I palestinesi continuano a dovere affrontare barriere sanitarie

Sharmila Devi

20 maggio 2023, The Lancet,

L’OMS afferma che l’occupazione, le divisioni politiche, la frammentazione, il blocco e gli ostacoli alla circolazione continuano a limitare l’accesso ai servizi sanitari. Lo riferisce Sharmila Devi.

Secondo due nuovi rapporti pubblicati dall’OMS il 9 maggio 2023, notevoli ostacoli continuano a impedire il diritto alla salute nel territorio palestinese occupato, tra cui “occupazione in corso, divisioni politiche… ostacoli fisici al movimento e attuazione di un regime di permessi”.

I rapporti sono stati diffusi durante uno dei peggiori conflitti degli ultimi anni tra Israele e la Jihad islamica palestinese, che ha provocato la morte di almeno 33 persone nella Striscia di Gaza e due persone in Israele. Un cessate il fuoco avrebbe dovuto entrare in vigore alla fine del 13 maggio.

I rapporti dell’OMS documentano 750 attacchi a strutture e personale sanitario registrati nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania dal 2019 al 2022, che hanno provocato la morte di un operatore sanitario e il ferimento di 568, con 315 ambulanze e 160 strutture sanitarie colpite. “Nel 2022, abbiamo visto il maggior numero di palestinesi uccisi dalle forze di sicurezza israeliane dal 2005, spesso a seguito di un uso eccessivo della forza”, Ajith Sunghay, capo dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) nei Territori palestinesi occupati, si legge in un comunicato stampa. “Questa tendenza è aumentata solo nel 2023. L’OHCHR e l’OMS hanno documentato che le forze israeliane hanno spesso impedito l’accesso alle cure mediche, anche per le squadre di prima risposta per raggiungere le persone con ferite potenzialmente letali”.

Dal 2019 al 2021, solo il 55% dei farmaci essenziali era disponibile nel Central Drug Store del Ministero della Salute nella Striscia di Gaza, secondo il rapporto Diritto alla Salute dell’OMS. Il rapporto invitava Israele a “porre fine al ritardo arbitrario e alla negazione dei permessi per i pazienti palestinesi”, in tutto il territorio palestinese occupato.

Solo il 65% delle richieste dei pazienti di uscire dalla Striscia di Gaza per raggiungere Gerusalemme Est, Cisgiordania, Giordania o Egitto per cure mediche sono state approvate da Israele e le ambulanze hanno dovuto affrontare un tempo medio di attesa di 68 minuti al valico di Erez tra Israele e il Striscia di Gaza. L’OMS ha anche espresso preoccupazione per i 385 interrogatori da parte delle forze di sicurezza israeliane di pazienti e dei loro compagni che hanno lasciato la Striscia di Gaza per ricevere cure mediche nel 2019-21.

La Striscia di Gaza è sotto il blocco israeliano dal 2007, quando il gruppo militante Hamas vinse le elezioni parlamentari palestinesi. Un governo palestinese separato sotto il presidente Mahmoud Abbas amministra la Cisgiordania. Sebbene i tassi di approvazione israeliana dei permessi per pazienti e accompagnatori dalla Cisgiordania fossero superiori a quelli della Striscia di Gaza, tra il 2011 e il 2021 sono state negate 331.678 domande di permesso dalla Cisgiordania.

L’altro rapporto dell’OMS, Palestine Voices 2022 to 2023, ha documentato l’impatto delle barriere all’accesso sanitario sui palestinesi. Fatma, una bambina di 19 mesi della Striscia di Gaza, è morta il 25 marzo 2022, dopo che le era stato ritardato l’accesso alla cardiochirurgia salvavita per quasi 3 mesi. Fatma è nata con una condizione cardiaca congenita nota come difetto del setto atriale e aveva bisogno di un intervento chirurgico presso il Makassed Hospital di Gerusalemme est. La sua famiglia ha chiesto tre volte i permessi per raggiungere gli appuntamenti in ospedale, ma le sono stati negati.

“Ci sono problemi sistemici che colpiscono gli operatori sanitari di Gaza e influiscono sull’accesso delle persone a un’assistenza sanitaria di qualità”, ha detto a The Lancet Sarah Davies, portavoce del Comitato internazionale della Croce Rossa a Gerusalemme.

“La regolare carenza di farmaci per il trattamento di malattie croniche, come il cancro, le malattie renali o il diabete nelle strutture sanitarie pubbliche a causa delle risorse limitate delle autorità sanitarie è ulteriormente complicata dalle difficili procedure di importazione. Questa restrizione alla circolazione di persone e merci dal 2007 impedisce anche agli operatori sanitari specializzati di ricevere una formazione iniziale e continua per garantire che le loro competenze rimangano all’interno delle linee guida delle migliori pratiche.”

Al 15 maggio, il Coordinatore delle attività governative nei Territori, l’organo del ministero della difesa israeliano che sovrintende agli affari civili nei Territori palestinesi occupati, non ha commentato i rapporti dell’OMS.

“Questi rapporti servono come duro promemoria del fatto che la comunità internazionale deve agire con urgenza per alleviare le sofferenze degli abitanti di Gaza e garantire il rispetto del loro diritto all’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità. Non possiamo stare a guardare mentre queste violazioni dei diritti umani continuano ad avvenire”, ha dichiarato a The Lancet Aseel Aburass, coordinatore dei progetti e della ricerca per i Medici per i diritti umani in Israele.

Un rapporto pubblicato da Medici Senza Frontiere (MSF) il 4 aprile, ha dettagliato l’impatto sulla salute delle misure militari israeliane a Masafer Yatta e dintorni, un’area della Cisgiordania dove, nel 2022, la Corte Suprema israeliana ha consentito lo sfollamento forzato dei palestinesi per far posto a una zona militare. Secondo il rapporto, ai pazienti veniva regolarmente negato l’accesso ai villaggi in cui MSF fornisce servizi medici se la loro carta d’identità mostrava che provenivano da un altro villaggio.

Il 15 maggio, l’ONU per la prima volta ricordato ufficialmente con eventi e incontri a New York il 75° anniversario della Nakba, che significa catastrofe in arabo e si riferisce allo sfollamento di massa dei palestinesi quando Israele fu fondato nel 1948.

Per i due rapporti dell’OMS vedere https://www.emro.who.int/opt/information-resources/right-to-health.html

Per il rapporto di MSF vedere https://msf.org.uk/article/palestine-new-msf-report-reveals-health-impact-coercive-measures-masafer-yatta

Per la commemorazione ONU della Nakba vedere https://www.un.org/unispal/nakba75/

Traduzione di Angelo Stefanini




La marina israeliana apre il fuoco contro le barche dei pescatori palestinesi lungo la costa di Gaza

Redazione di Palestine Chronicle (PC, WAFA)

17 maggio 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale palestinese di notizie WAFA ha riferito che le navi della marina dell’occupazione israeliana hanno preso di mira le barche dei pescatori mentre stavano navigando nel mare lungo la costa nord della Striscia di Gaza.

Il corrispondente dell’agenzia WAFA ha affermato che i soldati della marina israeliana hanno preso di mira con pallottole e candelotti di lacrimogeni le barche dei pescatori che stavano navigando nel mare al largo della città di Beit Lahiya e nell’area di Al-Waha. I soldati hanno obbligato con la forza i pescatori a tornare a riva.

Da ottobre 2000 le organizzazioni che si occupano di diritti umani a Gaza hanno documentato molte violazioni israeliane, incluse uccisioni e confische delle barche, contro pescatori che, in base agli accordi tra palestinesi e israeliani garantiti a livello internazionale, hanno il permesso di pescare al largo entro le 4-6 miglia nautiche.

Nonostante gli accordi firmati permettano ai pescatori di muoversi nel mar Mediterraneo entro le 12 miglia nautiche, la marina israeliana prende di mira i pescatori di Gaza quasi ogni giorno e non permette loro di andare oltre le tre miglia nautiche, limite che i pescatori dicono essere insufficiente per poter prendere pesci.

Un grande numero di abitanti di Gaza fa affidamento sulla pesca per la vita quotidiana alla luce del rigido assedio decennale imposto dallo Stato di Israele alla Striscia di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La simbolica commemorazione della Nakba alle Nazioni Unite ha messo in luce il disprezzo di Israele per la verità

Ramona Wadi

16 maggio 2023 – MiddleEastMonitor

“L’idea che un’organizzazione internazionale possa definire la fondazione di uno dei suoi Stati membri come una catastrofe o una sciagura è sia scioccante che rivoltante”, ha scritto l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan chiedendo ai diplomatici delle Nazioni Unite di astenersi dal partecipare alla inedita commemorazione della Nakba del 1948 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. A dire il vero l’azione più disgustosa è stata l’accettazione nel 1948 da parte delle Nazioni Unite del progetto coloniale israeliano come Stato membro a spese della popolazione palestinese sottoposta a pulizia etnica, la cui terra era (e continua ad essere) usurpata e il cui legittimo diritto al ritorno alla propria terra è una condizione ancora non soddisfatta dell’adesione di Israele alle Nazioni Unite.

La commemorazione della Nakba, sebbene sia significativa, non è nulla in confronto alla complicità delle Nazioni Unite nel permettere a Israele di prosperare. Come possono le Nazioni Unite, potremmo chiederci, permettersi di commemorare la memoria storica palestinese quando non vi fanno alcun riferimento in termini di diritti politici del popolo palestinese, o del legittimo diritto di resistere con ogni mezzo all’occupazione militare israeliana?

“Questa è un’occasione per sottolineare come i nobili obiettivi di giustizia e pace richiedano il riconoscimento della realtà e della storia delle peripezie del popolo palestinese e la garanzia del rispetto dei suoi diritti inalienabili” afferma il sito web dell’ONU, senza il minimo disagio alla consapevolezza che l’Organizzazione internazionale garantisce l’esatto contrario.

E tuttavia la commemorazione, nonostante l’imperante ipocrisia dei padroni di casa, è stata sufficiente a gettare nel panico Israele manifestandone la paranoia che possa aumentare la generale consapevolezza di come il popolo palestinese stia subendo da decenni un abuso politico che sarebbe in realtà reversibile. Basterebbe un’opposizione politica sufficiente allo status quo della normalizzazione di uno stato coloniale di insediamento e il sostegno al moribondo compromesso dei due Stati.

Secondo il Times of Israel 32 paesi hanno dichiarato che avrebbero boicottato l’evento, dieci dei quali membri dell’UE. Il peso diplomatico che Israele esercita a livello internazionale è considerevole; non solo un certo numero di paesi ha ascoltato l’appello di Erdan, ma è anche riuscito a convincere altri paesi di una narrativa filo-palestinese alle Nazioni Unite che non esiste. La narrativa sulla Palestina dell’Organizzazione è sia errata che totalmente filo-israeliana. Che gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada avrebbero boicottato l’evento era prevedibile; sia gli Stati Uniti che il Canada sono essi stessi Stati coloniali e la Gran Bretagna è un’ex potenza coloniale, quindi la loro fedeltà allo Stato di apartheid è profonda. Inoltre l’assenza di qualsiasi condanna di Israele come entità coloniale che priva i palestinesi della loro terra ha incoraggiato la normalizzazione del colonialismo e della violenza dei coloni.

Il che vuol dire che il significato che una tale manifestazione avrebbe potuto avere è andato perduto a causa della complicità delle stesse Nazioni Unite nel dare una certa credibilità alla falsa narrazione di Israele. Una singola commemorazione della Nakba non può competere con decenni di sostegno al colonialismo. Va ricordato che le Nazioni Unite danno molta importanza al simbolismo e hanno costretto i palestinesi in questa stessa narrativa. Tuttavia, la memoria collettiva dei palestinesi non è simbolica, è una realtà vissuta che l’Onu preferisce ignorare.

Eppure Israele si sente ancora minacciato al pensiero che le sue atrocità vengano smascherate. Erdan ha fatto un sacco di rumore per il simbolico evento sulla Nakba alle Nazioni Unite, ma la verità è che Israele è riluttante a qualsiasi disvelamento della memoria legata alla Nakba. La riluttanza a concedere i propri archivi alla ricerca accademica ne è un esempio calzante. Ciò che l’evento delle Nazioni Unite ha messo in luce è che Israele avrà sempre più difficoltà a nascondere la violenza della propria istituzione in Palestina su terra usurpata, nonostante la riluttanza della comunità internazionale a porre fine al colonialismo e alla violenza di Stato.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Settantacinque anni dopo la Nakba i palestinesi di Gaza conservano la loro tradizione attraverso le canzoni

Tareq S. Hajjaj

15 maggio 2023 – Mondoweiss

A 75 anni dalla loro espulsione i rifugiati di Gaza conservano la loro eredità culturale attraverso il folklore e le canzoni che raccontano una storia di resistenza e nostalgia della Palestina

In cerchio, con le mani che battono continuamente il ritmo, si uniscono tutte ai versi di una canzone mentre una donna al centro del cerchio suona un tamburo che tiene appoggiato a un fianco, dando loro il ritmo e le battute. In occasioni simili le donne anziane guidano l’esibizione, trovando un’occasione d’oro non solo per rivivere la tradizione vissuta nella terra d’origine prima del 1948, ma anche per trasmetterla alle generazioni più giovani in modo che non venga mai dimenticata.

Con vestiti colorati e con specchietti, in genere anche poche anziane sono in grado di trascinare con sé le giovani, facendo ripetere loro i versi varie volte, finché non si divertono a ripeterli e li hanno memorizzati, sempre più desiderose che le anziane insegnino loro i versi successivi.

Safia Jawad, 71 anni, veste il costume tipico del suo villaggio d’origine, Isdud (ribattezzato Ashdod dallo Stato di Israele), pieno di ricami fatti a mano e magnificamente intessuti. Inizia lentamente e abilmente con un tono basso a recitare questi versi:

“Veniamo dalla valle per la ragazza con i fianchi attraenti.

Veniamo dal mare per la ragazza con la vita come una ghirlanda di fiori.”

Queste parole risalgono a molti anni prima della Nakba, quando il popolo palestinese era solito celebrare gli avvenimenti con una canzone. Utilizzando solo mezzi semplici, le loro voci o strumenti come il “rebab” [strumento ad arco, antenato del violino, ndt.], creavano nuove canzoni adatte a specifici momenti e contesti.

Safia ha memorizzato una lunga lista di canzoni e versi per i matrimoni, benché non fossero le uniche occasioni a cui venivano riservati canti popolari. Ogni avvenimento, felice o triste, ha una canzone specifica. Esistevano in tutta la Palestina prima della Nakba, dopo la quale questa parte della tradizione palestinese venne trasformata. Le persone che scapparono dalle loro case e giunsero a Gaza come rifugiati portarono con sé le proprie tradizioni. Le conservarono e ripresero durante ogni matrimonio e funerale, fino al punto di tentare persino di diffonderle tra gli abitanti originari di Gaza. In seguito nacquero nuove forme di canzone.

Conservare la tradizione a Gaza

Nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, Samira Ahmed, 69 anni, e la sua figlia sposata, Sujoud, 36 anni, siedono una vicino all’altra su un divano nel soggiorno. Samira ha difficoltà a ricordare tutte le canzoni che le sono state insegnate dalla defunta madre, sopravvissuta alla Nakba.

Ogni tanto Sujoud ricorda a sua madre qualche canzone, e quando Samira dimentica una parte sua figlia finisce la strofa per lei.

“Nelle occasioni di famiglia come i matrimoni insisto perché ci sia un giorno intero di canzoni tradizionali,” dice Samira. “Ho un tamburo e canto tutte le canzoni che ho imparato. A volte le giovani presenti apprezzano le canzoni e le ripetono con me, altre volte chiedono canzoni moderne,” dice.

Trova che all’inizio le nuove generazioni di ragazze fanno fatica a seguire le canzoni perché sono abituate a quelle moderne, più veloci e con effetti musicali, in altre parole opposte al fluire di quelle tradizionali, che sono lente e prive di ogni altra musica che non sia quella del tamburo.

“Non sono solo canzoni che ripetiamo. Esse rappresentano il nostro orgoglio per la cultura e il folklore con cui i nostri nonni ci hanno cresciuti,” dice Samira a Mondoweiss. “Finché le facciamo rivivere e le rendiamo presenti durante i nostri eventi manterremo sempre la nostra eredità e cultura. Ed è così che conserviamo la nostra patria su ogni altra cosa.”

Samira è cresciuta amando questi canti fin da bambina, quando ascoltava sua madre cantarli durante i matrimoni, dimostrando precocemente un interesse personale. Quando ha avuto una famiglia sua li ha trasmessi ai suoi figli. Ora sua figlia Sujoud sta facendo altrettanto.

Ciononostante Samira teme che questa parte importante della storia della Palestina possa presto andare perduta, in quanto le nuove generazioni si orientano più verso la musica ritmata e moderna. “Difficilmente le persone giovani dimostrano interesse per queste canzoni, ma finché vive anche un solo rifugiato palestinese, non verranno dimenticate,” afferma.

Da parte sua Samira cerca di raccontare aneddoti divertenti riguardo a queste canzoni per avvicinare a loro i giovani, come la storia di una canzone per invocare la pioggia.

“La gente si metteva i vestiti al contrario, usciva nei campi e prendeva con sé un boccale di metallo su cui picchiare e chiedere a Dio la pioggia,” dice.

Questa è la canzone:

“Portaci la pioggia, portaci la pioggia, mio Signore,

per innaffiare le nostre piante rivolte a ovest.

Per favore, bagna le nostre sciarpe, mio Signore,

in modo che abbiamo pane a sazietà.

Per favore, bagna i nostri logori vestiti, mio Signore.

Siamo poveri e non abbiamo nessun luogo in cui andare.

Prima e dopo la Nakba

Per lo più nessuna particolare regione della Palestina è nota esclusivamente per una sua specifica canzone. Piuttosto, alcune canzoni hanno viaggiato in molti luoghi diversi all’interno della Palestina, e poi in ogni luogo le persone vi hanno aggiunto un proprio particolare specifico, rappresentandola attraverso accenti, intonazioni e modifiche del testo caratteristici del luogo. E’ così con molte delle canzoni folkloriche palestinesi.

Haidar Eid, professore di arte e letteratura all’università Al Aqsa di Gaza, raccoglie anche il patrimonio tradizionale che documenta il folklore palestinese e produce musica basata su canzoni tradizionali palestinesi. Un esempio è una canzone sul suo villaggio d’origine, Zarnuqa:

“Se solo la barca mi ha portato qui fosse stata piena di dolci

e avesse attraversato il mare e mi avesse riportato a Zarnuqa.”

Come ricercatore Eid ha scoperto che questa stessa canzone si è diffusa in diverse zone della Palestina, e ognuna di esse ha aggiunto qualcosa di specificamente regionale.

“Ci sono diversi tipi di canzoni e sono cantate in modo diverso nella tradizione palestinese delle canzoni. C’è la zajal, una poesia destinata ad essere cantata in lunghi poemi locali, e il mawwal, un canto prolungato con una voce molto lunga, adatta ad ogni occasione. Ci sono canti nunziali e il tarwidah, di quattro strofe, che comincia come un mawwal e poi inizia la canzone. E ci sono anche canzoni di cordoglio,” spiega Eid.

Una delle canzoni più popolari nei campi profughi di Gaza riguarda un innamorato che si lamenta e piange la sua amata con una strofa e la ripete nella successiva con lo stesso ritmo:

“Sono entrato in un bosco e ho cercato una pera – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Ho trovato la mia amata con un scialle in testa – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Fortunato chi può baciare quello scialle – Oh il mio occhio, oh la mia anima.”

Le donne di Gaza cantano questi versi nella stessa tonalità per 20 volte, mentre la cantante solista dice la prima parte il resto delle donne presenti ripete la seconda. I versi vengono detti nel dialetto locale dei palestinesi che hanno vissuto nella loro terra per centinaia di anni prima che gli israeliani li prendessero e uccidessero o espellessero con la forza.

Resistenza e nostalgia per la Palestina

Dopo la Nakba la vita della gente cambiò, e altrettanto fece il loro patrimonio culturale. E come la musica passò a riflettere la situazione della gente di una specifica regione, così ha fatto con i cambiamenti epocali nella lotta e nel modo di vita del popolo palestinese. Dopo la Nakba molte di quelle canzoni iniziarono a mostrare la natura della lotta dei palestinesi dopo il trauma del 1948, compresa la nostalgia per le loro case e terre e il loro diritto al ritorno. Le canzoni che i profughi palestinesi di Gaza iniziarono a diffondere dopo essere fuggiti dalle proprie case e scoprire che si sarebbero stabiliti a Gaza per un periodo imprecisato di tempo esaltarono le virtù dell’eroismo, del sacrificio e della resistenza.

Haidar Eid lo conferma: “Dopo la Nakba le canzoni palestinesi riguardarono la resistenza e il diritto al ritorno. Dopo l’occupazione e la seconda guerra israeliana nel 1967, che portò all’occupazione del resto della Palestina, le canzoni della resistenza si diffusero in tutta la Palestina. La nostalgia per la Palestina produsse sempre più canzoni,” afferma.

Una delle prime canzoni che si diffuse a Gaza dopo la Nakba riguarda un combattente della resistenza che fa una proposta a una ragazza. La canzone viene cantata con la voce della ragazza che chiede alla sua famiglia di accettarlo, anche se lui non ha di che pagare la dote. Nella canzone la ragazza dice:

“Mamma, dammi al combattente anche per niente – Egli entra nel territorio occupato

portando il suo mitra.

Mamma, dammi al combattente anche solo per un braccialetto – Egli entra nel territorio occupato e in ogni contrada.

Mamma, dammi al combattente anche solo per due soldi – Egli entra nel territorio occupato con il suo kalashnikov.

In tutte le canzoni il ritmo è lo stesso.

Tuttavia quella che forse è la canzone palestinese più nota è “Ya Zarif al-Tul”, diffusa in tutta la Palestina storica e nelle comunità palestinesi della diaspora. La canzone è precedente alla Nakba e si diffuse durante il periodo del mandato britannico. Originariamente cantata in riferimento a un anonimo palestinese “alto e bello” (zarif al-tul) che resiste con successo agli attacchi delle forze sioniste contro un villaggio, la canzone si trasformò e prese significati diversi nei decenni successivi alla Nakba.

La storia racconta di un palestinese che era universalmente visto dagli abitanti di un anonimo villaggio palestinese come una brava persona benché fosse uno straniero, e che lavorava come falegname in cambio di un compenso. Poi, quando un giorno una milizia sionista fece irruzione nel villaggio, con i suoi soldi comprò cinque fucili e li distribuì tra i giovani del villaggio che respinsero con successo l’attacco. Quando la milizia sionista tornò per vendicarsi scoppiò una grande battaglia in cui zarif al-tul sarebbe stato ucciso come un martire.

Un articolo di Khalil al-Ali spiega come si trasformò in seguito la leggenda di zarif al-tul:

“Quando la gente del villaggio raccolse i corpi dei martiri non trovò tra loro zarif al-tul, ed egli non era neppure tra i vivi, come se se ne fosse andato. Gli abitanti del villaggio convennero unanimemente che aveva combattuto coraggiosamente e ucciso più di 20 miliziani sionisti, salvando nel contempo alcuni giovani del villaggio. Con il passare dei giorni zafir al-tul divenne la canzone del villaggio: ‘ya zarif al-tul, dove sei andato…il cuore del tuo Paese è pieno di ferite. Ya zarif al-tul, stammi a sentire: hai lasciato il tuo Paese, eppure per te è meglio la Palestina.’”

Questa canzone si è poi trasformata nei versi con cui oggi è nota a molti:

Ya zarif al-tul, stammi a sentire.

Te ne sei andato in terra straniera, ma per te è meglio il tuo Paese.

Temo che te ne andrai, ya zarif, e troverai un’altra casa

Che incontrerai altre persone e mi dimenticherai.”

Nel corso degli anni il significato storico della canzone è stato per lo più dimenticato e oggi molti la intendono semplicemente una canzone che sottolinea l’importanza della propria casa e patria, soprattutto alla luce dell’espulsione provocata dalla Nakba.

Tuttavia ciò che la canzone di zarif al-tul ci dice è la storia della resistenza all’espulsione e all’oppressione. Al-Ali lo spiega bene:

“La storia racconta che negli anni successivi (alla presunta morte dell’anonimo palestinese) egli venne visto tra i rivoluzionari palestinesi (che resistevano alle forze sioniste) a Giaffa (nel 1948). E molte persone giurarono di averlo visto dietro a Jamal Abdul Nasser a Porto Said, ed altri a Gaza, e altri ancora dissero che era a Beirut prima dell’invasione israeliana del 1982… finché è risultato chiaro che zarif al-tul è ogni combattente della resistenza palestinese, e la canzone continua ad essere ripetuta fino ad oggi, con parole diverse da una versione all’altra.”

Questa storia di resistenza è più antica della Nakba, e le è sopravvissuta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I bambini di Gaza subiscono dei “traumi oltre ogni limite”

Maram Humaid

12 maggio 2023 – Aljazeera

I genitori dicono di non riuscire ad affrontare il trauma dei loro figli che dovrebbero giocare, non soffrire.

Gaza City, Gaza – Toqa al-Dalo piange senza sosta sotto shock dopo aver saputo della morte della sua migliore amica martedì, nel corso del primo attacco aereo israeliano sulla Striscia di Gaza.

Quella mattina, mentre si preparava per la scuola, la bambina di 10 anni ha visto i suoi genitori piangere sommessamente. Avevano saputo che Mayar Ezz El-Din, 10 anni, era stata uccisa insieme a suo fratello Ali, 7 anni, e al padre Tariq Ezz El-Din nel bombardamento della sua casa nel centro della Striscia di Gaza.

“Non riesco quasi a credere a quello che è successo”, ha detto ad Al Jazeera una Toqa in lacrime mentre abbracciava un regalo che Mayar le aveva fatto di recente dopo che lei si era fratturata una mano in un incidente. “È stata molto gentile e mi è stata di aiuto durante il mio infortunio. Che colpa avevano lei e il suo fratellino? Perché l’hanno uccisa?

Toqa ricorda i loro incontri nelle reciproche case e lo scambio continuo di messaggi.

Conoscevo Mayar da quando eravamo al primo anno di asilo e abbiamo continuato la nostra amicizia come compagne di classe a scuola. Lei era la mia migliore amica. Siamo sempre state in contatto”.

Venerdì Israele ha continuato i suoi attacchi aerei su Gaza con il bilancio di vittime palestinesi salito ora a 31, di cui sei minori e quattro donne. Al quarto giorno di attacchi più di 100 persone risultano ferite. Sono stati anche lanciati dei razzi da Gaza verso Israele.

Crescere prima del tempo

Alaa e Mohammad al-Dalo, i genitori di Toqa, hanno cercato di calmarla nonostante il loro stesso dolore.

“È molto difficile vedere la tua bambina soffrire cosi tanto in questa tenera età, quando dovrebbe giocare con gli amici e non ricevere la notizia della loro orribile uccisione nel sonno coi familiari”, ha detto Alaa ad Al Jazeera.

I nostri bambini a Gaza stanno crescendo prima del tempo e sono esposti a grandi traumi che vanno oltre la loro età e capacità di sopportazione.

“Noi genitori siamo confusi su come affrontarli insieme a loro, aggiunge mentre asciuga le lacrime di sua figlia.

I genitori di Toqa sono preoccupati per il suo intenso dolore ma soprattutto temono il suo ritorno a scuola dove non troverà Mayar accanto a lei.

“Questo peggiorerà notevolmente il suo stato d’animo”, dice Mohammad.

Toqa trascorreva la maggior parte del suo tempo a scuola con Mayar e suo fratello Ali, con cui giocava e chiacchierava costantemente per la sua gentilezza e simpatia. Ora ritorna a scuola con il cuore pesante “, aggiunge.

Incubo senza fine

Sempre martedì Hajar al-Bahtini, cinque anni, è stata uccisa insieme al padre Khalil Al-Bahtini, 45 anni, e alla madre, Laila, 43 anni, in un bombardamento israeliano sulla loro casa nel quartiere Tofah nella parte est di Gaza City.

Stavamo dormendo tranquillamente. All’improvviso ci siamo svegliati in mezzo alla distruzione, al rumore dei bombardamenti e alla polvere. Non potevo muovermi perché un muro era crollato sui miei piedi”, ha detto la sorella quattordicenne di Hajar, Sara al-Bahtini, dopo essere stata dimessa dall’ospedale con una steccatura sul piede fratturato.

I miei fratelli urlavano vicino alla stanza dei miei genitori in fiamme,” riferisce ad Al Jazeera.

Quando mi hanno portato nell’ambulanza ho visto i miei fratelli urlare e piangere. Cercavo di negare col pensiero la possibilità che i miei genitori fossero stati uccisi, ma sono rimasto scioccata quando ho saputo che anche Hajar era rimasta uccisa con loro”.

Sara dice che a volte “invidia” Hajar perché è con i suoi genitori e non piangerà più la loro perdita.

Hajar era la gioia della casa. Tutti l’amavano per la sua intelligenza e arguzia, e perché era la più giovane. Quale è stata la sua colpa per essere uccisa nel sonno?

Mi sembra di vivere una catastrofe e un incubo senza fine. In pochi istanti ho perso mia madre, mio padre e la mia sorella minore. Come continueremo la vita io e i miei sei fratelli? aggiunge scoppiando in lacrime.

Mohammad Daoud, 41 anni, è sotto shock, ancora sconvolto dalla morte del figlio di quattro anni, Tamim, che soffriva di un disturbo cardiaco.

Tamim si è svegliato terrorizzato a causa dei pesanti bombardamenti. È corso in grembo a sua madre piangendo e tremando di paura “, ha detto il padre di due figli nel ricordare l’attacco.

Per un momento non mi sono reso conto che il cuore di Tamim non poteva sostenere la paura. Ho provato a calmarlo, ma il suo cuore batteva così forte, come se stesse per cedere.

Ha portato d’urgenza Tamim all’ospedale pediatrico per la rianimazione cardiopolmonare, ma i medici hanno detto che le condizioni del bambino erano già peggiorate.

“Tamim è rimasto per ore in terapia intensiva fino a quando non è morto a fine giornata”, dice Daoud.

“Era il mio unico figlio con un sorriso dolce. Molto intelligente e vivace. È troppo per noi. È vero che mio figlio soffriva di una malattia cardiaca cronica, ma i terrificanti attacchi israeliani sulla Striscia sono oltre i limiti del sopportabile”, afferma.

Perché i nostri figli dovrebbero subire tutto questo? Una persona normale trema per la paura dell’atrocità del bombardamento, che dire allora dei bambini e dei malati?

L’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia ha condannato i continui attacchi da parte di Israele rilevando che finora sono stati uccisi sei bambini.

“Questo non è accettabile. Tutti i minori devono essere protetti, ovunque, da ogni forma di violenza e violazione grave, secondo il diritto umanitario internazionale”, ha affermato l’UNICEF in una nota.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gaza: i nomi dei bambini uccisi nell’attacco di Israele

Redazione Middle East Eye

11 maggio 2023 –  Middle East Eye

In cinque giorni di bombardamenti sono morti almeno sette minori palestinesi

Strazianti immagini sono giunte dalla Striscia di Gaza da quando il 9 maggio è iniziata l’offensiva di Israele nell’enclave assediata.

Edifici residenziali sono stati rasi al suolo mentre continuava il bombardamento israeliano con le famiglie costrette sulla strada.

I bambini sono stati i più colpiti, con almeno sette minori fra i 33 palestinesi uccisi.

In alcuni video che circolano online si vedono bambini che piangono di paura mentre sopra di loro continua il bombardamento, mentre altri cercano tra le macerie delle proprie case i loro cari e i loro beni.

Finora sono state danneggiate più di 500 unità abitative e i civili descrivono il terrore per la terra che trema sotto i loro piedi.

Ora diamo uno sguardo ai bambini uccisi nell’offensiva:

Mayar Tariq Ibrahim Ezz el-Din, 11 anni

Mayar Tariq Ibrahim Ezz el-Din è stata uccisa il 9 maggio 2023 a Gaza City. Aveva 11 anni.

Mayar e suo fratello Ali sono figli di Tareq Ibrahim Ezz el-Din, un comandante militare della Jihad islamica palestinese (PIJ).

La famiglia stava dormendo quando un jet da combattimento israeliano ha preso di mira l’intero piano del loro edificio residenziale nel quartiere di al-Remal nel centro di Gaza City.

Nell’attacco sono stati uccisi 15 palestinesi, compresi tre membri della PIJ, quattro bambini e quattro donne.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza altre 20 persone sono state ferite, compresi tre bambini e sette donne, alcuni dei quali sono in gravi e critiche condizioni.

Ali Tariq Ibrahim Ezz el-Din, nove anni


Ali Tariq Ibrahim Ezz al-Din è stato ucciso insieme a sua sorella Mayar il 9 maggio 2023 a Gaza City. Aveva 9 anni.

Ali, prima di essere ucciso, con sua sorella aveva comprato dei dolci e preparato i vestiti, eccitato per il giorno seguente, in cui doveva partire in gita scolastica.

Gli utenti dei social media hanno condiviso online fotografie dei fratelli durante gli allegri festeggiamenti e hanno pianto la loro perdita.

L’attacco ha distrutto completamente la casa della famiglia ed anche le abitazioni circostanti.

Hajar Khalil Salah el-Bahtini, cinque anni

Hajar Khalil Salah el-Bahtini, di cinque anni, è stata uccisa il 9 maggio 2023 a Gaza City insieme a sua madre di 44 anni, Layla el-Bahtini. E’ la figlia del comandante delle brigate Al-Quds Khalil al-Bahtini, anch’egli ucciso nel raid che ha colpito la loro casa.

Molti hanno condiviso foto di Hajar a scuola e hanno condannato Israele per aver preso di mira dei bambini negli attacchi.

Testimoni oculari che hanno parlato con Middle East Eye hanno descritto una sensazione di paura tra i bambini, che mostrano anche segni di disordine da stress post traumatico (PTSD).

Le scuole sono state chiuse mentre i ragazzi piangono i loro compagni e molti edifici hanno subito gravi danni.

Layan Bilal Maddoukh, otto anni

Layan Bilal Maddoukh, di otto anni, è stata uccisa il 10 maggio 2023 in un raid israeliano che ha colpito edifici residenziali nella via al-Sahaba a Gaza City.

Tamim Mohamed Dawoud, quattro anni

Tamim Mohamed Daoud, di quattro anni, è morto per un attacco di panico in seguito ad un attacco aereo israeliano sul suo quartiere a Gaza il 10 maggio 2023, ha detto suo padre a Middle East Eye.

Iman Adas, 17 anni 

Iman è stata uccisa insieme a sua sorella maggiore Dania, che si sarebbe sposata dopo pochi giorni.

Le sorelle sono state uccise in un attacco aereo che ha preso di mira la casa del loro vicino nelle prime ore del mattino.

I muri della loro casa sono diventati un mucchio di macerie mentre i loro beni si intravvedevano tra i frammenti di vetri e pietre.

Yazan Jawdat Elayyan, 16 anni

Centinaia di persone hanno partecipato ad un corteo funebre per l’adolescente, in cui hanno pianto la sua morte.

Testimoni hanno detto ai notiziari locali che dormivano quando è esploso il rumore assordante degli attacchi aerei e la casa di Elayyan si è sgretolata.

Io e mia moglie stavamo dormendo quando abbiamo sentito il rumore e i bambini sono saltati in piedi”, ha raccontato un testimone ai media locali.

Abbiamo guardato fuori e abbiamo visto l’edificio coperto di fumo e completamente distrutto. Tutto tremava…non vi è stato un preventivo avviso perché le persone se ne andassero.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La mancanza di scrupoli israeliana a Gaza

Editoriale

10 maggio 2023 – Haaretz

Nel primo attacco dell’offensiva su Gaza denominata Operazione Scudo e Freccia, iniziata nella notte tra lunedì e martedì, sono state uccise 13 persone tra cui 10 civili, tre dei quali bambini. Ma senza batter ciglio è stato affermato che si trattava di un “danno collaterale” dovuto alla necessità di eliminare tre figure di spicco della Jihad islamica. In realtà, è vero il contrario. I tre comandanti dovrebbero essere visti come il “risultato collaterale” dell’uccisione mirata di civili a Gaza.

Il gran numero di civili uccisi solleva questioni spinose sugli aspetti morali e legali di tali operazioni militari, e dovrebbero essere rivolte a più persone. I primi a cui rivolgere queste domande sono i comandanti dell’esercito, che hanno deciso “giudiziosamente” (più precisamente, a sangue freddo) di effettuare un attacco in un momento in cui era molto probabile che intorno agli obiettivi ci fossero civili, compresi bambini. Il secondo è il governo, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha autorizzato la missione. I decisori si sono assicurati che non ci fossero rischi per la vita dei civili o si sono affidati ai consigli dell’esercito? Hanno calcolato il prezzo omicida dell’azione – uccidere innocenti, compresi i bambini – e sono giunti alla contorta conclusione che il “prezzo” era giusto? Se la risposta è sì, allora questo non è solo un crimine morale, ma un crimine di guerra.

Il terzo è il procuratore generale Gali Baharav-Miara, che ha autorizzato l’operazione senza convocare il gabinetto di sicurezza. Ha accertato a fondo se ci fosse pericolo per la vita dei civili? E se è così, ha ritenuto opportuno approvare l’operazione nonostante il suo costo scellerato?

Ultimi a cui rivolgere le medesime domande sono i piloti che hanno effettuato la missione. Non sapevano, o valutavano, alla luce della situazione in atto e dell’esperienza passata che è molto probabile che il bombardamento di case invece che di siti militari porti all’uccisione di civili? La questione è critica poiché sono stati i membri dell’aeronautica, in particolare i riservisti, a invocare l’insubordinazione contro il golpe di regime [il tentativo di “riforma” giudiziaria del governo Netanyahu, ndt.] I piloti insubordinati vivono in pace uccidendo civili innocenti, bambini compresi? Trovano accettabile eseguire un ordine che ha una “bandiera pirata che ci sventola sopra?”

“Quando sgancio una bomba sento un leggero urto nell’ala”, disse Dan Halutz, ex comandante dell’aeronautica e poi capo di stato maggiore militare (e ora leader della protesta anti-golpe) nel 2002, dopo che 14 civili furono uccisi nel bombardamento della casa di Gaza dell’alto funzionario di Hamas Salah Shehadeh.

La sfacciata arroganza di Halutz riguardo all’omicidio all’ingrosso – per il quale è stato giustamente oggetto di feroci critiche pubbliche – è diventata routine. Non possiamo accettare che i crimini di guerra e la morte di innocenti diventino parte della routine israeliana. Una leadership con questa visione del mondo non può essere legittima in una democrazia.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale sia nell’edizione ebraico che inglese in Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele prosegue gli attacchi a Gaza, i palestinesi rispondono con i razzi

Redazione Al Jazeera

10 maggio 2023- Al Jazeera

Almeno cinque palestinesi sono stati uccisi e un altro ferito, mentre gli attacchi israeliani continuano tra il lancio di razzi per rappresaglia.

Secondo i funzionari della sanità palestinese almeno cinque palestinesi sono stati uccisi negli attacchi aerei israeliani che hanno colpito la Striscia di Gaza per il secondo giorno consecutivo.

La ripresa mercoledì dei bombardamenti ha provocato una raffica di razzi di rappresaglia dall’enclave assediata verso il sud di Israele.

I raid aerei israeliani hanno colpito diverse località dell’enclave assediata, sia a sud che a nord, e una serie di siti appartenenti al movimento della Jihad islamica palestinese (PIJ).

I media locali hanno riferito che almeno un altro palestinese è stato ferito a est di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza. Il PIJ non ha confermato che le vittime fossero membri del suo gruppo.

In un reportage da Gaza City, Youmna El Sayed di Al Jazeera afferma che la gente del posto è in “massima allerta” ed estremamente preoccupata: a seguito della serie di attacchi di martedì che hanno ucciso almeno 15 persone, tra cui diversi civili, le scuole e le strutture pubbliche e private hanno chiuso e le persone cercano di rimanere in casa.

Aggiunge: “C’è un altissimo senso di tensione e preoccupazione tra i residenti di Gaza dopo gli attacchi israeliani di ieri. Tutto a Gaza è chiuso e le persone sono rimaste nelle loro case”.

I media arabi hanno riferito che Hamas, il gruppo che gestisce la Striscia di Gaza, ha detto che i razzi lanciati da lì erano una risposta al “massacro commesso dall’occupazione israeliana”, dato che i media palestinesi hanno riferito che i razzi di rappresaglia erano “a nome del coordinamento delle fazioni [di Gaza]’” che comprende Hamas e altri gruppi armati con sede a Gaza.

Il giornalista israeliano Barak Ravid cita il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari che afferma non esservi alcuna indicazione immediata che Hamas sia coinvolta nei combattimenti.

Da parte israeliana le autorità hanno detto ai cittadini che vivono nelle città lungo la barriera di Gaza di evacuare o rimanere nei rifugi.

In un reportage da Ashkelon, nel sud di Israele, Willem Marx di Al Jazeera ha affermato che l’esercito israeliano era in massima allerta quando sono state avviate le sirene. Il sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome ha anche intercettato dei razzi.

“Negli ultimi istanti, ci sono state istruzioni [dalle autorità] alle persone di rimanere all’interno dei rifugi a causa di questi lanci”, ha detto. “Molte comunità sono state incoraggiate ad allontanarsi da qui”.

Il bombardamento arriva il giorno dopo che le forze israeliane hanno attaccato Gaza City e i suoi dintorni, uccidendo 15 persone, tra cui quattro minori, in quella che hanno definito un’operazione contro tre comandanti della PIJ.

In un attacco notturno, le forze israeliane hanno anche ucciso due persone nella città occupata di Qabatiya, in Cisgiordania, a sud di Jenin. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa palestinese WAFA il ministero della salute li ha identificati come Ahmad Jamal Assaf, 19 anni, e Warani Walid Qatanat, 24. Un palestinese di 17 anni è stato colpito al petto e portato in ospedale.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Due uccisi e due feriti nel recente bombardamento israeliano di Gaza

Redazione di MEMO

9 maggio 2023 – Middle East Monitor

Il ministero palestinese della salute a Gaza ha affermato che nel recente bombardamento israeliano della città di Khan Younis, nella parte meridionale della striscia di Gaza, due palestinesi sono stati uccisi e altri due feriti.

I loro nomi non sono ancora stati resi noti, ma lo Stato di Israele dichiara che erano uomini della Jihad Islamica che stavano pianificando il lancio di razzi verso Israele.

In una dichiarazione ufficiale, la Jihad Islamica ha negato che le vittime facessero parte dell’organizzazione, ma ha sottolineato che vendicheranno tutte le vittime uccise da questa mattina.

Le immagini pubblicate che mostrano un’auto bruciata dopo l’attacco sono diventate virali sui social media. L’esercito dell’occupazione ha pubblicato un video dell’attacco girato da un drone.

Il ministero della Salute ha affermato che l’attacco ha portato a 15 il bilancio delle vittime e i feriti a 22 dall’inizio degli attacchi nelle prime ore del mattino.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La Gran Bretagna e la Nakba: storia di un tradimento

Avi Shlaim

10 maggio 2023 – Middle East Eye

Un ininterrotto filo conduttore di doppiezza, menzogne e inganni lega la politica estera britannica da Balfour alla Nakba fino a nostri giorni.

La Gran Bretagna creò le condizioni che resero possibile la Nakba palestinese.

Nel 1948 i palestinesi sperimentarono una catastrofe collettiva di dimensioni enormi: circa 530 villaggi vennero distrutti, più di 62.000 case furono demolite, circa 13.000 palestinesi uccisi e 750.000, due terzi della popolazione araba del Paese, furono cacciati dalle proprie case e divennero rifugiati.

Questo fu il momento culminante della pulizia etnica sionista della Palestina.

Nella sua essenza il sionismo è sempre stato un movimento colonialista di insediamento. Il suo fine ultimo era la costruzione di uno Stato ebraico indipendente in Palestina sulla maggior quantità possibile di terra e con quanti meno arabi possibile all’interno dei suoi confini. I portavoce sionisti insistettero costantemente di non avere cattive intenzioni nei confronti degli abitanti arabi del Paese, di volerlo sviluppare a beneficio delle due comunità.

Ma si trattava in buona misura di retorica, kalam fadi in arabo, discorsi vuoti.

Il movimento sionista era spinto dalla logica del colonialismo di insediamento, una modalità di dominazione caratterizzata da quello che lo storico Patrick Wolfe ha denominato “una logica di eliminazione”. I regimi coloniali di insediamento intendono annientare la popolazione nativa, o quantomeno evitarne l’autonomia politica. L’eliminazione della popolazione autoctona è una precondizione per l’espropriazione della terra e delle sue risorse naturali.

Il movimento sionista era assolutamente spietato. Non prevedeva di collaborare con la popolazione araba nativa per il bene comune. Al contrario, intendeva sostituirla. L’unico modo in cui il progetto sionista avrebbe potuto essere realizzato e conservato era l’espulsione di un gran numero di arabi dalle loro case e l’appropriazione della loro terra.

Nel gergo sionista tali sgomberi ed espulsioni vennero ingannevolmente definiti e occultati con un termine meno brutale: “trasferimenti”.

Il cammino verso la statualità

Il colonialismo d’insediamento sionista era intrinsecamente legato alla Gran Bretagna, il principale potere coloniale europeo dell’epoca. Senza l’appoggio della Gran Bretagna il movimento sionista non avrebbe potuto raggiungere il livello di successo che ebbe nella sua impresa di costruire uno Stato.

La Gran Bretagna consentì al suo giovane alleato di lanciarsi nella sistematica appropriazione del Paese. Tuttavia il cammino verso la statualità era tutt’altro che agevole. Dalla sua nascita alla fine del XIX° secolo il movimento sionista incontrò un grande ostacolo sul suo cammino: la terra dei suoi sogni era già abitata da un altro popolo. La Gran Bretagna consentì ai sionisti di superare questo ostacolo.

Il 2 novembre 1917 la Gran Bretagna emanò la nota Dichiarazione Balfour. Prese il nome dal ministro degli Esteri Arthur Balfour e prometteva l’appoggio britannico alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”.

Lo scopo della dichiarazione era il ricorso all’aiuto dell’ebraismo mondiale nell’impegno bellico contro la Germania e l’Impero Ottomano. Venne aggiunto un ammonimento, in base al quale “non sarà fatto nulla che possa danneggiare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina”. Mentre la promessa venne pienamente rispettata, l’ammonimento venne lasciato cadere e dimenticato.

Nel 1917 la zona in precedenza chiamata Palestina era ancora sotto il dominio ottomano. Gli arabi rappresentavano il 90% della popolazione del Paese, mentre gli ebrei erano il 10% e possedevano solo il 2% della terra. La Dichiarazione Balfour era un classico documento coloniale perché accordava diritti nazionali a una piccola minoranza, ma semplici “diritti civili e religiosi” alla maggioranza.

Aggiungendo danno alla beffa, faceva rifermento agli arabi, la grande maggioranza della popolazione, come “comunità non-ebraiche della Palestina”. La resistenza araba al potere britannico fu inevitabile fin dall’inizio.

C’è un detto arabo secondo cui qualcosa che inizia storto tale rimane. In questo caso, in ogni modo, è difficile vedere come l’amministrazione britannica della Palestina avrebbe potuto essere raddrizzata senza incorrere nell’ira dei suoi beneficiari sionisti.

L’11 agosto 1919 Balfour scrisse in un memorandum spesso citato: “Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in tradizioni secolari, in necessità attuali, in speranze future, di importanza molto maggiore dei desideri e pregiudizi dei 700.000 arabi che ora vivono in quella antica terra.”

In altre parole, gli arabi non venivano presi in considerazione, mentre i loro diritti, compreso il diritto naturale all’autodeterminazione nazionale, erano liquidati come nient’altro che “desideri e pregiudizi”.

Nello stesso memorandum Balfour affermò anche che “per quanto riguarda la Palestina, le potenze non hanno fatto alcuna constatazione che non sia evidentemente sbagliata, e nessuna dichiarazione politica che, almeno alla lettera, non abbiano sempre inteso violare.” Non ci potrebbe essere un’ammissione più decisa della duplicità britannica.

Sacra fiducia nella civiltà”

Nel luglio 1922 la Lega delle Nazioni diede alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina. Il compito del potere mandatario era preparare la popolazione locale all’auto-governo e lasciare il potere quando fosse stata in grado di governarsi da sola.

Nella Convenzione della Lega i mandati erano descritti come “una sacra fiducia nella civiltà”. I loro scopi dichiarati erano lo sviluppo del territorio a beneficio della sua popolazione nativa e la trasformazione delle ex-province arabe dello sconfitto Impero Ottomano in moderni Stati-Nazione. In realtà erano poco più di una copertura del neo-colonialismo.

Forti pressioni sioniste indussero la Gran Bretagna a insistere per l’incorporazione della Dichiarazione Balfour nel mandato per la Palestina. Spesso è stato detto che ciò trasformò una vaga promessa britannica in un obbligo legale vincolante. Non è così per due importanti ragioni.

Primo, il mandato contraddiceva l’articolo 22 della Convenzione che richiedeva che la popolazione dell’area coinvolta venisse consultata riguardo alla scelta del potere mandatario. Balfour si rifiutò di consultare gli arabi perché sapeva troppo bene che, se avesse potuto dire la loro, avrebbero veementemente rifiutato il potere britannico.

Secondo, la Gran Bretagna non avrebbe potuto assumere il mandato perché nel 1922 non aveva sovranità sulla Palestina. La potenza sovrana fino al 1924 era la Turchia, erede dell’Impero Ottomano. Questo argomento è stato energicamente proposto dal giurista statunitense John Quigley in un articolo non pubblicato intitolato “Il fallimento britannico nell’attribuire valore giuridico alla Dichiarazione Balfour.” Nel sommario egli riassume il ragionamento nel modo seguente:

Il documento che la Gran Bretagna redasse per governare la Palestina (mandato sulla Palestina) chiedeva la creazione del focolare nazionale ebraico citato nella Dichiarazione Balfour. Tuttavia il governo della Gran Bretagna sulla Palestina, presumibilmente soggetto allo schema mandatario della Lega delle Nazioni, non ebbe mai basi legali. Secondo la sua Convenzione, la Lega delle Nazioni non aveva il potere di attribuire valore giuridico al Mandato sulla Palestina o di dare alla Gran Bretagna il diritto di governarla.

La Gran Bretagna non riuscì a ottenere la sovranità, che era un prerequisito per governare la Palestina o per detenere il mandato. La Gran Bretagna diede spiegazioni diverse in momenti diversi nel tentativo di dimostrare di detenere la sovranità. Le Nazioni Unite non misero in discussione la posizione giuridica della Gran Bretagna in Palestina, ma accettarono la legittimità del mandato sulla Palestina come base per la divisione del Paese. Fino ad oggi il problema dei diritti territoriali nella Palestina storica rimane irrisolto.”

Secondo Quigley la Gran Bretagna non andò mai oltre lo status di occupante belligerante. Nel suo libro del 2022 Britain and its Mandate Over Palestine: Legal Chicanery on a World Stage [La Gran Bretagna e il suo mandato sulla Palestina: inganno giuridico sulla scena mondiale] sviluppa questo argomento con una grande quantità di prove schiaccianti. Inganno non è una parola troppo forte per descrivere il modo in cui la Gran Bretagna manipolò la Lega delle Nazioni per ottenere il potere sulla Palestina o in cui abusò di questo potere per trasformare la Palestina da uno Stato a maggioranza araba a uno a maggioranza ebraica.

L’obbligo di proteggere i diritti degli arabi

L’importanza di includere l’impegno per un focolare nazionale ebraico non può essere sottovalutato. È ciò che differenziò fondamentalmente il mandato sulla Palestina dagli altri mandati per le province mediorientali dell’Impero Ottomano.

Il mandato britannico per l’Iraq, quello francese per Siria e Libano riguardavano tutti la preparazione della popolazione locale all’autogoverno. Il mandato sulla Palestina riguardava il fatto di consentire a stranieri, ebrei da ogni parte del mondo, ma soprattutto dall’Europa, di unirsi ai loro correligionari in Palestina e trasformare il Paese in un’entità nazionale controllata da ebrei.

Il mandato includeva un obbligo esplicito di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi, le “comunità non ebraiche in Palestina”. La Gran Bretagna non protesse affatto questi diritti. Il primo alto commissario britannico per la Palestina, sir Herbert Samuel, era sia ebreo che fervente sionista.

Durante il suo incarico la Gran Bretagna introdusse una serie di ordinanze che consentirono un’illimitata immigrazione ebraica in Palestina e l’acquisizione da parte degli ebrei di terre coltivate per generazioni da palestinesi.

Gli arabi chiesero delle restrizioni all’immigrazione e all’acquisizione di terre da parte degli ebrei. Chiesero anche un’assemblea nazionale democraticamente eletta che sarebbe stata un riflesso della situazione demografica. La Gran Bretagna resistette a tutte queste richieste e impedì l’introduzione di istituzioni democratiche. Le linee guida fondamentali della politica mandataria erano di non concedere elezioni finché gli ebrei non fossero diventati maggioranza.

Nel 1936 scoppiò una rivolta araba contro il dominio britannico sulla Palestina. Fu una rivolta nazionalista che durò fino al 1939. Per reprimerla venne schierato l’esercito britannico, che agì con la massima brutalità e spesso in violazione delle leggi di guerra. I suoi metodi includevano tortura, uso di scudi umani, detenzioni senza processo, draconiane norme d’emergenza, esecuzioni sommarie, punizioni collettive, demolizioni di case, villaggi dati alle fiamme e bombardamenti aerei.

Buona parte di questa violenza non venne diretta solo contro i ribelli, ma contro contadini sospettati di aiutarli e di essere loro complici. La repressione dell’insurrezione da parte dei britannici indebolì gravemente la società palestinese: circa 5.000 palestinesi vennero uccisi, 15.000 feriti e 5.500 incarcerati.

Il tradimento finale dei britannici

L’eminente storico palestinese Rashid Khalidi ha sostenuto, a mio parere in modo convincente, che la Palestina non venne persa alla fine degli anni ’40, come si crede comunemente, ma alla fine degli anni ’30. La principale ragione che fornisce dal suo punto di vista è il danno devastante che la Gran Bretagna inflisse alla società palestinese e alle sue forze paramilitari durante la rivolta araba. Questo argomento viene proposto nel capitolo di Khalidi in un libro co-curato da Eugene Rogan e da me: The War for Palestine: Rewriting the History of 1948 [La guerra per la Palestina: riscrivere la storia del 1948].  

Il tradimento finale dei britannici nei confronti dei palestinesi avvenne mentre la lotta per la Palestina entrava nella sua fase cruciale in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. All’epoca la Gran Bretagna si scontrò con i suoi protetti, i sionisti, e gli estremisti tra loro condussero una campagna di terrore destinata a cacciare le forze inglesi dal Paese. L’episodio più noto di questa violenta campagna fu l’attentato nel luglio 1946 contro l’hotel King David a Gerusalemme, che ospitava gli uffici amministrativi britannici, da parte dell’Irgun, l’Organizzazione Militare Nazionale.

In seguito a questo e altri attacchi il governo britannico sotto attacco decise di rimettere unilateralmente il mandato. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono una risoluzione per la partizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo.

Gli ebrei accettarono la partizione e gli arabi la rifiutarono. Di conseguenza la Gran Bretagna rifiutò di realizzare il piano di partizione dell’ONU in quanto esso non godeva del supporto di entrambe le parti.

Tuttavia c’era un’altra ragione: l’ostilità nei confronti della causa nazionale palestinese. Il movimento nazionalista palestinese era guidato da Hajj Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme, che era in dissenso con i britannici e aveva lasciato il Paese durante la rivolta araba.

Agli occhi degli inglesi uno Stato palestinese era sinonimo di uno Stato del muftì. L’ostilità verso i dirigenti palestinesi e uno Stato palestinese fu pertanto una costante e un fattore caratterizzante nella politica estera britannica dal 1947 al 1949.

Il mandato terminò alla mezzanotte del 14 maggio 1948. L’uscita britannica dalle difficoltà fu incoraggiare un suo sottoposto, re Abdullah di Giordania, a invadere la Palestina allo spirare del mandato, e di conquistare la Cisgiordania, che l’ONU aveva destinato allo Stato arabo. Nel frattempo l’astuto re aveva raggiunto un tacito accordo con l’Agenzia Ebraica per dividere la Palestina tra loro a spese dei palestinesi.

Il tacito accordo era che gli ebrei avrebbero fondato uno Stato ebraico nella loro parte di Palestina, mentre Abdullah avrebbe conquistato il controllo sulla parte araba, e che avrebbero fatto la pace dopo che si fossero calmate le acque.

Falsa neutralità

Durante la guerra civile scoppiata in Palestina nel periodo precedente al 14 maggio, la Gran Bretagna rimase defilata, abdicando alla sua responsabilità di mantenere la legge e l’ordine. La sua falsa neutralità aiutò inevitabilmente la parte sionista, più forte. Durante gli ultimi mesi del mandato, le forze paramilitari sioniste passarono all’offensiva e intensificarono la pulizia etnica del Paese.

La prima grande ondata di rifugiati palestinesi avvenne sotto gli occhi dei britannici. La Gran Bretagna di fatto abbandonò i nativi palestinesi alla mercé dei colonialisti d’insediamento sionisti. In breve la Gran Bretagna creò attivamente le condizioni della fine del suo stesso egocentrismo imperialista, in cui potesse svolgersi la catastrofe palestinese, la “Nakba”. Un filo mai spezzato di doppiezza, menzogne, inganni e imbrogli unisce la politica estera britannica dall’inizio del suo mandato fino alla Nakba.

Il modo in cui il mandato finì fu la peggiore vergogna dell’intera esperienza britannica come principale potenza al governo della Palestina. Dimostrò quanto poco importasse alla Gran Bretagna del popolo che avrebbe dovuto proteggere e preparare all’autogoverno.

Quando la situazione si fece difficile il potere mandatario semplicemente se la diede a gambe. Non ci fu nessun passaggio ordinato del potere a un’entità locale. La “sacra fiducia nella civiltà” venne definitivamente, irreversibilmente e imperdonabilmente brutalizzata e tradita.

Il sogno di lord Balfour diventò un incubo per i palestinesi. Nella coscienza collettiva dei palestinesi la Nakba non è un evento isolato, ma un processo storico continuo. Oggi oltre 5,9 milioni di rifugiati sono registrati dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Hanan Ashrawi ha coniato il termine “Nakba continua” per denotare la persistente esperienza palestinese di violenza e spoliazione per mano del colonialismo d’insediamento sionista. In un discorso alla conferenza dell’ONU del 2001 si riferì al popolo palestinese come “una nazione in cattività tenuta in ostaggio da una continua Nakba in quanto la più articolata e pervasiva espressione dell’apartheid, del razzismo e della vittimizzazione persistenti.”

Contraddizioni nella politica britannica

È triste dover aggiungere che nessun governo britannico ha mai chiesto scusa per la parte giocata dalla Gran Bretagna nella castrazione della Palestina storica. Gli ultimi cinque primi ministri conservatori, a cominciare da David Cameron, sono stati tutti accaniti sostenitori di Israele.

Nel 2017, nel centenario della Dichiarazione Balfour, l’allora prima ministra Theresa May affermò che fu “una delle lettere più importanti della storia. Dimostra il ruolo fondamentale della Gran Bretagna nella creazione di una patria per il popolo ebraico. Ed è un anniversario che celebreremo con orgoglio.” Non menzionò affatto le vittime palestinesi di questa importante lettera.

Nel suo libro del 2014 The Churchill Factor [Il Fattore Churchill] Boris Johnson descrive la Dichiarazione Balfour come “bizzarra”, “un documento tragicamente incoerente” e “una squisita opera indicibile del ministero degli Esteri”. Ma nel 2015 in un viaggio in Israele come sindaco di Londra Johnson celebrò la Dichiarazione Balfour come “un’ottima cosa”.

Nell’ottobre 2017, nel suo ruolo di ministro degli Esteri, Johnson avviò una discussione sulla Dichiarazione Balfour alla Camera dei Comuni. Ribadì l’orgoglio britannico per la parte giocata nella creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Nonostante una larga maggioranza per il riconoscimento della Palestina come Stato, si rifiutò di farlo, affermando che non era il momento.

Ciò evidenziò una fondamentale contraddizione al cuore della politica britannica: sostenere la soluzione a due Stati ma riconoscerne solo uno.

Toccò a chi sostituì Johnson, Liz Truss, dimostrare la profonda indifferenza dei politici conservatori inglesi nei confronti della sensibilità palestinese e fino a che punto essi sarebbero arrivati per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori acritici in quel Paese. Durante la sua campagna per l’elezione a leader del partito Conservatore, ventilò l’idea di spostare l’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme.

Fortunatamente durante i suoi 49 giorni come prima ministra Truss non riuscì a dare seguito a questa idea idiota.

L’attuale politica estera britannica non si è scusata per la Nakba ed è spudoratamente filosionista. Il 21 marzo 2023 un documento programmatico stilato dal governo è stato intitolato “Percorso per le relazioni bilaterali tra Regno Unito e Israele fino al 2030”. Questo documento tratta di commercio e cooperazione in una vasta gamma di settori.

Ma include anche l’impegno britannico a opporsi al deferimento del conflitto israelo-palestinese alla Corte Internazionale di Giustizia, al movimento globale, di base e non violento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per porre fine all’occupazione israeliana e a lavorare per ridurre la supervisione all’ONU su Israele.

In breve, il documento programmatico concede a Israele l’intera gamma di immunità per le sue azioni illegali e i suoi veri e propri crimini contro il popolo palestinese. Come tale, è un fedele riflesso della parzialità filosionista della politica estera britannica nel corso degli ultimi 100 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito di Relazioni Internazionali all’università di Oxford e autore di “The Iron Wall: Israel and the Arab World” [Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo, Il Ponte editore] (2014) e di “Israel and Palestine: Reappraisals, Revisiones, Refutations” [Israele e Palestina: ripensamenti, revisioni, refutazioni] (2009).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)