Guerra a Gaza: in seguito all’astensione degli USA, l’ONU approva una risoluzione che richiede il cessate il fuoco.

Redazione di MEE

25 marzo 2024 – Middle East Eye

Per la prima volta in cinque mesi di guerra il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato per un cessate il fuoco a Gaza dopo che gli USA si sono astenuti anziché porre il veto

Lunedì il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione che chiede un “cessate il fuoco immediato” a Gaza per il restante mese sacro musulmano del Ramadan, dopo che gli Stati Uniti si sono astenuti dal voto rinunciando a porre il veto.

La risoluzione, appoggiata da 14 nazioni tranne gli USA, chiede anche il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani detenuti a Gaza e “l’urgente necessità di aumentare il flusso” degli aiuti nell’enclave assediata.

Amar Bendjama, ambasciatore dell’Algeria all’ONU e uno dei promotori della risoluzione, si è felicitato per la svolta ed ha affermato che il Consiglio di Sicurezza “si è finalmente assunto le sue responsabilità in quanto organo principale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”.

Questo bagno di sangue è continuato per troppo tempo”, ha detto.

Il voto di lunedì è avvenuto mentre i leader israeliani continuavano a ribadire l’intenzione di proseguire con l’offensiva sul terreno su vasta scala a Rafah, la città al confine meridionale dove attualmente sono rifugiati un milione e mezzo di palestinesi.

Dall’attacco del 7 ottobre più del 90% dei 2.300.000 abitanti di Gaza è stato sfollato e almeno 32.000 palestinesi sono stati uccisi, in maggioranza donne e bambini.

Nonostante i crescenti allarmi da parte delle agenzie umanitarie e della comunità internazionale secondo cui un assalto a Rafah sarebbe una catastrofe, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sostenuto che Israele non può raggiungere il suo obbiettivo di una “vittoria totale” contro Hamas senza aggredire la città di confine.

In seguito al voto Netanyahu ha annullato per protesta la prevista visita di una delegazione di alto livello a Washington ed ha accusato gli USA di ritrattare quella che ha detto essere stata una “posizione di principio”.

Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale israeliano Tzachi Hanegbi e il Ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer, un importante uomo di fiducia di Netanyahu, avrebbero dovuto recarsi a Washington per ascoltare le contro-proposte americane riguardo all’offensiva su Rafah.

Subito dopo il voto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca John Kirby ha detto ai giornalisti che l’astensione non rappresenta un “cambio nella politica” dell’amministrazione.

Non c’è ragione perché questo sia considerato una forma di escalation”, ha detto. “Nulla è cambiato nella nostra politica. Vogliamo ancora vedere un cessate il fuoco. Vogliamo ancora liberare tutti gli ostaggi. E vogliamo ancora vedere più assistenza umanitaria verso la popolazione di Gaza.”

La decisione di Washington di astenersi attesta settimane di critiche reciproche tra Israele e l’amministrazione Biden.

Da dicembre Biden e altri alti dirigenti USA hanno contestato Israele rispetto alla sua condotta nella guerra, ma il voto di lunedì segna il punto di critica più formale degli USA.

Gli USA hanno posto tre volte il veto rispetto alle richieste di cessate il fuoco. Inoltre Washington aveva bloccato anche un emendamento che chiedeva un cessate il fuoco che la Russia aveva cercato di includere in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza a dicembre.

La settimana scorsa gli USA avevano annunciato ufficialmente di essere pronti a limitare il proprio supporto a Israele, presentando una risoluzione per riconoscere “la necessità” di un “immediato e prolungato cessate il fuoco”.

Tuttavia quel testo era stato bloccato da Russia e Cina, che insieme agli Stati arabi lo hanno criticato per non aver chiesto esplicitamente che Israele fermasse la campagna contro Gaza.

Discussioni sulla risoluzione

Gli Stati Uniti hanno ipotizzato una risoluzione di cessate il fuoco fin da febbraio come strumento di pressione su Israele, essendo Washington sempre più frustrata da ciò che Biden ha definito “bombardamento indiscriminato” di Israele su Gaza e dalla mancata predisposizione di un piano post-guerra per l’enclave assediata, che l’ONU ha avvertito essere sull’orlo della carestia.

Frank Lowenstein, ex inviato speciale per i negoziati israelo-palestinesi nell’amministrazione Obama, aveva in precedenza detto a MEE che le crescenti critiche degli USA alle Nazioni Unite hanno rappresentato “un avvertimento a Bibi (il primo ministro Benjamin Netanyahu)”, aggiungendo che “gli israeliani sono molto sensibili riguardo all’ONU. Lo considerano un organismo ostile e confidano sugli USA perché li proteggano in quella sede.”

La risoluzione è dovuta al lavoro dei membri non permanenti del Consiglio, che hanno negoziato con gli Stati Uniti durante il weekend per evitare un ulteriore veto, secondo fonti diplomatiche che hanno espresso un certo ottimismo sulla sua approvazione.

Diversamente dal testo di venerdì, la richiesta di cessate il fuoco nella nuova risoluzione non è collegata ai colloqui in corso, condotti dal Qatar con il sostegno di Stati Uniti ed Egitto, per fermare il conflitto in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas.

Il nuovo testo inoltre deplora “tutti gli attacchi contro civili e obbiettivi civili come anche ogni violenza e ostilità contro civili e tutti gli atti di terrorismo”.

Israele ha criticato il Consiglio di Sicurezza per le precedenti risoluzioni che non hanno specificamente condannato Hamas.

Gli attacchi compiuti da Hamas nel sud di Israele hanno ucciso 1.200 persone ed hanno portato alla cattura di 250 ostaggi condotti a Gaza.

In risposta Israele ha lanciato una sanguinosa offensiva sull’enclave assediata che ha ridotto in macerie la maggior parte della striscia costiera mediterranea.

Un recente rapporto dell’ONU ha avvertito che la carestia è imminente nel nord di Gaza, una crisi di cui molti hanno accusato Israele per aver usato la fame come arma di guerra.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Gli USA minacciano di tagliare i fondi all’Autorità Palestinese se ottiene il riconoscimento da parte dell’ONU e se appoggia la causa contro Israele presso la CPI

Redazione di Middle East Monitor

25 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il governo degli Stati Uniti ha approvato una legge che minaccia di limitare il finanziamento all’ Autorità Nazionale Palestinese (ANP) se ottiene il riconoscimento come Stato presso le Nazioni Unite e se cerca di agire contro Israele alla Corte Penale Internazionale (CPI), insieme ad una miriade di altre restrizioni su aiuti e finanziamenti ai palestinesi sotto occupazione.

Nella risoluzione votata sabato dal Senato statunitense e firmato dal presidente Joe Biden, si afferma che “nessuno dei fondi stanziato sotto la voce ‘Fondo di supporto economico’ in questa legge può essere disponibile per assistenza all’Autorità Nazionale Palestinese se dopo la data di adozione di questa legge …i palestinesi otterranno lo stesso riconoscimento degli Stati membri oppure la piena affiliazione come Stato presso le Nazioni Unite o ogni singola agenzia [ONU] fuori da un accordo negoziato tra Israele ed i palestinesi.”

Un’altra ragione per tagliare il supporto economico per l’ANP sarebbe se “i palestinesi iniziassero un’indagine autorizzata per via giudiziaria presso la Corte Penale Internazionale (CPI), o la supportassero attivamente, che sottoponga cittadini israeliani ad una inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Nel documento si afferma comunque che “il Segretario di Stato” degli Stati Uniti “può revocare la restrizione” riguardo al riconoscimento ONU della sovranità palestinese “se il segretario certifica alle Commissioni sugli Stanziamenti [del parlamento USA] che farlo è nell’interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti.” Lo stessa autorizzazione per una revoca a quanto pare non si applica alla seconda restrizione sui procedimenti legali contro Israele presso la CPI.

Un’altra parte rilevante della legge di finanziamento da 1.200 miliardi di dollari – che è rivolta a prevenire il blocco del governo statunitense e chiudere il bilancio annuale – è la prosecuzione del divieto di finanziamento per il United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] (UNRWA) fino al 2025, nonostante il fatto che sia la principale agenzia sul terreno nella Striscia di Gaza nel pieno della crescente carestia e la crisi umanitaria laggiù.

Allo stesso tempo, la legge alloca 3,8 miliardi di dollari aggiuntivi per aiuti militari ad Israele dal budget di 886 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa statunitense, consentendo all’occupazione [isreliana] di continuare la sua offensiva contro il territorio palestinese assediato e di commettere crimini di guerra contro la popolazione, di cui sono già state uccise oltre 32.000 persone.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il carattere performativo della violenza israeliana

Patrizia Cecconi

24 Marzo 2024, Comune info

I cinque mesi di violenza militare più distruttiva che Gaza abbia mai conosciuto hanno oggi il loro apice nella guerra agli ospedali. Colpire con intensità il settore sanitario per provocare un orrendo sterminio è definibile violenza performativa, cioè una violenza che non descrive né prescrive un’azione ma ne realizza di fatto il compimento. La pulizia etnica attuata oggi da Israele ma cominciata molti anni fa, le gigantesche responsabilità dei grandi media, l’ipocrisia della comunità internazionale: intervista ad Angelo Stefanini, già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati

Angelo Stefaninii medico, accademico, fondatore del Centro di Salute Internazionale e già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati, il 20 febbraio ha partecipato a un convegno a Palazzo d’Accursio a Bologna che aveva per tema il cessate il fuoco a Gaza. La Comunità ebraica e altre associazioni di italiani di religione ebraica hanno protestato vivamente perché hanno ritenuto lesiva della libertà di uccidere di Israele la richiesta di cessare il fuoco.

Il convegno si è comunque svolto e l’intervento del professor Stefanini, inerente l’ambito sanitario, è risultato pari a un pugno nello stomaco per chiunque abbia una coscienza e, con essa, una sensibilità umana e il necessario senso critico per interpretare la realtà nonostante la vergognosa manipolazione mediatica. La relazione di Stefanini aveva per titolo “Gaza: la guerra agli ospedali” e, a distanza di un mese, abbiamo deciso di intervistarlo proprio sul contenuto di quella relazione che, per quanto scioccante, risulta meno grave di quanto successo in seguito come se, avendo testato la possibilità di agire impunito, Israele avesse scientemente deciso di non avere più limiti nel procedere allo sterminio indisturbato di decine di migliaia di civili, utilizzando anche armi fornite dai paesi che, con disgustosa ipocrisia, mentre lo riforniscono di strumenti micidiali, lo invitano ad ammazzare “un po’ di meno”.

Col professor Stefanini ci siamo conosciuti alcuni anni fa proprio nella Striscia di Gaza dove, con funzioni diverse, seguivamo l’équipe cardio-chirurgica del dr. Luisi del PCRF che operava i bimbi con seri problemi cardiaci che non potevano uscire dalla Striscia di Gaza sotto l’assedio israeliano, ora sotto le bombe o sotto le macerie.

Nel tuo intervento, tra l’altro, scrivi: “Il bombardamento dell’ospedale arabo di Al-Ahli il 18 ottobre… è stato da alcuni visto come un test per sondare la risposta internazionale agli inaccettabili attacchi alla sanità di Gaza”. Il 18 ottobre erano passati appena dieci giorni dall’inizio della guerra contro la resistenza e i civili palestinesi. Credi davvero che quello sia stato un test?

Considerato che questo caso è stato seguito, il 31 ottobre, dal bombardamento dell’unico ospedale oncologico, il Turkish-Palestinian Friendship Hospital e il 10 novembre dall’ospedale specialistico pediatrico Al Rantisi, appare chiaro che questi importanti centri di cura non sono stati colpiti a caso, bensì intenzionalmente come bersaglio simbolico allo scopo di distruggere i gangli più sensibili di sopravvivenza, i più vulnerabili del sistema. La violenza nei conflitti armati contro l’assistenza sanitaria è ormai un fenomeno molto diffuso in tutto il mondo. L’anno 2022 registra il triste record di 1.989 attacchi contro strutture sanitarie, il 45 per cento in più rispetto al 2021, e il numero totale peggiore da quando la Coalizione per la tutela della salute nei conflitti ha iniziato il suo macabro conteggio. Nella Striscia di Gaza non è una novità. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nei conflitti del 2008-2009, 2012 e 2014, sono state gravemente danneggiate o distrutte più di 200 strutture sanitarie e più di 150 ambulanze, oltre 30 operatori sanitari uccisi, più di 175 feriti. Il sistema sanitario di Gaza non si è mai completamente ripreso.

Già, nella Striscia di Gaza non è una novità. Da un sondaggio approssimativo è venuto fuori che molte persone – non interessate alla Palestina, ma semplici telespettatori – hanno notato il doppio standard con cui i media trattano le due guerre al momento più considerate, con un’attenzione empatica molto forte per l’Ucraina, sia verso il popolo che verso l’esercito; mentre nei confronti di Gaza, se i cronisti mostrano empatia la mostrano solo verso gli israeliani e addirittura, mettono in dubbio lo spaventoso ammontare dei morti e dei feriti palestinesi nonostante le immagini delle distruzioni parlino da sé.

In termini comparativi, confrontando le due guerre citate, nei due mesi che vanno dal 7 ottobre al 9 dicembre 2023, gli operatori sanitari palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza sono stati 286, cioè oltre tre volte di più di quelli ucraini (78) uccisi nell’intero anno 2022. E mi sono fermato al 9 dicembre, ma sappiamo che la mattanza è continuata, e con maggiore intensità, con sanguinosi attacchi a tutti gli ospedali.

In questi giorni, quel che sta succedendo allo Shifa Hospital dovrebbe sollevare lo sdegno e l’ira di tutte le istituzioni internazionali ma queste, al contrario, o tacciono o tutt’al più pigolano. Peggio ancora fanno vari governi, tra cui quello italiano, che senza un residuo di pudore, ripetono l’inaccettabile narrazione israeliana e dichiarano il loro immutabile sostegno a Israele.

Vedi, io sono un medico e non è mio compito entrare in questioni politiche, però posso dire che a febbraio l’ultimo ospedale ancora funzionante pienamente come tale, l’ospedale Nasser, il secondo più grande nella Striscia di Gaza, è stato messo completamente fuori servizio. Un numero imprecisato di pazienti è morto per mancanza di elettricità e interruzione dei respiratori e delle incubatrici. Il portavoce del Ministero della Sanità di Gaza, ha affermato che l’ospedale è stato trasformato dall’IDF in “una caserma militare”. Nel periodo compreso tra il 7 ottobre 2023 e l’11 febbraio 2024, sono stati 30 gli ospedali messi totalmente fuori servizio; quelli minimamente funzionanti ridotti a “ambulatori di pronto soccorso”; 53 centri sanitari demoliti e 150 danneggiati; 123 ambulanze completamente distrutte; 340 operatori sanitari uccisi e 99 arrestati. Questo solo fino all’11 febbraio e oggi siamo al 22 marzo e la situazione è ancora peggiore.

Perché questo accanimento contro i servizi sanitari?

Perché gli attacchi ai servizi sanitari non solo colpiscono direttamente il personale, ma anche l’intera popolazione che dipende da loro per l’assistenza sanitaria. Sotto una pioggia di bombe, attualmente la Striscia di Gaza ospita una popolazione di ammalati e o bisognosi di cure composta da: 10.000 malati di cancro senza accesso ai farmaci, 350.000 con malattie cardiovascolari e diabete privi di farmaci; oltre 218.000, metà dei quali bambini sotto i cinque anni, con varie forme di diarrea dovuta prevalentemente alla situazione igienica e nutrizionale attuale; circa 50.000 donne incinte senza accesso all’assistenza sanitaria, circa 183 bambini che nascono ogni giorno e oltre 5.000 nati il mese scorso, tutti bisognosi di cure e nutrizione adeguate; 388.000 casi di malattie respiratorie acute, 8.000 casi di infezione da epatite virale, 55.000 con pidocchi e scabbia, 42.000 forme varie di infezioni cutanee. La violenza, inoltre, distrugge i servizi sanitari proprio nel momento in cui sono più necessari. Basti pensare alle ferite non medicate che si infettano, ai tagli cesarei e alle amputazioni senza anestetici o antidolorifici.

Un’informazione onesta dovrebbe fornire questi dati, invece le nostre TV, e parlo di TV perché è la comunicazione televisiva quella che maggiormente “crea” la pubblica opinione, evita accuratamente di farlo e qui si torna al doppio standard di cui anche i meno attenti si sono resi conto. Come si può far intendere all’opinione pubblica l’entità non solo numerica ma anche volutamente disumana di questo sterminio?

Il chirurgo della Croce Rossa Internazionale Tom Potokar così messaggiava il mese scorso dall’European Gaza Hospital di Khan Younis: “Se potessi portare qui una persona che ha dubbi, e metterla qui, e farle sentire l’odore della carne in decomposizione, vedere i vermi che strisciano dalle ferite di una persona che ha la carne necrotica e sentire le urla dei bambini perché non c’è abbastanza antidolorifici, e vogliono la loro mamma, che non c’è perché è morta – credo che le persone potrebbero pensarla un po’ diversamente”.

Il Diritto internazionale non dovrebbe impedire questo accanimento contro i servizi sanitari?

Naturalmente i servizi sanitari sono protetti dal Diritto Internazionale. Secondo la IV Convenzione di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi, la Risoluzione 2286 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2016, l’articolo 8 dello Statuto di Roma (che ha istituito la Corte penale internazionale), le strutture e il personale sanitario non possono essere attaccati a meno che vengano utilizzate per commettere un “atto dannoso per il nemico”. In caso di dubbio, si presume che NON vengano utilizzate a tale scopo. Se pure un ospedale perdesse il suo status protetto, dice il Diritto internazionale, qualsiasi operazione militare deve adottare misure per proteggere i pazienti, il personale e gli altri civili.

Sembra che per Israele viga un diritto di eccezione anche in questo. Lo aveva già mostrato nelle aggressioni precedenti, in particolare in “margine protettivo” e in “piombo fuso” ma ora sembra aver raggiunto l’inimmaginabile, soprattutto per uno Stato che viene considerato democratico.

Secondo il chirurgo britannico-palestinese Dr Ghassan Abu Sitteh, rientrato dopo 43 giorni di sala operatoria a Gaza, e con l’esperienza professionale delle guerre precedenti, in termini quantitativi la differenza che esiste tra i precedenti attacchi israeliani a Gaza e quello in corso è quella esistente tra semplici inondazioni e uno tsunami. Nel caso attuale, inoltre, è importante notare che il bersaglio dei bombardamenti non è rappresentato da singoli, specifici edifici, ma da interi quartieri. La novità decisamente più rilevante è comunque che il riemergere della accusa israeliana ai tunnel e agli ospedali che nasconderebbero armi e centri di comando di Hamas ha reso evidente la decisione di Israele di prendere di mira il settore sanitario, comprese le ambulanze. Infatti il 3 novembre 2023 viene colpito un convoglio di ambulanze in partenza dall’ospedale al-Shifa, il più grande ospedale pubblico dell’intera Palestina occupata, con 15 persone uccise e decine ferite. L’ospedale viene in seguito circondato e bloccato e al suo interno le forze di occupazione israeliane prendono di mira le parti più critiche e vulnerabili, come l’ossigeno delle incubatrici e il sistema di riscaldamento elettrico. Il Dr. Abu Sitteh chiama questo comportamento “violenza performativa”, una violenza che “non descrive né prescrive un’azione ma ne realizza effettivamente il compimento”, e che lancia un messaggio scioccante su quanto Israele intende fare. I corpi dei bambini prematuri tenuti in mostra di proposito, privati della protezione salvavita delle incubatrici, hanno lo stesso significato: fanno parte del carattere performativo della violenza israeliana.

Questa “violenza performativa” quindi rappresenta una disumanità non casuale o mezzo militare necessario, ma una crudeltà preordinata e già fine in sé stessa?

Chi sta sul campo, come il dr. Abu Sitteh, ritiene che sia così. Esaminiamo ad esempio il tipo di ferite, è un aspetto che merita approfondimento e non soltanto dal punto di vista medico perché le ferite che gli operatori sanitari incontrano quotidianamente aiutano a far luce sul genere di violenza che colpisce la popolazione di Gaza.

Ustioni estese oltre il 50% della superficie corporea con assenza significativa di altre ferite, che indicano l’uso di bombe incendiarie senza frammenti o schegge, un tipo di arma ideata per incendiare o distruggere con il fuoco.

Ustioni da fosforo bianco molto distintive perché caratterizzate da ferite che sprigionano del fumo bianco. Il fosforo bianco è un combustibile solido che in presenza di ossigeno prende fuoco spontaneamente; si spegne solo quando è privato totalmente di ossigeno o se è consumato del tutto. A contatto con pelle esposta, produce ustioni chimiche dolenti necrotiche, a tutto spessore, dovute alle due componenti, la chimica e la termica. Poiché il fosforo bianco ha un’elevata solubilità nei grassi, le ferite si estendono spesso in profondità nei tessuti sottostanti, con il risultato, quando non di lenta morte, di un ritardo nella guarigione della ferita. Il fosforo bianco può essere anche assorbito da tutto il corpo, con effetti sistemici su sangue, reni, fegato e cuore.

Orribili amputazioni, come da ghigliottina, dovute alle bombe sperimentate e utilizzate per la prima volta sull’Al-Ahli Hospital, una nuova generazione di missili R9X Hellfire di produzione statunitense noti anche come “Ninja missile” munito di lame rotanti che vengono scagliate tutto intorno al momento dell’esplosione.

Quindi se all’ospedale Al Ahli, sono state usate queste armi, la controversia sulla responsabilità del bombardamento di quel primo ospedale dovrebbe essere chiarita e l’ipotesi che sia stato un test prende ancora più forma.

Il fatto incontestabile è che colpire il settore sanitario con tale intensità e risonanza emotiva fa supporre l’esistenza di una strategia volta a smantellare tutte le necessità della vita e, per alcuni, è la dimostrazione dell’intenzione genocidaria di chi la persegue. Dalla distruzione dei sistemi fognari, degli impianti di desalinizzazione dell’acqua, degli impianti di energia solare e dei panifici, al prendere di mira ambulanze ed équipe mediche, l’uccisione intenzionale di centinaia di medici, paramedici e infermieri, questi attacchi contribuiscono agli sforzi israeliani volti a infliggere un disastro di un tale impatto da portare avanti il progetto di pulizia etnica anche dopo la fine della guerra. Si tratta di una vera e propria guerra psicologica attraverso le sofferenze dei corpi, è la psy war o, più comunemente, propaganda, ossia “un’azione praticata con metodi psicologici per evocare in altre persone una predeterminata reazione psicologica”. La distruzione di strutture essenziali può avere un impatto devastante sul morale e lo stato d’animo della popolazione.

Quindi anche il diffondersi di malattie può rappresentare una strategia voluta?

Per secoli le malattie hanno avuto un importante ruolo nella guerra; le organizzazioni internazionali stanno cercando di lanciare l’allarme su questa situazione. L’Unicef ha avvertito: “La mancanza di acqua, cibo, medicine e protezione è una minaccia più grande delle bombe per la vita di migliaia di persone a Gaza”. La portavoce dell’OMS ha avvertito che i tassi di diarrea tra i bambini, già all’inizio di novembre, erano più di cento volte i livelli normali. Il 16 febbraio, l’UNFPA ha evidenziato che in tutta Gaza sono stati segnalati 500.000 casi di malattie trasmissibili, tra cui meningite e diarrea acuta. Sottolineando gli immensi rischi che corrono le donne incinte a Gaza, l’UNFPA ha avvertito: “Se le bombe non uccidono le donne incinte, se le malattie, la fame e la disidratazione non le raggiungono, il semplice parto potrebbe farlo”.

Ci si aspetta una forte crescita del tasso di mortalità?

Si stima che i tassi grezzi di mortalità (cioè il numero di morti ogni 1.000 persone per anno) sono in media più di 60 volte più alti rispetto a quando è iniziato ogni conflitto. Estrapolando questo dato alla situazione attuale a Gaza, dove il tasso di mortalità prima del conflitto era di 3,82 per mille nel 2021 (relativamente basso a causa della sua giovane popolazione), i tassi di mortalità potrebbero raggiungere 230 per mille nel 2024 se gli abitanti di Gaza continuano a non avere accesso a servizi igienico-sanitari, strutture mediche e alloggi permanenti. Insomma, ci troviamo di fronte alla prospettiva che quasi un quarto dei circa 2 milioni di abitanti di Gaza – quasi mezzo milione di esseri umani con un proprio nome, un proprio volto, una propria storia – muoia entro un anno. Si tratterebbe di un “eccesso in mortalità” in gran parte dovuto a cause sanitarie prevenibili e al collasso del sistema sanitario. Secondo la Prof Devi Sridhar dell’Università di Edimburgo, “Si tratta di una stima approssimativa, ma basata sui dati, che utilizza il numero spaventosamente reale di morti in conflitti precedenti e comparabili”. Il deliberato attacco alle infrastrutture sanitarie, la scarsità di forniture mediche e di carburante e il mancato accesso ai beni di prima necessità (tra cui acqua, cibo e aiuti vitali) sono tutti mezzi attraverso i quali l’annientamento dell’intero sistema sanitario di Gaza viene utilizzato come arma di guerra per amplificare la portata delle perdite umane inflitte ai civili nella Striscia. Non solo, ma questa guerra dimostra il sostegnodella società israeliana a una “soluzione finale” per la questione palestinese, prima provocando morte edistruzione, poi sfollando i sopravvissuti, quello che secondo la Corte Internazionale di Giustizia potrebbeconfigurarsi come genocidio.

Un genocidio, o un orrendo sterminio di civili attuato con un comportamento definibile violenza performativa esercitata su un popolo che chiede il suo diritto all’autoderminazione?

Sì, sono i fatti a dimostrarlo.

i Medico, ha lavorato per anni con ONG in Africa. Ha insegnato alle università di Leeds (UK), Makerere (Uganda) e Bologna, dove ha fondato il Centro di Salute Internazionale (CSI). Nella Palestina occupata è stato direttore dell’OMS (2002) e del programma sanitario italiano (2008-2011). Dal 2015, come volontario di PCRF (Palestinian Children’s Relief Fund), fino all’agosto 2023 ha compiuto missioni periodiche nella Striscia di Gaza collaborando al rafforzamento del sistema sanitario locale.




A 5 mesi dall’inizio della guerra gli abitanti sia della Cisgiordania che di Gaza giustificano l’attacco di Hamas

Amira Hass

24 marzo 2024 – Haaretz

Un sondaggio palestinese mostra un forte aumento del sostegno agli attacchi tra i gazawi, al 71% rispetto al 57% di tre mesi fa.

Secondo un nuovo sondaggio, più di cinque mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, accompagnata da pesanti restrizioni negli spostamenti e da arresti di massa in Cisgiordania, il sostegno dei palestinesi agli attacchi del 7 ottobre rimane alto e tra gli abitanti di Gaza è persino aumentato.

Il sondaggio, realizzato all’inizio di questo mese dal Centro Palestinese per la Ricerca di Politica e Sondaggi, ha anche rilevato che la maggioranza dei palestinesi non crede ancora che Hamas abbia perpetrato atrocità durante l’attacco.

Molti affermano anche di non aver visto immagini dell’attacco. A quanto pare, contrariamente alle aspettative israeliane, non vedono in Hamas il responsabile delle loro sofferenze e non lo puniscono riducendo il loro appoggio.

Ben il 71% degli intervistati gazawi sostiene che la decisione di Hamas di attuare l’attacco del 7 ottobre è stata corretta. Ciò rispetto al 57% del sondaggio precedente, condotto a dicembre. Solo il 23% ritiene sbagliata la decisione.

Un identico 71% degli abitanti della Cisgiordania la definisce corretta, anche se in calo rispetto all’82% di dicembre. Solo il 16% di chi ha risposto in Cisgiordania la ritiene sbagliata.

I ricercatori hanno intervistato 1.580 abitanti della Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e di Gaza tra il 5 e il 10 marzo. Per garantire la sicurezza dei ricercatori il sondaggio a Gaza è stato realizzato solo nelle aree in cui non erano in corso combattimenti, ossia Rafah, la parte centrale di Gaza e alcune zone di Khan Younis. Nessuna intervista è stata realizzata nel nord di Gaza doppiamente assediato.

Il dottor Khalil Shikaki, direttore del centro di ricerca e che ha supervisionato il sondaggio, ha affermato che il continuo appoggio all’attacco di Hamas in parte deriva dall’opinione che la guerra abbia rinnovato l’interesse internazionale per la causa palestinese. Tre quarti di chi ha risposto al sondaggio ha detto che ciò “potrebbe portare a un maggior riconoscimento del diritto a uno Stato palestinese.”

Ben il 62% dei gazawi che hanno risposto ha manifestato appoggio per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, quasi il doppio del 35% che ha detto lo stesso in dicembre. Invece in Cisgiordania l’appoggio a questa soluzione del conflitto è rimasto praticamente lo stesso, al 34%. L’approvazione per l’idea di uno Stato unico per entrambi i popoli è stata del 24%, in lieve calo rispetto al 29% di dicembre.

Una netta maggioranza di chi ha risposto ha manifestato gradimento dall’inizio della guerra nei confronti sia di Hamas che del suo leader a Gaza, Yahya Sinwar. Ma la percentuale è più alta in Cisgiordania, rispettivamente al 75% e al 68%, che a Gaza, dove sono del 62% e del 52%.

Al contrario pochi palestinesi sono soddisfatti del comportamento del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo partito, Fatah. In Cisgiordania solo il 24% è contento di Fatah e solo l’8% di Abbas. A Gaza le percentuali sono rispettivamente del 32% e del 22%.

La stragrande maggioranza, il 93% in Cisgiordania e il 71 % a Gaza, vuole le dimissioni di Abbas. Inoltre circa i due terzi degli intervistati in Cisgiordania e metà di quelli di Gaza hanno affermato che dopo la fine della guerra vorrebbero vedere il ritorno del controllo di Hamas su Gaza. Questi superano di gran lunga lo scarso 10% che vorrebbe che l’Autorità Nazionale Palestinese (con o senza Abbas) controlli Gaza.

Ma quando gli viene chiesto del loro sostegno ai partiti politici e come voterebbero nelle prossime elezioni, il quadro è più complesso. Sia a Gaza che in Cisgiordania poco più di un terzo (il 35%) afferma di appoggiare Hamas, con un calo di circa 10 punti percentuali rispetto a dicembre. Più o meno un quarto dei gazawi e il 12% in Cisgiordania ha affermato di appoggiare Fatah.

Inoltre la percentuale di intervistati che voterebbero effettivamente per Hamas è scesa. In Cisgiordania è al 26%, in calo rispetto al 31% di dicembre, mentre a Gaza è al 35%, contro il precedente 41%. Un altro 20% di abitanti di Gaza e 9% della Cisgiordania ha affermato che voterebbe per Fatah.

Tuttavia la scelta più popolare per rimpiazzare Abbas come presidente rimane Marwan Barghouti, l’importante dirigente di Fatah che attualmente sta scontando molteplici condanne all’ergastolo in Israele per omicidio. (Nel 2003 Barghouti ha ricusato l’autorità giuridica del tribunale israeliano su di lui e non ha collaborato durante il processo).

Un totale del 40% di intervistati ha affermato che preferirebbe vederlo come presidente rispetto al 19% che preferirebbe il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e il 10% che preferirebbe Sinwar.

L’appoggio al ritorno al potere di Hamas a Gaza può essere interpretato come una risposta politica e persino emotiva alle dichiarazioni israeliane riguardo all’eliminazione del suo dominio lì, soprattutto mentre la guerra prosegue. Eppure, come mostrano i risultati del sondaggio, se le elezioni si tenessero oggi e Hamas e i suoi principali dirigenti si presentassero non è chiaro se vincerebbero.

Le opinioni sui loro vicini

Circa metà degli intervistati in Cisgiordania prevede che se l’esercito israeliano lancerà un’operazione di terra a Rafah gli abitanti della città e gli sfollati che vi si ammassano cercheranno di fuggire in Egitto. Per contro la pensa così solo il 24% degli intervistati di Gaza. Questa differenza riflette la percezione dei gazawi di essere assediati senza vie di fuga, il che è difficile da capire per persone che vivono fuori dal territorio.

Questa disperazione è stata espressa anche in risposte alla domanda riguardo alle possibilità di un cessate il fuoco. Circa metà degli intervistati in Cisgiordania ha affermato di essere ottimista che un accordo di cessate il fuoco verrà firmato presto, rispetto a poco più di un quarto di gazawi, meno del 38% degli abitanti di Gaza, che si aspetta che la guerra continuerà.

In totale il 60% degli intervistati gazawi ha affermato che un membro della propria famiglia è stato ucciso durante la guerra, mentre il 68% ha detto che un familiare è rimasto ferito. Questa domanda non riflette il fatto che la grande maggioranza di queste famiglie ha avuto più di un parente ucciso o ferito.

Agli intervistati di Gaza è stato chiesto se cercherebbero rifugio sul lato egiziano della frontiera nel vedere gente che cercasse di attraversarla e la barriera divisoria crollata. Circa il 69% ha risposto negativamente e un quarto positivamente.

Il dottor Shikaki presume che questa bassa percentuale sia relativa al fatto che il 68% degli intervistati a Gaza si aspetta che l’esercito e la polizia egiziani aprirebbero il fuoco contro i palestinesi che tentassero di sfondare la linea di confine. Anche molte persone in Cisgiordania, il 55% degli intervistati, pensa che le forze di sicurezza egiziane lo farebbero. Il fatto che il 61% di chi ha risposto ritenga in entrambe le aree che le forze di sicurezza di un Paese arabo aprirebbero il fuoco contro altri civili arabi che fuggono da un’invasione di terra israeliana corrisponde all’atteggiamento amaro nei confronti dell’Egitto.

Questa amarezza si nota anche in altre risposte. Quando viene chiesto di quantificare il gradimento nei confronti di altri Paesi della regione, l’Egitto ottiene il punteggio più basso: solo il 12% degli intervistati ha affermato si essere contento delle iniziative del Paese, in netto calo rispetto al 23% del precedente sondaggio, a dicembre.

Anche qui spicca la differenza tra le due zone. Comunque il 23% degli abitanti di Gaza ha affermato di essere soddisfatto delle azioni dell’Egitto rispetto al 5% di quelli della Cisgiordania. L’Egitto è visto come un complice di Israele e un alleato nell’assedio imposto a Gaza, non come una parte che sta contribuendo a impedire a Israele di realizzare la sua ambizione di destra di espellere i palestinesi da Gaza.

La consapevolezza del fatto che l’Egitto consente la partenza di migliaia di persone in cambio di cospicue bustarelle pagate a persone legate all’apparato di sicurezza egiziano non cessa di scioccare l’opinione pubblica palestinese.

Lo Yemen ottiene il gradimento maggiore, l’88% tra gli intervistati della Cisgiordania e il 75% tra quelli di Gaza. Non è difficile immaginare che ciò sia legato al fatto che gli houthi si sono uniti agli “sforzi bellici” lanciando missili contro navi nel sud del Mar Rosso.

Al secondo posto, anche se molto dietro lo Yemen, c’è il Qatar: il 49% degli intervistati della Cisgiordania e il 67% a Gaza sono soddisfatti. È seguito da Hezbollah, Iran e Giordania. Cosa interessante, anche qui sono gli intervistati di Gaza ad essere più soddisfatti di questi due Paesi.

La Russia guida la lista degli Stati non arabi che conquistano il gradimento dei palestinesi, ma di meno di un quarto: il 17% in Cisgiordania e il 28% a Gaza. L’11% dei gazawi e il 7% degli abitanti della Cisgiordania hanno espresso il proprio gradimento nei confronti dell’ONU. Come c’era da aspettarsi, solo l’1% esprime un’opinione simile riguardo agli USA.

Benché il testo della domanda sul gradimento non ne citi le ragioni, sembra che l’appoggio o meno degli attori regionali e internazionali ad Hamas possa spiegare l’atteggiamento palestinese nei loro confronti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Facoltà dell’Università Ebraica in Scienze della Repressione

Orly Noy

23 marzo 2024 – +972 magazine

La sospensione della docente palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian svuota di ogni significato i valori di pluralismo e uguaglianza proclamati dall’università.

Un’università che promuove diversità e inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza.” Queste sono alcune delle parole usate dall’Università Ebraica di Gerusalemme, una delle migliori istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. Ma l’università non sembra aver avuto alcun problema a gettare dalla finestra tali valori quando la scorsa settimana ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’eminente studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.

La scandalosa decisione, presa senza la corretta procedura, è arrivata subito dopo il podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street in cui aveva esposto le sue opinioni critiche contro il sionismo, l’attacco israeliano contro Gaza e gli opinabili precedenti dello Stato riguardo ad affermazioni su avvenimenti relative alla guerra. Ma la studiosa è sotto osservazione da parte dell’università da mesi (anzi da anni), specialmente dopo che ha firmato una petizione alla fine di ottobre in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio.” Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, deve “trovare un’altra casa accademica allineata con le sue posizioni.”

Indubbiamente la sospensione svuota di ogni significato alcuni corsi “illuminati” che offre. Anzi cosa può insegnare ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato Democratico” un’università che sospende un decano della facoltà senza una discussione? Cosa può insegnare su “libertà, cittadinanza e genere” un’istituzione accademica che si allinea con i sentimenti più estremi e aggressivi? Cosa può insegnare su “Diritti umani, femminismo e cambiamenti sociali” un’istituzione che zittisce e bullizza brutalmente la voce critica di una donna, una docente e un’appartenente a una minoranza perseguitata?

In una dichiarazione in cui parecchi anni fa presentava la sua visione dell’istituzione accademica il preside dell’università, il professor Asher Cohen, che con il rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian, sostiene che l’università ha “guidato un processo di inclusione di popolazioni che compongono la società israeliana. Noi crediamo in un campus diversificato, pluralistico e ugualitario, dove utenti di diverse formazioni possono familiarizzarsi con i valori della coesistenza.” Queste sono parolone da parte di chi sembra incapace di prendere in considerazione voci politiche critiche che differiscono dalle sue.

Nella stessa dichiarazione Cohen si gloria della profonda responsabilità dell’università “per la società israeliana e specialmente per Gerusalemme.” Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove ogni giorno oltre 350.000 palestinesi sono oppressi, le loro case sono demolite e i loro bambini strappati dal letto nel cuore della notte e arrestati arbitrariamente senza che nessuno dei capoccioni nella torre d’avorio di Cohen pronunci una sola parola su di loro.

C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus del Monte Scopus, che affrontano un’occupazione delle loro terre e proprietà da parte dei coloni appoggiati dallo Stato. Ma è particolarmente incredibile che l’Università Ebraica non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione contro il villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. È possibile che nelle sere che Cohen passa nel suo ufficio non riesca a sentire proprio sotto la sua finestra i rumori degli spari della polizia israeliana che da tempo sono la colonna sonora del villaggio?

Se solo il grande peccato (e lo è davvero) dell’Università Ebraica fosse l’inconsapevolezza! La sospensione di Shalhoub-Kevorkian va ad aggiungersi a una lunga lista di persecuzioni politiche e indottrinamento militaristico promossi dall’istituzione nel corso degli anni.

Dopo tutto questa è la stessa università che nel gennaio 2019 ha assecondato una violenta campagna di incitamento condotta da un gruppo di studenti di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che lei aveva redarguito uno studente per essere arrivato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente.” Questa è la stessa università che, nonostante le proteste di studenti e docenti, solo pochi mesi dopo ha scelto di trasformare il campus praticamente in un piccolo campo militare ospitando corsi dell’unità di intelligence dell’esercito israeliano, una delle molte redditizie collaborazioni con l’esercito.

Questa è la stessa università che ha ripetutamente perseguitato e zittito organi studenteschi palestinesi, mentre conferisce crediti accademici a studenti che fanno i volontari per il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla di come Israele abbia sistematicamente distrutto le scuole e le istituzioni di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i colleghi di Gaza assediati, bombardati e affamati, ma i principi dell’accademia stessa.

Spiegando la loro decisione in una lettera alla parlamentare Sharren Haskel, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato Shalhoub-Kevorkian di esprimersi in un modo “vergognoso, antisionista e provocatorio” dall’inizio della guerra, deridendola per aver definito genocidio le politiche di Israele a Gaza. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano un genocidio la catastrofe a Gaza, ma anche la Corte Internazionale di Giustizia, il massimo tribunale al mondo, ha preso seriamente questa pesante accusa e deliberato che non la si può semplicemente ignorare.

È come se Cohen e Sheafer fossero sorpresi non solo di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche antisionista, non sia mai! Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università i suoi dirigenti sarebbero obbligati a informare ogni docente e studente prima che ne varchino i cancelli. Non sbaglieremmo nel dire che, a parte limiti legali, la ragione è che l’Università Ebraica beneficia della presenza dei palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, progressismo e inclusione. Intanto può continuare a perseguitare quei palestinesi a casa, lontano dagli occhi del mondo.

Questa vergognosa iniziativa sta già echeggiando clamorosamente nel mondo accademico e nei media a livello globale, bollando l’Università Ebraica con la vergogna che si merita. Nel frattempo il solo corso appropriato che riesco a trovare nel modulo dell’università è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Macchiavelli, il filosofo della tirannide.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il leader palestinese imprigionato Marwan Barghouti è stato picchiato dalle guardie

Redazione di Middle East Monitor

19 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il famoso prigioniero politico palestinese Marwan Barghouti è stato aggredito con manganelli dalle guardie carcerarie israeliane e ha subito una emorragia a un occhio, hanno affermato la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e gli ex prigionieri e la famiglia di Barghouti, come riferito da Al-Arabi Al-Jadeed.

Barghouti, sessantaquattrenne, che è membro del comitato centrale di Fatah [storico partito politico palestinese che governa l’Autorità Palestinese, ndt.] è soggetto ad isolamento, torture ed umiliazioni, ha affermato sua moglie Fadwa Barghouti.

Fadwa ha spiegato che la vita di suo marito e di altri noti prigionieri sono in grave pericolo, aggiungendo che l’amministrazione carceraria israeliana “li brutalizza deliberatamente al fine di fiaccare il loro morale.”

Marwan è soggetto a continui attacchi, di cui abbiamo saputo [attraverso gli avvocati] il 6 e il 12 marzo e che gli hanno causato una emorragia in un occhio, mentre le forze repressive della prigione lo hanno costantemente minacciato,” ha aggiunto lei, spiegando che Marwan è stato spostato cinque volte durante gli ultimi tre mesi, ed ogni volta è stato aggredito e le sue condizioni carcerarie sono state rese più difficili.

In quattro prigioni è stato messo in isolamento, ha affermato, avvertendo che è stata scatenata una “vera e propria guerra” contro i prigionieri palestinesi e i loro leader, cosa che danneggia il loro morale.

Da parte sua, la campagna “Marwan Barghouti e tutti i prigionieri politici palestinesi liberi” ha affermato in una dichiarazione che i legali che hanno visitato la prigione di Megiddo hanno appreso del brutale attacco a Barghouti e ad altri importanti prigionieri da parte delle unità speciali di repressione della prigione, aggiungendo che molti di loro sono stati messi in isolamento.

La campagna ha affermato che è stata contattata da molte figure internazionali, inclusi diplomatici, parlamentari e istituzioni per i diritti umani, ed anche dai leader del movimento Fatah e delle fazioni Azione Nazionale e Islamica, che chiedono di fornire protezione al popolo palestinese, inclusi i prigionieri politici nelle carceri israeliane.

Barghouti è stato arrestato nel 2002 e in seguito è stato condannato a cinque ergastoli per le accuse di “uccisione e ferimento di israeliani.”

In parallelo con il massacro contro la Striscia di Gaza che ha ucciso più di 31.000 palestinesi, Israele ha incrementato le incursioni e gli arresti nella Cisgiordania occupata, arrestando più di 7.000 persone, contemporaneamente alla campagna di persecuzione dei prigionieri nelle carceri israeliane che dal 7 ottobre 2023 ha provocato la morte di almeno 13 prigionieri.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Questi bambini hanno lasciato Gaza ma soffrono ancora di traumi psichici a causa della guerra israeliana

Monjed Jadou

19 marzo 2024 – AlJazeera

Attraverso larte e stringendosi gli uni agli altri 68 bambini sfollati a Betlemme stanno affrontando il loro dolore.

Betlemme, Cisgiordania occupata Un gruppo di bambini di Gaza è impegnato in un laboratorio artistico nel Villaggio di SOS Children [organizzazione internazionale impegnata nel fornire una casa e dei legami familiari a bambini orfani di guerra, ndt.] a Betlemme, a 102 km da Rafah, la città più meridionale della Striscia di Gaza.

I bambini stanno lavorando sulla rappresentazione del viaggio di tre giorni che hanno intrapreso da Rafah a Betlemme, un viaggio tortuoso per coprire una distanza che potrebbe essere percorsa in un’ora.

Come per tutti i palestinesi, i loro spostamenti sono impediti dal governo israeliano, che già in tempi normali limita fortemente la possibilità di movimento dei palestinesi, una situazione aggravata dalla guerra che Israele sta conducendo a Gaza.

Questo mese con il sostegno del governo tedesco sessantotto bambini sono stati evacuati dal Villaggio di SOS Chidren a Rafah e inseriti nella struttura dellorganizzazione benefica a Betlemme, accompagnati dagli 11 operatori che si prendevano cura di loro a Gaza.

Esprimere dolore e paura

Per loro salvaguardia e privacy, i bambini di età compresa tra i due e i 14 anni non possono essere intervistati o fotografati direttamente, ma ad Al Jazeera è stato permesso di osservare le loro attività e interazioni.

Una ragazza era concentrata nel ritagliare la parola Rafahe incollarla in un angolo del suo foglio, scrupolosamente intenta nell’operazione con un’espressione triste, spaventata e accigliata.

Da quel punto percorreva la pagina con un filo di lana di un giallo brillante con cui avvolgeva all’interno di un nodo allentato una faccia arrabbiata, quindi lo lo avvolgeva in ampi cerchi fino a raggiungere “Betlemme”, che aveva incollato nell’angolo opposto.

Per quanto già affiatati grazie al tipo di organizzazione degli SOS Villages sembra che durante il loro lungo viaggio verso Betlemme i bambini si siano ulteriormente avvicinati tra di loro.

Un ragazzo si china per aiutare un bambino più piccolo a capire cosa fare con il suo foglio, spiegando che le diverse faccine sonoperché il bambino esprima cosa avesse provato nei diversi momenti del viaggio e aspetta che il suo amico più giovane le posizioni prima di spiegare l’uso del tubetto della colla.

All’altra estremità della stanza un bambino di cinque anni è rimasto impigliato nella sua giacca a causa delle maniche rovesciate. Una sua amica di 14 anni gliela sfila e lo sistema rinfilandogliela, e appena lui è pronto a partecipare all’attività lo tira a sé per abbracciarlo.

Il dottor Mutaz Lubad, esperto in arte e terapia psicologica, afferma che queste sedute di creazione artistica guidata consentono ai bambini di provare un po’ di sollievo, aprendo loro uno spazio per esprimere ciò che hanno in mente attraverso la loro arte.

I bambini elaborano un insieme spaventoso di emozioni: tristezza nel lasciare la propria casa assieme ai tanti bambini le cui famiglie non hanno dato il consenso allo sfollamento, sollievo per la fuga dalla guerra, paura dei rumori forti dopo aver subito i bombardamenti, una gioia fugace nel raggiungere Betlemme e il sogno di tornare a casa, a Rafah.

“Poiché i bambini spesso trovano difficile esprimere verbalmente ciò che provano lavoriamo per esaminare le loro difficoltà attraverso la loro arte”, ha detto Lubad ad Al Jazeera.

Nelle attività artistiche guidate come questa, in cui a tutti viene chiesto di riprodurre lo stesso soggetto, i bambini possono scegliere i colori, le espressioni delle faccine preferite per i diversi punti del loro viaggio e il grado di tortuosità applicato al percorso del filo di lana incollato per rappresentare i loro tre giorni di viaggio.

Alla domanda sul significato dei nodi allentati che alcuni bambini inseriscono nel percorso del loro viaggio Lubad risponde: I nodi rappresentano momenti in cui i bambini sono stati esposti a situazioni di turbamento o spavento, ma il fatto che abbiano generalmente inserito dei nodi allentati dimostra che si tratta di situazioni che sentono di essere in grado di superare.

Il lavoro di un ragazzo è particolarmente espressivo. Quando gli è stato detto che sarebbe stato trasferito da Rafah ha avuto paura dellignoto, di lasciare la sua stanza e la sua casa. Poi durante il viaggio si è sentito di volta in volta preoccupato e stressato finché, alla fine, si è sentito rincuorato trovandosi al sicuro a Betlemme. Tutto ciò si riflette nelle espressioni delle faccine che ha scelto”.

Proteggere i bambini

L’SOS Village di Rafah è ancora aperto e accoglie bambini le cui famiglie sono morte in guerra o che si sono separate dai loro parenti. Molti bambini sono rimasti nella struttura di Rafah in quanto i loro tutori legali hanno rifiutato il loro sfollamento da Gaza.

Mantenere i contatti – quelli già esistenti – con le famiglie dei bambini è un importante elemento per mantenere i legami con la comunità, ma cercare di scoprire quali parenti siano sopravvissuti e quali morti è stato quasi impossibile, dice ad Al Jazeera Sami Ajur, responsabile del programma presso la Children’s Village Foundation a Gaza.

Aggiunge che nonostante le difficoltà che sta affrontando durante la guerra la fondazione continua il suo lavoro e sottolinea che la struttura di Rafah sta anzi cercando sostegno per espandere le sue attività in modo da poter accogliere un numero maggiore dei bambini che ogni giorno a Gaza rimangono orfani o vengono separati dalle loro famiglie.

Il trauma che a Gaza i bambini stanno vivendo a causa della guerra si manifesta in molti modi, tra cui ansia, incontinenza, incubi e insonnia, afferma Ghada Harazallah, direttrice nazionale dei Villaggi dei Childrens Villages in Palestina, aggiungendo che la loro missione proteggere i bambini non è cambiata.

Al tramonto i bambini di Gaza e quelli che vivono nel villaggio di Betlemme avranno un iftar [cena rituale, ndt.] di gruppo per interrompere il digiuno del Ramadan.

La struttura di SOS Childrens Villages nel mondo incoraggia un rapporto di tipo familiare tra i bambini e tra loro e lo staff adulto. Un membro dello staff viene assegnato come genitorea ciascun gruppo di bambini, che vengono cresciuti in gruppi familiaridove possono formare legami reciproci.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Riprese di un drone sollevano dubbi sulla giustificazione israeliana per un attacco mortale contro giornalisti a Gaza

 

 Louisa Loveluck, Imogen PiperSarah CahlanHajar Harb e Hazem Balousha 

19 marzo 2024 – The Washington Post

Gerusalemme – Il 7 gennaio fuori da Khan Younis, nel sud di Gaza, l’esercito israeliano ha condotto un attacco mirato con un missile contro un’auto su cui viaggiavano quattro giornalisti palestinesi.

Due membri di una troupe di Al Jazeera, Hamza Dahdouh, 27 anni, e l’operatore di droni Mustafa Thuraya, 30 anni, sono stati uccisi insieme al loro autista. Due giornalisti freelance sono rimasti gravemente feriti.

Stavano tornando dal luogo di un precedente attacco israeliano contro un edificio, dove avevano utilizzato un drone per riprendere le conseguenze. Il drone, un modello base che si può trovare su Best Buy [principale rivenditore di elettronica degli USA, ndt.], sarebbe fondamentale per la giustificazione israeliana dell’attacco.

Il giorno dopo in una dichiarazione le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] hanno affermato di aver “identificato e colpito un terrorista che manovrava un velivolo che rappresentava un pericolo per i soldati delle IDF.” Due giorni dopo l’esercito ha annunciato di aver scoperto prove che entrambi gli uomini facevano parte di gruppi di miliziani, Thuraya di Hamas e Dahdouh del Jihad Islamico Palestinese, il suo rivale meno numeroso a Gaza, e che l’attacco era stato una risposta a una minaccia “imminente”.

Il Washington Post ha ottenuto e analizzato le riprese dal drone di Thuraya, che erano conservate in una scheda di memoria ritrovata sul posto e inviata a un’agenzia di produzione palestinese in Turchia. Nessun soldato israeliano, velivolo o altra attrezzatura militare è visibile nelle riprese di quel giorno, che il Post ha pubblicato integralmente, sollevando domande critiche sul perché i giornalisti siano stati presi di mira. Colleghi reporter hanno affermato di non essere stati a conoscenza di movimenti di truppe nella zona.

Interviste con 14 testimoni oculari dell’attacco e colleghi dei giornalisti uccisi offrono il racconto finora più dettagliato dell’incidente mortale. Il Post non ha trovato indicazioni che quel giorno i due uomini stessero agendo nella veste di qualcos’altro che giornalisti. Entrambi erano passati attraverso posti di controllo israeliani lungo il percorso verso sud all’inizio della guerra; Dahdouh recentemente aveva ottenuto il permesso di lasciare Gaza, un privilegio raro che è improbabile venga concesso a un miliziano noto come tale.

In risposta a molteplici richieste e domande dettagliate del Post l’esercito israeliano ha risposto: “Non abbiamo nient’altro da aggiungere.”

Il Post non potrebbe identificare altri esempi durante la guerra in cui giornalisti siano stati presi di mira dall’IDF per aver fatto volare droni, che sono stati usati in modo massiccio per riprendere le dimensioni della devastazione a Gaza.

Giornalisti locali hanno detto al Post che non ci sono indicazioni ufficiali sui droni da parte dell’esercito israeliano. Un altro ha detto di aver deciso di non usare il suo drone durante il conflitto, temendo che potesse essere preso a pretesto per un attacco israeliano.

In un comunicato Al Jazeera ha condannato l’“assassinio di Mustafa e Hamza” e si è impegnata a “prendere tutte le misure legali per perseguire i responsabili di questi crimini.”

Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti novanta reporter e altri operatori dei media sono stati uccisi in soli cinque mesi, il periodo più letale per la professione da quando l’associazione ha iniziato a raccogliere dati nel 1992.

“Dovrebbe spettare all’esercito israeliano indagare su quanto avvenuto” il 7 gennaio, ha detto a febbraio al Post Irene Khan, la relatrice speciale dell’ONU sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione.

“Non è sufficiente dire che ‘li abbiamo sospettati e quindi li abbiamo uccisi’,” ha affermato. “É molto facile dire questo in una situazione di guerra.”

I giornalisti

Dal 7 ottobre Israele ha impedito ai media stranieri di entrare nella Striscia di Gaza, tranne che a occasionali [reporter] inseriti nell’esercito il cui accesso è strettamente controllato. Per capire il conflitto il mondo si è basato su centinaia di giornalisti palestinesi.

Il più famoso è stato Wael Dahdouh, padre di Hamza e caporedattore di Al Jazeera a Gaza, la cui tenacia di fronte a una tragedia personale è stata di esempio in tutto il mondo arabo.

Il 28 ottobre Wael ha interrotto la diretta quando ha scoperto che sua moglie, il figlio Mahmoud e la figlia Sham, fratelli di Hamza, e un nipote erano stati uccisi nella loro casa da un attacco aereo israeliano. Il suo collega più vicino, il cameraman di Al Jazeera Samer Abu Daqqa, è morto il 15 dicembre per le ferite riportate dopo un attacco israeliano con i droni, in cui anche Wael è rimasto ferito.

Hamza ha raggiunto la redazione di Al Jazeera a Gaza durante il conflitto, lavorando come assistente cameraman e produttore sul campo, dice suo padre.

Thuraya era un freelance molto noto, forniva foto e immagini con il drone ad Al Jazeera così come all’Agence-France Presse, alla Reuters e a Getty Images. Secondo Shadi al-Tabatibi, 30 anni, collega giornalista nell’enclave, in precedenza aveva lavorato per circa cinque anni come fotografo per il ministero delle Fondazioni Religiose, parte del governo di Gaza guidato da Hamas. Non è chiaro quando sia terminato il suo contratto.

Secondo molti amici e colleghi intervistati dal Post, sia Dahdouh che Thuraya avevano lasciato Gaza City, il fulcro originario dell’operazione militare israeliana, alla fine di ottobre lungo una strada per l’evacuazione di civili indicata dall’esercito israeliano.

Gli uomini hanno vissuto in tende per più di due mesi con altri giornalisti nella città di Rafah, una zona vicina al confine con l’Egitto, dove hanno cercato rifugio circa 1.4 milioni di palestinesi sfollati. I giornalisti raccontano che stendevano i loro materassi su assi di legno per isolare i propri letti dal freddo e viaggiavano sul luogo dei bombardamenti aerei e altri attacchi in gruppo, convinti che fosse più sicuro essere in tanti.

Il 6 gennaio, alla vigilia della loro morte, Dahdouh e Thuraya avevano condiviso il pasto con dei colleghi. “È stata una cena semplice, ma piena di calore,” afferma Adli Abu Taha, 33 anni, un cameraman di Al-Kufiya TV. Thuraya ha parlato per telefono con la moglie e tre figlie, ricorda Tabatibi, promettendo che sarebbe andato presto a trovarle.

La missione

Secondo , Amer Abu Amr, un fotografo del canale televisivo Palestine Today anche lui presente sul posto quel giorno, il 7 gennaio i giornalisti si sono svegliati con la notizia di un attacco aereo contro la casa della famiglia Abu al-Naja, a sud di Khan Younis. In seguito l’esercito israeliano ha descritto la casa come un ufficio del Jihad Islamico Palestinese.

Un post sulle reti sociali suggerisce che almeno quattro persone sono state uccise nell’attacco e che alcuni dei morti e feriti erano già stati portati in ospedale.

Ma con altri corpi che si pensava fossero sotto le macerie, da Rafah si sono diretti sul posto almeno 11 giornalisti, tra cui Dahdouh, Thuraya e i reporter freelance Muhammad al-Qahwaji e Hazem Rajab. Secondo i metadati dei video che ha filmato quel giorno, Thuraya ha fatto volare un drone alle 10,39.

Il Post ha ottenuto le riprese dalla sede di Media Town production a Istanbul, che aveva sub-contrattato il lavoro di Thuraya per Al Jazeera e altri clienti. I video mostrano reporter vestiti di blu che osservano una massa di cavi contorti e cemento. Dei bambini stanno a guardare mentre degli uomini tirano fuori dei corpi. Lavoratori della difesa civile stendono lenzuoli sui morti e li portano via.

Le immagini includono 38 clip e durano poco più di 11 minuti. Ogni tanto si vede Thuraya che guarda il comando del suo drone e che lascia lo schermo ad altri colleghi. Zooma due volte, brevemente, mostrando il panorama a nordovest e sudovest dell’edificio danneggiato, circa un kilometro e mezzo in ogni direzione. Nelle immagini non si vedono soldati israeliani, velivoli o altri apparati militari.

Su richiesta del Post due analisti hanno visionato immagini satellitari disponibili dell’area prese il 7 gennaio da Planet Labs ed Airbus [società che forniscono immagini satellitari del pianeta, ndt.], che coprono un raggio di circa 2 kilometri da dove è stato lanciato il drone. Nessuno degli esperti ha visto prove di presenza militare o attività di miliziani. William Goodhind, un ricercatore open-source [pratica di condivisione aperta dei dati, ndt.] di Contested Ground, un progetto di ricerca che traccia i movimenti militari in immagini satellitari, afferma di non aver trovato alcun segno di “veicoli blindati, camion militari, fortificazioni, barricate e/o punti di lancio di razzi e mortai.” Ha identificato un posto di polizia a circa 800 metri a nord ovest dal lancio del drone, ma afferma che non è chiaro se fosse ancora in funzione.

Preligens, una ditta di intelligenza artificiale geospaziale, ha inserito le immagini satellitari del 7 gennaio fornite dal Post nel suo rilevatore AI di veicoli e non ne ha trovato nessuno blindato in un perimetro di circa 16 km2.

Il drone di Thuraya era un Mavic 2 disponibile in commercio, costruito dalla ditta cinese DJI, più o meno delle dimensioni di una tipica scatola da scarpe ma più sottile. I metadati mostrano che Thuraya ha smesso di riprendere alle 10.55.

Secondo Amr, che afferma che lui e il suo collega Ahmed al-Bursh sono stati feriti da schegge, un secondo attacco ha colpito il luogo alle 11.01. Bursh era piegato in due dal dolore quando è salito su un’ambulanza della Mezzaluna Rossa, come si osserva in un video filmato da Amr, che lo ha raggiunto nell’ambulanza ed ha ripreso la maggior parte del loro viaggio.

“L’ho fatto per paura,” dice. “Temevo che saremmo stati presi di mira.”

Anche Thuraya, Dahdouh, Qahwaji, Rajab e il loro autista, il ventiseienne Qusay Salem, che non erano stati feriti nel secondo attacco, se ne sono andati dal luogo. Qualche minuto dopo un video dell’IDF mostra un drone militare che intercetta il loro veicolo, che viaggia appena dietro l’ambulanza. Il suono dell’esplosione è colto nella ripresa di Amr dal finestrino posteriore dell’ambulanza approssimativamente alle 11.10.

Altri video di testimoni mostrano le orribili conseguenze: Thuraya e Salem sono dilaniati dall’attacco. Qahwaji è a terra e perde molto sangue, mentre i medici si affannano per mettere insieme una barella per lui. Il volto del freelance è ustionato e la sua mandibola è squarciata. Rajab ha gravi ustioni e ha perso l’uso di un occhio.

All’obitorio un Wael distrutto dal dolore stringe la mano di suo figlio e gli mormora dolcemente. Abbraccia la moglie di Hamza, Wafaa, mentre lei appoggia il volto sul petto del marito. La moglie di Thuraya, Soraya, nasconde la testa nel cuscino e piange.

Quella notte in una conferenza stampa a Doha, la capitale del Qatar, il segretario di Stato Antony Blinken ha descritto l’uccisione come una “perdita impensabile”. Come genitore non avrebbe potuto “immaginare l’orrore” che Wael stava provando “non una, ma ora due volte.” Il Dipartimento di Stato ha rifiutato di fornire ulteriori commenti.

Una storia mutevole

La notte dell’attacco è iniziata una lotta di narrazioni. L’esercito israeliano ha affermato in un comunicato che il suo velivolo aveva “identificato e colpito un terrorista che stava manovrando un velivolo che rappresentava una minaccia per i soldati dell’IDF.”

Il giorno successivo il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari è sembrato fare marcia indietro: “Ogni giornalista che muore, dispiace,” ha detto alla NBC, affermando che il drone li aveva fatti sembrare “terroristi”.

In un nuovo comunicato il 10 gennaio l’esercito israeliano ha affermato che il drone rappresentava una “minaccia imminente” per i soldati che si trovavano nei pressi, benché l’attacco sia avvenuto circa 15 minuti dopo che Thuraya aveva smesso di filmare. Il Post ha condiviso con l’esercito israeliano le immagini di Thuraya e chiesto se poteva identificare un qualunque momento in cui il drone avesse rappresentato una minaccia per le sue truppe. “Non abbiamo nient’altro da aggiungere”, hanno affermato le IDF.

Il comunicato del 10 gennaio sostiene anche che l’intelligence militare israeliana ha confermato che Dahdouh e Thuraya erano membri rispettivamente del PIJ e di Hamas.

La giustificazione dell’esercito israeliano per l’attacco risponde “a un modello di risposte che abbiamo rilevato anche prima di questa guerra,” afferma Sherif Mansour, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa del Comitato per la Protezione dei Giornalisti. “Evitare di prendersi le responsabilità, lanciare accuse di terrorismo contro i giornalisti” e affermare che “erano in una posizione che minacciava le posizioni israeliane sul terreno.”

Giornalisti locali affermano che Israele non ha emanato nessun divieto o restrizione ufficiale sui droni, che descrivono come strumenti molto utili per trasmettere l’entità delle distruzioni provocate dalla guerra. Ma anche prima del 7 gennaio un giornalista esperto era giunto alla conclusione che le riprese non valevano il rischio.

Suliman Hijji, un video-operatore che lavora nella zona di Rafah, ha deciso all’inizio della guerra che avrebbe lasciato a terra il suo drone.

“L’uso di velivoli attira l’attenzione e può rendere le persone obiettivi vulnerabili,” afferma.

Un giornalista freelance di Gaza che ha lavorato per media internazionali, parlando in forma anonima per ragioni di sicurezza, sostiene di aver ricevuto un “avvertimento generico” da un ufficiale israeliano: “L’ufficiale mi ha detto di non espormi al pericolo e non far volare droni.”

Da quando Thuraya e Dahdouh sono stati uccisi “nessuno osa far volare un drone,” afferma Anat Saragusti, direttore per la libertà di stampa dell’Unione dei Giornalisti di Israele.

L’esercito israeliano non si è pronunciato sulla sua politica riguardo ai droni dei giornalisti a Gaza.

Il comunicato del 10 gennaio fa riferimento anche a un documento datato giugno 2022 con il logo e il nome delle Brigate Al-Quds, ala militare del PIJ. Il nome di Dahdouh compare di fianco alla cifra di 224 dollari. Nella dichiarazione l’esercito israeliano cita un secondo documento che definirebbe Thuraya come un vice comandante di squadrone del battaglione al-Qadisiyyah della brigata di Gaza City di Hamas, ma non ha reso pubblico il documento e non ha risposto alle numerose richieste di esaminarlo.

L’esercito israeliano ha anche rifiutato di rispondere ad altre domande relative ai documenti, tra cui quando fossero stati trovati e se la loro scoperta fosse legata all’attacco pianificato del 7 gennaio.

Michael Milshtein, ex-capo del dipartimento per gli affari palestinesi dell’intelligence militare delle IDF, afferma di non sapere se il documento con il nome di Dahdouh sia autentico, ma che esso segue “il formato standard di un documento del PIJ.”

“Penso davvero che se il portavoce dell’esercito lo ha reso pubblico sia autentico,” aggiunge. Altri esperti sono dubbiosi.

Potrebbe essere autentico, ma niente di quanto finora ha fornito l’esercito israeliano lo conferma,” sostiene Erik Skare, storico e ricercatore post-dottorato dell’università di Oslo che ha scritto un libro sulla storia del PIJ. Afferma che l’uso del linguaggio, soprattutto i nomi di zone geografiche, è inusuale, così come la mescolanza di testo in inglese e arabo in un documento presumibilmente pensato per uso interno.

Al Jazeera ha respinto le accuse contro i suoi reporter, definendole “un tentativo di giustificare l’uccisione e il fatto di prendere di mira giornalisti.”

Amici e familiari dei reporter uccisi evidenziano che nelle settimane precedenti alla loro morte erano stati sottoposti a controlli di sicurezza da parte dell’esercito israeliano. Entrambi avevano attraversato checkpoint da Gaza City per raggiungere il sud. Dicono che Dahdouh aveva ottenuto il permesso di andarsene da Gaza.

Secondo suo padre e un ufficiale intervistato sul suo caso, che ha parlato in condizione di anonimato trattandosi di un argomento sensibile, sei settimane dopo la morte di sua madre e di due fratelli e poco prima della sua morte, Dahdouh era stato autorizzato a lasciare l’enclave bloccata.

Un permesso di sicurezza probabilmente avrebbe richiesto l’approvazione del COGAT, un ente del ministero della Difesa israeliano che autorizza chi può entrare e uscire da Gaza. Il Post ha fornito al COGAT il nome e il numero della carta d’identità di Dahdouh per ricevere conferma se aveva l’autorizzazione ad andarsene, ma non ha ottenuto risposta.

Khan, la relatrice speciale dell’ONU, sostiene che è urgentemente necessaria un’indagine sulle uccisioni. “Se sono stati in grado di fornire così tante informazioni sicuramente ne hanno molte di più,” dice. “Hanno la responsabilità di controllare e di vedere se sono stati fatti degli errori.”

Wael Dahdouh ha lasciato Gaza il 17 gennaio per essere curato delle ferite ma ha giurato di tornare a informare. Altri giornalisti da allora sono scappati dall’enclave o hanno smesso di fare il loro lavoro, nel timore di poter essere i prossimi [a venire uccisi].

Piper e Harb hanno informato da Londra, Cahlan da Washington e Balousha da Amman, Giordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sicurezza e dilemma demografico di Israele

Nabil Al-Sahli

19 marzo 2024 – Middle East Monitor

Ci sono state gravi ripercussioni in Israele dall’Operazione Diluvio Al-Aqsa il 7 ottobre incluse delle perdite economiche. Lo Stato di occupazione ha assistito a gravi divisioni nella società e nei partiti politici. Inoltre è quasi certo che l’operazione continuerà una tendenza di inversione della migrazione ebraica dalla Palestina occupata in un momento in cui la demografia dello Stato è una questione fondamentale per i governi israeliani e gli strateghi sionisti.

Questa tendenza è cominciata prima di Diluvio Al-Aqsa, con ebrei israeliani che emigravano negli USA e in Europa per una stabilità economica e una sicurezza maggiori. Questa è l’alternativa più popolare che migliaia di giovani ebrei israeliani devono affrontare trovandosi davanti Benjamin Netanyahu alla guida del governo più a destra della storia dello Stato canaglia con una combinazione di partiti ultraortodossi, movimenti religiosi ed estrema destra.

L’immigrazione ebraica è sempre stata importante per Israele e il progetto sionista. I fattori che attraggono gli ebrei a trasferirsi nella Palestina occupata includono sicurezza, benessere economico e i falsi slogan sionisti che all’inizio hanno avuto successo, ma col tempo hanno fallito. Con la contrazione dell’economia israeliana, la sicurezza è diventata la ragione più importante per potenziali immigrati ebrei da tutto il mondo. Questo è il motivo per cui l’ebraicità di Israele è stata popolarizzata e sancita nella costituzione israeliana nel serio tentativo per attrarre più ebrei a “fare aliyah” [emigrare, ndt.] nello “Stato ebraico”. Sia il movimento sionista che il suo Stato canaglia considerano tutti gli ebrei potenziali risorse umane per i loro obiettivi espansionisti e un pilastro della continuazione dell’intero progetto nella regione araba a spese del popolo palestinese.

Nonostante siano passati circa 76 anni dall’istituzione di Israele nella Palestina occupata, solo il 41% della popolazione ebraica globale è stata tentata dal trasferirsi nello Stato di occupazione. I leader israeliani hanno cercato di approfittare di ogni possibile opportunità per convincere altri ebrei a trasferirsi.

In cooperazione e coordinamento con l’Agenzia Ebraica per Israele si prevede di finanziare grandi campagne per convincere 200.000 ebrei a trasferirsi dall’Argentina, parecchie migliaia dall’Etiopia e circa 80.000 da India e Sudafrica. Per attrarre immigrati si offrono incentivi finanziari e lavorativi. Nel complesso l’immigrazione ebraica da Europa e Nord America ha toccato il suo livello più basso, mancando fattori che espellano gli ebrei dai loro Paesi di origine e il colpo che l’immagine e la reputazione di Israele hanno subito a causa del genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza. Nonostante le affermazioni di Israele che ci sia stato un “interesse crescente nell’immigrazione” da parte di ebrei in Occidente, i numeri veri sono stati molto ridotti.

La strategia sionista di sostituire la popolazione palestinese ed ebraizzare la terra è sempre dipesa da quattro elementi: attrarre gli ebrei del mondo a trasferirsi nella Palestina occupata; ebraizzare la terra araba impadronendosene o espropriandola in qualche modo e poi insediandoci gli immigrati; creare le giuste condizioni politiche per espellere quanti più arabi palestinesi possibile e costruendo colonie illegali per cambiare la geografia e la demografia a favore del progetto sionista violando il diritto internazionale. L’attenzione si è concentrata sulla creazione di un’economia vivace per attrarre più ebrei grazie all’alto livello di vita e ai tassi di crescita.

L’ebraizzazione della terra palestinese ne ha richiesto il controllo con vari mezzi. La terra è stata svuotata della sua popolazione palestinese grazie a massacri ed espulsioni forzate, e il pretesto di tematiche di sviluppo e sicurezza è stato usato per mandare via i palestinesi dalle loro terre. Istituzioni sioniste come il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico] (JNF) e la Jewish Agency [Agenzia Ebraica], così come l’occupazione del Mandato britannico hanno giocato un ruolo importante nel trasferire la proprietà di terre arabo palestinesi anche prima della fondazione dello Stato di apartheid nel 1948.

Tuttavia è un fatto che quando Israele dichiarò la propria “indipendenza” in quell’anno fatale, gli ebrei sionisti possedevano appena il 9,1 % della Palestina.

Oggi Israele controlla il 100% della Palestina storica indipendentemente da quanto detto dai famigerati accordi di Oslo su quello che sarebbe dovuto succedere dopo e lo Stato, oltre ai territori occupati presi per coloni e colonie, occupa il 78% della terra.

L’operazione Diluvio Al-Aqsa è considerata una delle operazioni di guerriglia di maggior successo nella storia della lotta palestinese dal 1948, poiché ha rivelato la fragilità di Israele a ogni livello e posto fine al mito dell’invincibilità dell’“esercito più morale al mondo”. Motiverà la resistenza palestinese in tutte le forme nella Palestina storica quale risposta legittima all’occupazione israeliana.

Data l’importanza di sicurezza e stabilità economica per attirare e trattenere gli immigrati ebrei in Israele, probabilmente vedremo un incremento dei numeri di ebrei israeliani che lasciano il Paese. I dati dell’immigrazione netta sono probabilmente negativi per lo Stato. Ciò accadde durante la Seconda (Al-Aqsa) Intinfada (settembre 2000-febbraio 2005), sebbene i dati ufficiali cercano di mascherare la realtà.

Ciò non scoraggerà i sionisti dal continuare a cacciare i palestinesi in tutti i modi possibili e cercare di attirare nuovi immigrati ebrei. Questa resterà come un’importante strategia in un momento in cui lo Stato sta vivendo un dilemma demografico rappresentato dalla crescita della popolazione palestinese nella Palestina storica, la sua dedizione alle proprie terre e il suo rifiuto al trasferimento, combinati con il declino dell’immigrazione ebraica, cosa che renderebbe possibile che gli ebrei diventino una minoranza nel cosiddetto Stato ebraico. Questa è la più grande paura del progetto sionista.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




100.000 lavoratori si sono appena impegnati con il BDS a boicottare una compagnia petrolifera statunitense complice del genocidio di Israele

Redazione The Canary

19 marzo 2024 –The Canary

Chevron sotto tiro

Un sindacato dei lavoratori basati su app che rappresenta oltre 100.000 conducenti Uber e altri conducenti basati su app in 20 paesi si sono uniti per boicottare le stazioni di servizio a marchio Chevron, tra cui Texaco e Caltex, in linea con la campagna del Comitato nazionale palestinese (BNC) del BDS e l’appello per la solidarietà da parte dei sindacati palestinesi.

La Chevron sente la forza del BDS

L’Alleanza internazionale dei lavoratori dei trasporti basati su app (IAATW) è una federazione globale che rappresenta oltre 100.000 autisti e corrieri in 20 paesi e sei continenti, tra cui Sud Africa, Nigeria, Ghana, Messico, Panama, Cile, Costa Rica, Uruguay, Argentina, Stati Uniti, Canada, Sri Lanka, India, Bangladesh, Indonesia, Malesia, Cambogia, Francia, Australia e Regno Unito.

Alla conferenza internazionale biennale tenutasi a Colombo, Sri Lanka, i delegati della IAATW hanno approvato all’unanimità mozioni che dimostrano il loro inequivocabile sostegno alla Palestina e l’impegno ad azioni in linea con il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e l’appello senza precedenti di oltre 30 Sindacati palestinesi.

Il BNC ha affermato:

Il movimento BDS ribadisce il suo appello ai sostenitori dei diritti dei palestinesi e della giustizia climatica, in particolare ai lavoratori e ai sindacati, affinché intensifichino le campagne di disinvestimento e di boicottaggio contro Chevron (e tutte le sue stazioni di servizio

Questa mozione ha ribadito la dichiarazione della IAATW dell’ottobre 2023 e si è impegnata ad azioni concrete adottando l’appello del BDS contro le compagnie petrolifere complici dell’occupazione israeliana.

Apartheid e genocidio

Nell’ambito di questi sforzi di solidarietà, gli autisti della IAATW si sono impegnati a boicottare le stazioni di servizio a marchio Chevron, tra cui Texaco e Caltex, che operano in tutti i Paesi dei membri della IAATW. Il sindacato ritiene che il rifiuto di sostenere entità complici nel perpetuare le ingiustizie contro i palestinesi sia un passo fondamentale verso la giustizia e l’attribuzione delle responsabilità.

La Chevron ha generato miliardi di dollari di entrate per l’Israele dell’apartheid in quanto principale “attore internazionale che estrae il gas rivendicato da Israele nel Mediterraneo orientale” – contribuendo a finanziare il genocidio in corso contro 2,3 milioni di palestinesi a Gaza.

La Chevron è direttamente coinvolta nella politica e nella pratica israeliana di privare il popolo palestinese del diritto alla sovranità sulle proprie risorse naturali.

La complicità della Chevron

La IAATW afferma:

Ispirati dall’embargo petrolifero del 1987 contro Shell per il suo ruolo nell’apartheid sudafricano, noi, il settore del trasporto passeggeri basato su app per aziende come Uber, Deliveroo, JustEat, Free Now, Glovo, Lyft, Grab, DoorDash, Grubhub, Amazon, Ola, Gojek, Didi, Bolt, Careems, ribadiscono gli appelli all’azione da parte dei palestinesi e si impegnano a boicottare le migliaia di distributori di gas e benzina Chevron, Texaco e Caltex in tutto il mondo.

Per costruire questa campagna all’interno della IAATW e oltre i delegati si sono anche impegnati a contattare e collaborare con altri sindacati dei trasporti basati su app per incoraggiarli a rispondere a queste richieste e organizzare una giornata informativa internazionale.

La IAATW ha osservato:

Infine la IAATW si impegna a indagare e ad agire contro le società di app che utilizzano tecnologia israeliana in quanto complici del genocidio perpetrato contro i palestinesi.

La IAATW è solidale con il popolo palestinese e il movimento operaio palestinese e la loro lotta per la liberazione nazionale; ribadiamo le richieste per un cessate il fuoco immediato e la fine dell’apartheid israeliano e dell’occupazione militare e invitiamo gli altri sindacati a fare lo stesso

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Appello del movimento BDS per il boicottaggio delle stazioni di servizio dei marchi Chevron

30 gennaio 2024-Comitato nazionale palestinese del BDS (BNC)

Il Comitato Nazionale Palestinese BDS (BNC), la più AMPIA coalizione palestinese che guida il movimento globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, chiede di intensificare la campagna contro il gigante dei combustibili fossili Chevron impegnandosi nel boicottaggio dei consumatori delle stazioni di servizio Chevron, Texaco e Caltex.

Chevron è stato il principale attore internazionale nell’estrazione del gas fossile rivendicato da Israele nel Mediterraneo orientale da quando ha acquisito Noble Energy nel 2020. Con le sue attività di estrazione Chevron è coinvolta nella politica e nella pratica israeliana di privare il popolo palestinese del diritto alla sovranità sulle proprie risorse naturali. Le attività estrattive della Chevron generano miliardi di dollari di entrate per l’Israele dell’apartheid e i suoi finanziamenti per la guerra contribuendo a finanziare il genocidio in corso contro 2,3 milioni di palestinesi a Gaza, così come il suo regime di colonialismo, apartheid e occupazione militare. La Chevron alimenta l’apartheid e la devastazione ambientale.

Nel 2022 il movimento BDS ha lanciato un appello a boicottare sia Siemens che Chevron con la campagna contro la Chevron precedentemente focalizzata sul disinvestimento. Ora chiediamo ai sostenitori dei diritti dei palestinesi e della giustizia climatica di aumentare la pressione sulla Chevron boicottando le stazioni di servizio della Chevron e le stazioni di servizio di proprietà della Chevron, comprese Texaco e Caltex. Ci sono migliaia di distributori di benzina Chevron, Texaco e Caltex in tutto il mondo.

Durante la lotta contro l’apartheid in Sud Africa un movimento per boicottare i combustibili Shell per la sua complicità nell’apartheid ha guadagnato slancio in tutto il mondo, con sostenitori che hanno preso parte a picchetti alle stazioni di servizio e ad importanti campagne di disinvestimento nei confronti della compagnia di combustibili fossili. Ispirato dalla lotta di liberazione del Sud Africa, il movimento BDS guidato dai palestinesi mira a esercitare pressioni sulla Chevron fino a quando non cesserà più di condurre affari che violano gravemente i nostri diritti umani e avvantaggiano il regime genocida dell’apartheid israeliano.

Ribadiamo il nostro appello ai sostenitori dei diritti dei palestinesi in tutto il mondo affinché costruiscano e rafforzino partenariati intersezionali #BoycottChevron con il movimento per la giustizia climatica e le numerose comunità e popolazioni indigene di tutto il mondo che stanno denunciando e resistendo alla violenza coloniale dell’estrattivismo della Chevron, alla distruzione ambientale e alle gravi violazioni dei diritti umani.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)