoziati per raggiungere un accordo finale sono passati con Israele che non ha rispettato neppure questa vergognosa divisione della Cisgiordania. Ogni pretesa di una zona palestinese libera dalle ingerenze israeliane è un mito.

Questa è la terza Intifada?

Le crescenti tensioni nei Territori Occupati hanno portato a dozzine di morti e a centinaia di scontri. Stiamo assistendo ad una terza Intifada?

Prendiamo l’area A, che include tutte le città palestinesi. L’ANP è responsabile della sicurezza e pertanto si potrebbe presumere che le forze di occupazione israeliane non possano entrarvi in nessun caso. Tuttavia si tratta di un mito. Le forze [di sicurezza] israeliane entrano regolarmente a Ramallah, Nablus, Hebron e Jenin per arrestare, ferire e mutilare. Hanno rapito membri del parlamento [palestinese], compreso la sua presidentessa e deputata del FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo politico palestinese di sinistra. Ndtr.] Khalida Jarrar. Più di recente, il primo ministro israeliano Netanyahu ha detto di aver chiamato il presidente dell’ANP Abbas per scusarsi perché le forze di occupazione israeliane hanno condotto attività nei pressi della sua casa e si sono scontrate con la sua guardia presidenziale. Al tempo stesso, le forze di sicurezza palestinesi non possono arrestare nessun colono israeliano che abbia commesso violenze in qualunque parte della Cisgiordania e ogni colono che si sia casualmente avventurato nell’area A è stato rapidamente messo al sicuro e consegnato alle forze di occupazione.

Nell’area C le attività di colonizzazione di Israele abbondano, in quanto gode del controllo sia amministrativo che per la sicurezza. Qui la messa in pratica di alcune norme per i palestinesi e di altre per le colonie illegali è più evidente. I palestinesi non possono costruire, ampliare o migliorare le proprie case o le proprie attività senza l’interferenza da parte di Israele, che è spesso violenta. Il rifiuto praticamente certo da parte di Israele della concessione di autorizzazioni per la costruzione di case, scuole, strutture commerciali e agricole non lascia ai palestinesi altra possibilità che costruire senza permessi. Il risultato quasi inevitabile è la demolizione. L’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha descritto come 5.000 palestinesi dell’area C vivono nelle denominate “zone di fuoco” e si prevede che lascino le loro case per ore o giorni durante le esercitazioni militari israeliane. L’OCHA inoltre descrive la terribile situazione dei beduini, continuamente soggetti alla minaccia di deportazione dalle loro terre contro la loro volontà.

Anche altre comunità, oltre ai beduini, hanno ripetutamente subito la minaccia di ricollocamento. Un esempio particolarmente chiaro è stato quello della comunità di Susyia, sulle colline di Hebron, i cui membri hanno affrontato tre deportazioni in tre decenni per permettere che una colonia, che ha praticamente lo stesso nome, si installasse e poi che si espandesse.

In anni recenti, un certo numero di politici israeliani che si oppongono radicalmente all’esistenza di uno Stato palestinese hanno invocato l’annessione di ampie zone, se non di tutta l’area C. L’attuale ministro dell’Educazione, Naftali Bennet, ha persino chiesto che ai 300.000 palestinesi che vi vivono venga concessa la nazionalità israeliana. Pensa che il fatto che i rimanenti palestinesi della Cisgiordania potrebbero gestire i propri affari e una piena indipendenza sarebbe impossibile. Altri politici israeliani non sono magari stati altrettanto espliciti come Bennet nel chiedere l’annessione di aree della Cisgiordania, tuttavia è ora difficile trovarne uno che sostenga una onesta soluzione dei due Stati che porti ai palestinesi una qualche speranza della fine dell’occupazione.

Più di recente, il Coordinatore Israeliano delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) ha annunciato che intende confiscare 370 acri [149 ettari. Ndtr.] di terra nel distretto di Gerico, dichiarandoli “terra dello Stato”. Questo tipo di iniziative rende la designazione di un lotto di terreno come A, B o C totalmente insensato. Israele agisce con totale impunità. Se decide di dichiarare la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah zona militare chiusa o zona di fuoco, chi lo più impedire?

A Oslo i negoziatori palestinesi non solo hanno accettato di riconoscere Israele senza un concomitante riconoscimento della Palestina, hanno anche concordato l’ulteriore spartizione in queste tre aree del 22% di quella che hanno accettato come “Palestina”. La realtà è stata che palestinesi e coloni hanno vissuto in tutte e tre le aree e che Israele ha utilizzato questa designazione perché si adattasse ai propri piani. Gli accordi di Oslo sono stati pensati come temporanei, dovevano portare a un accordo negoziale entro cinque anni. A fronte di ciò, i negoziatori palestinesi devono aver pensato che tutte e tre le aree sarebbero state restituite alla fine dei cinque anni, libere di coloni, per far parte dello Stato funzionante e con continuità territoriale che loro avevano sognato. Tuttavia, 22 anni dopo, non è stato raggiunto nessun accordo e in pratica Israele ha quotidianamente violato l’accordo provvisorio indistintamente nelle aree A, B e C. Questa denominazione è diventata un ulteriore ostacolo per la pace e non cambierà rapidamente senza una pressione esterna. Perché si ottenga la pace in terra santa, devono essere esercitate su Israele chiare e non ambigue pressioni per porre fine all’occupazione, spedendo l’alfabeto della colonizzazione nella pattumiera della storia.

Il professor Kamel Hawwash è un docente universitario anglo-palestinese in ingegneria presso l’università di Birmingham. E’ un commentatore di questioni mediorientali e vice presidente della campagna di solidarietà con la Palestina. Qui ha scritto a titolo personale.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto ONU OCHAoPt: 29 dicembre 2015 – 11 gennaio 2016 (147)

Nel periodo di riferimento di questo rapporto (due settimane), sono stati registrati dodici attacchi e presunti attacchi palestinesi contro israeliani, nel corso dei quali tre israeliani, tra cui due soldati, sono stati feriti; nove attentatori e presunti attentatori palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Due dei palestinesi uccisi erano minori (16 e 17 anni). Gli attacchi ed i presunti attacchi includono: otto accoltellamenti e tentativi di accoltellamento, un investimento con auto e due scontri a fuoco effettuati da presunti palestinesi, poi fuggiti. Tutti questi episodi sono stati segnalati in Cisgiordania, di cui due a Gerusalemme Est. Le circostanze di numerosi incidenti rimangono controverse. Secondo quanto riferito, nessuno degli autori e presunti colpevoli apparteneva a fazioni o gruppi armati. Dal 1° ottobre fino alla fine del periodo di riferimento del presente rapporto [102 giorni], 97 palestinesi, tra cui 21 minori, e 23 israeliani sono stati uccisi nei Territori palestinesi occupati ed in Israele [1] nel corso di attacchi e presunti attacchi contro israeliani.

C’è stato un forte calo della frequenza e dell’intensità di proteste e scontri avvenuti nel periodo cui si riferisce questo rapporto: in tutti i Territori palestinesi occupati sono stati registrati un totale di 203 feriti palestinesi [nell’arco di due settimane] (per confronto: nel corso dell’ultimo trimestre del 2015, la media è stata di 240 feriti [palestinesi] ogni settimana). I feriti includono 41 minori e 3 donne. Dodici dei ferimenti si sono verificati durante scontri vicino alla recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza, nei pressi del valico di Erez e ad est del campo profughi di Al Bureij. Il resto dei feriti (191) sono stati registrati in Cisgiordania; il numero più alto è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme (85), seguito dai governatorati di Qalqiliya (27), Hebron (24), Betlemme (25) e Ramallah (20). Almeno 25 dei ferimenti in Cisgiordania e 8 nella Striscia di Gaza sono stati provocati da arma da fuoco, mentre la maggior parte dei rimanenti sono stati causati da proiettili di gomma o inalazione di gas lacrimogeno (solo le persone che ricevono assistenza medica sono conteggiate come feriti).

Un quarantenne palestinese è morto per le ferite riportate il 31 dicembre, quando fu colpito con arma da fuoco durante gli scontri nel campo profughi di Al Jalazun (Ramallah). Questo decesso porta a 51 (28 in Cisgiordania e 23 nella Striscia di Gaza) il numero di palestinesi uccisi dal 1° ottobre durante proteste e scontri con le forze israeliane.

Il 6 gennaio, in Area C, ad est di Gerusalemme, nella comunità beduina di Abu Nuwar, adducendo la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno distrutto undici strutture: cinque abitazioni, cinque latrine finanziate da donatori ed un ricovero per animali; sono state così sfollate cinque famiglie, composte da 26 persone, tutte rifugiati, tra cui 18 minori. Quattro giorni più tardi, le forze israeliane hanno smantellato e confiscato le cinque tende residenziali fornite, in risposta alle demolizioni, dalla Mezzaluna Rossa Palestinese. Abu Nuwar è una delle 46 comunità beduine nella Cisgiordania centrale a rischio di trasferimento forzato, a seguito di un piano di “rilocalizzazione” delle autorità israeliane. Si trova all’interno di una zona conosciuta come E1, destinata [dalle autorità israeliane] all’espansione verso ovest dell’insediamento [colonico] di Ma’ale Adummim, realizzando così un abitato continuo tra questo insediamento e Gerusalemme Est.

Sempre in Area C, in altre due comunità di pastori, a causa della mancanza di permessi di costruzione, è stato notificato l’ordine di blocco dei lavori per due progetti umanitari: il rifacimento di una strada in Khirbet ar Rahwa (Hebron) e la realizzazione di una cisterna d’acqua in Kardala (Tubas). Nel primo caso, le autorità israeliane hanno anche sequestrato parte dei materiali da costruzione.

In Gerusalemme Est e nel villaggio di Surda (Ramallah), le autorità israeliane, con ordinanze punitive, hanno demolito due case e ne hanno sigillato un’altra, sfollando 19 persone, tra cui 7 minori. Le case appartenevano alle famiglie di tre palestinesi accusati di aggressioni verificatesi nel mese di ottobre 2015, nel corso delle quali furono uccisi sei israeliani e gli stessi palestinesi accusati di essere gli aggressori; altri nove israeliani rimasero feriti. Il 16 novembre, il coordinatore umanitario per i Territori occupati palestinesi ha chiesto di fermare le demolizioni punitive, che violano il diritto internazionale.

A Gerusalemme Est, nei quartieri di Silwan, Sur Bahir e Beit Safafa, a motivo della mancanza dei permessi edilizi, il Comune ha demolito tre case in costruzione di proprietà palestinese ed una struttura commerciale. Sono state coinvolte un totale di 28 persone, la metà dei quali minori.

Il 30 dicembre, le autorità israeliane hanno emesso un decreto di espropriazione che riguarda oltre 10 ettari di terreni di proprietà palestinese ad est della città di Qalqiliya, per la realizzazione di un by-pass stradale. Secondo un giornale israeliano, questa misura è stata presa in risposta alle richieste di sicurezza dei coloni che affrontano rischi quando percorrono il tratto di strada che attraversa il villaggio di Nabi Elyas. I lavori richiederanno lo sradicamento di centinaia di alberi di ulivo appartenenti a diversi contadini del villaggio di Azzun.

Nel governatorato di Hebron, nel periodo di riferimento si è assistito ad una attenuazione di alcune delle restrizioni di movimento imposte dalle autorità israeliane dall’ottobre 2015; è così leggermente migliorato l’accesso della popolazione ai servizi ed ai mezzi di sussistenza. Ciò ha comportato, in primo luogo, la rimozione dei posti di blocco permanenti allestiti agli ingressi principali delle località principali: le città di Hebron, Halhul, Sa’ir, Samu’, Yatta, Beit Ummar, Tarqumiya, e il campo profughi di Al Arrub, riducendo in modo significativo i ritardi. In questi luoghi, durante il periodo di riferimento, sono stati dispiegati ad intermittenza e per brevi periodi di tempo, posti di blocco “volanti”. Sono tuttavia rimasti al loro posto la maggior parte degli ostacoli che, posizionati a partire da ottobre 2015, bloccano le vie di accesso secondario che incanalano il traffico verso le strade principali menzionate sopra.

L’accesso e la circolazione interna della zona H2 di Hebron, sotto controllo israeliano, sono rimasti gravemente limitati. Uno dei principali punti di controllo dell’ingresso a questa zona, il checkpoint 56, è stato riattivato dopo lavori di fortificazione. A causa di procedure di controllo più severe, il tempo medio di attraversamento per i residenti registrati è aumentato da 10 a 40 minuti. Inoltre, l’ordine di chiusura della zona H2 di Tel Rumeida, che permette l’ingresso solo ai residenti registrati, è stato prolungato fino al 31 gennaio e la zona interessata è stata ampliata.

Nel corso del periodo di due settimane cui si riferisce il presente rapporto, nel governatorato di Nablus, sono stati registrati due attacchi di coloni israeliani con conseguenti lesioni o danni materiali: un 24enne palestinese è stato aggredito e ferito nei pressi dell’insediamento di Shave Shamron; coloni israeliani provenienti, secondo quanto riferito, dall’insediamento Itamar hanno compiuto atti di vandalismo e danneggiato una casa palestinese nel villaggio di Beit Furik. Le autorità israeliane hanno emesso atti d’accusa contro due coloni israeliani in relazione all’incendio doloso, appiccato nel villaggio di Duma nel luglio 2015, che provocò la morte di tre membri della stessa famiglia, tra cui un bambino, e lesionò gravemente un altro minore.

I media israeliani hanno riportato cinque episodi di lancio di pietre, da parte di palestinesi, contro veicoli con targa israeliana, con conseguenti danni a tre veicoli privati vicino ad Hebron e a Betlemme, oltre che alla Metropolitana leggera di Gerusalemme (due casi)

Nella Striscia di Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, sono stati registrati almeno dieci episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro civili palestinesi, senza causare vittime. È stato riferito che in almeno un caso, membri di un gruppo armato di Gaza hanno sparato una serie di razzi verso Israele, due dei quali sono caduti in Israele, in una zona aperta, mentre i rimanenti sono ricaduti in Gaza. Non sono stati segnalati feriti o danni.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 144 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 252 palestinesi; il governatorato di Hebron conta il maggior numero di operazioni e arresti. Tra i luoghi interessati alle incursioni: l’Università Birzeit a Ramallah, dove sono stati confiscati computer e documenti e arrecati danni alla proprietà; nella città di Nablus, gli uffici di un’organizzazione per i diritti umani che sono stati chiusi per sei mesi, con ordinanza militare, per presunta istigazione contro gli israeliani; ancora a Nablus, una scuola secondaria nella quale sono stati anche arrecati danni materiali.

Nella Striscia di Gaza la fornitura di energia elettrica si è deteriorata per due giorni a causa di danni riportati da due delle tre linee egiziane di alimentazione che provvedono alla fornitura a Gaza-Sud, così come ad una delle linee israeliane che alimentano Gaza City. Nelle zone interessate il black-out è giunto fino a 18 ore al giorno, compromettendo l’erogazione di servizi di base e rendendo ancora più precari i già scarsi mezzi di sostentamento e le condizioni di vita.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è stato chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 37 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno indicato che sono registrati, e in attesa di attraversare, oltre 25.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 bisognosi di cure mediche.

1]  I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 12 gennaio tre palestinesi, tra cui un ragazzo di 17 anni, sono stati colpiti con armi da fuoco e uccisi dalle forze israeliane in due episodi separati: durante un presunto tentativo di accoltellamento al bivio di Beit ‘Einun (Hebron) e durante gli scontri nel corso di una operazione di ricerca-arresto a Beit Jala (Betlemme).

Il 13 gennaio, nei pressi della recinzione perimetrale di Gaza, vicino a Beit Lahia, le forze israeliane hanno colpito con armi da fuoco e ucciso un palestinese e ne hanno feriti altri tre; non sono ancora chiare le circostanze.

Ezio R. e Giovanni L.V. per “Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”

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Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazioni, corredate da dati numerici e grafici statistici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati. Sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

Sullo stesso sito sono reperibili mappe dettagliate della Striscia di Gaza e della Cisgiordania:
Striscia di Gaza:
http://www.ochaopt.org/documents/Gaza_A0_2014_18.pdf
Cisgiordania:
http://www.ochaopt.org/documents/Westbank_2014_Final.pdf

La scrivente “Associazione per la pace – gruppo territoriale di Rivoli”, stante l’imparzialità dell’Organo che li redige, utilizza i Rapporti per diffondere un’informazione affidabile sugli eventi che accadono in Palestina. Pertanto, traduce i Rapporti in italiano (escludendo i dati statistici ed i grafici) e li invia agli interessati. Tali Rapporti sono anche scaricabili dal sito Web dell’Associazione, alla pagina:
https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali




Sì, Israele sta commettendo esecuzioni extragiudiziarie

Nel 2016 non c’è bisogno di essere Adolf Eichmann per essere giustiziato in Israele – basta essere un’adolescente palestinese con delle forbici.

Di Gideon Levy – Haaretz – 17 gennaio 2016

Potremmo dirlo così: Israele giustizia persone senza processo praticamente ogni giorno. Ogni altra definizione sarebbe una menzogna. Se una volta c’era qui una discussione sulla pena di morte per i terroristi, ora sono giustiziati anche senza processo (e senza che se ne discuta). Se una volta c’era un dibattito sulle regole d’ingaggio, oggi è chiaro: spariamo per uccidere ogni palestinese sospetto.

Il ministro della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, ha illustrato chiaramente la situazione quando ha detto: “Ogni terrorista deve sapere che non sopravviverà all’attacco che sta per compiere,” e praticamente tutti i politici lo hanno seguito con nauseabonda unanimità, da Yair Lapid [fondatore del partito di centro “Yesh Atid” (C’è un futuro). Ndtr.] in su. Non erano mai stati rilasciati tante licenze di uccidere, né il dito era stato così nervoso sul grilletto.

Nel 2016, non c’è bisogno di essere Adolf Eichmann [criminale nazista rapito in Argentina, processato e giustiziato in Israele. Ndtr.] per essere giustiziati, basta essere un’adolescente palestinese con delle forbici. I plotoni d’esecuzione sono attivi ogni giorno. Soldati, poliziotti e civili sparano a quelli che hanno accoltellato israeliani, o hanno cercato di farlo o sono sospettati di averlo fatto, e anche a coloro che hanno investito israeliani con la loro auto o sembra che lo abbiano fatto.

In molti casi, non c’era bisogno di sparare, e sicuramente non di uccidere. Nella maggior parte dei casi la vita di chi ha sparato non era in pericolo. Sparano per uccidere persone che avevano un coltello o persino forbici, o gente che ha semplicemente messo le mani in tasca o ha perso il controllo della propria auto.

Li uccidono indiscriminatamente – donne, uomini, ragazzine, ragazzini. Gli sparano mentre stanno fermi, ed anche quando non sono più pericolosi. Sparano per uccidere, per punire, per sfogare la propria rabbia e per vendicarsi. Qui c’è un tale disprezzo che questi incidenti sono a malapena raccontati dai media.

Sabato scorso [16 gennaio 2016] al checkpoint di Beka’ot (chiamato Hamra dai palestinesi), nella valle del Giordano, alcuni soldati hanno ucciso l’uomo d’affari Said Abu al-Wafa , di 35 anni, padre di 4 figli, con 11 pallottole. Contemporaneamente, hanno ucciso anche Ali Abu Maryam, un bracciante agricolo e studente di 21 anni, con tre pallottole. L’esercito israeliano non ha spiegato le ragioni dell’uccisione dei due uomini, salvo sostenere che c’era il sospetto che qualcuno avesse sfoderato un coltello. Ci sono delle telecamere di sicurezza sul posto, ma l’esercito israeliano non ha mostrato il filmato dell’incidente.

Il mese scorso altri soldati dell’IDF hanno ucciso Nashat Asfur, padre di tre figli che lavorava in un mattatoio israeliano per polli. Gli hanno sparato nel suo villaggio, Sinjil, dalla distanza di 150 metri, mentre stava camminando verso casa per un matrimonio. All’inizio di questo mese, Mahdia Hammad, quarantenne madre di 4 figli, stava guidando verso casa attraverso il suo villaggio, Silwad. Ufficiali della polizia di frontiera hanno crivellato la sua macchina con dozzine di proiettili dopo aver sospettato che volesse investirli.

I soldati non hanno avuto sospetti di nessun genere sulla studentessa di cosmetologia Samah Abdallah, 18 anni. Hanno sparato all’auto di suo padre “per sbaglio”, uccidendola; hanno sospettato il pedone sedicenne Alaa al-Hashash di volerli accoltellare. Ovviamente hanno giustiziato anche lui.

Hanno ucciso anche Ashrakat Qattanani, 16 anni, che aveva un coltello e inseguiva una donna israeliana. Prima un colono l’ha investita con la sua macchina, e quando era a terra ferita, soldati e coloni le hanno sparato per almeno quattro volte. Un’esecuzione, cos’altro?

E quando i soldati hanno sparato alla schiena a Lafi Awad, 20 anni, mentre stava scappando dopo aver lanciato delle pietre, non si è trattato di un’esecuzione?

Sono solo alcuni dei casi che ho documentato nelle scorse settimane su Haaretz. Il sito web dell’associazione [israeliana] per i diritti umani B’tselem presenta un elenco di altri 12 casi di esecuzioni.

Margot Wallström, ministra degli Esteri svedese, una dei pochi ministri al mondo che hanno ancora una coscienza, ha chiesto che si indaghi su queste uccisioni. Non c’è una richiesta più morale di questa. Avrebbe dovuto essere fatta dal nostro stesso ministro della Giustizia.

Israele ha risposto con i suoi soliti ululati. Il primo ministro ha detto che ciò era “oltraggioso, immorale e ingiusto”. e Benjamin Netanyahu comprende bene questi termini: è esattamente il modo in cui descrivere la campagna di esecuzioni criminali da parte di Israele sotto la sua guida.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il Rapporto settimanale di “UNITED NATIONS – Office for the Coordination of Humanitarian Affairs – occupied Palestinian territory” [OCHAoPt]*.

Periodo di osservazione:  15 – 28 dicembre 2015 (due settimane).

 Nota: gli aspetti salienti di ciascuna notizia sono scritti in grassetto. Chi vuole una lettura ancora più veloce trova qui il nostro manifesto settimanale (n°146), basato su un riassunto del Rapporto.

__________________ inizio del testo del Rapporto (1.254 parole) ________________
 

Durante il periodo di riferimento di due settimane (15-28 dicembre), 14 palestinesi, tra cui due minori e una donna (rispettivamente di 15, 17 e 40 anni), e due israeliani sono stati uccisi nel corso di 11 aggressioni e presunte aggressioni palestinesi, tra cui sette accoltellamenti o tentativi di accoltellamento e cinque investimenti con auto [1]. Tutti gli episodi sono avvenuti in Cisgiordania: nei governatorati di Gerusalemme (4), Nablus (4), Ramallah (2), Salfit (1) ed Hebron (1). Durante queste aggressioni sono stati feriti due israeliani, tra cui un soldato. Una delle vittime israeliane era un passante, colpito dalle forze israeliane che avevano reagito ad un accoltellamento. Le circostanze di numerosi episodi rimangono controverse. Nessuno degli autori o presunti autori, secondo quanto riferito, apparteneva a fazioni o gruppi armati. Sempre nello stesso periodo, una donna palestinese (una passante) è deceduta in conseguenza delle ferite riportate lo scorso 23 novembre quando, ad un checkpoint, le forze israeliane aprirono il fuoco in risposta ad una presunta aggressione palestinese.

Le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, cinque palestinesi nel corso di scontri in cinque distinti episodi: durante una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme); in scontri nel villaggio di Sinjil (Ramallah); nella Striscia di Gaza, durante tre manifestazioni nei pressi della recinzione, rispettivamente ad est di Khan Younis, a Gaza City ed al Campo profughi Al Bureij. Nella seconda località un uomo è morto, colpito con armi da fuoco, mentre lavorava la terra in prossimità degli scontri.

In questi e in altri scontri verificatisi in tutti i Territori occupati palestinesi, altri 668 palestinesi, tra cui almeno 215 minori, sono stati feriti: 60 nei pressi della recinzione che circonda Gaza e i rimanenti in varie località della Cisgiordania. Almeno il 30% dei ferimenti in Cisgiordania e il 20% di quelli nella Striscia di Gaza sono stati causati da arma da fuoco, mentre la maggior parte delle rimanenti lesioni sono state causate da proiettili di gomma o da inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti (244) è stato registrato nel Governatorato di Betlemme, seguito da Hebron (96), Qalqiliya (51) e Ramallah (44).

Il 16 dicembre, le forze israeliane hanno sparato una serie di granate verso una zona agricola ad est di Khan Younis, ferendo tre palestinesi. Secondo le autorità israeliane, questi lanci di granate sono stati fatti in risposta alla esplosione di un ordigno artigianale contro un veicolo militare israeliano. Inoltre, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro palestinesi o le loro proprietà in almeno 23 casi, causando il ferimento di quattro palestinesi: pescatori, pastori, contadini. Le forze israeliane sono anche entrate nella Striscia di Gaza in quattro occasioni, durante le quali hanno effettuato operazioni di livellamento del terreno e scavi.

Nel periodo in esame, le autorità israeliane hanno consegnato alle loro famiglie, per la sepoltura, i corpi di otto palestinesi coinvolti in aggressioni o presunte aggressioni. Dal mese di ottobre 2015, le autorità israeliane hanno trattenuto, per diversi periodi di tempo, i corpi di oltre 80 palestinesi.

Il 24 dicembre, le forze egiziane hanno ucciso, con armi da fuoco, un palestinese disabile mentale che, da Rafah, nuotava nudo attraverso il confine marittimo con l’Egitto.

In Cisgiordania, nel periodo in esame, nel corso di 224 operazioni di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno arrestato 347 palestinesi. Un terzo degli arresti sono stati registrati nel governatorato di Gerusalemme. Nella Striscia di Gaza: 12 pescatori palestinesi, tra cui un minore, sono stati arrestati in mare nel contesto delle restrizioni di accesso imposte da Israele; tre palestinesi, tra cui due minori, sono stati arrestati, in due diversi episodi, mentre tentavano di entrare in Israele senza autorizzazione, attraverso la recinzione di confine. Inoltre una famiglia palestinese di quattro persone è stata arrestata dalle autorità di fatto [palestinesi], nel corso di un tentativo di entrare in Israele attraverso la recinzione.

A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito una casa palestinese nel quartiere di Sheikh Jarrah, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sfollando un palestinese. Un’altro palestinese è stato sfrattato dalla sua casa nella Città Vecchia, dopo che aveva convertito la sua proprietà da commerciale ad abitativa. Sempre a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno consegnato un ordine di demolizione nei confronti di un edificio di tre piani in Jabal Al Mukabbir a motivo della mancanza di una concessione edilizia; per lo stesso edificio era stato precedentemente notificato un ordine di demolizione punitiva. In area C, a Ein Al Hilweh Um Jmal (Tubas), una famiglia è stata costretta a smantellare un ricovero per animali: coinvolte 12 persone, tra cui nove minori.

Il 16 dicembre, a quattro famiglie palestinesi, che risiedono nella Città Vecchia di Gerusalemme, è stato notificato che coloni israeliani hanno avviato un procedimento di sfratto contro di loro, rivendicando la proprietà delle loro case. Secondo l’organizzazione israeliana Ir Amin, a Gerusalemme Est, circa 130 famiglie palestinesi sono soggette a procedimenti legali, intrapresi o da organizzazioni che promuovono le attività di insediamento a Gerusalemme Est o dalle autorità israeliane.

Nel periodo di riferimento, sono stati registrati tre attacchi di coloni con danni a proprietà palestinesi: lanci di lacrimogeni e scritte contro palestinesi sui muri di una casa palestinese nel villaggio di Beitillu (Ramallah); sradicamento di 45 piantine di ulivo nel villaggio di al Lubban ash Sharqiya; devastazione di terreni coltivati ad Aqraba (Nablus).

Segnalati cinque aggressioni palestinesi con lanci di pietre contro veicoli con targa israeliana: nel governatorato di Hebron feriti cinque tra coloni e soldati israeliani in transito; nel governatorato di Gerusalemme danni a due veicoli.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno dispiegato centinaia di checkpoints “volanti”, ostacolando gli spostamenti dei palestinesi. Il governatorato di Hebron rimane la zona più colpita dalle restrizioni di movimento, con conseguenti lunghi ritardi e interruzioni nell’accesso a servizi e mezzi di sussistenza per gran parte della popolazione. Tutti gli itinerari (incluse le strade sterrate) che conducono alle principali arterie di traffico (strade 60, 356, 35 e 317) sono rimasti del tutto bloccati al movimento veicolare o risultano controllati da checkpoints “volanti”. Questi ultimi, dispiegati per gran parte del tempo, ostacolano quattro delle principali vie d’accesso alla città di Hebron, così come gli accessi principali ad Hallhul, Sa’ir, As Samu’, Yatta, Beit Ummar, Tarqumiya, ed al campo profughi di Al Arrub. L’accesso dei palestinesi alle aree di insediamento [colonico israeliano] all’interno dell’area H2 di Hebron City è rimasto soggetto a rigorose restrizioni che includono il divieto di accesso, per i maschi tra i 15 ed i 25 anni, ad alcune aree (Shuhada Street e [quartiere] di Tel Rumeida), ad eccezione dei residenti, i cui nomi sono registrati dalle forze israeliane.

Nella Cisgiordania settentrionale e centrale l’esercito israeliano ha rimosso diversi ostacoli al movimento schierati durante le precedenti settimane. Sono state così riaperte diverse strade importanti: due primari punti di accesso alla città di Tulkarem; le principali vie d’accesso, da est, a Ramallah; il tratto della Old Road 60 nei pressi di Jalazun; l’ingresso orientale di Ein Yabrud (serve 40 villaggi a Ramallah); l’ingresso principale alla città di Ar Ram nell’area di Gerusalemme (che interessa circa 20.000 palestinesi). A Gerusalemme Est, l’ingresso e l’uscita da tre quartieri (Issawiya, Sur Bahir e Jabal al Mukkabir) continuano ad essere impediti da otto checkpoint e blocchi stradali dispiegati da ottobre 2015.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali.

_______________________ fine del testo del Rapporto

[1]  I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.


Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 30 dicembre un colono israeliano è morto per le ferite riportate il 7 dicembre, nel corso di un accoltellamento.

 “Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”
Ezio R. e Giovanni L.V.

* note

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazioni, corredate da dati numerici e grafici statistici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati. Sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

Sullo stesso sito sono reperibili mappe dettagliate della Striscia di Gaza e della Cisgiordania:
Striscia di Gaza:
http://www.ochaopt.org/documents/Gaza_A0_2014_18.pdf
Cisgiordania:
http://www.ochaopt.org/documents/Westbank_2014_Final.pdf

La scrivente “Associazione per la pace – gruppo territoriale di Rivoli”, stante l’imparzialità dell’Organo che li redige, utilizza i Rapporti per diffondere un’informazione affidabile sugli eventi che accadono in Palestina. Pertanto, traduce i Rapporti in italiano (escludendo i dati statistici ed i grafici) e li invia agli interessati. Tali Rapporti sono anche scaricabili dal sito Web dell’Associazione, alla pagina:
https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali




Il Brasile rifiuta il colono della Cisgiordania come ambasciatore israeliano

Fonti ufficiali israeliane sostengono che le relazioni diplomatiche saranno compromesse se il Brasile non riconosce Dani Dayan come prossimo ambasciatore a Brasilia

Redazione di MEE

 

Il Brasile avrebbe respinto la nomina da parte di Israele di un colono come suo prossimo ambasciatore, con un’iniziativa che secondo Israele danneggerà le relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

Dani Dayan, un 60enne che vive nella colonia di Ma’ale Shomron in Cisgiordania, è stato nominato in agosto come nuovo ambasciatore israeliano a Brasilia.

Tuttavia il Brasile deve ancora approvare la nomina del diplomatico, nato in Argentina, in seguito a pressioni in Brasile contro la sua nomina e proteste rivolte alla presidentessa Dilma Rousseff a proposito di Dayan.

La nomina ad ambasciatore deve essere approvata dalla nazione ospite – un procedimento noto come “gradimento”. Però, se nessuna approvazione viene espressa entro due mesi, si intende che la scelta non è stata accettata. .

Dayan è stato un membro autorevole del Yesha Council, un insieme di organizzazioni di coloni ebrei in Cisgiordania, e gli attivisti brasiliani temono che l’approvazione della sua scelta potrebbe essere vista come un appoggio alle colonie israeliane, che in base alle leggi internazionali sono illegali.

La scorsa settimana, quando il precedente ambasciatore israeliano Reda Mansour ha lasciato Brasilia, una fonte ufficiale brasiliana ha detto a “The Times of Israel” [giornale on line israeliano indipendente. Ndtr.] che il governo non avrebbe risposto alla nomina di Dayan e invece avrebbe aspettato che il governo israeliano capisse l’antifona.

Tuttavia la viceministro degli esteri Tzipi Hotovely ha detto ai media israeliani che i rapporti si sarebbero inaspriti se Dayan non fosse stato accettato da Brasilia.

“Lo Stato di Israele declasserà i rapporti diplomatici con il Brasile a un livello secondario se la nomina di Dani Dayan non sarà confermata,” ha detto Hotovely alla rete televisiva israeliana Channel 10.

In una recente intervista con Haaretz, Dayan ha accusato il governo israeliano di starsene con le mani in mano invece di fare pressione sul governo brasiliano perché accetti la sua nomina.

“Io non so se sarò ambasciatore in Brasile e personalmente non mi importa molto,” ha affermato Dayan. “Mi renderebbe le cose ancora più semplici, ma sto lottando per il prossimo ambasciatore che è un colono.”

“La risposta israeliana all’attuale situazione determinerà come verrà designato il Paese ospite del prossimo ambasciatore proveniente da Giudea e Samaria (la Cisgiordania) o, non sia mai, creerà una situazione per cui centinaia di migliaia di israeliani saranno esclusi dallo svolgere il ruolo di ambasciatori a causa del loro luogo di residenza e che Israele vi si adegui.”

I rapporti tra il Brasile ed Israele hanno conosciuto un costante declino negli ultimi anni. Nel 2010 il Brasile ha riconosciuto la Palestina come Stato sovrano entro i confini del 1967, facendo infuriare Israele.

Nello stesso anno l’ex-presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva ha stretto rapporti con l’Iran, nemico di Israele, andando in visita a Teheran nel maggio di quell’anno.

Durante l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza della scorsa estate [operazione “Margine Protettivo”. Ndtr.], durante la quale più di duemila palestinesi sono stati uccisi, il Brasile ha richiamato il proprio ambasciatore da Israele e ha condannato “l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele che ha provocato un grande numero di vittime civili, compresi donne e bambini.”

Il governo israeliano ha contrattaccato definendo il Brasile un “nano diplomatico” che crea “problemi” piuttosto che “contribuire alle soluzioni”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto settimanale Ocha periodo 1 – 14 dicembre 2015 (due settimane).

Il periodo di riferimento di due settimane (1-14 dicembre) ha registrato 15 aggressioni, o presunte tali, da parte di palestinesi; 13 degli autori, o presunti autori, sono stati uccisi (tra essi due minori di 16 e 17 anni) mentre un altro minore di 16 anni è stato ferito. Nel corso delle suddette aggressioni sono rimasti feriti 31 israeliani, tra cui un bimbo e 13 membri delle forze di sicurezza [1]

Gli episodi comprendono otto accoltellamenti e tentativi di accoltellamento, cinque investimenti con auto e due scontri a fuoco effettuati da presunti palestinesi che sono fuggiti. Tredici di questi episodi sono avvenuti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e due a Gerusalemme Ovest. Le circostanze di numerosi episodi rimangono controverse. Nessuno degli autori e presunti autori, secondo quanto riferito, apparteneva a fazioni o gruppi armati.

Secondo i media israeliani, il Ministero israeliano della Giustizia ha aperto un’indagine penale sulla sparatoria ed il ferimento di una ragazza palestinese di 16 anni, accusata di aver effettuato un accoltellamento a Gerusalemme Ovest, il 23 novembre; a quanto riferito, l’inchiesta non riguarderà l’uccisione della ragazza palestinese di 14 anni, avvenuta nella stessa circostanza. Questa è la prima indagine, di cui si ha notizia, relativa alla condotta tenuta dalle forze israeliane nel rispondere all’ondata di aggressioni palestinesi verificatesi a partire dal 1° ottobre 2015. A seguito di tali aggressioni sono stati uccisi 71 palestinesi ed altri 23 sono stati feriti, sollevando serie preoccupazioni per il probabile uso eccessivo della forza e uccisioni extragiudiziali.

Nel corso di tre diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso, con armi da fuoco, tre palestinesi: nel contesto di una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme); durante le manifestazioni vicino alla recinzione che circonda Gaza; all’ingresso nord della città di Hebron.

Altri 1.409 palestinesi sono stati feriti in questi e in altri scontri verificatesi in tutti i Territori palestinesi occupati (oPt): 102 nei pressi della recinzione che circonda Gaza e i rimanenti [1.307] in diverse località della Cisgiordania. La stragrande maggioranza delle lesioni (1.290) ha avuto luogo nel contesto di proteste contro l’occupazione di lunga data e le politiche israeliane connesse, tra cui il trattenimento da parte delle autorità israeliane dei corpi dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane negli ultimi mesi. Almeno il 7% dei ferimenti avvenuti in Cisgiordania, e il 43% di quelli nella Striscia di Gaza, sono stati causati da armi da fuoco, mentre la maggior parte dei restanti sono stati causati da proiettili di gomma o inalazione di gas lacrimogeno. Il maggior numero di feriti (422) relativi ad una singola località, continua ad essere registrato nella città di Qalqiliya: questi includono un gran numero di persone non coinvolte negli scontri, ma curati per aver inalato gas lacrimogeno mentre attraversavano il posto di blocco che controlla l’unico ingresso alla città o per averlo inalato nelle loro case in prossimità degli scontri.

Nel periodo in esame, le forze israeliane hanno arrestato 365 palestinesi in Cisgiordania, più di un quarto nel governatorato di Gerusalemme, durante 214 operazioni di ricerca-arresto. Nella Striscia di Gaza, due pescatori palestinesi sono stati arrestati nel contesto delle restrizioni israeliane in materia di accesso al mare. Anche un componente dello staff della Mezzaluna Rossa Palestinese è stato arrestato mentre usciva da Gaza attraverso il valico di Erez.

Le autorità israeliane hanno demolito, mediante esplosivo, due appartamenti: nel campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Erano case di famiglia di due palestinesi (uno ucciso e l’altro in carcere) sospettati di aggressioni contro israeliani nel 2014 e 2015. 37 persone (inclusi 18 minori) sono stati sfollati: le due famiglie interessate alle demolizioni ed i residenti di cinque appartamenti adiacenti alla casa di Nablus, gravemente danneggiati dall’esplosione. Altri tre appartamenti, adiacenti alla casa demolita nel campo profughi di Shu’fat, hanno subito danni. Entrambi gli episodi hanno innescato scontri con le forze israeliane e il conseguente ferimento di 46 palestinesi. Dal 1° ottobre le autorità israeliane, per la “necessità di dissuadere i palestinesi dal compiere aggressioni”, hanno effettuato 14 demolizioni punitive, sfollando un totale di 108 palestinesi, tra cui 54 minori (sia dalle case interessate al provvedimento, sia da quelle confinanti).

In area C e a Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione, sei strutture abitative, tra cui tende finanziate da donatori, e una struttura commerciale sono state demolite. Le demolizioni di Gerusalemme Est sono avvenute nella zona di Beit Hanina ed hanno provocato lo sfollamento di due famiglie di profughi registrati (16 persone, tra cui 10 minori). Una delle demolizioni in Area C è stata effettuata nella comunità pastorizia di Al Hadidiya, nel nord della Valle del Giordano che, dal 25 novembre, ha subìto ripetute demolizioni o confische di strutture. Nel corso del periodo, sono state demolite e confiscate tre tende, finanziate da donatori e fornite come aiuto umanitario post-demolizione; sfollati quindi, per la terza volta, 15 palestinesi, tra cui quattro minori. Altre quattro tende, finanziate da donatori, sono state confiscate. In un altro caso, nella comunità pastorizia di At Tabban (Hebron), le forze israeliane hanno confiscato materiale fornito da un’organizzazione internazionale per la riparazione di sette abitazioni: questa è una delle 14 comunità della zona Massafer Yatta a rischio di trasferimento forzato, a causa della designazione dell’area come “zona per esercitazioni a fuoco”.

Nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno notificato a tre famiglie palestinesi ordini di sfratto da attuare entro 20 giorni. Questo consegue ad una sentenza di un tribunale israeliano a favore di ‘Ateret Cohanim, organizzazione di coloni che rivendica la proprietà dell’edificio. La stessa organizzazione ha anche avviato un procedimento legale contro altre tre famiglie dello stesso quartiere. Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani Ir Amin, a Gerusalemme Est, circa 130 famiglie palestinesi sono soggetti a procedimenti giudiziari, nel contesto delle attività di insediamento [di israeliani] nel cuore dei quartieri palestinesi.

In Area C, le autorità israeliane hanno spianato con bulldozer una zona agricola vicino al villaggio di Shufa (Tulkarem), perché “terra di stato”; nel corso dell’operazione hanno distrutto una grande serra di pomodori, 4.500 mq di terra coltivata a spinaci e una rete di irrigazione; hanno inoltre sradicato e sequestrato 150 ulivi e 40 alberi di limone. I beni in questione costituivano la principale fonte di reddito per nove famiglie, composte da 59 persone. Secondo Peace Now, nel mese di ottobre di quest’anno, nei villaggi di Jinsafut (Qalqiliya) e Deir Istiya (Salfit), le autorità israeliane hanno dichiarato “terra di stato” 30.000 mq di terra, per consentire la legalizzazione retroattiva di strutture esistenti, oltre che nuove costruzioni nella colonia israeliana di Karnei Shomron.

Il 4 e il 7 dicembre, le forze israeliane hanno sparato numerose granate verso la zona di Fukhari, ad est di Khan Younis e contro un luogo di addestramento militare a sud-est della città di Gaza, causando danni ad alcune case adiacenti; il contesto di questi incidenti rimane poco chiaro. Inoltre, in almeno 15 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro palestinesi nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, senza causare vittime o danni; sono inoltre entrati nella Striscia di Gaza in due occasioni, durante le quali hanno effettuato operazioni di livellamento del terreno e scavi.

Gruppi armati palestinesi di Gaza hanno sparato diversi razzi verso Israele, tutti ricaduti in Gaza. In due casi, gruppi armati palestinesi hanno aperto il fuoco contro veicoli militari israeliani nei pressi della recinzione che circonda Gaza; le forze israeliane hanno risposto sparando con mitragliatrici pesanti. Non sono stati segnalati feriti.

È stato riferito che l’8 dicembre, 14 palestinesi sono rimasti intrappolati per quattro ore in un tunnel per il contrabbando, sotto il confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. Il tunnel è crollato prima che una squadra palestinese di soccorso riuscisse a raggiungerli: sette i feriti.

Due palestinesi (uno in possesso di cittadinanza israeliana) sono stati feriti in due diversi attacchi di coloni israeliani: il conducente di un bus israeliano che è stato aggredito vicino alla colonia di Betar Illit (Betlemme) e un pastore che è stato attaccato dal cane di un colono israeliano nella parte settentrionale della Valle del Giordano. Sono stati segnalati ulteriori episodi di impossessamento di proprietà, impedimento degli spostamenti di palestinesi e intimidazioni; ad esempio, nella zona H2 di Hebron, ad alunni ed insegnanti è stato impedito di raggiungere la loro scuola.

Nel periodo in esame, tre coloni israeliani sono stati arrestati, e sono attualmente sotto interrogatorio, in relazione all’attacco incendiario del 6 settembre nel villaggio di Duma, che provocò la morte di tre membri della stessa famiglia [palestinese] e gravi lesioni ad un altro membro.

Oltre i ferimenti di israeliani riportati sopra (paragrafo 1), sei coloni israeliani, tra cui un minore, sono rimasti feriti dal lancio di pietre contro veicoli in transito nei governatorati di Betlemme, Hebron e Ramallah, in Cisgiordania.

Il governatorato di Hebron continua ad essere la zona più colpita dalle restrizioni di movimento, con conseguenti lunghi ritardi e interruzioni all’accesso a servizi e mezzi di sussistenza per gran parte della popolazione. Tutti gli itinerari (incluse le strade sterrate) che conducono alle principali arterie di traffico (strade 60, 356, 35 e 317) sono rimasti o interamente bloccati per il transito dei veicoli, o sono controllati da posti di blocco “volanti” dispiegati per gran parte del tempo. Il blocco totale include tre delle strade principali di accesso alla città di Hebron, così come gli ingressi principali ad As Samu’, Bani Nai’m e al campo profughi di Al Arrub. L’accesso dei palestinesi all’area di insediamento [colonico], all’interno della zona di Hebron City sotto controllo israeliano (H2), è rimasto fortemente limitato, includendo il divieto di ingresso per i maschi tra i 15 e i 25 anni in alcune aree (via Shuhada e [quartiere di] Tel Rumeida), ad eccezione dei residenti.

I movimenti dei palestinesi, in alcune parti della Cisgiordania settentrionale e centrale, continuano ad essere impediti da posti di blocco e altri ostacoli. Il 9 dicembre, a seguito di una sparatoria, due delle strade principali della città di Tulkarem sono state bloccate con cancelli in ferro, e da allora sono rimaste chiuse. A Ramallah il checkpoint che controlla il principale accesso orientale alla città (DCO checkpoint) è stato chiuso in entrambe le direzioni per due giorni. Contemporaneamente, nel resto del governatorato, i palestinesi continuano ad essere gravati dalla chiusura di altre importanti vie di accesso : un segmento della Old Road 60; l’ingresso orientale di Ein Yabrud (serve 40 villaggi); gli ingressi principali ai villaggi di ‘Abud, Sinjil e Al Mughayir. Per quattro giorni durante il periodo di riferimento, l’esercito israeliano ha chiuso il posto di blocco parziale di Nabi Salih, che interessa direttamente cinque villaggi della zona (circa 17.000 persone). Nel governatorato di Gerusalemme, circa 20.000 palestinesi continuano a risentire della chiusura dell’ingresso principale della città di Ar Ram, e di un posto di blocco permanente collocato ad uno degli ingressi del villaggio Hizma. A Gerusalemme Est, nel periodo di riferimento, sette dei nuovi checkpoint e blocchi stradali, schierati in ottobre 2015, sono stati rimossi, mantenendo operativi otto ostacoli, che pregiudicano l’ingresso e l’uscita dai quartieri di Issawiya, Sur Bahir e Jabal al Mukkabir.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni, il 3 e 4 dicembre, consentendo a 1.526 persone di uscire da Gaza e ad 860 di entrarvi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 39 giorni di aperture parziali.

_______________________ fine del testo del Rapporto ________________________

[1]  I dati OCHA per la protezione dei civili includono gli episodi che si sono verificati al di fuori dei Territori occupati solo se risultano coinvolti, sia come vittime che come aggressori, persone residenti nei Territori occupati. I feriti palestinesi riportati in questo rapporto includono solo persone che hanno ricevuto cure mediche da squadre di paramedici presenti sul terreno, nelle cliniche locali o negli ospedali. Le cifre sui feriti israeliani si basano su notizie di stampa.


Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 15 dicembre, secondo i media israeliani, due palestinesi sono stati uccisi con armi da fuoco dalle forze israeliane: avevano investito con i loro veicoli soldati israeliani che stavano conducendo una operazione di ricerca-arresto nel campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme).

“Associazione per la pace – gruppo di Rivoli”
Ezio R. e Giovanni L.V.

assopacerivoli@yahoo.it




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 8

di Alaa Tartir

Al-Shabaka Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è l’ottava parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

La parte è stata scritta da Alaa Tartir, il direttore di Al-Shabaka e anche ricercatore post dottorato al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra

Chi proteggerà e amplierà l’ondata palestinese di collera attualmente in corso nei territori occupati e come? Dovremmo tutti essere interessati a rispondere in modo approfondito a questa domanda. Il continuo sacrificio del popolo palestinese non deve essere sfruttato, ancora una volta, dalla tradizionale elite politica palestinese come carta [da giocare] in qualche nuova tornata di negoziati destinati a fallire. Non deve nemmeno diventare semplicemente un modo per le autorità di far sfogare la rabbia dei giovani.

L’incapacità prolungata della dirigenza tradizionale palestinese di realizzare le aspirazioni dei palestinesi ha fornito un’opportunità alle nuove avanguardie, quali gli attivisti della società civile palestinese e gli oppositori dell’ANP. Peraltro costoro devono ancora sfruttare appieno quest’occasione. C’è bisogno di un completo cambiamento della classe dirigente palestinese. Ci vorranno tempo, risorse e una determinazione politica nonché una mobilitazione di massa nei momenti cruciali. Gli obiettivi politici e le forme di lotta sono le questioni fondamentali a cui dare una risposta. L’alternativa sta prendendo forma, ma è ancora giovane come i ragazzi che si stanno ribellando. È importante occuparsi di tali questioni subito: senza il sostegno necessario e gli strumenti per coordinare i tentativi e le iniziative , il movimento rapidamente morirà.

Le nuove avanguardie palestinesi devono agire ora per mettere insieme i loro sforzi per creare una strategia di lotta che faccia crescere piuttosto che prosciugare le potenzialità e le energie dell’ondata [di collera]. È un compito arduo, ma è l’unico modo per evitare un’altra delusione che aumenterebbe l’attuale frustrazione e il disorientamento. I momenti di trasformazione storica non sono mai facili.

Quest’impostazione coinvolgerà su diversi fronti momenti di scontro. In altre parole, ciò non dovrebbe essere limitato a una presenza fisica davanti ai checkpoint, ma [occorre] estenderlo all’ambito politico, economico, a quello dei media e ad altri. Indubbiamente lo scontro in una situazione di colonizzazione è l’unico modo per cambiare lo squilibrio di potere, affrontando la situazione sul terreno e costruendo un percorso per il futuro.

Gli attuali movimenti [organizzati] dai giovani e dalle nuove avanguardie della società civile incarnano le politiche dello scontro: stanno agendo collettivamente per sfidare le autorità e la loro pretesa di essere rappresentativi [della volontà del popolo palestinese]. Tuttavia abbiamo bisogno di passare da una situazione odierna di rabbia a un movimento che rappresenti la società palestinese nella sua interezza, trasformandola in una società fondata sui movimenti sociali e sulle reti trasversali che si occupano di questioni politiche, economiche e sociali. Ciò può essere fatto basandosi sulle reti sociali esistenti e su altre per proporre obiettivi di interesse generale, lavorando per la liberazione dalla colonizzazione e sfidando le autorità repressive e le elite. Ciò può trasformare l’attuale ondata di collera in una situazione permanente di scontro con il colonizzatore così come in un movimento sociale che avvicini il colonizzato alla libertà e all’autodeterminazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 7

di Belal Shobaki

Maannews .  da Al-Shabaka

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la settima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questo pezzo è stato scritto da Belal Shobaki, assistente e professore nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Hebron, Palestina e membro dell’Associazione americana di studi politici

.

L’attuale movimento popolare rende ancora più urgente che i partiti politici abbandonino i propri interessi e contribuiscano alla crescita della partecipazione della società civile. Fatah e Hamas hanno un’occasione d’oro per attivarsi al di là delle loro preoccupazioni riguardo alle questioni istituzionali della gestione dell’Autorità nazionale palestinese e per agire in modo consono alla loro identità di movimenti di liberazione sotto occupazione. Tutte le fazioni dovrebbero unirsi nel proporre un programma nazionale che faccia a meno di Oslo e delle strutture istituzionali che rendono inefficace la lotta dei palestinesi. Possono usare la loro struttura mediatica per ricostruire una cultura politica, economica e sociale che sostenga la sollevazione piuttosto che per opporsi uno all’altro e mobilitarsi per la propria fazione. Ciò comporterebbe un mutamento nelle tranquille abitudini consumistiche dei palestinesi specie in Cisgiordania.

Fatah potrebbe trovarsi in difficoltà ad agire in tal modo, dato che si identifica con le istituzioni dell’Autorità nazionale palestinese. Tuttavia, Fatah avrebbe ancora di più da perdere se non riuscisse a cambiare [atteggiamento]. L’umore complessivo dell’opinione pubblica palestinese, compreso l’elettorato di Fatah, dissente completamente dal pensiero della dirigenza politica secondo cui gli attuali avvenimenti sono solamente “un’ondata di rabbia” che può essere controllata dalle forze di sicurezza e sfruttata per riprendere i negoziati con Israele. L’incapacità delle fazioni palestinesi a mobilitarsi per un aperto scontro contro l’occupazione mentre la sollevazione dei giovani continua produrrà senza dubbio dei dirigenti sul campo che saranno più capaci di dirigere gli avvenimenti rispetto a quelli che siedono nei loro uffici. Ciò porterà a una divaricazione ancora più ampia tra le forze che stanno agendo senza condizionamenti, vincoli di appartenenza e burocrati governativi.

Un simile movimento dovrebbe guardare al di là dell’alternativa tra Fatah e Hamas. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e la Jihad islamica potrebbero promuovere cortei e manifestazioni di grande impatto contro l’occupazione. Entrambi godono del rispetto del popolo palestinese e sono più liberi di Hamas, che in Cisgiordania è stato oggetto di una campagna di repressione sia da parte di Israele che dell’ANP. Queste due organizzazioni potrebbero lavorare con altre fazioni per sostenere un confronto aperto con l’occupazione israeliana e prendere l’iniziativa per la formazione di comitati di coordinamento per gestire la sollevazione. Questi comitati dovrebbero evolvere in seguito in una dirigenza condivisa che successivamente aderirebbe all’OLP come parte del programma per riformare l’organizzazione.

Tuttavia, creare una nuova area [politica] è condizionata rispetto al superamento della passata esperienza e in particolare della formula di Oslo per una soluzione a due Stati. Coloro che attualmente hanno il monopolio delle istituzioni politiche palestinesi sono gli stessi che sostengono ancora questa ipotesi. Se l’opinione pubblica trasforma la sollevazione in un rifiuto di Oslo, oltre alla lotta contro l’occupazione, o emergeranno nuovi dirigenti che perseguiranno nuove alternative oppure gli attuali dirigenti si sentiranno obbligati a cambiare il loro comportamento a parole e nella prassi politica.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 6

da Al-Shabaka Ma’an News

di Mjiriam Abu Samra

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la sesta parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Mjiriam Abu Samra, una ricercatrice a livello di dottorato in relazioni internazionali all’università di Oxford, il cui lavoro è incentrato sul movimento transnazionale degli studenti palestinesi ed il loro contributo al più complessivo movimento di liberazione in diversi periodi.

Per affrontare il problema fondamentale sul perché i partiti politici storici non sono riusciti finora a catalizzare l’attuale frustrazione dei giovani bisogna considerare il modo in cui i politici palestinesi sono stati trasformati, e in primo luogo lo spostamento del discorso politico e la strategia dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, di cui fanno parte quasi tutti i gruppi politici palestinesi. Ndtr.] dalla lotta per la liberazione alla costruzione di uno Stato. Ciò ha privato la lotta dei suoi principi fondamentali e ha lentamente indebolito la sua strategia: una normalizzazione neocolonialista con l’occupante ha preso il posto dell’originale quadro anticoloniale che aveva modellato la lotta. In conseguenza di ciò, il movimento nazionale è rimasto paralizzato nella sua capacità di mobilitazione della base.

La relazione neocoloniale tra i colonizzatori e i colonizzati ha isolato la dirigenza palestinese dalla sua base popolare e la lotta si è bloccata. La crisi tra Hamas e Fatah è una dimostrazione della complessa condizione coloniale imposta ai palestinesi e dell’incapacità dei partiti politici palestinesi di dare la priorità alla volontà del loro popolo rispetto agli interessi neoliberali. Benché la sua manifestazione più acuta sia la crisi tra Fatah ed Hamas, il progetto neoliberale inaugurato da [gli accordi di] Oslo ha colpito tutti i partiti palestinesi a vario livello e li ha resi incapaci di rappresentare la volontà popolare.

Prendendo in considerazione questo quadro complessivo, è improbabile vedere un ruolo significativo per i partiti politici tradizionali nell’attuale rivolta – a meno che essi riprendano la visione politica e il discorso anticolonialista del movimento palestinese. D’altra parte, un tale cambiamento radicale potrebbe rappresentare la completa estinzione della classe dirigente e lo smantellamento del complesso di interessi economici e politici nei territori palestinesi occupati. E’ un rischio che la leadership palestinese per il momento non sembra intenzionata a prendersi.

Di conseguenza, qualunque altro sforzo per dare una dirigenza solida e duratura ai movimenti spontanei sul terreno ha la necessità di rimettere al centro della lotta la liberazione e la giustizia. E’ più probabile che i giovani palestinesi possano eventualmente giocare un ruolo nella ridefinizione radicale delle politiche palestinesi piuttosto che questi partiti politici tradizionali possano realmente contribuire all’attuale ribellione. A questo proposito, dobbiamo prestare attenzione ai nuovi sforzi da parte dei giovani palestinesi della diaspora (shatat) e nella Palestina storica, che stanno offrendo un solido quadro politico all’attuale rivolta e, in generale, al malcontento palestinese. E’ troppo presto per valutare il potenziale strategico di queste iniziative, comunque è importante mettere in luce il discorso radicale che stanno sostenendo.

E’ anche importante riconoscere, soprattutto, gli strenui sforzi di riunificare -quanto meno simbolicamente, per il momento – il messaggio politico di tutte le componenti della società palestinese: sotto occupazione in Cisgiordania e a Gaza, nella “Palestina del ’48 [cioè in Israele. Ndtr.]” e nella diaspora. Si veda, ad esempio, la mobilitazione transnazionale invocata dai giovani palestinesi da ogni parte del mondo il 29 novembre, che le Nazioni Unite hanno designato come il giorno internazionale di solidarietà con il popolo palestinese.

Simili sforzi rappresentano un nuovo cammino per i politici palestinesi che intendano unificare la società palestinese attorno a una visione condivisa di giustizia, liberazione e ritorno [dei profughi]. Queste incipienti iniziative possono fornire un nuovo spazio per l’emergere di una dirigenza nazionale in grado di elaborare – e sostenere – una strategia innovativa di resistenza per la lotta palestinese.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)