Rapporto OCHA del periodo 10 – 30 Gennaio 2023

Questo rapporto copre eccezionalmente tre settimane.

1). In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, durante il periodo di riferimento, sono stati uccisi 31 palestinesi, 6 israeliani e un cittadino straniero; sono rimasti feriti 441 palestinesi e nove israeliani, compreso un membro delle forze israeliane.

2). Durante una operazione condotta da forze israeliane nel Campo profughi di Jenin sono stati uccisi dieci palestinesi, tra cui due minori e una donna, e altri 26 sono rimasti feriti: tutti colpiti con proiettili veri. Questo è il numero più alto di palestinesi uccisi in una singola operazione da quando, nel 2005, l’OCHA iniziò a registrare in Cisgiordania il numero di vittime. Lo stesso giorno, un undicesimo palestinese è stato ucciso da forze israeliane nella città di Ar Ram (Gerusalemme), nel corso di una protesta contro l’operazione condotta a Jenin (seguono dettagli). Il 26 gennaio, forze israeliane hanno fatto irruzione nel Campo. Secondo l’esercito israeliano, citato dai media israeliani, l’operazione era finalizzata all’arresto di palestinesi sospettati di pianificare attacchi contro israeliani. Durante l’operazione le forze israeliane hanno circondato un edificio; ne è nato uno scambio a fuoco con palestinesi, tre dei quali sono stati uccisi e un altro è stato arrestato; tutti e quattro sono stati rivendicati dalla Jihad islamica come affiliati. Altri tre palestinesi sono stati uccisi in scontri a fuoco con forze israeliane: costoro sono stati rivendicati come affiliati sia dalla Brigata dei martiri di Al-Aqsa che dalla Jihad islamica. Inoltre, tre palestinesi, tra cui due minori (16 e 17 anni) e una donna palestinese di 61 anni, sono stati colpiti e uccisi con proiettili veri da forze israeliane, benché, secondo quanto riferito, non costituissero alcuna minaccia immediata. Durante l’operazione di cui sopra, le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni nelle vicinanze dell’ospedale di Jenin, colpendo l’unità pediatrica e rendendo necessaria l’evacuazione dei pazienti, compresi i minori. Quando le forze israeliane hanno sparato con missili a spalla contro l’edificio residenziale dove sono stati uccisi i tre palestinesi, sono stati distrutti diversi appartamenti, provocando lo sfollamento di tre persone. Durante l’operazione nessun soldato israeliano ha riportato ferite. Un palestinese, rivendicato come affiliato dalla Brigata dei martiri di Al-Aqsa, è deceduto il 29 gennaio per le ferite da arma da fuoco riportate il 26 gennaio nel Campo profughi di Jenin. Dopo l’operazione, in tutta la Cisgiordania, i palestinesi hanno tenuto manifestazioni; nel corso di alcune di esse i partecipanti hanno lanciato pietre e mortaretti contro le forze israeliane che, a loro volta, hanno sparato lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri. Un palestinese è stato ucciso vicino alla città di Ar Ram (Gerusalemme) durante una protesta contro l’operazione di Jenin e almeno altri 147 sono rimasti feriti (vedi sotto).

3). In un insediamento israeliano a Gerusalemme est, un palestinese ha sparato, uccidendo sei israeliani, tra cui un minore, e un cittadino straniero (per un totale di sette vittime); cinque israeliani sono rimasti feriti in questo e in un altro attacco palestinese, sempre in Gerusalemme est (seguono dettagli). Il 27 gennaio, un palestinese ha sparato, uccidendo sei israeliani, tra cui un ragazzo di 14 anni, e un cittadino straniero; ne ha quindi feriti altri tre nell’insediamento israeliano di Neve Ya’acov a Gerusalemme est. L’aggressore è stato successivamente colpito e ucciso dalla polizia israeliana. Dal 2008 questo è l’attacco più mortale condotto da palestinesi contro israeliani.

Il 28 gennaio, a Silwan, Gerusalemme est, un palestinese di 13 anni ha sparato, ferendo due israeliani, prima di essere colpito e ferito. Sono state segnalate altre due sparatoria: una vicino ad Almog, un insediamento israeliano a sud di Gerico, e un secondo contro un autobus israeliano sulla strada 60 vicino all’insediamento di Karmei Tsur, a nord di Hebron. Non sono stati segnalati feriti, solo danni al bus. Sulle strade della Cisgiordania, in ulteriori tre episodi separati, almeno tre veicoli israeliani sono stati danneggiati da pietre o bottiglie incendiarie lanciate da persone conosciute come palestinesi, o ritenute tali.

4). In Cisgiordania, forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi, tra cui un ragazzo; altri due palestinesi sono morti per le ferite riportate durante operazioni di ricerca-arresto e altre operazioni condotte da forze israeliane (seguono dettagli). L’11 gennaio, nel Campo profughi di Balata (Nablus), durante uno scontro a fuoco seguito a un’incursione sotto copertura di un’unità dell’esercito israeliano, forze israeliane hanno sparato con proiettili veri, ferendo un palestinese che in seguito è morto per le ferite riportate.

Il 12 gennaio, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), durante un’operazione di ricerca-arresto, un palestinese è stato ucciso da forze israeliane mentre cercava di impedire loro di arrestare il figlio.

Il 16 gennaio, forze israeliane hanno fatto irruzione nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme), innescando scontri con palestinesi che hanno lanciato pietre e bottiglie molotov, mentre le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni: un ragazzo palestinese di 14 anni è rimasto ucciso, colpito da proiettili veri.

Il 19 gennaio, forze israeliane hanno effettuato una operazione nel Campo profughi di Jenin, dove hanno avuto uno scontro a fuoco con palestinesi; due palestinesi sono stati uccisi, tra cui un insegnante che stava cercando di aiutare uno dei palestinesi feriti durante l’operazione. Durante la stessa operazione, secondo quanto riferito, un soldato israeliano è stato ferito da un ordigno esplosivo lanciato da un palestinese e tre palestinesi sono stati arrestati.

Il 12 gennaio, forze israeliane hanno fatto irruzione nella città di Qabatiya (Jenin), dove hanno avuto uno scontro a fuoco con palestinesi, due dei quali sono stati colpiti e uccisi.

Inoltre, il 14 e il 25 gennaio, un palestinese è morto per le ferite riportate il 2 gennaio ad opera delle forze israeliane a Kafr Dan (Jenin); un altro è stato ucciso nel Campo profughi di Shu’fat (Gerusalemme), colpito da proiettili veri sparati da forze israeliane durante scontri tra manifestanti e forze israeliane; entrambi sono rimasti uccisi durante demolizioni punitive di case di due palestinesi che avevano ucciso soldati israeliani prima di essere uccisi a loro volta.

5). In episodi separati, alcuni dei quali avvenuti ai checkpoints militari israeliani prossimi a Ramallah, Qalqilya e Hebron, forze israeliane hanno ucciso altri sette palestinesi, compreso un minore (seguono dettagli). Il 14 gennaio, nei pressi di Al Fandaqumiya (Jenin), forze israeliane hanno inseguito due palestinesi, colpendoli ed uccidendoli nel loro veicolo; secondo l’esercito israeliano, avevano aperto il fuoco contro soldati nei presi di Jaba’ (Jenin).

Il 15 gennaio, a un checkpoint volante disposto all’ingresso di Silwad (Ramallah), forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese; secondo testimoni oculari, è stato colpito da una distanza ravvicinata, dopo essere sceso dall’auto per controllare il figlio, che era stato spruzzato da forze israeliane con spray al peperoncino. Secondo i media israeliani, le forze israeliane hanno inizialmente affermato che l’uomo aveva lanciato pietre o aveva cercato di sottrarre l’arma ad un soldato; tuttavia, successivamente hanno ammesso che l’uccisione potrebbe essere stata ingiustificata.

Il 17 gennaio, un palestinese ha aperto il fuoco contro soldati in servizio ad un checkpoint militare vicino all’ingresso di Halhul (Hebron); è stato colpito e ucciso. Secondo le forze israeliane, che ne hanno trattenuto il corpo, l’uomo era sospettato di aver sparato contro un autobus il 15 gennaio. Durante l’episodio, due passanti palestinesi sono stati colpiti e feriti con proiettili veri dalle forze israeliane.

In un altro episodio, accaduto il 30 gennaio al checkpoint militare di Al Salaymeh, nell’area H2 della città di Hebron, forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese che, secondo le forze israeliane, aveva cercato di fuggire dopo essere passato con l’auto sul piede di un soldato.

Altri due distinti episodi sono stati registrati nei pressi dell’insediamento israeliano di Kedumim a est di Qalqiliya. Nel primo, accaduto il 25 gennaio, forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese che, secondo le forze israeliane, aveva cercato di accoltellare soldati israeliani posizionati a un checkpoint. Nel secondo caso, accaduto il 29 gennaio, una guardia dell’insediamento israeliano ha sparato, uccidendo un palestinese che, secondo le forze israeliane, era stato avvistato vicino all’insediamento con una pistola. In nessuno dei cinque episodi sopra descritti è stato registrato alcun ferimento di israeliani.

Il 27 gennaio, un sedicenne palestinese è deceduto per ferite: il 25 gennaio era stato colpito da forze israeliane durante una manifestazione palestinese tenutasi nell’area di Silwan a Gerusalemme Est per protestare contro una demolizione punitiva avvenuta nel Campo profughi di Shu’fat (altri dettagli sotto).

6). Nei pressi degli avamposti di insediamenti di nuova costituzione a Hebron e Ramallah, coloni israeliani hanno sparato, uccidendo due palestinesi: il primo aveva accoltellato un colono israeliano; il secondo aveva tentato l’accoltellamento (seguono dettagli). L’11 gennaio, nei pressi di un nuovo avamposto colonico costruito su un terreno appartenente a palestinesi di As Samu’ (Hebron), un palestinese ha aggredito e ferito con un coltello un colono israeliano; a sua volta l’aggressore è stato colpito, con arma da fuoco, e ucciso da un altro colono.

Il 21 gennaio, nei pressi di un avamposto colonico di nuova costituzione vicino a Kafr Ni’ma (Ramallah), un altro palestinese è stato colpito e ucciso da un colono israeliano; come mostrato in un filmato pubblicato sui media israeliani, il palestinese aveva tentato un accoltellamento. I corpi di entrambi i palestinesi sono stati trattenuti dalle autorità israeliane.

7). In Cisgiordania, durante il periodo di riferimento, 422 palestinesi, tra cui almeno 49 minori, sono stati feriti da forze israeliane; 74 di loro (18%) sono stati colpiti da proiettili veri (seguono dettagli). Dei feriti, 249 (59 %) sono stati registrati in varie manifestazioni, comprese quelle contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso relative agli insediamenti vicino a Kafr Qaddum (Qalqilya), Beit Dajan, Beita e Jurish (tutte a Nablus) e altre manifestazioni contro l’operazione Jenin che ha comportato la morte di dieci palestinesi (vedi sopra).

In altri sette episodi separati, tutti registrati nel governatorato di Nablus, 95 palestinesi sono rimasti feriti in seguito all’ingresso di coloni israeliani nelle Comunità palestinesi, accompagnati dalle forze israeliane.

Altri 70 feriti si sono avuti in operazioni di ricerca-arresto e in altre operazioni condotte da forze israeliane; tre si sono verificati durante demolizioni (vedi sotto); altri cinque feriti sono stati registrati a Tulkarm, Jenin e Qalqilya, quando forze israeliane hanno sparato proiettili veri contro palestinesi che cercavano di attraversare varchi nella Barriera per raggiungere il loro posto di lavoro in Israele. Complessivamente, 288 palestinesi sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 74 sono stati colpiti da proiettili veri, 45 sono stati feriti con proiettili di gomma, sei sono stati aggrediti fisicamente, uno è stato colpito da una granata assordante, quattro da lacrimogeni e quattro da schegge.

8). Coloni israeliani hanno ferito 18 palestinesi, tra cui almeno un minore, in nove episodi, e persone conosciute come coloni israeliani, o ritenute tali, hanno causato danni a proprietà palestinesi in altri 42 casi (oltre a quelli feriti da forze israeliane nel summenzionato episodio riferito a coloni / seguono dettagli). Il 27 gennaio, sulla strada 60 vicino all’ingresso di Beita (Nablus), cinque palestinesi sono stati colpiti e feriti con proiettili veri sparati da coloni israeliani che hanno aperto il fuoco su un gruppo di palestinesi.

L’11 e il 28 gennaio, su una strada principale, vicino a Huwwara e Qusra (entrambe a Nablus), coloni israeliani hanno preso a sassate un veicolo palestinese, ferendo tre palestinesi.

Il 13 gennaio, in prossimità della Comunità di Al Mu’arrajat East (Ramallah), coloni israeliani hanno attaccato con bastoni e manganelli escursionisti palestinesi, ferendo due donne.

Il 18 gennaio, nelle vicinanze della Comunità di Khirbet Bir Al Idd di Masafer Yatta (Hebron), coloni israeliani hanno ferito due pastori palestinesi ed hanno attaccato il loro bestiame.

Il 20 gennaio, nel villaggio di Jurish (Nablus), coloni avevano collocato delle roulottes per impossessarsi di terreni di proprietà palestinese; ne è seguito uno scontro, con reciproco lancio di pietre, tra coloni israeliani e palestinesi e due palestinesi e un colono sono rimasti feriti.

Il 28 gennaio, a Qusra, coloni israeliani hanno attaccato i residenti palestinesi con pietre: due palestinesi sono rimasti feriti e sono stati segnalati danni a due veicoli e a una casa.

Il 27 e il 29 gennaio, in altri due distinti episodi, coloni israeliani hanno attaccato palestinesi che viaggiavano sulle strade vicino a Salfit e Huwwara, aggredendoli fisicamente e spruzzandoli con gas al peperoncino, ferendo due uomini e provocando danni ai loro veicoli.

In altri diciassette episodi, più di 1.500 alberi sono stati vandalizzati su terreni palestinesi, alcuni dei quali vicino a insediamenti israeliani, comprese aree in cui l’accesso palestinese richiede l’approvazione dell’esercito israeliano (comunemente indicato come “previo coordinamento”).

In altre tredici occasioni, persone conosciute come coloni, o ritenute tali, hanno lanciato pietre contro veicoli palestinesi, danneggiandone almeno ventuno. Altre proprietà palestinesi sono state danneggiate in dodici episodi registrati nei pressi di Al Ganoub e A Seefer (entrambi a Hebron), Kisan (Betlemme), Ras ‘Ein al ‘Auja (Gerico) e Beit Sira, Al Mazra’a al Qibliya, Turmus’ayya (tutti a Ramallah); secondo testimoni oculari e fonti della Comunità locale, questi includevano strutture agricole, trattori, raccolti e bestiame.

9). A Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, che sono quasi impossibili da ottenere, le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto la gente a demolire 88 strutture, comprese 21 abitazioni. Tre delle strutture erano state fornite da donatori come assistenza umanitaria. Di conseguenza, 99 palestinesi, tra cui 54 minori, sono stati sfollati e i mezzi di sussistenza di oltre 21.000 altri ne sono stati colpiti. Cinquantacinque delle strutture si trovavano in Area C, comprese cinque strutture demolite in base al Military Order 1797, che fornisce solo un preavviso di 96 ore e motivi molto limitati per impugnare legalmente una demolizione. Le restanti ventisei strutture sono state demolite a Gerusalemme est, di cui otto sono state distrutte dai loro proprietari, per evitare il pagamento di multe alle autorità israeliane. In Area B della Cisgiordania, le autorità israeliane hanno sigillato due pozzi d’acqua artigianali in costruzione, uno ad Habla e un altro a Kaqr Laqif (entrambi a Qalqiliya); entrambi i pozzi avrebbero fornito la principale fonte di acqua potabile e irrigazione per almeno 1.500 famiglie palestinesi in quattro Comunità.

10). Il 25 gennaio forze israeliane hanno fatto irruzione nel Campo profughi di Shu’fat, e il 28 gennaio a Ras al ‘Amud, entrambi a Gerusalemme est, dove hanno demolito o sigillato due edifici a più piani appartenenti a famiglie i cui membri avevano ucciso un soldato israeliano il 19 ottobre 2022, e sei israeliani e un cittadino straniero il 27 gennaio 2023. Di conseguenza, due famiglie, composte da 13 persone, tra cui cinque minori, sono state sfollate. Durante la demolizione nel Campo profughi di Shu’fat, i palestinesi hanno lanciato pietre contro le forze israeliane, che hanno sparato proiettili veri: un palestinese è stato ucciso (riportato sopra). Dall’inizio dell’anno, le autorità israeliane hanno demolito o sigillato, per motivi punitivi, quattro case e un’altra struttura, rispetto alle undici in tutto il 2022 e tre nel 2021. Queste includono tre strutture in Area B e due a Gerusalemme est. Queste demolizioni punitive sono una forma di punizione collettiva, proibita dal diritto internazionale e spesso innescano scontri tra le Comunità palestinesi e le forze israeliane, con conseguenti vittime.

11). Nel sud di Hebron una scuola finanziata da donatori è a rischio imminente di demolizione. Il 18 gennaio, l’Alta Corte di giustizia israeliana ha stabilito che il piano delle autorità israeliane di demolire la scuola può procedere a partire dal 28 gennaio. La scuola finanziata da donatori è frequentata da 47 minori della Comunità beduina palestinese di Khashm Al Karem, situata in un’area designata come “Zona a fuoco 917” nel sud di Hebron.

12). In Cisgiordania le chiusure continuano a interrompere l’accesso di migliaia di palestinesi a mezzi di sussistenza e servizi. A seguito di un attacco con armi da fuoco, accaduto il 28 gennaio nei pressi di Almog (un insediamento israeliano a sud di Gerico) dove non sono stati segnalati feriti o danni, forze israeliane hanno dispiegato checkpoints volanti davanti a tutti gli ingressi e le uscite della città di Gerico, e successivamente hanno chiuso tutti e cinque i punti di accesso da e per Jericho City per un giorno intero (28 gennaio). Da allora sono stati eretti cinque checkpoints, compreso l’utilizzo di blocchi di cemento, e gli ingressi principali della città sono presidiati da forze israeliane. Ai checkpoints sono state effettuate lunghe perquisizioni, soprattutto all’uscita dalla città di Gerico. Ciò ha limitato il movimento di circa 50.000 persone, costringendo i residenti a utilizzare strade sterrate alternative e lunghe deviazioni per accedere a cliniche, scuole e mercati. In altri due circostanze, il 23 e il 29 gennaio, nell’area H2 della città di Hebron, forze israeliane hanno chiuso l’As Salaymeh (Checkpoint 160) per diverse ore durante l’orario scolastico. Ciò ha limitato gli spostamenti di circa 1.200 residenti della zona ed ha pregiudicato l’accesso di circa 300 studenti alle undici scuole vicine. In una di queste occasioni, le forze israeliane hanno applicato limiti di età, consentendo di attraversare il checkpoint solo ai minori sotto i 13 anni. Il 15 gennaio, l’esercito israeliano ha bloccato, con cumuli di terra e blocchi di cemento, l’ingresso della Comunità di Khirbet ‘Atuf a Tubas, ostacolando il movimento di almeno 120 palestinesi; secondo quanto riferito in risposta al lancio di pietre palestinesi contro veicoli israeliani.

13). Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso, in almeno 56 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti o danni. In una occasione, bulldozer militari israeliani hanno spianato terreni all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale a est di Khan Younis.

14). Sempre nella Striscia di Gaza, il 25 e 26 gennaio, gruppi armati palestinesi hanno lanciato una serie di razzi e proiettili verso il sud di Israele; i razzi sono stati intercettati o sono caduti in aree aperte a Gaza e in Israele. Forze israeliane hanno lanciato una serie di attacchi aerei contro siti militari appartenenti a gruppi armati della Striscia di Gaza. Non sono stati segnalati feriti da entrambe le parti, ma sono stati provocati danni ai siti presi di mira a Gaza.

Questo rapporto riflette le informazioni disponibili al momento della pubblicazione. I dati più aggiornati e ulteriori analisi sono disponibili su ochaopt.org/data.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Attivisti chiedono protezione delle proprietà palestinesi dai coloni

Redazione di MEMO

1 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Ieri la Unified National Leadership of Popular Resistance [Dirigenza Nazionale Unificata della Resistenza Popolare] (UNLPR) ha sollecitato la formazione di comitati popolari per proteggere villaggi e città palestinesi dagli illegali coloni ebrei.

Questo è accaduto durante una riunione tenutasi a Ramallah per discutere la questione della continua aggressione dei coloni ebrei israeliani contro i villaggi e le proprietà vicine agli illegali insediamenti nella Cisgiordania occupata.

In una dichiarazione l’UNLPR ha affermato: “Alla luce delle crescenti occupazione e aggressione dei coloni, dei continui attacchi giornalieri e uccisioni dei civili palestinesi, diventa necessario formare comitati popolari per proteggere il popolo palestinese e le loro proprietà.”

L’UNLPR ha sottolineato che il governo israeliano di occupazione “sta portanto avanti un sistematico terrorismo di stato per imporre l’occupazione di fatto.”

Gli israeliani cercano di mettere in atto nuove leggi razziste aventi come obiettivo i nostri prigionieri, attraverso esecuzioni, cancellazione delle identità ed espulsione” dalle loro case e dalla loro nazione, ha aggiunto.

Nella dichiarazione afferma: “Tutto questo accade con il supporto americano e una comunità internazionale paralizzata, incapace di portare avanti azioni di boicottaggio o di deferire i politici israeliani alla Corte Penale Internazionale per cercare di porre fine alle quotidiane aggressioni israeliane.”

Gli illegali coloni ebrei hanno recentemente accentuato le loro aggressioni ai palestinesi e alle loro proprietà nella Cisgiordania occupata, mentre il governo dello Stato di occupazione ha anche incrementato le restrizioni contro i prigionieri palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il ballo in maschera dell’Israele liberale: un apartheid più sofisticato

Hagai El-Ad

30 gennaio 2023 – Haaretz

Dalle elezioni del primo novembre Israele si è rapidamente “tolto la maschera”, un processo evidenziato dagli accordi di coalizione prima dell’insediamento del il nuovo governo di Benjamin Netanyahu il 29 dicembre. In tali accordi la Legge Fondamentale del 2018 su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico evidenzia palesemente e ampiamente la supremazia ebraica ovunque Israele comandi tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Gli esempi sono molteplici. Il governo ha iniziato con questa dichiarazione programmatica: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della Terra di Israele.” Oltre a ciò, ci sono passi per “legalizzare” avamposti dei coloni in Cisgiordania e il tentativo di affrontare “la bilancia demografica” nel Negev e in Galilea, e un’iniziativa per espandere la legge sulle commissioni di ammissione [che concedono a una persona il permesso di abitare in una certa zona della Galilea o del Negev e che escludono sistematicamente i palestinesi, ndt.] a comunità con 600 o più famiglie rispetto alle attuali 400.

In un Paese in cui “l’insediamento ebraico” è un “valore nazionale”, come stabilito dalla Legge Fondamentale che non è stata bocciata dalla Corte Suprema, la bussola è la supremazia ebraica. Il trentasettesimo governo sta ampiamente avendo cura di ostentare tutto ciò.

Ma, mentre alcune maschere sono state rimosse, ne sono state messe in vendita delle altre. La storia secondo cui “i territori stanno occupando Israele” ci propone la nostalgia dell’Israele illuminato che verrà occupato in ogni minuto dal Selvaggio West dei territori. Dopotutto da questo lato della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] abbiamo democrazia, uguaglianza e stato di diritto, mentre nei territori l’apartheid si sta approfondendo. Quello che succede “lì” potrebbe avvenire “qui”, ci viene detto.

Tutto ciò è lontano sia dalla storia che dalla realtà. Dopotutto Israele non ha solo occupato i territori [palestinesi], ha anche messo in atto “lì” pratiche che aveva introdotto “qui” a partire dal 1948. Queste pratiche includono l’imposizione di un governo militare e la promozione dell’“insediamento ebraico”, l’appropriazione ebraica di terra palestinese e una riprogettazione del potere politico, della geografica e della demografia. Tutto è iniziato “qui”, e dal 1967 [la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza, ndt.] è stato messo in pratica anche “lì”: la stessa ideologia e le stesse politiche “in tutte le zone della Terra di Israele.”

Il rimpianto per come stanno le cose ora porta a un fenomeno veramente grottesco se consideriamo le reazioni alle modifiche che il nuovo governo ha previsto al progetto di espropriazione da parte di Israele in Cisgiordania. Si è duramente protestato contro questi cambiamenti, un “trasferimento di poteri” dall’esercito a un ente civile, uno schiaffo all’“indipendenza” del consulente giuridico dell’esercito per la Cisgiordania e l’illegalità di queste iniziative in base alle leggi internazionali.

La lotta contro il governo di estrema destra deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano, non la grande menzogna che cerca di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale israeliana. Ma di cosa hanno paura i manifestanti [contro il nuovo governo Netanyahu, ndt.], che diventi evidente che non c’è una sovranità “separata” in Cisgiordania? Che l’Amministrazione Civile dell’establishment della difesa abbia sempre messo in pratica lì le politiche governative invece di una politica indipendente realizzata dal capo del comando centrale dell’esercito in base al suo profondo rispetto delle leggi internazionale e della comunità palestinese?

Il consigliere giuridico per la Cisgiordania si è sempre adoperato per fornire il beneplacito al furto di terra palestinese da parte di Israele. Ciò era vero sotto un governo “di sinistra” e lo sarà sotto il governo “totalmente di destra”. Le politiche israeliane nei territori, in parte responsabilità di quell’organizzazione burocratica chiamata l’Amministrazione Civile, sono sempre state solo questo: le politiche israeliane nei territori, non un’amministrazione separata o un regime separato.

Nessuno stava ad aspettare la nomina di un membro dell’“estrema destra” a ministro incaricato di questi problemi nel ministero della Difesa. Ministri e parlamentari da uomini di Stato, procure e ufficiali dell’esercito hanno definito l’infrastruttura politica, amministrativa e giudiziaria di Israele per portare avanti queste politiche.

Anche la Corte Suprema ha svolto fedelmente il proprio ruolo. Dalla sera alla mattina gli israeliani ripetono il mantra secondo cui dobbiamo proteggere la Corte dai demolitori della democrazia e dello stato di diritto. Che cosa stanno cercando di nascondere qui?

Soprattutto il ruolo della Corte nell’approvare il progetto di spoliazione dei palestinesi e nell’impedire che i criminali responsabili di ciò fossero chiamati a risponderne. Come ha detto lo scorso mese Elyakim Rubinstein, ex procuratore generale e giudice della Corte Suprema: “Chi è il nostro giubbotto antiproiettile contro l’Aia [la Corte Penale Internazionale, ndt.]? Soprattutto la Corte Suprema… Indebolire la Corte significa indebolirci all’Aia.”

In altre parole, non abbiamo una Corte che protegge i diritti umani, abbiamo una Corte che protegge israeliani dall’essere chiamati a rispondere per aver minato i diritti umani dei palestinesi.

E perché noi si possa continuare così senza un intervento internazionale, dobbiamo salvaguardare l’“indipendenza” della Corte. La Corte continuerà, in modo indipendente, ad approvare la demolizione di case palestinesi, il furto di terra palestinese, il fatto di sparare a manifestanti palestinesi e ucciderli, la continua detenzione di palestinesi in sciopero della fame che stanno per morire e tutto quello che il regime di supremazia ebraica desidera per portare avanti i nostri diritti esclusivi.

La menzogna definitiva, che tutte queste cose non si trovano al centro del consenso al regime di supremazia ebraica, ma sono un’esclusiva dei “partiti dell’estrema destra radicale”, è stata menzionata in un editoriale del New York Times lo scorso mese. Gli stessi “estremisti” stanno chiedendo di “estendere e legalizzare colonie in un modo che renderebbe effettivamente impossibile uno Stato palestinese in Cisgiordania,” ha scritto il Times.

Questo è davvero un nuovo programma di estrema destra? Non hanno forse tutti i governi israeliani dal 1967 costruito, esteso e legalizzato colonie? Non è stato il (non estremista) partito Laburista a patrocinare tutto questo? Non hanno giocato le (non estremiste) Procura generale e Corte Suprema un ruolo nell’approvare il progetto?

L’idea che la formazione di uno Stato palestinese “sia impossibile” è una vecchia politica israeliana al centro degli accordi che hanno reso possibile il precedente “governo del cambiamento”. I leader di questa politica non sono considerati “estremisti”. È una posizione di centro: garantire ai palestinesi non uguaglianza e libertà, ma apartheid.

Cos’è ancora limitato solo agli “estremisti”, secondo il New York Times? “Modificare lo status quo sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee, ndt.], un atto che rischia di provocare un nuovo ciclo di violenze tra arabi e israeliani.” Questa è veramente una questione imprevedibile e delicata. Ma nientemeno che il precedente primo ministro non estremista e non di destra, Yair Lapid, quando ha riassunto alla Knesset i successi del suo governo liberale, ha affermato che “l’anno scorso un numero record di ebrei ha visitato il Monte del Tempio”.

Ci sono probabilmente delle persone che credono che, con l’aiuto di tali maschere, possiamo costruire delle barricate migliori dietro le quali combattere il nuovo governo e i pericoli che esso rappresenta. Ma una barricata costruita sulle menzogne è una barricata inefficace, destinata a crollare. Dopo tutte queste bugie, la stessa “lotta” è diventata una grande menzogna che sta cercando di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale, come se i suoi fautori dicessero: “Se solo vivessimo ancora nel mondo ugualitario e illuminato del 31 ottobre 2022 [il giorno prima delle ultime elezioni, ndt.]!”

Non c’è nient’altro che nostalgia per un apartheid un poco più raffinato, un poco meno banditesco, l’apartheid di Benny Gantz [politico centrista ed ex generale, ndt.] e Elyakim Rubinstein, dio ce ne scampi non di Benjamin

Ovviamente non dobbiamo sottovalutare il pericolo rappresentato dal nuovo governo e dalle sue politiche. Ma la grande esplosione che potrebbe scatenarsi in qualunque momento implica che dobbiamo rifiutare di chiudere gli occhi sul quotidiano orrore sanguinoso che sono le vite dei palestinesi all’ombra del potere israeliano. Esattamente perché è un momento così pericoloso, vergognoso e razzista, dobbiamo combatterlo con onestà e non basare la lotta su menzogne.

Non può essere una lotta per “lo stato di diritto” (al servizio degli ebrei), o per il “senso dello Stato” (ebraico) o “uno Stato ebraico e democratico” (per gli ebrei). Deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano. Una lotta senza maschere.

Hagai El-Ad è un il direttore esecutivo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Premere il grilletto è la prima opzione: un nuovo rapporto rivela un’impennata della violenza israeliana contro i palestinesi

Comunicato stampa

30 gennaio 2023 – Euro-Med Monitor

Territori palestinesi – L’allarmante impennata delle uccisioni perpetrate nel 2022 dall’esercito israeliano contro palestinesi nei Territori Palestinesi Occupati è estremamente preoccupante, ha avvertito in una dichiarazione Euro-Med Human Rights Monitor, sottolineando la necessità di accertare le responsabilità e porre fine allo stato di impunità di cui Israele gode da decenni.

In un rapporto diffuso oggi intitolato “Premere il grilletto è la prima opzione”, Euro-Med Monitor ha affermato che il numero accertato di morti palestinesi in Cisgiordania è aumentato dell’82% nel 2022 rispetto al 2021 ed è quasi quintuplicato (491%) rispetto al 2020. L’analisi dei dati sul campo rivela che la maggioranza delle vittime palestinesi erano civili uccisi dall’esercito israeliano in operazioni ingiustificate e in contesti in cui non erano presenti minacce o pericoli imminenti per la vita di soldati o coloni israeliani.

Il nuovo rapporto si basa su un esame esaustivo dei casi di uccisioni nel 2022, sulla documentazione di eventi sul campo e su interviste condotte da Euro-Med Monitor con testimoni oculari e amici e familiari delle vittime.

Le uccisioni e le esecuzioni sommarie da parte dell’esercito israeliano di civili palestinesi, come si evince dalle sue indulgenti regole di ingaggio e dal sistema ufficiale di protezione per gli autori di terribili violazioni, dimostrano che si tratta di azioni autorizzate dallo Stato, piuttosto che individuali”, dice Ramy Abdu, direttore di Euro-Med Monitor.

A prescindere dal fatto che il governo di Israele sia politicamente di sinistra, di centro o di destra, l’uso della forza letale contro i palestinesi resta un elemento chiave della sua politica”, aggiunge Abdu. “Temiamo che quest’anno vedrà un incremento della violenza israeliana, con i decisori al potere che sostengono l’uccisione dei palestinesi e l’espulsione dalle loro terre.”

Il report contiene statistiche dettagliate di palestinesi uccisi dalle forze dell’esercito israeliano e da coloni nel 2022, documentando l’uccisione di 204 palestinesi da parte dell’esercito nel 2022, di cui 142 avvenute in Cisgiordania (69,6%), 37 nella Striscia di Gaza (18,1%), 20 a Gerusalemme (9,8%) e cinque nelle località arabe all’interno di Israele (2,4%).

I dati presentati dal rapporto mostrano che le forze israeliane hanno compiuto 32 esecuzioni sommarie, 18 delle quali accompagnate da accuse secondo cui le vittime avevano compiuto o stavano per compiere un attacco col coltello o con l’auto contro israeliani vicino a posti di blocco o aree sensibili israeliane; le altre esecuzioni in generale erano prive di qualsiasi motivazione o sono state effettuate sulla sola base di sospetti.

Con 55 palestinesi uccisi, il Governatorato di Jenin ha avuto il numero più alto di morti palestinesi nel 2022 rispetto ad altre città e governatorati, toccando una percentuale del 26,9% di tutti i decessi. Il Governatorato di Nablus segue con 35 morti, il 17,1% del totale; ciò è dovuto alla maggior frequenza delle incursioni e all’effettuazione di altre operazioni speciali nei due Governatorati.

Il mese di agosto 2022 ha registrato il maggior numero di palestinesi uccisi in un mese, con 42 morti, pari al 20,5% del numero totale, senza contare 16 altri uccisi nello stesso mese in seguito a razzi locali caduti nella Striscia di Gaza. Il tributo di morti in agosto è stato elevato a causa dell’operazione dell’esercito israeliano denominata “Breaking Dawn”, durata tre giorni, che ha preso di mira attivisti e postazioni legate al movimento della Jihad Islamica nella Striscia di Gaza. Ottobre ha visto il secondo più alto numero di palestinesi uccisi (28), seguito da 23 in aprile, 20 in novembre, 18 in settembre e 17 in marzo, tutti in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Un’analisi sulla tipologia delle vittime e il contesto delle uccisioni ha rivelato che 125 degli uccisi erano civili non coinvolti in disordini, il 61,2% della cifra totale delle vittime. Altre 17 persone sono state uccise mentre cercavano di condurre attacchi individuali (come accoltellamenti o assalti con auto), mentre 62 militanti palestinesi – che agivano per conto proprio o in gruppi – sono stati uccisi in scontri o mentre cercavano di portare attacchi contro obbiettivi israeliani.

In base alle cifre del rapporto, i minori costituiscono circa il 20% delle vittime delle uccisioni israeliane nel 2022, con 48 minori uccisi in attacchi e aggressioni israeliane, oltre a 8 donne uccise nello stesso anno, tre delle quali in esecuzioni sul campo in Cisgiordania. L’autorizzazione concessa dai vertici politici israeliani all’esercito e alle forze di sicurezza di agire “in assoluta libertà” col pretesto di “combattere il terrorismo” sembra aver spianato la strada all’uccisione e alla violenza ingiustificate contro civili palestinesi ai posti di blocco militari e in città, villaggi e paesi in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Il comportamento delle forze israeliane verso civili palestinesi rivela l’esplicito disinteresse dello Stato per i propri obblighi internazionali in base alle Convenzioni di Ginevra, in particolare alla Quarta Convenzione, che impone alle parti in conflitto di proteggere e non danneggiare i civili, e anche allo Statuto di Roma che ha dato vita alla Corte Penale Internazionale, ai sensi del quale le prassi israeliane configurano crimini di guerra.

Euro-Med Human Rights Monitor chiede all’Unione Europea di riconsiderare l’applicazione del suo accordo di partnership con il governo israeliano alla luce delle violazioni israeliane delle prescrizioni relative al rispetto dei diritti umani e dei principi di democrazia, e anche di interrompere i programmi di cooperazione fino a quando il governo di Israele non rispetti i propri obblighi e ponga fine alle sue gravi violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi.

Le principali strutture e agenzie dell’ONU devono intraprendere azioni urgenti per proteggere i civili nei Territori Palestinesi Occupati e garantire indagini e attribuzioni di responsabilità per le gravi violazioni e per qualunque violazione che potrebbe configurare un crimine di guerra. La Corte Penale Internazionale deve avviare le proprie inchieste senza ritardo e trattare la situazione nei territori palestinesi nello stesso modo in cui tratta casi simili in altre regioni del mondo.

Euro-Med Human Rights Monitor è un’organizzazione indipendente con sede a Ginevra e uffici regionali in tutta la regione del Medioriente e Nordafrica e in Europa.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Coloni, l’esercito scatena la vendetta in Cisgiordania

Tamara Nassar

29 gennaio 2023 – The Electronic Intifada

I coloni israeliani hanno attaccato i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata per vendicare l’uccisione di sette israeliani da parte di un palestinese armato venerdì in una colonia nella Gerusalemme est occupata.

Ciò è avvenuto mentre il governo israeliano è in procinto di armare migliaia di altri suoi cittadini, una mossa che sicuramente porterà a più uccisioni e violenze sommarie.

Come risposta alla sparatoria di venerdì il governo israeliano ha anche promesso di “potenziare” i suoi insediamenti coloniali illegali in Cisgiordania, usando lo spargimento di sangue come pretesto per confiscare e colonizzare ulteriormente la terra palestinese, un’altra mossa che sicuramente alimenterà altra violenza.

Nel frattempo le forze di occupazione hanno iniziato a imporre una punizione collettiva alla famiglia dell’uomo armato sigillandone la casa in preparazione di una demolizione come vendetta.

Israele sta anche minacciando più punizioni collettive crimini di guerra ai sensi del diritto internazionale inclusa la negazione dei benefici della sicurezza sociale ai parenti dei presunti aggressori palestinesi e la deportazione delle loro famiglie.

Questi tipi di punizione collettiva sono una caratteristica essenziale del sistema di apartheid israeliano, poiché vengono usati solo contro i palestinesi.

La furia dei coloni

Domenica gruppi di coloni hanno attaccato con pietre auto palestinesi sulle strade di diverse località della Cisgiordania, tra cui un incrocio vicino alla colonia di Yitzhar, vicino a Nablus.

i coloni hanno attaccato i palestinesi con spray al peperoncino e, secondo quanto riferito, un palestinese è stato leggermente ferito dal lancio di pietre dei coloni ebrei.

Domenica notte una casa e un’auto sono state date alle fiamme nel villaggio di Turmusaya vicino a Ramallah.

Una seconda casa nello stesso villaggio è stata vandalizzata.

Secondo quanto riferito, la polizia israeliana sta indagando sull’incidente, ma ci sono poche possibilità che qualcuno possa essere incolpato.

I proprietari di entrambe le case sono cittadini palestinesi americani e il personale addetto alla manutenzione è intenzionato a notificare gli attacchi all’ambasciata americana.

Secondo Ynet, una pubblicazione israeliana, nel villaggio i coloni hanno anche scritto con le bombolette “vendetta” e “morte agli arabi”.

Dei palestinesi hanno riferito ai media che i soldati israeliani nell’area hanno assistito senza reagire allo scatenarsi della furia dei coloni.

Nel frattempo nel villaggio di Aqraba, vicino a Nablus, dei coloni hanno sradicato e rubato più di 100 alberelli di ulivo.

Inoltre ad Aqraba e Majdal Bani Fadil, un altro villaggio vicino, dei coloni hanno dato fuoco a delle auto.

A Nablus i coloni hanno vandalizzato un’ambulanza palestinese.

E’ stato riferito che hanno anche danneggiato e distrutto le tende utilizzate dagli agricoltori nella Valle del Giordano.

Gli attacchi vendicativi dei coloni israeliani fanno seguito all’uccisione, venerdì, di sette israeliani a Neve Yaakov, un insediamento coloniale nella Gerusalemme est occupata, da parte di Khayri Alqam, 21 anni.

Secondo quanto riferito, Alqam, che è stato colpito a morte dai soldati, si chiamava come suo nonno, ucciso nel 1998 insieme ad altri tre palestinesi dal colono israeliano Haim Perelman.

Nonostante ciò Perelman venne successivamente rilasciato. Vive in una colonia per soli ebrei in Cisgiordania.

Le uccisioni di venerdì a Neve Yaakov hanno fatto seguito all’attacco israeliano al campo profughi di Jenin di giovedì, in cui le forze di occupazione hanno ucciso nove palestinesi, tra cui due minori e una donna . Nell’attacco israeliano sono rimaste ferite almeno 20 persone.

Una decima persona è morta domenica per le ferite riportate. Secondo quanto riporta il Ministero della Salute palestinese giovedì le forze israeliane hanno sparato allo stomaco a Omar Tariq al-Saadi, 24 anni.

Fomentare ulteriore violenza

L’Unione Europea ha condannato fermamente l’attacco a Neve Yaakov come un atto di “folle violenza e odio”.

Bruxelles ha anche affermato falsamente e in modo provocatorio che l’attacco è avvenuto “in una sinagoga di Gerusalemme” uccidendo e ferendo persone “mentre assistevano alla cerimonia dello Shabbat [servizio liturgico tradizionale del sabato ebraico, ndt]”.

Ma i resoconti dei media israeliani affermano tutti indistintamente che la sparatoria è avvenuta in una strada “vicino a una sinagoga”.

E invece l’UE ha approvato retroattivamente l’attacco letale di Israele a Jenin, affermando che Bruxelles “riconosce pienamente le legittime preoccupazioni di sicurezza di Israele, come evidenziato dagli ultimi attacchi terroristici”.

In realtà, le sparatorie di venerdì sono seguite al massacro di Jenin, che un funzionario delle Nazioni Unite ha descritto come “la più letale delle operazioni israeliane in Cisgiordania almeno dal 2005”.

Come ha scritto domenica Gideon Levy, editorialista del quotidiano israeliano Haaretz, “tutti sapevano che l’operazione a Jenin avrebbe scatenato una pericolosa ondata di violenza”.[vedi Zeitun]

Levy afferma che “non è possibile invadere il campo profughi di Jenin senza un massacro”, aggiungendo che “nessun massacro nel campo potrebbe passare sotto silenzio”.

L’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha documentato numerose violazioni del diritto internazionale da parte delle forze israeliane durante il micidiale raid nel campo profughi di Jenin.

In un caso gli aggressori israeliani hanno sparato a un minore palestinese e dopo la sua morte “un veicolo militare ha investito il suo corpo recidendogli l’orecchio destro e mutilandogli il volto”.

Dopo il massacro di Jenin, i media israeliani hanno riportato diversi tentativi da parte dei palestinesi di attaccare soldati o coloni israeliani.

L’anno 2022 ha visto il maggior numero di palestinesi uccisi dalle forze e dai coloni israeliani in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, dalla seconda intifada quasi due decenni fa.

Secondo il monitoraggio di The Electronic Intifada, nel corso dell’anno 207 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito, dalla polizia e dai coloni israeliani in Cisgiordania, a Gaza e all’interno di Israele, o sono morti per le ferite riportate negli anni precedenti.

Finora, nel 2023, Israele ha ucciso in media un palestinese al giorno, un fatto poco rilevato nella copertura dei media occidentali, ma che sta portando alla violenza.

Incremento della violenza

Sabato nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, un altro palestinese avrebbe sparato, ferendoli, a un soldato fuori servizio e suo padre.

I media hanno identificato nel tredicenne Mahmoud Aleiwat l’autore degli spari.

La famiglia del ragazzo nega che possa essere stato coinvolto nella sparatoria, anche se si dice che abbia lasciato un messaggio a sua madre chiedendo perdono.

Il soldato aveva l’arma con sé e ha sparato al ragazzo. Anche un altro colono gli ha sparato.

Il soldato ferito è in condizioni gravi ma stabili e, secondo quanto riferito, suo padre è in condizioni discrete.

Secondo Haaretz il ragazzo accusato della sparatoria è cosciente e sta ricevendo delle cure.

Giorni prima un parente di Mahmoud Aleiwat era è stato ucciso dalle forze israeliane.

Wadie Abdul Aziz Abu Rumouz, 17 anni, è stato colpito al petto il 25 gennaio. Le autorità israeliane hanno sottoposto Wadie agli arresti persino mentre si trovava nel reparto di terapia intensiva.

E’ morto venerdì a causa delle ferite.

Israele sta ora progettando di demolire la casa della famiglia del ragazzo di 13 anni, così come quella di Khayri Alqam.

Nel frattempo, sabato un giovane palestinese è stato colpito e ucciso da una guardia di sicurezza nei pressi dell’insediamento di Kedumim, nel nord della Cisgiordania.

Karam Ali Salman, 18 anni, aveva cercato di entrare nell’insediamento coloniale armato di pistola, ha affermato l’esercito. Il suo video è stato condiviso dai media locali.

Mostra una persona che cammina con cautela attraverso un campo portando un oggetto.

I media israeliani non hanno riferito di feriti tra i coloni.

Kedumim, che è costruito su terreno privato palestinese, ospita l’abitazione del Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich.

In un altro incidente i soldati israeliani hanno sparato a un camionista palestinese che, secondo loro, stava tentando un attacco ma in seguito hanno ammesso che non era così.

L’esercito ha riferito che nessuno è rimasto ferito nell’incidente.

Nonostante l’aumento vertiginoso dello spargimento di sangue, Israele e i suoi alleati sembrano determinati a non imparare che ulteriori uccisioni e oppressione di palestinesi non placheranno mai la resistenza, ma solo la alimenteranno.

Ha contribuito all’inchiesta Ali Abunimah.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele sta per adottare provvedimenti punitivi contro i palestinesi in seguito agli attacchi mortali a Gerusalemme

Bethan McKernan da Gerusalemme

29 gennaio 2023 – The Guardian

Il primo ministro Benjamin Netanyahu annuncia misure dopo gli attacchi più gravi [negli ultimi] anni.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato una serie di misure punitive contro i palestinesi in seguito all’attacco terroristico più grave a Gerusalemme da anni, nel corso del quale un aggressore armato ha ucciso sette persone davanti a una sinagoga.

In una dichiarazione rilasciata domenica dopo l’incontro settimanale del governo, l’ufficio di Netanyahu ha comunicato che l’agenzia di sicurezza israeliana valuterà “misure di deterrenza addizionali riguardanti le famiglie dei terroristi che esprimano sostegno al terrorismo”, inclusa la revoca del diritto di residenza a Gerusalemme e della cittadinanza israeliana e norme che permetteranno ai datori di lavoro il licenziamento immediato, senza bisogno di un procedimento giudiziario, dei dipendenti che hanno “sostenuto il terrorismo”.

Altri provvedimenti illustrati dal governo includono la privazione per i famigliari degli assalitori di sicurezza sociale e prestazioni sanitarie, modifiche delle norme per facilitare la demolizione delle case dei palestinesi che compiono attacchi terroristici e il “rafforzamento delle colonie” nella Cisgiordania occupata, su cui non sono forniti ulteriori dettagli.

Tutte le misure sono illegali ai sensi del diritto internazionale e probabilmente contribuiranno ad alimentare le tensioni fra la popolazione palestinese e con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che controlla parti della Cisgiordania occupata, in un momento in cui la regione è già pericolosamente vicina all’escalation sul campo.

Lo scontro a fuoco di venerdì nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Neve Yaakov, nella Gerusalemme Est occupata, costata la vita a sette persone, mentre tre sono rimaste ferite, ha fatto seguito al più grave raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania da decenni. L’attacco insolitamente feroce contro combattenti nel campo profughi di Jenin ha causato la morte di nove palestinesi, inclusi due civili, e scatenato un’ondata di violente rappresaglie all’alba di venerdì con lo scambio di razzi fra la Striscia di Gaza, controllata dagli islamisti, e Israele.

Dopo l’attacco della sinagoga sono stati riportati parecchi altri incidenti, fra cui l’attacco con armi da fuoco in cui sono state ferite due persone vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme da parte di un tredicenne palestinese, il ricovero in ospedale di quattro palestinesi aggrediti da un colono israeliano vicino a Nablus e la sparatoria di sabato in un ristorante di coloni vicino a Gerico senza vittime, ma in cui l’assalitore è stato ucciso.

Domenica è stato ucciso un palestinese armato che si stava avvicinando a una colonia nell’area di Nablus, mentre case e auto sono state danneggiate e incendiate in vari villaggi palestinesi vicino a Ramallah.

Il primo ministro ha anche annunciato che la sua amministrazione varerà norme per semplificare l’iter per ottenere il porto d’armi per i cittadini israeliani, spiegando che la misura ridurrà la violenza perché “abbiamo visto più e più volte… che civili eroici, armati e addestrati salvano vite”.

Netanyahu ha dichiarato che Israele non cerca l’escalation, ma che fornirà una risposta “potente, rapida e precisa” all’attacco di venerdì a Gerusalemme. In previsione di altri attacchi da emulazione e price tag [attacchi di ritorsione contro palestinesi ad opera di gruppi di coloni, ndt.] nella città contesa e in Cisgiordania sono stati impiegati battaglioni aggiuntivi dell’esercito.

Sabato il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha incolpato Israele del picco di violenze. In seguito al raid a Jenin l’ANP ha dichiarato che sospenderà la cooperazione per la sicurezza con Israele, una decisione presa anche in passato con scarso successo.

Domenica all’alba la polizia israeliana ha messo i sigilli e si appresta a demolire la casa della famiglia dell’aggressore alla sinagoga ucciso mentre fuggiva dalla luogo dell’attacco. Si crede che Alqam Khayri, 21 anni, abbia agito da solo; anche se gruppi di militanti palestinesi hanno elogiato la sua azione, nessuno ha rivendicato la responsabilità dell’attacco. Un totale di 42 persone, tra cui suoi famigliari, sono stati arrestate in relazione all’episodio.

Membri del parlamento israeliano minacciano una raffica di provvedimenti che costituiscono una punizione collettiva contro persone innocenti solo perché sono collegate all’uomo che ha commesso un attacco mortale,” ha detto in una dichiarazione HaMoked, un’associazione israeliana no profit che si occupa principalmente dei diritti legali dei palestinesi.

[La legge israeliana] permette di demolire o mettere i sigilli a una casa. Tuttavia l’esercito deve notificarlo in anticipo alla famiglia, permettendo loro di presentare ricorso e, se respinto, di fare appello all’Alta Corte di Giustizia. Nulla di tutto ciò è stato fatto in questo caso.”

La sparatoria alla sinagoga di venerdì è la prima prova per la neoeletta coalizione governativa di estrema destra di Netanyahu, la cui campagna elettorale si è basata sulla promessa di rendere Israele più sicuro dopo la serie di attacchi palestinesi con coltelli e pistole la scorsa primavera. Elementi del nuovo governo hanno anche promesso di annettere la Cisgiordania ed estendere il controllo ebraico sul complesso sacro del Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.] a Gerusalemme, spesso un focolaio di violenze.

Lunedì Netanyahu riceverà Antony Blinken, Segretario di Stato USA, una visita a Gerusalemme pianificata da tempo, ma che ora sarà dominata dagli sforzi per disinnescare l’infiammabile situazione di sicurezza.

Ci si aspetta che i colloqui tratteranno anche dell’Iran, della posizione di Israele sulla guerra in Ucraina, dello stallo del processo di pace con i palestinesi e delle preoccupazioni internazionali per i piani del governo israeliano per minare i poteri della Corte Suprema del Paese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il battaglione delle torture dell’esercito israeliano

Tawfiq Abu Shomar

28 gennaio 2023 MiddleEastMonitor

Mi ricorderò per sempre quel crimine del gennaio 2022, le torture e l’omicidio di un cittadino palestinese ottantenne, malato, Omar Asaad di Ramallah, per mano dell’esercito israeliano: i soldati lo hanno arrestato, bendato e ammanettato. Poi lo hanno portato in un edificio abbandonato con temperature vicine allo zero, lo hanno buttato a terra e il suo cuore si è fermato.

Questo palestinese era tornato nella sua terra dopo un lungo percorso di esilio. Era cittadino americano, un investitore finanziario a cui non mancavano i soldi. Era tornato in patria per vivere il resto della sua vita nella casa dei suoi antenati, tra la sua famiglia e la sua gente.

I suoi assassini appartengono a un battaglione noto come Nahal Haredi. Questo battaglione è stato istituito da un’associazione ortodossa di destra, Netzah Yehuda (Battaglione dell’Eternità Giudea), in collaborazione con il Ministero della Difesa. L’associazione ultraortodossa ha chiesto al Ministero della Difesa di istituire questo battaglione speciale per attrarre ortodossi nell’esercito, dato che gli ortodossi considerano l’esercito israeliano un peccato. Il battaglione fu istituito ed entrò a far parte della Brigata Kfir. Il battaglione non accetta donne o non ebrei. La sua principale lealtà è verso i rabbini più che verso gli ufficiali dell’esercito. È specializzato nella soppressione e nella tortura di palestinesi innocenti, senza controllo o responsabilità.

Istituito nel 1999, il battaglione concentra le sue uccisioni a Jenin, Nablus, Ramallah e nella Valle del Giordano. Quattro dei suoi membri si sono ripresi mentre torturavano brutalmente un palestinese puntandogli la canna di una pistola nel posteriore, e hanno postato le foto su siti di social network orgogliosi di quello che avevano fatto.

Il battaglione criminale ha irritato l’ambasciata degli Stati Uniti, che ha chiesto a Israele di condurre un’indagine sull’omicidio di Asaad, cittadino americano, il che ha spinto il capo di stato maggiore Aviv Kochavi a emettere una sentenza per interrogare alcuni soldati (una formalità) e poi ha ordinato il trasferimento del battaglione sulle alture del Golan.

Tuttavia, Bezalel Smotrich, partner di Netanyahu nel governo rabbinico e secondo Ministro della Difesa, ha confidato qualche giorno fa a chi gli è vicino che intende riportare il battaglione in Cisgiordania a continuare le sue missioni criminali.

Voglio ricordare anche i crimini di questo battaglione nella Striscia di Gaza nel 2014, durante la guerra dei 50 giorni con il nome israeliano di Operazione Margine Protettivo. Quando ho visitato un edificio residenziale nell’estremità orientale del campo profughi di Al-Bureij, che il battaglione Nahal aveva usato come quartier generale per i suoi soldati, ho visto cosa avevano fatto i soldati Nahal. Avevano completamente distrutto gli arredi dell’edificio e lasciato i loro escrementi sul letto in camera da letto.

I membri di questo battaglione sono seguaci di Dov Lior, rabbino capo dell’insediamento di Kiryat Arba a Hebron. Lui e altre decine di rabbini sono i capi del battaglione Nahal, a cui forniscono regole religiose. Il 23 luglio 2014 i giornali israeliani hanno pubblicato un decreto del rabbino Lior che diceva:

La legge ebraica consente di distruggere l’intera Striscia di Gaza per portare la pace nel sud del Paese. In tempo di guerra la Nazione sotto attacco può punire la popolazione nemica con le misure che ritiene opportune, come il blocco dei rifornimenti e dell’elettricità, o anche bombardare l’intera area secondo il giudizio del ministero dell’esercito. Nel caso di Gaza, sarebbe consentito al Ministro della Difesa persino ordinare la distruzione di tutta Gaza. Discorsi umanitari e considerazione non sono nulla in confronto alla salvezza dei nostri fratelli del sud e in tutto il Paese e al ripristino della quiete nella nostra terra”.

Queste dichiarazioni hanno infastidito persino gli israeliani, e Zehava Gal-On, capo del partito Meretz, ha risposto: “I commenti razzisti del rabbino Dov Lior non rientrano da tempo nel regno della libertà di parola. Stiamo parlando di un uomo che elogia l’omicidio di massa, che sostiene coloro che uccidono innocenti e che ha preso parte al fomento che ha portato all’assassinio di un primo ministro”. Gal-On ha invitato il procuratore generale ad aprire un’indagine contro di lui per istigazione.

Attenzione: nei prossimi giorni l’esercito israeliano sarà guidato da una banda di rabbini il cui obiettivo principale è condurre una guerra senza tregua contro i palestinesi specialmente a Gerusalemme!

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(tradotto dallinglese da Luciana Galliano)




L’incursione israeliana a Jenin ha provocato l’attacco terroristico che aveva proclamato di voler contrastare

Gideon Levy

29 gennaio 2023- Haaretz

Cosa stavate pensando? Che l’uccisione di 146 palestinesi in Cisgiordania nel 2022, secondo B’Tselem, la maggior parte dei quali non combattenti, sarebbe stata accettata docilmente? Che l’uccisione di circa 30 persone ad oggi nell’ultimo mese sarebbe passata in sordina?

Che i residenti del campo profughi di Shoafat, maltrattati ogni giorno e ogni notte da poliziotti e agenti della polizia di frontiera che invadono le loro case in pretestuose operazioni, dalle incursioni fiscali agli arresti notturni, distruggendo i loro beni e la loro dignità, facciano piovere riso sui loro aguzzini? Che qualcuno il cui nonno è stato assassinato da un colono e il cui amico di 17 anni è stato ucciso la scorsa settimana dalla polizia di frontiera non fosse incentivato a commettere un attacco?

E cosa stavano pensando i comandanti della folle operazione di giovedì nel campo profughi di Jenin? Qual era lo scopo dell’operazione, a parte una dimostrazione di potere? Sopprimere il terrorismo? Ha solo alimentato le fiamme.

Sapevano che se avessero fatto irruzione nel centro del campo ne sarebbe derivato un grande spargimento di sangue. Le forze di difesa israeliane e l’unità speciale antiterrorismo della polizia non possono più invadere questo coraggioso e determinato campo profughi senza versare molto sangue. Sapevano anche che nessun “enorme attacco terroristico all’interno di Israele” sarebbe stato sventato dall’operazione, come ha proclamato venerdì la voce dell’IDF nota anche come Yedioth Ahronoth. Hanno invaso il campo la mattina, mentre i bambini stavano andando a scuola – fortunatamente, almeno le scuole dell’UNRWA quel giorno erano in sciopero – solo perché potevano farlo.

“Se il Maggior General Yehuda Fuchs, capo del comando centrale, avesse saputo che questo sarebbe stato il risultato, avrebbe potuto non approvarlo”, ha detto il giornalista Alon Ben-David a Channel 13 News. E qual’ era l’opinione generale, che ci fosse un’altra opzione? In fin dei conti tutti sapevano che l’operazione Jenin avrebbe scatenato una pericolosa ondata di violenza. Non è possibile invadere il campo profughi di Jenin senza un massacro, ho scritto qui dopo la mia visita circa tre settimane fa (Haaretz.com, 12 gennaio), e nessun massacro nel campo potrebbe passare inosservato.

I capi militari possono aver pensato di sventare attacchi terroristici, ma hanno alimentato una nuova ondata di attacchi e lo sapevano. Ne consegue, quindi, che non solo il sangue dei morti a Jenin, ma anche a Gerusalemme, indirettamente, è sulle mani di coloro che hanno effettuato l’operazione nel campo di Jenin.

Ancora una volta, Israele è quello che ha iniziato. Non c’è altro modo per descrivere la catena di eventi. Oggi nel campo profughi di Jenin ci sono dozzine di giovani uomini armati disposti a sacrificare la propria vita. Uccidere alcuni di loro non diminuisce la determinazione degli altri. Jenin è un campo profughi speciale, il cui spirito combattivo può essere oggi paragonato solo a quello nella Striscia di Gaza. La militanza del campo è sorta nei vicoli i cui abitanti sono cresciuti sapendo che la patria gli era stata tolta e che sono condannati a una vita di miseria. La tortura in corso sotto forma di uccisioni quasi quotidiane negli ultimi mesi in Cisgiordania doveva anche portare a Neve Yaakov [colonia israeliana a Gerusalemme est presso la cui Sinagoga è avvenuto l’attacco in risposta ai fatti di Jenin, ndt] e a Silwan [uno dei quartieri più popolati di Gerusalemme Est, ndt] .

Il fatto schiacciante che entrambi gli attacchi sono avvenuti negli insediamenti non può essere ignorato. Non c’è differenza tra Neve Yaakov e la Città di Davide, tra Esh Kodesh e Havat Lucifer [altre colonie israeliane, ndt]. Sono tutti nei territori occupati, tutti ugualmente illegali secondo il diritto internazionale, anche se Israele ha inventato un proprio mondo di concetti.

Anche ciò che verrà dopo è nelle mani di Israele. È dubbio che una terza intifada sia inevitabile, ma qualsiasi grandiosa operazione di vendetta israeliana getterà olio sul fuoco. Qualsiasi punizione collettiva non farà che aggravare la situazione, anche se soddisfa la sete di vendetta della destra.

Arrestare 42 membri della famiglia? A che fine, se non per soddisfare questa sete?

Radere al suolo la casa del colpevole? Dopotutto, la precedente demolizione a Shoafat, che comprendeva l’invasione del campo da parte di non meno di 300 poliziotti, grandi distruzioni e l’uccisione di un ragazzo innocente di 17 anni, ha solo spinto il residente del campo Khairi Alkam a prendere la pistola venerdì sera ed uscire per uccidere gli ebrei a Neveh Yaakov, lasciando Israele scioccato solo per la crudeltà dei palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Quando il sionismo si spacca: Israele e il monito della storia coloniale

David Heartst

26 gennaio 2023 – Middle East Eye

La divergenza tra il progetto delle truppe d’assalto sioniste per la creazione di uno Stato ebraico e la tradizione sionista è stata tantissime volte nascosta sotto il tappeto. Oggi sta venendo prepotentemente allo scoperto.

La classe politica israeliana non ha saputo dare nessuna risposta [alla domanda]: “Chi è al comando?”

[Tale domanda] costituiva una provocazione suscitata dalla acuta sensazione che gli ebrei avessero perso il controllo sui palestinesi che vivevano nel loro Stato. Ma a poche settimane dall’ultima reincarnazione di Benjamin Netanyahu a capo del governo più estremista nella storia di Israele milioni di israeliani si stanno ponendo una domanda simile: chi abbiamo al comando?

Un ministro della giustizia che intende neutralizzare l’autorità e l’indipendenza giudiziaria? Un ministro delle finanze che mette in dubbio il diritto degli immigrati russi a essere considerati ebrei? Un ministro della sicurezza nazionale il cui primo atto è stato l’assalto alla moschea di Al-Aqsa? 

In verità, le manifestazioni di massa riguardano solo la prima delle tre questioni, anche se la questione dell’identità russa è abbastanza esplosiva – Bezalel Smotrich l’ha definita una bomba a orologeria ebraica.

I palestinesi sono stati ancora una volta esclusi dalla rivolta sionista liberale. Dopo che alcune bandiere palestinesi sono apparse nel mare di quelle bianche e blu durante le prime proteste di massa gli organizzatori si sono affrettati a rinunciare a una presenza palestinese. Ciò nonostante, i sionisti liberali hanno avuto un assaggio di cosa significhi essere palestinesi nelle mani della nuova élite – il movimento nazionalista religioso dei coloni.

È vero, la battaglia si inquadra come una lotta contro i fascisti a favore della democrazia. Non si trasforma, almeno per ora, in un dibattito sulla crudeltà quotidiana e sul costo umano del sostegno allo progetto sionista in sé. Ma quelle domande cominciano ad emergere.

Leggete questo commento pubblicato da Yedioth Ahranoth, un giornale di centro fedele alla linea ufficiale israeliana sull’occupazione: “La verità scomoda è che non può esserci democrazia insieme a un’occupazione, non può esserci democrazia in un Paese la cui politica economica consente ai forti di fare un balzo in avanti mentre i deboli restano indietro e non può esserci democrazia in un luogo dove gli arabi sono tenuti fuori dalla scena”.

Chi non riesce ad affrontare questi problemi in modo chiaro e coerente fallirà anche nel suo sforzo assolutamente giustificato di fermare una parte del processo. La scomoda verità è che chiunque voglia portare un milione di persone nelle strade per scuotere il paese in risposta al piano di Levin non può balbettare luoghi comuni sul “restringimento del conflitto” e sull’essere “né di destra né di sinistra”.

Un rapporto complesso

Il rapporto del sionismo tradizionale con il movimento dei coloni è sempre stato più complesso e ricco di sfumature rispetto alla sua consueta rappresentazione come divisione tra centro ed estrema destra. E quando il centro è al comando fa molto peggio che voltarsi dall’altra parte. Molto peggio.

Gli insediamenti si sono moltiplicati sotto i governi laburisti. Esprimere orrore per personaggi come Ben Gvir incaricati di governare la Cisgiordania occupata significa ignorare il sangue palestinese che gronda dalle mani dell’ex primo ministro Yair Lapid.

L’anno scorso è stato il più sanguinoso dalla Seconda Intifada con 220 morti tra cui 48 minori.

Denunciare gli attacchi ai giudici israeliani “di sinistra” significa dimenticare che gli attacchi dei coloni sono rimasti impuniti – e anche nel raro caso di una condanna continuano a rimanere nella stragrande maggioranza impuniti. Fino ad ora, il rapporto tra il sionismo liberale e il terrorismo ebraico è stato simbiotico sia prima che dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 [allepoca Rabin era primo ministro e fu assassinato da un estremista israeliano, ndt.].

Questo è molto chiaro nelle testimonianze dei successivi capi dello Shin Bet. Quando il servizio di sicurezza interna ha catturato dei terroristi nell’atto di piazzare negli autobus palestinesi bombe al semtex [esplosivo al plastico, ndt.] che avrebbero provocato un eccidio di massa, si è imbattuto anche nei piani per far saltare in aria la moschea di Al-Aqsa.

Carmi Gillon, a capo dello Shin Bet dal 1994 al 1996, intervistato nel documentario The Gatekeepers [I guardiani, ndt.], ha dichiarato: “Dopo che smascherammo la Jewish Underground [o makhteret, organizzazione terrorista di destra ebraica, ndt.] il primo ministro Shamir definì la mia unità il diamante della corona. Abbiamo ricevuto complimenti e sostegno da tutte le parti. Iniziarono le pressioni a loro favore. Furono processati. Tre di loro ebbero l’ergastolo, altri condanne diverse. Tutti uscirono di prigione molto velocemente. Tornarono a casa come se niente fosse. Tornarono ai loro precedenti incarichi, alcuni ad incarichi anche più elevati. La Knesset [parlamento israeliano, ndt.] rilasciò l’intera Jewish Underground. La legge di clemenza verso la Jewish Underground fu firmata da Yitzhak Shamir come primo ministro di Israele. Non si trattò solo di pochi membri dell’opposizione”.

Per lo Shin Bet l’assassinio di Rabin fu un incidente automobilistico al rallentatore. In quella circostanza emerse per la prima volta Ben Gvir. Apparve in televisione brandendo lo stemma del cofano della Cadillac che era stato rubato dall’auto di Rabin: “Siamo arrivati alla sua macchina e arriveremo anche a lui”.

Yaakov Peri, capo dello Shin Bet dal 1988 al 1994, ha detto che per lui l’assassinio di Rabin ha cambiato il mondo intero: “Improvvisamente ho visto un Israele diverso. Non ero consapevole dell’intensità degli abissi, dell’odio e delle fratture tra di noi. Come percepiamo il nostro futuro? Cosa abbiamo in comune? Perché siamo venuti qui? Cosa vogliamo diventare? Tutto ciò era evidente e tutto è andato in pezzi.”

C’è un senso di amarezza in tutte e sei le interviste con i capi dello Shin Bet. Non si sentono solo delusi dai governi successivi. Si sentono traditi e lo dicono apertamente. Nel 1996, quando l’assassino di Rabin, Yigal Amir, fu condannato, il 10% degli israeliani disse che avrebbe dovuto essere rilasciato; nel 2006, tale sostegno era aumentato al 30%.

Ma il rapporto non è più simbiotico. L’ascesa al potere di Ben Gvir e Smotrich non è uno scherzo della natura, un incidente della politica. Non è Trump. Né è un’insurrezione del 6 gennaio.

Il conflitto tra il progetto delle truppe d’assalto sioniste per la creazione di uno Stato ebraico dal fiume [il Giordano, ndt.] al mare [Mediterraneo, ndt.] e la visione tradizionale sionista, sia in Israele che all’estero, è stato intrinsecamente latente sullo sfondo fin dalla creazione dello Stato di Israele stesso.

È presente da quando Rabin, in qualità di comandante del neonato esercito israeliano, ordinò alle sue truppe di aprire il fuoco su una nave mercantile che stava scaricando armi per l’Irgun [gruppo paramilitare sionista ndt.], uccidendo 16 combattenti. Un futuro primo ministro, Menachem Begin, fu portato a terra ferito.

Questa spaccatura è stata nascosta tante volte sotto il tappeto. Oggi sta venendo prepotentemente allo scoperto.

Il modello algerino

Se esiste un parallelo storico con la scissione che sta spaccando il sionismo, non è con il Sud Africa ma con l’Algeria.

I coloni francesi, conosciuti come i pied-noirs, si trovavano in Algeria dal XIX secolo. Il Paese veniva trattato come un’estensione del Paese continentale piuttosto che una colonia in Africa. “Algeri fa parte della Francia tanto quanto la Provenza”, dicevano tra loro.

Fin dall’inizio, i “colons” furono parte integrante del progetto coloniale francese. Il maresciallo Thomas-Robert Bugeaud, governatore generale dell’Algeria, proclamò all’Assemblea nazionale francese nel 1840: “Ovunque (in Algeria) ci sia acqua dolce e terra fertile, là bisogna collocare dei coloni, senza preoccuparsi a chi appartengono queste terre.“

I primi fermenti del dopoguerra concernenti richieste algerine per una parità di cittadinanza furono affrontati con dei tentativi di riforma. Parigi concesse la cittadinanza a 60.000 persone in base a ciò che venne definito un criterio “di merito”, e nel 1947 un parlamento con una camera per i pied-noirs e un’altra per gli algerini. Tuttavia, il voto del pied-noir era considerato valere sette volte il voto di un algerino.

Impegnati per quattro anni in una brutale guerra d’indipendenza il cui bilancio di vittime la Francia – fino ad oggi – continua a sottostimare (l’Algeria parla di 1,5 milioni di morti, mentre la Francia dice che furono uccisi da entrambe le parti 400.000 persone), i pied-noirs ebbero la simpatia e il supporto dell’esercito e degli apparati di sicurezza francesi.

E’ istruttivo su quest’epoca il capitolo di Henry Kissinger, nel suo libro Leadership sul generale Charles De Gaulle, che definisce uno dei sei grandi leader con cui ha interagito durante la sua carriera di diplomatico.

Il rapporto di De Gaulle con i coloni si evince da un discorso in cui diceva loro “vi capisco” per il fatto di essere presi di mira nella stessa Francia per la loro campagna terroristica. In quel momento l’umore pubblico in Francia era cambiato e la Francia si rivoltava contro i coloni. Il punto di svolta fu la mutilazione di una bambina di quattro anni nell’esplosione di una bomba a Parigi nel 1962.

Prima di allora, l’Organizzazione Armee Secrete (OAS) [organizzazione paramilitare clandestina francese il cui slogan era “l’Algérie française”, ndt.] godeva del sostegno di 80 deputati all’Assemblea nazionale.

Ciò provocò una manifestazione contro l’OAS, che la polizia represse uccidendo otto persone. Ai loro funerali parteciparono centinaia di migliaia di persone e un cessate il fuoco tra la Francia e il Fronte di liberazione nazionale (FLN) [movimento rivoluzionario algerino che diresse la guerra d’indipendenza, ndt.] trasformò una lotta a tre in un conflitto a due che l’OAS era destinata a perdere.

Naturalmente ci sono tante differenze tra i pied-noirs e i coloni ebrei così come sono molte le somiglianze. La religione non svolse un ruolo determinante nel progetto francese. Non c’era stato in Europa alcun eccidio su larga scala dei francesi che giustificasse la creazione di quella colonia.

Tuttavia, l’elemento essenziale del confronto rimane valido. Quando l’OAS si mise in proprio l’intero progetto fu destinato a perdere. Un altro punto vitale per i palestinesi, né la resistenza algerina né la resistenza sudafricana hanno vinto militarmente. Erano entrambe completamente prive di armi. In entrambi i casi a vincere la battaglia è stata la perseveranza, il rifiuto di arrendersi.

Nessuno sta dicendo, tanto meno io, che Israele stia per crollare come fece il dominio francese in Algeria. Ma stanno comparendo le prime grandi crepe nel progetto sionista.

Le prime crepe

Ben Gvir ha fatto di più per delegittimare Israele da quando è salito al potere poche settimane fa che anni di campagna del movimento BDS. Gli ex capisaldi del sostegno ebraico di New York a Israele stanno rilasciando dichiarazioni che implorano Netanyahu di cambiare rotta.

Eric Goldstein, il capo della più grande federazione ebraica del Nord America, ha “rispettosamente implorato” Netanyahu di mantenere le precedenti promesse di bloccare le leggi che minacciano l’indipendenza del sistema giudiziario israeliano.

Le federazioni ebraiche non rilasciano quasi mai tali dichiarazioni pubblicamente per il semplice motivo che il settore dei servizi sociali israeliani è uno dei loro maggiori beneficiari.

Ovviamente Netanyahu farà tutto ciò che è in suo potere per giocare la carta internazionale. Lo ha fatto in Giordania, dichiarando senza fondamento che lo status quo ad Al-Aqsa non cambierà. Lo aveva già fatto, come sa benissimo il Waqf, custode dei luoghi santi di Gerusalemme, la cui gestione è affidata alla Giordania.

Ma in Ben Gvir e Smotrich Netanyahu ritrova una forma diversa di partner di coalizione. Questi rottweiler della destra religiosa nazionale non sono solo una parte dell’attuale, traballante soluzione politica di un politico, Netanyahu, che ha superato da tempo la data di scadenza. Sono la forma della futura leadership di Israele.

Questo dovrebbe costituire un segnale di allarme per ogni ebreo israeliano che non ha un passaporto europeo e non gradisce la prospettiva di una guerra a tutto campo con 1,6 miliardi di musulmani in tutto il mondo, che il movimento religioso nazionale sembra essere determinato a scatenare.

Dovrebbero pensare ad affrontare il futuro con i palestinesi alla pari, visto che il conflitto è ancora riferito alla terra e alla nazionalità, non alla religione. C’è solo un breve periodo di tempo per farlo.

Gillon afferma in The Gatekeepers: “Il piano era di far saltare in aria la Cupola della Roccia e l’esito avrebbe portato – come anche oggi – alla guerra totale da parte di tutti gli stati islamici, non solo l’Iran, ma anche l’Indonesia”.

Se aveva ragione 11 anni fa quando questa intervista è stata registrata, ha ancora più ragione oggi. Con il movimento religioso nazionale al comando, la previsione di Ami Ayalon è preveggente: “Vinceremo ogni battaglia ma perderemo la guerra”.

E’ capitato in Algeria. E’ capitato in Sud Africa. Capiterà anche in Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è co-fondatore e redattore capo di Middle East Eye. È commentatore e relatore sulla regione e analista sull’Arabia Saudita. E’ stato capo redattore per la politica estera del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e Belfast. È entrato a far parte del Guardian da The Scotsman, dove era corrispondente per l’istruzione.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cisgiordania: le nuove disposizioni sugli ingressi isolano ulteriormente i palestinesi

Human Rights Watch

23 gennaio 2023 – Human Rights Watch

Le direttive di Israele vietano di fare visite, studiare, lavorare

Gerusalemme – Le nuove direttive israeliane per l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania rischiano di isolare ulteriormente i palestinesi dai propri cari e dall’intera società civile, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Le disposizioni, entrate in vigore a ottobre 2022 e modificate a dicembre 2022, delineano dettagliate procedure per l’ingresso e il soggiorno di stranieri in Cisgiordania, procedure diverse da quelle per l’ingresso in Israele.

Le autorità israeliane hanno da tempo reso difficile per gli stranieri insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le nuove direttive codificano e inaspriscono le precedenti restrizioni, rischiando di rendere ancor più difficile per i palestinesi in Cisgiordania, che già subiscono pesanti limitazioni al movimento imposte da Israele, vivere con i familiari che non hanno una carta di identità cisgiordana e collaborare con studenti, accademici, studiosi ed altri stranieri.

Rendendo più difficile alle persone soggiornare in Cisgiordania, Israele sta compiendo un nuovo passo verso la trasformazione della Cisgiordania in un’altra Gaza, dove due milioni di palestinesi vivono da oltre 15 anni isolati dal resto del mondo”, ha detto Eric Goldstein, vicedirettore per il Medio Oriente di Human Rights Watch. “Questa politica è finalizzata a indebolire i legami sociali, culturali e intellettuali che i palestinesi hanno cercato di mantenere con il mondo esterno.”

Tra il luglio e il dicembre 2022 Human Rights Watch ha intervistato 13 persone che hanno descritto nei dettagli le difficoltà che hanno incontrato per anni per entrare o soggiornare in Cisgiordania e le loro preoccupazioni riguardo al modo in cui le nuove direttive li danneggeranno. Human Rights Watch ha anche intervistato gli avvocati israeliani che hanno rappresentato chi sfidava le restrizioni. Tra queste persone intervistate vi è uno psicologo americano docente in un’università palestinese, un’inglese madre di due figli che tenta di vivere con suo marito e la sua famiglia palestinese e un palestinese che ha vissuto la maggior parte della sua vita in Cisgiordania ma non ha una carta di identità.

Inoltre a luglio 2022 le autorità israeliane hanno negato a Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per condurre attività di ricerca e patrocinio, appellandosi all’ampia autorità dell’esercito riguardo agli ingressi. La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha confermato il divieto a novembre, in seguito ad un ricorso presentato da Shakir e da Human Right Watch.

Il documento di 61 pagine denominato “Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Giudea e Samaria (intendendosi la Cisgiordania)” ha sostituito un documento di procedura di tre pagine redatto nel dicembre 2006. Esso definisce la politica e le procedure dell’esercito israeliano relativamente agli stranieri che cercano di entrare solamente in Cisgiordania, con esclusione di Gerusalemme est, o di estendere il soggiorno per una visita o per “uno scopo specifico”, per esempio studio, insegnamento, volontariato o lavoro. Le direttive sono diverse da quelle per l’ingresso in Israele che vengono normalmente applicate all’aeroporto Ben Gurion e in altri luoghi di ingresso. Chi possiede un permesso per la Cisgiordania ma non ha un visto di ingresso israeliano non è legalmente autorizzato ad entrare in Israele, né nella Gerusalemme est occupata.

Mentre spesso la gente visita la Cisgiordania con normali visti turistici israeliani, agli stranieri in possesso di questi visti non è permesso insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le autorità israeliane spesso rifiutano normali visti di ingresso per questi motivi o altri in cui si riconosca o si sospetti una collaborazione con attività filopalestinesi. Il permesso è l’unico modo per molti di soggiornare in Cisgiordania.

Le direttive sulla Cisgiordania consentono che siano rilasciati permessi solo a limitate categorie di visitatori. Alcuni di coloro che possono ottenere i permessi, come i parenti stretti di palestinesi, possono ottenere un’autorizzazione fino a 3 mesi dall’arrivo al ponte di Allenby/Re Hussein tra la Giordania e la Cisgiordania, in attesa di approvazione delle autorità israeliane in loco. Altri, compresi accademici, studenti, volontari e studiosi, devono richiedere dall’estero un permesso per la Cisgiordania, valido fino a un anno, ed ottenerlo prima del viaggio. Le precedenti disposizioni raccomandavano, ma non richiedevano, un accordo preventivo, anche se spesso le autorità israeliane nella pratica richiedevano un’approvazione preventiva. Altri visitatori, quali turisti o chi cerca di far visita alla famiglia allargata o ad amici o di partecipare ad una conferenza, non possono ottenere un permesso per la Cisgiordania.

Col pretesto del “rischio” che gli stranieri “si radichino”, le direttive precludono anche a tutti gli stranieri, tranne le mogli di palestinesi, tutte le vie per rimanere a lungo in Cisgiordania.

Le direttive concedono alle autorità militari israeliane ampia discrezionalità, consentendo che “considerazioni di politica generale” influenzino il processo decisionale e sottolineando che “l’applicazione di questa procedura dovrà essere condizionata alla situazione di sicurezza e alla politica israeliana in vigore, che viene rivista e modificata di volta in volta.”

Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha detto al Jerusalem Post che le disposizioni renderanno l’ingresso in Cisgiordania “più agevole”, probabilmente dettagliando la procedura, e perciò “porteranno beneficio a tutti gli abitanti dell’area.”

Tuttavia tutti coloro che Human Rights Watch ha intervistato hanno parlato di enormi ostacoli burocratici per restare legalmente in Cisgiordania e dell’impatto delle restrizioni sulle proprie vite. Una donna d’affari americana sposata con un palestinese, che era vissuta in Cisgiordania per un decennio e ha chiesto di restare anonima per paura di rappresaglie, ha detto di aver dovuto abbandonare il suo bambino e restare all’estero per diverse settimane nel 2019 dopo che le era stato negato il visto. Ha raccontato che lo stress e la sofferenza la avevano portata a “scoppiare in lacrime davanti alla scuola di mio figlio quando lo ho lasciato senza sapere se lo avrei ancora visto.” Il suo visto è stato ripristinato solo dopo l’intervento di diplomatici.

Se gli Stati hanno ampia discrezionalità riguardo all’ingresso nel proprio territorio sovrano, il diritto umanitario internazionale richiede però alle potenze occupanti di agire nel superiore interesse della popolazione occupata o di mantenere la sicurezza o l’ordine pubblico. Non vi sono evidenti giustificazioni basate sulla sicurezza, l’ordine pubblico o il superiore interesse dei palestinesi per il modo in cui le autorità israeliane pongono significative restrizioni ai volontari, agli accademici o agli studenti per entrare in Cisgiordania o ai familiari di palestinesi per rimanervi a lungo, afferma Human Rights Watch.

Limitando eccessivamente la possibilità delle famiglie di vivere insieme e bloccando l’ingresso di accademici, studenti e operatori di Ong che contribuirebbero alla vita sociale, culturale ed intellettuale in Cisgiordania, le restrizioni di Israele entrano in conflitto con il suo compito, che aumenta durante una prolungata occupazione, di agevolare la vita civile della popolazione occupata.

Questo comporta necessariamente vivere con la propria famiglia. Sia il diritto umanitario internazionale che le leggi sui diritti umani sottolineano l’importanza del diritto alla vita e all’unità della famiglia, incluso il diritto di vivere insieme. Significa anche facilitare il lavoro e l’attività delle università palestinesi, delle organizzazioni e degli affari della società civile e mantenere un rapporto costante con il resto del mondo.

I doveri di Israele in quanto potenza occupante gli impongono di facilitare l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania in modo ordinato. Previa una valutazione individuale di sicurezza e in assenza di obblighi di legge, le autorità israeliane dovrebbero come minimo concedere permessi di durata ragionevole agli stranieri che contribuirebbero alla vita della Cisgiordania, compresi i familiari di palestinesi e coloro che lavorano con la società civile palestinese, nonché la residenza ai parenti stretti.

Le restrizioni di Israele incrementano la sofferenza già imposta ai palestinesi in Cisgiordania attraverso il diniego su vasta scala dei diritti di residenza, le ampie restrizioni di movimento e gli attacchi alla società civile palestinese. Questa politica spiana maggiormente la strada alla frammentazione dei palestinesi in differenti aree e aggrava il controllo israeliano sulla loro vita. La severa repressione delle autorità israeliane sui palestinesi, attuata in conformità ad una politica di mantenimento del dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi, configura i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione, come hanno rilevato Human Rights Watch e importanti organizzazioni per i diritti umani israeliane, palestinesi e internazionali.

Un esercito occupante non ha alcun diritto di decidere quali docenti siano qualificati per insegnare nelle università palestinesi, di impedire ai difensori dei diritti umani di interagire con la popolazione occupata o di separare crudelmente le famiglie”, dice Goldstein. “Gli Stati americani ed europei dovrebbero far pressione sulle autorità israeliane perché rendano più facile, non più difficile per le persone, compresi i propri stessi cittadini, costruire rapporti significativi con le comunità della Cisgiordania.”

Richiedere permessi e proroghe per la Cisgiordania

Le disposizioni per l’ingresso in Cisgiordania sono state originariamente pubblicate nel febbraio 2022 e modificate a settembre e poi ancora a dicembre 2022. Esse identificano alcune categorie di persone, compresi accademici, studenti, volontari e “studiosi e consulenti in singole discipline e personale direttivo” che sono tenute a richiedere anticipatamente a Israele, direttamente all’esercito, presso un’ambasciata israeliana all’estero o attraverso l’Autorità Nazionale Palestinese, i permessi (per entrare in Cisgiordania) a scopi specifici.”

La procedura per ottenere un permesso implica fornire informazioni personali importanti alle autorità israeliane. Diverse persone che hanno passato del tempo in Cisgiordania hanno detto che questa procedura scoraggia del tutto le persone a presentare richiesta, dato il numero record di dinieghi di ingresso da parte delle autorità israeliane a coloro che sono impegnati nel sostegno ai palestinesi. Come risultato, e alla luce della difficoltà di ottenere permessi per la Cisgiordania, alcuni programmi della Cisgiordania hanno a lungo consigliato i partecipanti internazionali di richiedere un visto turistico israeliano invece di un permesso per la Cisgiordania e di evitare di dichiarare il motivo della loro visita in modo da aumentare le possibilità di entrare.

Tra gli stranieri che possono ottenere il permesso di visitatori all’arrivo in Cisgiordania vi sono la moglie, il figlio o il parente di primo grado di un palestinese in Cisgiordania, uomini d’affari o investitori, giornalisti accreditati dalle autorità israeliane o coloro che presentano “situazioni eccezionali” e con “speciali situazioni umanitarie” che non hanno avuto precedenti problemi collegati al visto.

Le direttive limitano a tre mesi i permessi di visita di breve durata ottenuti al ponte di Allenby. I permessi possono essere rinnovati “per motivi eccezionali per un massimo di altri 3 mesi.” Ogni ulteriore proroga “necessita l’approvazione del funzionario autorizzato del COGAT sulla base di speciali considerazioni che vanno documentate.” 

I permessi per scopi specifici” ottenuti precedentemente all’arrivo durano un anno e le proroghe hanno copertura di 27 mesi, e chiunque voglia fermarsi più a lungo deve lasciare la Cisgiordania e fare nuovamente richiesta dall’estero. Le direttive pongono agli accademici e studiosi stranieri un limite massimo di cinque anni complessivi in Cisgiordania, una restrizione che non era scritta nelle direttive precedenti. Chi intende fermarsi più a lungo può fare richiesta di nuovo ingresso dopo nove mesi di lontananza, ma le direttive autorizzano proroghe addizionali fino ad altri cinque anni solo “in casi eccezionali e per motivi speciali.”

I palestinesi in Cisgiordania possono fare richiesta a Israele attraverso un procedimento separato di ricongiungimento familiare tramite l’Autorità Nazionale Palestinese per ottenere carte di identità palestinesi rilasciate per le loro mogli e altri parenti in “circostanze eccezionali”, che consentirebbero loro di rimanere a lungo termine. Le autorità israeliane hanno esaminato 35.000 richieste alla fine degli anni 2000 e parecchie migliaia nel 2021 e 2022 come gesto nei confronti della ANP, ma a parte questo hanno di fatto congelato il processo.

Le direttive delineano una procedura per rilasciare permessi di un anno rinnovabili per le mogli straniere di palestinesi che hanno in corso una richiesta di ricongiungimento familiare che l’ANP ha inviato a Israele. Tuttavia stabiliscono che non saranno approvate richieste che non siano conformi alla complessiva “politica dei vertici politici”.

Le direttive danno alle autorità il potere di rivalutare le qualifiche accademiche dei docenti o ricercatori presso le università palestinesi, compresa la verifica che chi non è in possesso di diploma PhD abbia “competenze speciali”, e quali professioni siano sufficientemente “richieste o necessarie” a garantire di poter concedere a stranieri di lavorare al loro interno.

Un amministratore dell’università di Betlemme ha detto che il 70% del corpo docente in uno dei programmi della scuola viene dall’estero e l’amministrazione teme che le regole renderanno ancor più difficile assumere e trattenere i docenti. Un portavoce dell’università di Birzeit ha detto che tra il 2017 e il 2022 hanno perso otto membri del corpo docenti a causa delle restrizioni all’ingresso in Cisgiordania, il che hanno detto aver loro causato la perdita di eccezionali competenze ed aver inficiato la qualità dell’educazione fornita dalla scuola.

Un professore, Roger Heacock, nel 2018 ha lasciato la Cisgiordania con la sua famiglia dopo 35 anni, 33 dei quali spesi nell’insegnamento della storia a Birzeit, quando le autorità israeliane non hanno risposto in tempo alla sua richiesta di rinnovo del permesso, abbandonando gli studenti laureati cui sovrintendeva. Ha detto che quell’esperienza “ci ha spezzato il cuore. Non l’ho superata.”

Le direttive non si applicano agli stranieri che vogliono visitare Gerusalemme est occupata da Israele o le colonie israeliane in Cisgiordania, che sono illegali ai sensi del diritto umanitario internazionale. Per entrare in quelle aree devono ottenere un visto d’ingresso israeliano.

Le direttive non si applicano neanche a coloro che hanno nazionalità, sono nati o “hanno documenti” di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan, come neanche ai cittadini di Stati che non hanno relazioni diplomatiche con Israele. Queste persone devono fare richiesta ad Israele tramite l’Autorità Nazionale Palestinese sulla scorta di una separata “Procedura di rilascio di permessi per visite di stranieri all’Autorità Palestinese”, che stabilisce che i permessi devono essere rilasciati solo in “casi eccezionali e umanitari”. Un’avvocata israeliana, Leora Bechor, ha descritto questi permessi come “quasi impossibili” da ottenere. Non esiste valida ragione per rendere più difficile entrare in Cisgiordania soprattutto ai cittadini della Giordania, che sono per la maggior parte palestinesi, rispetto ai cittadini di altri Stati, dichiara Human Rights Watch.

Casi individuali

Ayman”

Nato in Europa a metà degli anni ’90 da padre palestinese della Cisgiordania e madre europea, “Ayman” ha vissuto in Cisgiordania la maggior parte della sua vita. Ha chiesto che il suo vero nome non fosse rivelato per paura di ritorsioni. Racconta che suo padre lasciò la Cisgiordania negli anni ’70 per evitare l’arresto per le sue attività politiche, e fu costretto ad abbandonare i suoi documenti di identità. Fece rientro nel 1997, quando Ayman era bambino, insieme ad altri autorizzati a tornare all’indomani degli accordi di Oslo, ma le autorità israeliane non gli restituirono immediatamente la sua carta d’identità. Ogni membro della famiglia di Ayman ha richiesto carte d’identità palestinesi, ma solo suo padre ne ha ricevuta una all’inizio del 2022, a seguito di una domanda di ricongiungimento familiare presentata dal nonno di Ayman nel 2009.

Senza una carta d’identità palestinese, per il suo status giuridico Ayman fa affidamento sui visti rilasciati sul suo passaporto europeo in Cisgiordania, anche se la sua famiglia vive lì da generazioni e lui ha vissuto lì la maggior parte della sua vita. Ha detto che la Palestina per me è casa, poiché “la mia infanzia, la scuola, i compagni di classe, gli amici, la famiglia allargata, i parenti e i miei ricordi sono tutti quieppure risulto trovarmi in Palestina come turista, come cittadino europeo”.

Da bambino, dice Ayman, ha ricevuto i visti grazie al lavoro di sua madre in un programma affiliato a un’ambasciata straniera. Nel 2015, tuttavia, afferma che le autorità israeliane rifiutarono di rinnovargli il visto, sulla base del fatto che lui, a 20 anni, non poteva più rivendicare la dipendenza da sua madre. Poco dopo partì per studiare all’estero per un semestre. Tornò nel dicembre 2015 e dice di essere riuscito a ottenere diversi visti di breve durata che gli hanno permesso di rimanere in Cisgiordania nel 2016 e gran parte del 2017 in modo da completare gli studi universitari.

Nel settembre 2017 ha conseguito la laurea in Europa e si è recato in Cisgiordania tre volte come turista. Afferma di non aver potuto visitare la sua famiglia per due anni, tra marzo 2020 e febbraio 2022, a causa soprattutto di una normativa israeliana rivolta a limitare l’ingresso di stranieri in Cisgiordania a fronte della pandemia di Covid-19.

Ayman è preoccupato per il fatto che le nuove linee guida sugli ingressi gli rendono praticamente impossibile vivere in Cisgiordania creandogli persino delle difficoltà a visitarla, anche attraverso il limite di soggiorni di tre mesi salvo circostanze eccezionali e l’imposizione obbligatoria di periodi durante i quali deve partire e stare lontano dalla Cisgiordania. Per quanto le linee guida consentano l’ingresso a coloro che, come Ayman, stiano andando a trovare parenti di primo grado, si preoccupa di cosa potrebbe accadere quando suo padre, l’unico membro della sua famiglia con un documento d’identità palestinese, morirà. Potrei perdere il diritto di ingresso, dal momento che non avrò più un parente di primo grado, e con queste norme non potrò nemmeno entrare come turista, dice Ayman.

Margaret

“Margaret”, una cittadina britannica di 46 anni che ha chiesto di non rivelare la sua reale identità per paura di ritorsioni, vive a Ramallah con il marito palestinese, che ha un documento di identità della Cisgiordania, e i loro due figli, di 9 e 6 anni. Dice di vivere in Cisgiordania dal 1998 e di aver sposato suo marito nel 2005. Poco dopo, racconta Margaret, le autorità israeliane le hanno negato l’ingresso, nel quadro di una politica sistematica dell’epoca che, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ha colpito migliaia di coniugi stranieri.

Margaret è riuscita a tornare nove mesi dopo e da allora è rimasta pressoché stabilmente in Cisgiordania. Riferisce di aver richiesto nel 2006 un documento d’identità palestinese nell’ambito del percorso di ricongiungimento familiare, ma di non averlo ricevuto. Invece ha usufruito di visti per soggiorni di breve durata, originariamente di un anno ma più recentemente di sei mesi, dovendo periodicamente lasciare la Cisgiordania per mantenere il suo status. Con tali visti il lavoro non è consentito, ma Margaret ha comunque lavorato senza mai rivelarlo alle autorità israeliane.

Quando nell’agosto 2021 le autorità israeliane hanno informato Margaret che doveva lasciare la Cisgiordania entro gennaio 2022, per rientrarvi per mantenere il suo status, temeva che le procedure aggiuntive imposte dalle autorità israeliane durante la pandemia di Covid-19 potessero bloccare la sua possibilità di tornare in famiglia. In particolare, le autorità israeliane richiedevano agli stranieri che entravano in Cisgiordania di coordinare con loro i loro piani, una prassi che, Margaret aveva sentito, per altre persone aveva richiesto tre o quattro mesi. Margaret dice che sentiva di non poter sopportare di stare lontana dai suoi figli così a lungo durante l’anno scolastico.

L’Autorità nazionale palestinese aveva annunciato alla fine del 2021 che le autorità israeliane avevano dato il via libera al rilascio di migliaia di documenti d’identità per le persone bloccate in situazioni come la sua. Nella speranza di essere tra coloro che avrebbero ricevuto un documento d’identità o in caso contrario di poter risolvere la questione con l’aiuto di un avvocato, ha preso la difficile decisione di sospendere il visto.

Margaret non ha mai ricevuto un documento d’identità e quindi è priva di status giuridico. Di conseguenza, afferma che dal gennaio 2022non lascio Ramallah. Non posso correre rischi”.

Susan Power

Susan Power, una cittadina irlandese di 43 anni, conduce ricerca e patrocinio legale per al-Haq, una delle principali organizzazioni palestinesi per i diritti umani. Power è entrata a far parte di al-Haq, il cui quartier generale è a Ramallah in Cisgiordania, nel 2013. Con un dottorato di ricerca incentrato sulla legge dell’occupazione, Power ha una competenza unica che ben si adatta al lavoro di al-Haq, che da più di 40 anni è incentrato sulla documentazione delle violazioni dei diritti umani derivanti dalla prolungata occupazione israeliana.

Power afferma che per entrare in Cisgiordania ha fatto ricorso ai visti per visitatori, che è stata in grado di prorogare. Ha detto che per ottenere il visto doveva mostrare un contratto di lavoro, anche se il visto non le dà il permesso di lavorare. Descrive il pesante iter che deve regolarmente affrontare per entrare, compreso il dover pagare a volte obbligazioni fino a 30.000 NIS (7.796 euro) per garantire che se ne andrà alla scadenza del visto. Dice che ogni volta si preoccupa che non le venga consentito l’ingresso e, quando si trova in Cisgiordania con un visto valido, generalmente rifiuta di viaggiare per visitare famiglie, partecipare a riunioni o per qualsiasi altro scopo al di fuori delle emergenze.

Le nuove linee guida renderanno le cose ancora più difficili, dice Power, richiedendole di coordinare i suoi piani e ottenere un visto in anticipo dall’ambasciata israeliana nel suo paese d’origine. Teme che nell’ambito di questo iter non le venga concesso un visto, data l’assenza nelle linee guida di disposizioni esplicite riguardanti il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani e il limite di cinque anni per gli stranieri che vivono in Cisgiordania. Le autorità israeliane hanno anche messo al bando al-Haq, dichiarandola nel 2021 una “associazione illegale” ai sensi della legge militare applicabile in Cisgiordania e una “organizzazione terroristica” ai sensi della legge israeliana.

Queste restrizioni rendono più difficile per le organizzazioni della società civile palestinese attrarre e assumere esperti stranieri come Power. Anche se gli esperti sono in grado di entrare in Cisgiordania, “un’organizzazione non può funzionare o operare senza sapere se i suoi lavoratori potranno tornare” ogni qualvolta se ne vanno, afferma Power.

Power ha lasciato la Cisgiordania a dicembre, prima della scadenza del suo visto alla fine dell’anno. Dice di aver paura che non le sia permesso di tornare.

Laura

Laura, una cittadina statunitense di 57 anni che ha chiesto di non rivelare il suo vero nome per paura di ritorsioni, ha visitato per la prima volta la Cisgiordania nel 2012. È una psicologa clinica e ha detto che per due anni è tornata periodicamente per partecipare a conferenze e lavorare come consulente a breve termine, ottenendo il visto per visitatori all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion. Nell’estate del 2014 ha deciso di trasferirsi con il figlio di 10 anni in Cisgiordania per lavorare a tempo pieno con bambini a rischio e insegnare in un’università. Ha ottenuto un visto sulla base del suo contratto con l’università, anche se il visto le proibisce formalmente di lavorare, e ha vissuto in Cisgiordania, rinnovando il visto ogni anno, per i successivi quattro anni.

Riferisce che mantenere il suo status giuridico é stato stressante, anche per la necessità di aspettare per mesi i documenti suoi o di suo figlio. “L’incertezza, niente di chiaro, la burocrazia e la sensazione di mancanza di sicurezza durante il tempo di attesa, dopo aver fatto tutte le scartoffie, passato tutto al dettaglio”, dice.

Nell’autunno del 2017 Laura ha chiesto il prolungamento del visto, ma le autorità israeliane non hanno risposto per mesi e nell’aprile 2018 le hanno restituito il passaporto senza una decisione o un nuovo visto. Senza status giuridico, ha deciso nel maggio 2018, alla fine dell’anno scolastico di suo figlio, di lasciare la Cisgiordania. Afferma che all’Allenby Crossing le forze israeliane le hanno detto che non poteva tornare e l’hanno rimproverata pubblicamente per essersi trattenuta oltre la scadenza del visto. “Mi hanno detto che avevo rovinato le possibilità di mio figlio di tornare qui e gli avevo rovinato la vita”, dice.

È tornata negli Stati Uniti e ha assunto un avvocato israeliano per aiutarla a ottenere il permesso di vivere di nuovo in Cisgiordania. Dice che ho scelto di lottare per il mio visto perché la Cisgiordania è la nostra casa e la nostra vita. È dove abbiamo vissuto per anni, dove mio figlio è cresciuto e ha stretto amicizie. Ha pianto per tutto il tempo dopo che ci è stato detto che non saremmo potuti tornare indietro. Era lì da quando aveva 10 anni. Ho lasciato la mia carriera e tutti i nostri averi nella nostra casa, la sua PlayStation, la sua bicicletta e i nostri abiti“.

Grazie agli sforzi dell’avvocato, Laura e suo figlio sono riusciti a tornare alla fine del 2018, dopo aver versato una cauzione che sarebbe stata restituita solo quando avrebbe lasciato la Cisgiordania, e ad insegnare per alcuni mesi. Ma, data la loro persistente impossibilità di rinnovare i loro visti e i costi crescenti, anche per gli avvocati, Laura sentiva di non avere altra scelta che vendere tutto e tornare negli Stati Uniti nel dicembre 2019. Da allora è tornata [in Cisgiordania] solo una volta, con un visto di 30 giorni che le autorità israeliane le hanno concesso a condizione che pagasse una cauzione di 30.000 shekel (7796 euro) da restituire solo quando avesse lasciato la Cisgiordania.

Dato che le nuove linee guida impediscono agli stranieri la permanenza in Cisgiordania per più di cinque anni al di fuori di circostanze eccezionali, afferma che tali norme le impediscono effettivamente di rimanere più a lungo in Cisgiordania. Continua a insegnare per l’università a distanza, poiché afferma che nessun altro ha il background necessario per tenere i suoi corsi.

Omar Shakir

Nel luglio 2021 Omar Shakir, il direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, ha chiesto all’esercito israeliano un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per incontrare il personale di Human Rights Watch dell’area, informare i diplomatici dell’Unione Europea in risposta al loro invito e svolgere ricerche, anche sugli abusi da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Shakir ha cercato di svolgere di persona un lavoro che non era stato in grado di svolgere da quando le autorità israeliane lo hanno espulso da Israele nel novembre 2019, affermando che la sua attività di difesa violava una legge del 2017 che vieta l’ingresso in Israele a persone che sostengono il boicottaggio di Israele o dei suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. Né Human Rights Watch né Shakir come suo rappresentante hanno mai chiesto il boicottaggio di Israele.

Dopo mesi passati senza ricevere una risposta affermativa o negativa, nell’aprile 2022 Shakir e Human Rights Watch hanno intentato una causa presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme contro l’esercito israeliano. Nel luglio 2022, l’esercito ha respinto la richiesta, citando “un’ampia discrezionalità” dell’Unità per il coordinamento delle attività governative dei Territori per quanto riguarda l’ingresso in Cisgiordania di cittadini stranieri e una clausola nelle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania secondo cui “tutte le relative disposizioni sono soggette alla politica del governo”.

Nella lettera dell’esercito a Shakir si rileva che la politica del governo in questa materia (che è stata inserita nella legislazione primaria in Israele) è quella di vietare la concessione di qualsiasi tipo di visto o permesso di soggiorno a persone che consapevolmente lanciano un appello pubblico al boicottaggio dello Stato di Israele o una qualsiasi delle sue istituzioni o qualsiasi area sotto il suo controlloe si cita la preoccupazione che Shakir possa utilizzare la sua visita per promuovere il boicottaggio di Israele e delle entità che operano in Israele e nell’area della Giudea e della Samaria [ovvero Cisgiordania, ndt.]. La decisione, in effetti, estende alla Cisgiordania occupata il divieto di ingresso in Israele per presunto sostegno ai boicottaggi.

Ad agosto Shakir e Human Rights Watch hanno presentato una petizione modificata sostenendo che l’esercito israeliano è andato oltre la sua autorità ai sensi del diritto internazionale umanitario, che limita gli interventi degli occupanti ad azioni che mantengano la sicurezza o l’ordine e l’incolumità pubblici o siano finalizzate al migliore interesse della popolazione occupata. Citando la discrezionalità più ristretta che un esercito di occupazione ha sull’ingresso nel territorio occupato rispetto a un Paese sul suo territorio sovrano, la petizione afferma che il diritto umanitario internazionale non consente all’esercito israeliano di negare l’ingresso in Cisgiordania per presunto sostegno ai boicottaggi. Sostiene che negare l’ingresso ai difensori dei diritti umani mina l’interesse pubblico dei residenti della Cisgiordania, che dovrebbero avere il diritto di coinvolgere rappresentanti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani.

A novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha confermato il diniego del governo, stabilendo che il divieto di ingresso basato sul presunto sostegno al boicottaggio rientra nell’ampia autorità che l’esercito ha di mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza” per i residenti del territorio occupato. La sentenza cita il presunto danno che le attività di boicottaggio arrecano ai coloni israeliani, che considera parte della popolazione locale nonostante il divieto del diritto umanitario internazionale di trasferire la popolazione dell’occupante nel territorio occupato, e ai lavoratori palestinesi che lavorano negli insediamenti coloniali. Indica inoltre le disposizioni delle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania che consentono all’esercito di prendere decisioni basate su considerazioni politiche e di altro tipo e che negano qualsiasi “diritto acquisito” ai cittadini stranieri di entrare in Cisgiordania, che l’esercito ha dichiarato zona militare chiusa nella sua interezza.

Sebbene il rifiuto di Israele di consentire la visita di Shakir non abbia causato tante difficoltà quanto il rifiuto di concedere permessi estesi a un membro di una famiglia palestinese o a un professore straniero a lungo termine, illustra come Israele abusi della sua autorità per controllare l’ingresso di stranieri nel territorio in cui non ha sovranità.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta e Cristiana Cavagna)