Tre palestinesi uccisi dalle forze israeliane in un raid a Jenin

Redazione di Al Jazeera

17 giugno 2022, Al Jazeera

Altri dieci feriti nell’ultimo mortale raid israeliano nella Cisgiordania occupata.

Tre palestinesi sono stati uccisi e dieci feriti durante l’irruzione delle forze israeliane a Jenin nella Cisgiordania occupata, come ha riferito il Ministero della Salute palestinese.

Circa 30 veicoli militari israeliani hanno fatto irruzione a Jenin nelle prime ore di venerdì e hanno circondato un’auto nell’area di al-Marah, a est della città, sparando ai quattro uomini seduti all’interno. Tre di loro sono stati uccisi e un quarto gravemente ferito.

L’agenzia di stampa palestinese Wafa ha identificato gli uomini uccisi come Baraa Lahlouh (24 anni), Yusuf Salah (23) e Laith Abu Suroor (24).

L’esercito israeliano ha affermato in un breve messaggio in ebraico che stava conducendo un’operazione per localizzare armi in due luoghi diversi e di essere stato attaccato.

“Sono stati accertati spari contro i soldati che hanno sventato i piani dei terroristi di colpirli”, ha sostenuto l’esercito, aggiungendo di aver trovato sul posto delle armi, tra cui due fucili d’assalto M-16 e delle cartucce.

I residenti di Jenin hanno affermato di ritenere che gli israeliani avessero intenzione di demolire la casa di Raed Hazem, che il 7 aprile aveva effettuato un attentato a Tel Aviv uccidendo tre israeliani prima di essere ucciso da un colpo di arma da fuoco.

L’esercito israeliano ha intensificato i raid all’interno e intorno al campo occupato di Jenin, nel tentativo di reprimere la crescente resistenza armata palestinese.

Dilagano i timori di una possibile invasione israeliana su larga scala del campo, dove sono attivi i gruppi armati della Jihad islamica palestinese e dei movimenti di Fatah.

Secondo il Ministero della Salute palestinese, quest’anno più di 60 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane, molti dei quali in raid simili.

Da marzo una serie di attacchi palestinesi ha ucciso anche 19 persone in Israele.

La giornalista Shireen Abu Akleh, un’importante giornalista televisiva di Al Jazeera, è stata uccisa dalle forze israeliane il mese scorso a Jenin mentre stava seguendo un’operazione dell’esercito israeliano.

Un’indagine palestinese ha affermato che la giornalista – che quando è stata colpita indossava un giubbotto antiproiettile con sopra la scritta “stampa” e un elmetto da giornalista – è stata uccisa a colpi di arma da fuoco in quello che è stato descritto come un crimine di guerra.

Israele ha fatto marcia indietro rispetto alla iniziale insinuazione secondo cui Abu Akleh potrebbe essere stata uccisa da un uomo armato palestinese, ma ha ora affermato che non porterà avanti alcuna indagine penale.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La commissione ONU sulla Palestina invita a cercare nuovi metodi per obbligare Israele a rispettare le leggi internazionali

Redazione di MEM

Martedì 14 giugno 2022 – Middle East Monitor

La commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati ha affermato ieri che la comunità internazionale deve urgentemente esplorare nuovi metodi per garantire che lo Stato di Israele rispetti il diritto internazionale.

L’ex commissaria ONU per i diritti umani Navy Pillay ha inviato al Consiglio per i diritti umani il primo rapporto della commissione sui territori palestinesi occupati e Israele.

Ha affermato che “anche noi siamo fermamente convinti che la continua occupazione del territorio palestinese, includendo Gerusalemme Est e Gaza, i 15 anni di assedio di Gaza e la pluriennale discriminazione all’interno dello Stato di Israele sono tutte collegate e non possono essere considerate separatamente”.

Dato il netto rifiuto da parte dello Stato di Israele di adottare concrete misure per implementare le conclusioni e le raccomandazioni delle precedenti commissioni, la comunità internazionale deve urgentemente esplorare nuove modalità per garantire l’ottemperanza al diritto internazionale.

L’ex giurista sudafricana ha affermato che la comunità internazionale non è riuscita a prendere significative misure per garantire il rispetto del diritto internazionale a parte di Israele obbligarlo a porre fine all’occupazione.

Pillay ha affermato che lo stato di “perpetua occupazione” della Palestina e la duratura discriminazione sia nello Stato di Israele sia in Palestina è la causa fondamentale della continua violenza.

L’ex responsabile della commissione ha affermato che “le minacce di deportazione forzata, le demolizioni, la costruzione ed espansione delle colonie, la violenza dei coloni e l’assedio di Gaza hanno contribuito e continueranno a contribuire a cicli di violenza.”

Ha affermato che la realtà perdurante da decenni porta ad un generale senso di disperazione e alla mancanza di ogni speranza tra i palestinesi in Palestina, Israele e nella diaspora.

Essi sono lasciati senza speranza di un futuro migliore che garantisca loro l’intero spettro dei diritti umani senza discriminazioni,” ha affermato Pillay.

La perdurante situazione di occupazione e discriminazione, ha spiegato, è usata dai palestinesi “che ricoprono incarichi di responsabilità” per giustificare le loro violazioni e irregolarità in violazione del diritto internazionale, incluso il fatto che l’autorità palestinese non sia riuscita a tenere le elezioni legislative e presidenziali.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La morte della giornalista palestinese mette in evidenza l’inconsistenza delle indagini dell’esercito israeliano

Bethan McKernan

14-giugno-2022 –The Guardian

L’uccisione con armi da fuoco di Shireen Abu Aqleh a maggio solleva nuove preoccupazioni per le inchieste militari sulla morte dei palestinesi.

Nell’agosto 2020 la 23enne Dalia Samoudi è stata uccisa quando un proiettile è entrato dalla finestra della sua casa a Jenin, nella Cisgiordania occupata, durante un raid delle forze di difesa israeliane (IDF) in una casa vicina.

Al Jazeera riferì dell’incidente: i testimoni affermarono che era stata uccisa da un soldato dell’IDF che sparava in direzione di palestinesi che lanciavano pietre. Due anni dopo la rete televisiva avrebbe riferito della morte della sua corrispondente di lunga data, Shireen Abu Aqleh, quasi nello stesso luogo.

Ancora una volta i testimoni hanno affermato che il fuoco mortale proveniva dai soldati israeliani, sebbene questa volta fossero presenti solo giornalisti e personale dell’IDF. Abu Aqleh, 51 anni, che indossava un giubbotto protettivo e un elmetto con la scritta “stampa”, è stata colpita da un colpo di arma da fuoco sotto l’orecchio.

Le cifre [dei militari israeliani messi sotto inchiesta, ndt] mostrano che i meccanismi investigativi dell’esercito non sono adatti allo scopo, ha affermato Dan Owen, un ricercatore di Yesh Din [Volontari per i diritti umani è un’organizzazione israeliana che lavora in Israele e in Cisgiordania, ndtr.].

Ha aggiunto: “Per definizione l’esercito non può fare un lavoro adeguato perché sta indagando su se stesso. Le condanne sono di solito per cose come l’uso illegale della forza o il maneggio errato di un’arma, piuttosto che per omicidio o omicidio colposo, e i soldati possono scontare la loro pena facendo lavori umili per alcuni mesi nelle basi militari”.

“Ogni anno vediamo che l’esercito presenta dati leggermente migliori e c’è una possibilità leggermente più alta che la denuncia di un palestinese porti a un atto d’accusa che verrà elaborato più rapidamente. Ma lo scopo generale di questo sistema non è la giustizia: è respingere le critiche interne e internazionali».

L’IDF afferma che in Cisgiordania le prime indagini operative vengono iniziate in tutti i casi in cui un palestinese viene ucciso, a meno che la morte non sia avvenuta in combattimento. Sulla base di questi risultati, e in conformità con la legge israeliana, l’avvocato militare decide se un’indagine penale è giustificata.

“La morte di un palestinese in [Cisgiordania] in genere susciterà la presunzione di sospetto di attività criminale, il che attiverebbe un’indagine penale immediata… Se non ci sono indagini penali immediate, attendiamo i risultati dell’esame operativo e raccogliamo ulteriori materiali e in seguito rivalutiamo se esiste un ragionevole sospetto di un crimine”, ha affermato un alto funzionario del sistema giuridico israeliano.

Nel caso della cittadina palestinese americana Abu Aqleh l’esercito israeliano ha affermato che poiché la giornalista è stata uccisa in una “situazione di combattimento attivo” non sarebbe stata avviata un’indagine penale immediata, anche se si sarebbe proceduto con un’indagine operativa. Israele ha anche criticato la decisione dell’Autorità Nazionale Palestinese di non collaborare a un’indagine congiunta o di non consegnare prove, come il proiettile che l’ha uccisa.

L’amministrazione Biden e il consiglio di sicurezza dell’Onu hanno chiesto un’indagine trasparente. Alla fine di maggio la morte di Abu Aqleh si è aggiunta a una denuncia legale presentata alla Corte penale internazionale che sostiene che le forze di sicurezza israeliane prendono di mira sistematicamente i giornalisti palestinesi in violazione del diritto umanitario internazionale.

Secondo il Centro palestinese per lo sviluppo e le libertà dei media dal 2000 30 giornalisti sono stati uccisi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dal fuoco israeliano, ma non sono mai state presentate accuse contro i soldati.

“Non capita spesso di avere un caso di alto profilo come Shireen”, dice Owen. “A meno che un omicidio non sia stato ripreso dalla telecamera senza alcun dubbio su chi l’ha commesso è altamente improbabile che venga indagato… Detto questo, i nostri dati mostrano più e più volte che anche quando l’esercito indaga, ciò non conduce alla giustizia”.

Nonostante conosca le basse probabilità di successo, il marito di Samoudi, Bassam, si rifiuta di rinunciare alle indagini dell’IDF sulla sua morte. Sta ancora sperando in risposte su come e perché sua moglie è morta.

Le prove sono così forti. Ovviamente sono preoccupato per il basso tasso di condanne, ma in questo caso può esserci solo un risultato”, ha detto. “Questa è l’unica opzione che ho, quindi devo usarla.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Germania: il vandalismo razzista alla vigilia di Documenta 15 innervosisce gli artisti palestinesi

Hebh Jamal

14 giugno 2022 – Middle East Eye

Atti di vandalismo razzista contro l’esposizione palestinese getta un’ombra sull’imminente evento artistico quinquennale.

La più grande esposizione di arte contemporanea al mondo, Documenta 15, aprirà la prossima settimana in un contesto di polemiche politiche, dopo atti di vandalismo razzisti che hanno preso di mira l’esposizione palestinese, innervosendo gli artisti alla vigilia di questo evento molto atteso che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Cassel.

A fine maggio individui non identificati hanno fatto irruzione nello spazio espositivo del collettivo artistico palestinese ‘The Question of Funding’ [il problema dei finanziamenti], hanno imbrattato i muri con il contenuto di un estintore ed hanno scritto su decine di superfici “187” (codice utilizzato negli Stati Uniti come minaccia di morte con riferimento al codice penale della California) e “Peralta”.

Gli organizzatori dell’evento ritengono che “Peralta” si riferisca alla politica fascista spagnola Isabelle Peralta, che si è vista negare l’ingresso in Germania a causa delle sue opinioni neonaziste.

Questo attacco era chiaramente mirato, poiché gli assalitori hanno vandalizzato solo i piani che ospitano il collettivo ‘The Question of Funding’ “, ha dichiarato a Middle East Eye Lara Khalidi, artista e operatrice culturale palestinese. “Potrebbe trattarsi di una minaccia di morte e adesso tutti gli artisti hanno molta paura di portare avanti l’esposizione.”

Secondo Lara Khalidi questa minaccia arriva dopo parecchi mesi di campagna di diffamazione e incitamento all’odio sulla stampa tedesca.

Il sostegno al BDS, motivo di repressione

Un’organizzazione locale contro l’antisemitismo, ‘Budnis gegen Antisemitismus Kassel’ [Alleanza contro l’Antisemitismo Kassel], accusa questa quinta edizione di Documenta di coinvolgere degli “attivisti anti-Israele”, di “violare le severe leggi tedesche contro l’antisemitismo” e di sostenere il movimento palestinese Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

In Germania un sostegno anche solo formale al BDS può essere motivo di repressione. Nel 2019 il Bundestag (il parlamento tedesco) ha approvato una risoluzione che definisce il movimento BDS antisemita.

Limitando il loro accesso ai fondi e agli spazi pubblici, questa risoluzione offre alle istituzioni statali e all’associazione filo-israeliana tutta la discrezionalità per attaccare le organizzazioni, gli artisti, gli accademici palestinesi e anche semplici individui.

Il commissario tedesco alla lotta contro l’antisemitismo Felix Klein si è unito alle critiche all’esposizione affermando che poiché “nessun artista israeliano è stato invitato, se ne deduce chiaramente che gli artisti israeliani devono essere boicottati.”

Lara Khalidi e alcuni suoi colleghi sono stati accusati di essere simpatizzanti nazisti perché hanno ricoperto posizioni direttive all’interno del centro culturale Khalil Sakakini, un’importante organizzazione senza scopo di lucro culturale e artistica di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

L’organizzazione locale contro l’antisemitismo afferma che Khalil Sakakini, insegnante palestinese progressista, era un antisemita in base a citazioni false e fuori contesto di Wikipedia, mentre Lara Khalidi e altri artisti palestinesi sono accusati di antisemitismo per associazione [a Sakakini, ndt.].

Questa vicenda dimostra chiaramente come la “lotta contro l’antisemitismo” sia diventata un’espressione pratica di xenofobia e razzismo puri e semplici”, spiega a MEE Michael Sappir, giornalista israeliano che vive in Germania.

Se il tipo di affermazioni usate per costruire l’accusa di antisemitismo contro gli artisti – in particolare in rapporto a Sakakini – fosse preso sul serio e considerato in buona fede, molti tedeschi famosi, affiliati ad organizzazioni con legami nazisti sarebbero coinvolti molto più gravemente.

Ma questo tipo di accuse poco chiare è una copertura pratica nel contesto tedesco di lotta ostentata contro l’antisemitismo per dare una patina di legittimità e di importanza agli attacchi contro gli stranieri, e sicuramente in particolare contro i palestinesi.”

Conseguenza dell’autocensura

Il centro culturale Khalil Sakakini in un comunicato deplora che le accuse “trite e ritrite” di antisemitismo siano sempre più utilizzate in Germania nei confronti di chi si esprime contro l’occupazione e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

Un’accusa usata come mezzo per ridurre al silenzio i suoi detrattori e come strumento di intimidazione. Questo attacco continuo si è ingigantito, passando dall’incitamento all’odio sui media ad un attacco diretto”, prosegue il comunicato.

Il teorico culturale Sami Khatib ritiene che in Germania il razzismo anti-palestinese “sistematico”si dissimuli sotto una facciata di intervento umanitario.

Questo dipende dal fatto che la comunità internazionale si vede nel ruolo di salvatore per scongiurare ‘il male del passato’ nel presente e nel futuro”, dichiara Sami Khatib.

Anche l’occasione di trovare una corretta definizione di antisemitismo e di discutere apertamente delle accuse degli organizzatori viene posta sotto la lente di ingrandimento.

L’annullamento di una tavola rotonda organizzata da Documenta per affrontare le questioni legate all’antisemitismo, al razzismo e all’islamofobia sarebbe dovuto a una lettera di Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, inviata a Claudia Roth, Ministra della Cultura e delle Comunicazioni. 

Schuster vi criticava il “pregiudizio evidente” di Documenta, insinuando che la tavola rotonda fosse di parte e non prevedesse interventi a favore di Israele. Questa lettera sottolineava la necessità “di una chiara presa di posizione e di una risoluta azione politica ad ogni livello politico, artistico, culturale e sociale” per combattere l’antisemitismo.

Come conseguenza dell’autocensura dei partecipanti in seguito alle reazioni, questa tavola rotonda è stata annullata. 

L’istituto ha ritenuto che fosse meglio organizzare un dibattito pubblico su ciò che significa antisemitismo. Invece si è stati accusati di essere di parte, anche se la tavola rotonda includeva partecipanti israeliani”, lamenta Lara Khalidi.

Il collettivo di artisti indonesiani Ruangrupa, responsabile di questa quinta edizione di Documenta, ha risposto alle accuse di antisemitismo con una lettera aperta.

Quando ogni critica allo Stato israeliano viene demonizzata e associata all’antisemitismo, bisogna aspettarsi che tale demonizzazione sia contestata. Questa contestazione viene principalmente da chi per primo è colpito dagli attacchi israeliani ai diritti umani”, si legge in questa lettera.

La cultura tedesca che associa l’antisionismo e persino il non-sionismo all’antisemitismo esclude i palestinesi e gli ebrei non sionisti dalla lotta contro l’antisemitismo, li diffama e li riduce al silenzio etichettandoli come antisemiti.”

L’elemento più inquietante in tutto ciò resta tuttavia l’origine di queste voci di antisemitismo.

Artisti ed attivisti sostengono che l’associazione all’origine di tutte queste voci e accuse di fatto non è altro che un blog gestito da una sola persona associata ad un gruppo dissidente di estrema sinistra chiamato Antideutsche (movimento anti-tedesco).

Per gli attivisti i grandi media tedeschi hanno ripreso questa informazione pubblicata dal blog senza nemmeno verificare queste accuse, che secondo loro sono piene di stereotipi razzisti e falsi.

La cosa più triste in tutto questo”, dice Lara Khalidi, “è che queste accuse senza fondamento sono state riprese da media nazionali seri, che hanno rilanciato gli appelli all’annullamento di Documenta se non fosse stato risolto il problema dell’antisemitismo.”

Una posizione forte e chiara”

I media hanno chiuso gli occhi sul fatto che si tratta dell’iniziativa di una sola persona, che posta regolarmente su Facebook dei contenuti islamofobi. Invece hanno ripreso come fatti reali le sue storie inventate, meditabonde e anche immaginarie”, ribadisce Lara Khalidi.

Ormai, a meno di una settimana dall’avvio dell’esposizione artistica tanto attesa, che si svolgerà dal 18 giugno al 25 settembre, gli artisti e gli organizzatori mostrano nervosismo.

Anche se Documenta ha reagito al vandalismo e alle minacce sporgendo denuncia e rafforzando la sicurezza sui luoghi, molti ritengono che la sua reazione e il suo comunicato ufficiale non siano sufficienti.

Il collettivo di artisti ha pubblicato un proprio comunicato definendo questo vandalismo un attacco razzista, mentre il comunicato stampa di Documenta prende semplicemente atto che si tratta di minacce “con motivazioni politiche”, senza menzionare che il bersaglio erano gli artisti palestinesi e senza qualificare questo atto come crimine di odio.

MEE ha sollecitato l’ufficio stampa di Documenta relativamente alla scelta dei termini, ma non ha ricevuto alcuna risposta. 

Il fatto è che, per cominciare, non sono neanche capaci di definire (questo attacco) per quello che è. Il problema riguardo alla maggior parte delle risposte agli attacchi razzisti da parte di Documenta 15, a prescindere dalla loro buona volontà, è che contribuiscono a questa mancanza di chiarezza”, lamenta con MEE Edwin Nasr, operatore culturale e giornalista che vive ad Amsterdam.

Firas Shehadeh, artista palestinese che vive a Vienna, spiega a MEE che il tentativo di Documenta di presentare l’attacco come un incidente isolato “svia l’attenzione dal fatto che si tratta di un attacco razzista.”

Aggiunge che Documenta ha pubblicato questo comunicato solo in seguito alla pressione esercitata dalla solidarietà palestinese e internazionale.

Tuttavia, ha aggiunto, questo comunicato non fa che ripetere il discorso anti-palestinese. “Non hanno nemmeno nominato la vittima – la Palestina o i palestinesi” ribadisce. “Al contrario, questo comunicato serve a nascondere il loro fallimento nel proteggere gli artisti invitati che volevano solamente contribuire al panorama artistico contemporaneo internazionale.”

Documenta è un ente finanziato da fondi pubblici. Secondo Lara Khalidi questo lo rende soggetto all’autocensura, cosa che limita la sua capacità di esprimersi sulla questione per timore di venire privato dei finanziamenti.

Non c’è alcun dubbio che, se si trattasse di un ente del tutto diverso, si definirebbe tutto questo un crimine di odio”, assicura.

Per garantire la sicurezza degli artisti ed attivisti palestinesi e filopalestinesi non vogliamo solo misure di sicurezza e un maggior numero di poliziotti, ma una posizione forte e chiara che lo denunci per quello che è: razzismo antipalestinese.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I palestinesi “sono destinati a vincere”: perché gli israeliani profetizzano la fine del loro Stato

Ramzy Baroud

13 giugno 2022 – Middle East Monitor

Se è vero che il sionismo è un’ideologia politica moderna che ha sfruttato la religione per raggiungere specifici obiettivi coloniali in Palestina, le profezie continuano a essere una componente fondamentale della percezione di Israele di se stesso e del rapporto dello Stato con altri gruppi, in particolare i gruppi messianici cristiani negli Stati Uniti e nel mondo.

Il tema delle profezie religiose e della loro centralità nel pensiero politico israeliano è stato nuovamente messo in luce dopo le osservazioni dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak in una recente intervista al quotidiano in lingua ebraica Yedioth Ahronoth [quotidiano di centro, ndt.]. Barak, percepito come un politico “progressista”, leader un tempo del Partito laburista israeliano, ha espresso il timore che Israele “si disintegrerà” prima dell’80° anniversario della sua fondazione, avvenuta nel 1948.

Barak afferma: “Nel corso della storia ebraica gli ebrei non hanno mai governato per più di ottant’anni, tranne che nel corso dei due regni di Davide [intorno al 1000 a.c., ndt.] e della dinastia degli Asmonei [dal 140 al 63 a.c., anno della conquista romana, ndt.] e in entrambi i periodi il loro crollo iniziò nell’ottavo decennio”.

Basata su un’analisi pseudo-storica, la profezia di Barak sembra fondere i fatti storici con il tipico pensiero messianico israeliano, rievocando le dichiarazioni fatte dall’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel 2017.

Come Barak, le considerazioni di Netanyahu vennero proferite sotto forma di paura per il futuro di Israele e l’incombente “minaccia esistenziale”, la pietra angolare dell’hasbara [parola in lingua ebraica che indica gli sforzi di propaganda per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] israeliana nel corso degli anni. In una sessione di studi biblici nella sua casa di Gerusalemme, Netanyahu aveva poi ricordato che il regno asmoneo, noto anche come dei Maccabei, sopravvisse solo 80 anni prima di essere conquistato dai romani nel 63 a.c.

Secondo una dichiarazione di uno dei partecipanti citata dal quotidiano israeliano Haaretz, Netanyahu avrebbe detto: ” Lo Stato Asmoneo è durato solo 80 anni e noi dovremmo superarlo“.

Ma, pur prendendo atto della presunta determinazione di Netanyahu di andare oltre quel numero [di anni, ndt.], sembra che egli abbia promesso di garantire che Israele superi gli 80 anni dei Maccabei per sopravvivere per 100 anni. Sono solo 20 anni in più.

La differenza tra le affermazioni di Barak e Netanyahu è abbastanza trascurabile: le opinioni del primo sono presumibilmente “storiche” e quelle del secondo sono bibliche. È tuttavia degno di nota che entrambi i leader, sebbene aderiscano a due diverse correnti politiche, convergano su punti di incontro simili: è in gioco la sopravvivenza di Israele; la minaccia esistenziale è reale e la fine di Israele è solo questione di tempo.

Ma il pessimismo in Israele non è certo confinato ai leader politici, che sono noti per esagerare e manipolare i fatti allo scopo di instillare paura e mobilitare i loro schieramenti politici, in particolare i potenti gruppi elettorali messianici di Israele. Anche se questo è vero, le previsioni sul cupo futuro di Israele non si limitano alle élite politiche del Paese.

In un’intervista ad Haaretz del 2019 Benny Morris, uno degli storici israeliani più conosciuti e rispettati, ha avuto molto da dire sul futuro del suo Paese. A differenza di Barak e Netanyahu, Morris non stava inviando segnali di allarme, ma affermava quello che a lui sembrava un risultato inevitabile dell’evoluzione politica e demografica del Paese.

“Non vedo come ne usciremo”, ha detto Morris, aggiungendo: “Oggi ormai ci sono più arabi che ebrei tra il mare (Mediterraneo) e il (fiume) Giordano. L’intero territorio sta inevitabilmente diventando uno Stato con una maggioranza araba. Israele si definisce ancora uno Stato ebraico, ma una situazione in cui governiamo un popolo sotto occupazione e senza diritti non può persistere nel XXI° secolo”.

Le previsioni di Morris, pur rimanendo fedeli ai miti razziali di una maggioranza ebraica, erano molto più articolate e anche realistiche rispetto a quelle di Barak, Netanyahu e altri. L’uomo che una volta si rammaricò che il fondatore di Israele, David Ben Gurion, non avesse espulso tutta la popolazione nativa della Palestina nel 1947-48, ha affermato con rassegnazione che, nel giro di una generazione, Israele cesserà di esistere nella sua forma attuale.

Particolarmente degna di nota nelle sue affermazioni è l’accurata percezione che “i palestinesi osservano le cose secondo una prospettiva ampia e a lungo termine” e che essi continueranno a “chiedere il ritorno dei rifugiati”. Ma chi sono i “palestinesi” a cui si riferisce Morris? Certamente non l’Autorità Nazionale Palestinese, i cui leader hanno ormai messo da parte il Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi, e sicuramente non hanno “prospettive ampie e a lungo termine”. I “palestinesi” di Morris sono, ovviamente, lo stesso popolo palestinese, generazioni che hanno servito, e continuano a servire, in prima linea la causa dei diritti palestinesi nonostante tutte le battute d’arresto, le sconfitte e i “compromessi” politici.

In realtà le profezie riguardanti la Palestina e Israele non sono un fenomeno nuovo. La Palestina fu colonizzata dai sionisti con l’aiuto della Gran Bretagna, anche sulla base di quadri di riferimento biblici. Venne popolata da coloni sionisti sulla base di riferimenti biblici riguardanti la restaurazione di antichi regni e il “ritorno” di antichi popoli ad una loro presunta legittima “terra promessa”. Sebbene Israele abbia assunto molti significati diversi nel corso degli anni – a volte percepito come un’utopia ‘socialista’, in altri casi come un rifugio democratico e liberale – è sempre stato ossessionato da significati religiosi, visioni spirituali e inondato da profezie. L’espressione più sinistra di questa verità è il fatto che l’attuale sostegno a Israele da parte di milioni di fondamentalisti cristiani in Occidente è in gran parte guidato da profezie messianiche sulla fine del mondo.

Le ultime previsioni sul futuro incerto di Israele si basano su una logica diversa. Poiché Israele si è sempre definito uno Stato ebraico, il suo futuro è principalmente legato alla sua capacità di mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. Per ammissione di Morris e altri questo sogno irrealizzabile sta ora sgretolandosi poiché la “guerra demografica” si sta chiaramente e rapidamente perdendo.

Naturalmente, la convivenza in un unico Stato democratico sarà sempre una possibilità. Purtroppo per gli ideologi sionisti israeliani un tale Stato difficilmente soddisferà le aspettative minime dei fondatori del Paese, poiché non esisterebbe più nella forma di uno Stato ebraico e sionista. Perché si realizzi una coesistenza l’ideologia sionista dovrebbe essere totalmente eliminata.

Barak, Netanyahu e Morris lo stanno bene: Israele non esisterà come ‘Stato ebraico’ ancora per molto. Parlando rigorosamente in termini demografici, Israele non è più uno Stato a maggioranza ebraica. La storia ci ha insegnato che musulmani, cristiani ed ebrei possono coesistere pacificamente e prosperare collettivamente, come hanno fatto in tutto il Medio Oriente e nella penisola iberica per millenni. In effetti, questa è una predizione, persino una profezia, per la quale vale la pena lottare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il Museo della Tolleranza di Gerusalemme ha poco a che fare con i musei o la tolleranza

Nir Hasson

12-giugno-2022-Haaretz

In contrasto con il Museum of Tolerance di Los Angeles, il museo di Gerusalemme costruito su un antico cimitero musulmano — non tratterà dell’Olocausto. Il grandioso progetto ospiterà invece convegni, sagre e concerti.

Negli ultimi 18 anni i gerosolimitani sono stati tenuti fuori dall’enorme complesso che si trova tra le strade di Hillel e Menashe Ben Yisrael, nel cuore della città. Solo dopo una serie infinita di lamentele – tra scandali, crisi e liti legali – l’enorme Museo della Tolleranza è stato finalmente completato e si è avuta una graduale risoluzione dell’enigma: qual è il vero scopo del grande edificio bianco?

Il termine “museo” qui è fuorviante. Anche i direttori del sito lo ammettono. Il complesso comprende due piccoli musei, ma costituiscono solo una piccola parte dello spazio assegnato e degli scopi designati per il centro. La maggior parte delle attività previste qui saranno culturali ed educative: spettacoli, convegni, proiezioni di film ed eventi legati al cibo. “Faremo rivivere il centro della città”, promettono i responsabili del museo. Nel frattempo, devono risolvere un’altra controversia con il comune.

La storia del Museo della Tolleranza è iniziata nel lontano 2004, a seguito di un accordo tra l’allora sindaco Ehud Olmert e il rabbino Marvin Hier per l’assegnazione di terreni per un nuovo progetto speciale. Hier è il direttore del Simon Wiesenthal Center e uno dei fondatori del Museum of Tolerance di Los Angeles. Ha ampi legami con donatori: politici e celebrità statunitensi. La visione originale era quella di costruire un museo progettato dal famoso architetto Frank Gehry su un lotto vuoto, tra Independence Park e la colloquialmente chiamata Cats’ Square.

Alla cerimonia di posa della pietra angolare partecipò l’allora governatore della California Arnold Schwarzenegger, che promise che i musei della tolleranza avrebbero promosso l’idea di tolleranza proprio come le palestre promuovono la salute. Ma, nonostante il fascino hollywoodiano, il progetto incontrò problemi sin dall’inizio: la posa delle fondamenta della struttura rivelò che il vecchio parcheggio era stato costruito su una parte dell’antico cimitero musulmano della città, con centinaia di scheletri che spuntavano. Ciò ritardò la costruzione del museo di diversi anni dopo che il Movimento islamico si rivolse all’Alta Corte di giustizia.

La corte alla fine permise la continuazione della costruzione. Gli scheletri furono rimossi con un controverso scavo archeologico e il museo iniziò a prendere forma. Poi arrivò la crisi economica del 2008 che fece sì che il Centro Wiesenthal incontrasse difficoltà finanziarie. Gehry decise di abbandonare il progetto a causa delle controversie finanziarie e venne sostituito dagli architetti israeliani Bracha e Michael Hayutin. Anche loro ebbero dissapori con gli impresari e abbandonarono il progetto, venendo sostituiti dall’architetto Yigal Levi. La costruzione riprese e il grande edificio bianco crebbe verso l’alto.

Il progetto ha subìto un’altra crisi in seguito allo scoppio del coronavirus. Mentre altre società di costruzioni hanno continuato a lavorare nonostante la pandemia, i lavori al museo si sono interrotti per quasi due anni perché veniva costruito senza l’utilizzo di una ditta appaltatrice. Gli impresari hanno acquistato una società di costruzioni israeliana e hanno costruito la struttura utilizzando lavoratori ed esperti provenienti principalmente dalla Cina. Quando è scoppiata la pandemia, i lavoratori erano bloccati in Cina, impossibilitati a tornare in Israele. L’anno scorso i lavori sono ripresi e l’edificio era quasi ultimato.

Nella costruzione del museo sono state utilizzate tecniche innovative e all’avanguardia. Ad esempio, dal Portogallo sono state importate decine di migliaia di pietre che ricoprono l’esterno. Rimangono appese con un sistema di ganci, con scale che sembrano sospese a mezz’aria. I direttori del museo sono orgogliosi dell’alta qualità della finitura, sconosciuta negli edifici pubblici israeliani.

Inoltre vengono utilizzati un intonaco acustico speciale importato dalla Germania, pavimenti laminati importati dagli Stati Uniti, eleganti bagni accessibili, con illuminazione all’ultimo grido, sistemi audio e multimediali all’avanguardia, nonché mobili esclusivi importati dall’Italia e dalla Spagna, finestre intelligenti, porte insonorizzate, un auditorium polifunzionale in grado di adattarsi a diversi scopi, soffitti mobili ed altro ancora. Fonti del Wiesenthal Center non dicono quali siano stati i costi totali fino ad ora, ma sono stimati in oltre mezzo miliardo di shekel (150 milioni di dollari).

Il carattere sfarzoso dell’edificio serve a sottolineare l’incertezza lunga anni sui suoi usi. In contrasto con il Museum of Tolerance di Los Angeles, dedicato principalmente allo studio dell’Olocausto, il museo di Gerusalemme, sulla base delle richieste di Yad Vashem, starà lontano dall’argomento. Con il proseguimento dei lavori i funzionari del municipio si sono resi conto che non si trattava di un normale museo, ma di una combinazione di un centro culturale, una sala congressi, un luogo di intrattenimento e una piazza cittadina.

In un’intervista con Haaretz i direttori del museo rivelano i loro progetti futuri, chiedendo un po’ più di pazienza ai residenti di Gerusalemme, promettendo che la sede diventerà il cuore pulsante della città. “Saremo una casa per tutti, dalla tenda di Abramo all’arca di Noè. Immagina di prelevare il Peres Center for Peace da Jaffa e trasportarlo a Gerusalemme”, afferma Jonathan Riss, il cui titolo è responsabile delle operazioni ma che segue questo progetto da 21 anni. “Il museo farà rivivere il centro della città”, promette.

Secondo il piano strategico preparato da Ayelet Frisch, ex consigliere di Shimon Peres, l’edificio fungerà da centro culturale con annesso luogo di intrattenimento. Nella parte anteriore c’è un giardino che commemora leader e premi Nobel. Dal giardino si accede ad un anfiteatro con una capienza di 1.000 persone.

Tra i sedili e il palco c’è un pavimento in vetro, che ricopre parti di un antico acquedotto scoperto durante i lavori. Sul palco c’è un sistema audiovisivo. L’anfiteatro si trasformerà in un cinema all’aperto, uno spazio per eventi e spettacoli e un’area meeting. All’interno dell’edificio si trova un altro teatro con 400 poltrone importate dall’Italia. Nelle pareti e nel soffitto è presente un sistema di illuminazione che può cambiare l’atmosfera nell’auditorium. L’auditorium, secondo i costruttori, sarà un centro conferenze che ospiterà eventi aziendali e allestimenti di spettacoli. Dietro il palco ci sono stanze per artisti. Altre destinazioni d’uso dell’edificio sono feste enogastronomiche, eventi per bambini e laboratori artistici.

L’edificio ha altri auditorium, aule per conferenze, uno spazio per un negozio di articoli da regalo, un ristorante, tre gigantesche cucine (carne, latticini e pareve [cibo non contenente né carne né latticini e quindi consumabile con uno degli altri due, ndt]), balconi con vista sul cimitero musulmano e sul Parco dell’Indipendenza, una sala di studio religioso con un piano separato per le donne e anche un’area per la polizia, destinata a contrastare possibili beghe provenienti da Cats’ Square. I livelli dell’edificio sono collegati tramite un sistema di scale sospese e un ascensore con una capacità di 80 persone. Le pareti dell’ascensore sono ricoperte da schermi a LED.

I due piani inferiori ospiteranno i due musei, il Museo della Tolleranza per i bambini e un Museo della Tolleranza per gli adulti. Conterranno ologrammi e sistemi multimediali che racconteranno la tolleranza nella società israeliana. Questi due spazi sono quelli più lontani dal completamento. I funzionari del museo affermano che anche se l’edificio verrà aperto presto, ci vorrà un altro anno e mezzo prima che parti del museo vengano aperte al pubblico. Il museo spera che il sito diventi una destinazione per alunni, soldati e poliziotti a Gerusalemme, un punto di riferimento per l’attività economica e culturale locale.

I funzionari del museo respingono le accuse secondo cui lo scopo dell’edificio è gradualmente cambiato nel corso degli anni e che, invece di un museo della tolleranza, Gerusalemme ha acquisito un elegante centro congressi. Dicono che tutti gli usi attualmente previsti fossero nei piani originali presentati quasi 20 anni fa. Ammettono che il nome “museo” è alquanto fuorviante e che i principali usi finali non saranno legati al museo.

Volevamo diventare un luogo che attirasse Paul McCartney a Gerusalemme, un luogo che aprisse una porta culturale nella città. Se non fosse stato per i ritardi causati dalla pandemia e dalla burocrazia l’edificio sarebbe ormai frequentatissimo, con sagre gastronomiche, spettacoli ed eventi adatti a una madre ultraortodossa e a un bambino musulmano”, afferma Frisch.

Il museo respinge un’altra affermazione: che sia legato all’ala destra dello schieramento politico. Otto mesi fa vi si è tenuto il primo evento, una cerimonia che segnava l’istituzione del Friedman Center for Peace. David Friedman era l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele durante l’amministrazione Trump. All’evento c’era un elenco di alti funzionari di quell’amministrazione. Un corrispondente della CNN ha descritto l’evento come “cadere nello specchio di Alice nel Paese delle Meraviglie”, in una realtà alternativa in cui Trump è ancora presidente e Benjamin Netanyahu, che ha partecipato alla cerimonia, è ancora primo ministro.

Il fatto che il museo si sia impegnato ad affrontare la tolleranza nello sport e nei sistemi sanitari e educativi, sebbene apparentemente riluttante ad affrontare i problemi reali di Gerusalemme, come l’occupazione, la discriminazione e le violazioni dei diritti umani, ha contribuito alla sua immagine di istituzione di destra. “Non ignoro il problema arabo”, dice Riss.

Il nostro obiettivo è aiutare le persone a comprendere il disagio degli altri. Non posso intraprendere la missione di cambiare la società israeliana, ma sto cercando di trovare un ponte per il dialogo culturale attraverso film e multimedia”. I direttori del museo promettono che ci sono alcuni progetti in cantiere che contrastano con la loro immagine destrorsa. Chiedono di non pubblicare i nomi delle persone che hanno l’intenzione di partecipare, solo di rilevare che provengono dal lato “liberal” dello schieramento politico americano.

Nel frattempo il museo si è trovato in un altro conflitto con il Municipio di Gerusalemme. Molte persone al comune sono stufe della lentezza del completamento del museo. Dicono che il Centro Wiesenthal ha ottenuto il terreno più desiderabile e costoso della città, ma che rimane chiuso dietro le recinzioni, inaccessibile ai gerosolimitani da troppo tempo. “Il divario tra le loro dichiarazioni e azioni è molto grande”, afferma un alto funzionario della Città.

A causa di questa frustrazione è scoppiato un conflitto su Cats’ Square, di fronte al museo. Il progetto originale prevedeva che questa piazza facesse parte del complesso museale, con un altro auditorium costruito su di essa. Ma questo avrebbe richiesto alla città di trasferire la piazza ai costruttori del museo, cosa che si rifiuta di fare. L’anno scorso il museo si è rivolto al tribunale distrettuale, chiedendo che ordinasse al comune di trasferire il terreno. Mentre continuano i procedimenti legali, la scorsa settimana la città ha approvato una dura mozione contro il museo.

La mozione rivendica la nullità dell’accordo con il museo per il trasferimento della piazza. Il consiglio comunale ha chiesto l’apertura del museo entro quattro mesi. I funzionari della Città ammettono che non possono costringere i costruttori ad aprire, ma hanno affermato che potrebbero rendere loro le cose difficili. Nel frattempo la Città si rifiuta di consentire lo svolgimento di ulteriori eventi nel luogo. Una grande festa per il Giorno dell’Indipendenza che era stata programmata lì è stata cancellata. Di fronte a questi problemi, le imprese non si impegnano a fissare una data di apertura, ma affermano che accadrà entro mesi, non anni.

“Il museo ha infranto una serie di impegni”, afferma la componente del consiglio comunale Laura Wharton (Meretz). “Non solo non hanno rispettato i tempi, hanno cambiato la finalità principale di costruire un museo, per la quale era stato concesso il terreno. I costruttori ora ammettono che l’edificio fungerà da centro congressi, con un possibile uso secondario come museo. Non c’è trasparenza sui contenuti, che fino ad ora rimangono segreti. Lasciando da parte la questione se un cimitero musulmano sia un luogo appropriato per un museo della tolleranza, che dire se un centro città sia adatto per un centro congressi o luogo per eventi sfarzosi?”

Gli impresari sono convinti che il conflitto con il municipio sarà risolto. Elogiano il sindaco Moshe Leon, promettendo che, dopo tutti questi anni, la costruzione dell’edificio è giunta alla fase conclusiva. “Ciò che rende una città una capitale è la sua attività sociale ed economica: questo è ciò che stiamo contribuendo a dare a Gerusalemme e sarà sorprendente”, afferma Riss.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Come Israele riesce a vincere nonostante l’UE non creda alle sue menzogne

Maureen Clare Murphy

10 giugno 2022 – Electronic Intifada

Questa settimana fonti diplomatiche hanno detto a un giornale israeliano che i Paesi europei non credono alla definizione di “terroriste” che lo scorso anno Israele ha imposto ad alcune organizzazioni palestinesi per i diritti umani e i servizi sociali.

Si tratta di Addameer, Al-Haq, the Bisan Center for Research and Development [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo], Defense for Children International-Palestine [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina], the Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] e Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del Lavoro Agricolo].

Israele accusa queste associazioni di dirottare fondi verso il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un partito politico di sinistra della resistenza.

Questo gruppo è stato messo al bando da Israele, così come dagli USA e dall’UE, in quanto si è rifiutato di riconoscere Israele e di rinunciare alla resistenza armata contro l’occupazione e la colonizzazione.

Tutte e sei le organizzazioni prese di mira lavorano in Palestina da molti anni e hanno solidi rapporti a livello internazionale.

Tre di queste organizzazioni stanno rappresentando vittime palestinesi nell’inchiesta per crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza della Corte Penale Internazionale.

Il fatto che Israele abbia inserito nella lista nera questi gruppi è stato denunciato da una nuova commissione d’inchiesta permanente dell’ONU che nel suo primo rapporto, reso pubblico martedì, prende in esame il sistema di oppressione israeliano nel suo complesso.

La commissione “nota con preoccupazione i crescenti attacchi e i tentativi di mettere a tacere difensori dei diritti umani e organizzazioni della società civile che sostengono la difesa dei diritti umani e la responsabilizzazione.”

Il responsabile ONU per i diritti umani ha affermato che le “decisioni riguardo alla definizione [di organizzazioni terroristiche, ndt.] sono basate su ragioni vaghe e inconsistenti” e che alcune delle giustificazioni di Israele “si riferiscono ad attività per i diritti umani totalmente pacifiche e legittime.”

In aprile decine di esperti indipendenti per i diritti umani dell’ONU hanno invitato i governi a riprendere i finanziamenti alle associazioni inserite nella lista nera.

Non convincenti

Secondo quanto riportato mercoledì dal giornale, rappresentanti diplomatici di sei Paesi hanno detto al quotidiano di Tel Aviv Haaretz [di centro sinistra, ndt.] che “Israele ha consegnato loro attraverso canali diplomatici e di intelligence materiale per dimostrare le sue affermazioni contro le associazioni.”

“È semplice: ci sono state fornite prove e noi non le abbiamo trovate abbastanza convincenti,” ha detto un diplomatico ad Haaretz.

Il giornale ha aggiunto: “Un altro [diplomatico, ndt.] ha affermato che funzionari di molti di questi Stati credono che le prove presentate da Israele ‘non rispondano al livello di prova richiesto per dimostrare il trasferimento di fondi.”

Benché nessuno Stato europeo abbia ritirato il proprio appoggio in seguito alla definizione israeliana, solo il Belgio ha pubblicamente affermato che non ci sono basi per le affermazioni di Tel Aviv.

Con una dimostrazione di estrema deferenza nei confronti di Israele, l’Unione Europea ha tuttavia sospeso i finanziamenti a due delle organizzazioni – Al-Haq e l’Union of Agricultural Work Committees – e altri finanziatori hanno rinviato i propri contribuiti mentre stanno indagando sulle affermazioni di Tel Aviv.

Fonti diplomatiche hanno detto ad Haaretz che è insolito che la Commissione Europea, l’organo esecutivo dell’UE, abbia congelato il proprio sostegno ad Al-Haq, prendendo quindi una posizione che si allontana da quella degli Stati membri dell’UE.

Ciò in effetti significa che funzionari non eletti di Bruxelles hanno imposto la propria politica estera a governi eletti di Stati membri dell’UE.

Alcuni diplomatici hanno detto al giornale che dietro a questa iniziativa c’è Olivér Várhelyi, un importante funzionario della Commissione Europea.

Várhelyi è il promotore del ritiro da parte dell’UE di circa 230 milioni di dollari di finanziamento per malati di tumore palestinesi e per altri servizi fondamentali.

Il pagamento è stato rimandato fin dallo scorso anno “in quanto l’Unione Europea continua a condizionare il rilascio dei fondi in base a specifiche accuse nei confronti dei libri di testo palestinesi,” ha affermato lo scorso mese il Norwegian Refugee Council [Consiglio Norvegese per i Rifugiati].

Várhelyi è stato nominato a questo incarico da Viktor Orbán, il primo ministro di estrema destra dell’Ungheria, suo Paese d’origine, che ha fatto circolare luoghi comuni antisemiti nelle campagne elettorali ed ha conferito lo status di eroe a un collaboratore dei nazisti, vere e proprie manifestazioni di fanatismo antiebraico che Várhelyi non ha ancora condannato.

Gli olandesi hanno posto fine al loro appoggio a favore dell’Union of Agricultural Work Committees benché un’indagine governativa non abbia trovato “alcuna prova” di “flussi di finanziamento” tra questi e il FPLP.

L’Aia ha interrotto i suoi finanziamenti sulla base dell’affiliazione a titolo personale di collaboratori e membri della direzione dell’UAWC, punendo concretamente tutta l’organizzazione e tutti i suoi beneficiari in base alle presunte simpatie politiche di alcuni di essi.

Impatto incalcolabile”

Quindi, mentre non si prevede che l’ufficio antifrode della Commissione Europea indaghi le associazioni, in ogni caso Israele “ha ottenuto quello che voleva”, come ha ammesso una fonte diplomatica ad Haaretz.

“Ciò ha danneggiato il lavoro di queste organizzazioni palestinesi ed ha avuto un impatto incalcolabile sulle comunità che esse aiutano,” hanno detto in aprile gli esperti dell’ONU.

Israele sta cercando di espellere Salah Hammouri, un legale di Addameer che attualmente è detenuto senza accuse o processo.

Dall’inizio di marzo Israele tiene in arresto Hammouri, nato a Gerusalemme e con cittadinanza francese, e all’inizio di questa settimana ha prolungato di altri tre mesi l’ordine di detenzione amministrativa contro di lui la stessa mattina in cui avrebbe dovuto essere rilasciato.

Tel Aviv intende revocare la residenza permanente di Hammouri e deportarlo da Gerusalemme sulla base di accuse di “slealtà” nei confronti di Israele.

Nel 2016 Israele ha espulso la moglie di Hammouri, Elsa Lefort, quando era incinta di sette mesi. Lefort, di nazionalità francese, e i figli della coppia hanno il divieto di ingresso nel Paese.

La persecuzione di Hammouri da parte di Israele è stata sottoposta alla Corte Penale Internazionale.

Il Center for Constitutional Rights [Centro per i Diritti Costituzionali], con sede a New York, e la federazione per i diritti umani FIDH di Parigi hanno detto al procuratore generale della Corte che il caso di Hammouri è “un esempio lampante e un indicatore di una nuova tattica” nei tentativi israeliani di lunga data per cacciare i palestinesi da Gerusalemme.

Israele ha anche imposto al personale il divieto di viaggiare e sembra che gli USA abbiano vietato a Sahar Francis, la direttrice di Addameer, di viaggiare nel Paese a causa della definizione da parte di Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il movimento kahanista: un lascito di violenza e razzismo in Israele

Jessica Buxbaum

7 giugno 2022 – The New Arab

Jessica Buxbaum

7 giugno 2022 – The New Arab

Oggi, decenni dopo la fondazione del Kach e la morte del rabbino Meir Kahan, il movimento ebraico radicale suprematista è persino forse più influente che ai suoi inizi.

Il mese scorso gli Stati Uniti hanno annunciato la decisione di rimuovere il gruppo estremista ebraico Kahane Chai dalla loro lista di terroristi stranieri.

La mossa è stata accolta da forti critiche da parte dei difensori dei diritti palestinesi, mentre l’Autorità Palestinese ha condannato la decisione perché ‘premia’ l’estremismo israeliano.

Anche se dal 2005 Kahane Chai non è stato direttamente collegato a un attacco terrorista, gli esperti asseriscono che il movimento di ultradestra potrebbe essere persino più influente oggi che ai suoi inizi.

Una storia di violenza e razzismo 

Kahane Chai è una fazione del partito politico israeliano Kach fondato dal rabbino Meir Kahane nel 1971. L’estremista, nato negli USA, si candidò varie volte alle elezioni per il Kach e poi ottenne finalmente un seggio nel parlamento israeliano, la Knesset, nel 1984.  

Il razzismo antipalestinese di Kahane e l’ideologia suprematista ebraica fecero di lui un outsider nella Knesset. Fra le sue convinzioni c’erano l’espulsione di palestinesi e arabi da Israele e dai territori palestinesi occupati e la promozione di uno Stato in cui viga la legge ebraica.

I parlamentari boicottarono spesso i suoi discorsi in parlamento e ignorarono le sue proposte di legge. Kahane fu parlamentare per una sola legislatura in seguito all’approvazione da parte della Knesset di un emendamento che proibiva la candidatura di partiti che incitavano al razzismo. 

Dopo l’assassinio di Kahane nel 1990 il Kach si divise in due gruppi: Kach e Kahane Chai. Kahane Chai, ovvero “Kahane vive” in ebraico, era guidato da Binyamin, il figlio di Kahane.  

David Sheen, un giornalista investigativo con base ad Haifa ed esperto di Kach, ha spiegato a The New Arab che il nome Kahane Chai è un tentativo di far vivere Kahane attraverso il figlio.  

Fino a quando è stato vivo il figlio, lo strumento principale del movimento di Kahane fu Kahane Chai,” dice Sheen.  

Entrambe le organizzazioni furono dichiarate entità terroristiche nel 1994, dopo che un sostenitore di Kach, Baruch Goldstein, uccise 29 fedeli in preghiera nella moschea Ibrahimi a Hebron, nella Cisgiordania occupata. Nel 1997 gli Stati Uniti aggiunsero quindi Kahane Chai alla loro lista di gruppi terroristici.  

Nel corso degli anni organizzazioni affiliate al Kach sono state protagoniste di violenze antiarabe. Negli anni ’80 Machteret, un’unità terrorista ebraica clandestina, commise parecchi attacchi contro i palestinesi. Le autorità israeliane impedirono a Machteret di portare avanti un piano per far saltare in aria la moschea di Al-Aqsa.  

Si crede che i sospettati dell’uccisione nel 1985 di Alex Odeh, direttore per la California meridionale del Comitato contro la discriminazione degli arabi americani, appartenessero alla Jewish Defence League-Kahane [Lega per la Difesa Ebraica – Kahane]

Il Dipartimento di Stato USA ha giustificato la sua decisione dicendo che Kahane Chai non è stata coinvolta in atti di terrorismo per vari anni, ma Sheen sostiene che questo ragionamento non sta in piedi.  

La cosa più clamorosa che emerge da quest’annuncio è che si finge che non abbiano commesso un attacco terroristico in cinque anni,” dice Sheen. “Non sono questi forse gli stessi kahanisti che hanno organizzato pogrom antipalestinesi e scontri razziali in tutto il Paese lo scorso maggio? Questo non conta come terrorismo kahanista?”

Il più recente attacco terroristico noto commesso da un affiliato a Kahane Chai è stato nel 2005, quando un soldato israeliano abbandonò la sua postazione e uccise quattro palestinesi cittadini di Israele. Ma Sheen spiega che solo perché il gruppo non ha commesso violenze sotto il suo nome originario non significa che sia inattivo.

Secondo Sheen il rabbino Yitzchak Ginsburg, seguace del movimento Chabad, subentrò come leader religioso del movimento kahanista dopo l’assassinio del figlio di Kahane, Binyamin, nel 2000. Quell’anno, in occasione della commemorazione annuale di Kahane, Ginsburg dichiarò che l’estremista scomparso aveva ragione e che la sua opera doveva continuare.

Ginsburg dirige la scuola talmudica di Od Yosef Chai a Yitzhar, una colonia israeliana illegale in Cisgiordania notoriamente violenta. Nel 2015 si suppone che seguaci e studenti di Ginsburg abbiano dato fuoco alla casa della famiglia palestinese Dawabsheh, uccidendo un bambino di 18 mesi e i suoi genitori.  

Che si chiamino Jewish Legion [Legione Ebraica] o Committee for the Safety of the Roads [Comitato per la Sicurezza stradale] o Lehava [organizzazione di estrema destra suprematista ebraica, ndt.] tutte queste diramazioni fanno parte dello stesso movimento, ma sono autentici terroristi e tutti kahanisti,” afferma Sheen.  

Il movimento Kach è vivo e gode di ottima salute

Decenni dopo la fondazione di Kach e la morte di Kahane il credo kahanista persiste ancora oggi. Itamar Ben-Gvir, un discepolo di Kahane, è stato eletto nella Knesset nel 2021 con il partito Otzma Yehudit, ovvero Potere ebraico. Molti attivisti considerano l’Otzma Yehudit una reincarnazione di Kach.  

Ma se Kahane era isolato nella Knesset, Ben-Gvir sta crescendo in popolarità. Shaul Magid, l’autore di ‘Meir Kahane: The Public Life and Political Thought of an American Jewish Radical‘,[Meir Kahane: la vita pubblica e il pensiero politico di un ebreo americano radicale] sostiene ciò dicendo che il mainstream israeliano è cambiato e i politici di centro sposano gli stessi ideali delle loro controparti di destra.  

In questo modo il Kach non sembra più così estremista come una volta,” ha detto Magid a The New Arab. “Ecco perché con uno come Ben-Gvir tutti si limitano ad alzare le spalle, perché non è cosi lontano dal mainstream.” 

Sheen è d’accordo con l’idea che la società israeliana ha fatto diventare il kahanismo parte del discorso prevalente.  

Le vecchie élite trovano il kahanismo spregevole,” dice Sheen. “Ma quella vecchia classe dirigente si sta riducendo mentre le nuove élite stanno crescendo e la rimpiazzano. Le nuove élite sono i coloni e per loro Ben-Gvir è un eroe.” 

I parlamentari hanno sostenuto Ben-Gvir nelle sue azioni provocatorie, come impiantare degli uffici improvvisati nell’esplosivo quartiere di Sheikh Jarrah. Il politico sobillatore ha anche ricevuto un significativo seguito di pubblico. 

La popolarità di Ben-Gvir cresce così come quella del kahanismo. Otzma Yehudit ha ottenuto un certo successo alle ultime elezioni perché l’ex primo ministro Netanyahu si è alleato con loro. Ma sembra che il futuro politico del partito non possa contare sul sostegno di altri leader.

Pare che nelle prossime elezioni [i kahanisti] dilagheranno perché otterranno molti più voti e diventeranno una potenza a sé stante.” conclude Sheen.

Jessica Buxbaum è una giornalista che vive a Gerusalemme e che si occupa di Palestina e Israele. Il suo lavoro è apparso su Middle East Eye, The National e Gulf News.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un detenuto palestinese entra nel novantaseiesimo giorno di sciopero della fame, nonostante le condizioni di salute critiche.

Redazione di Middle East Monitor

Martedì 7 giugno 2022 – Middle East Monitor

In Israele un detenuto palestinese, Khalil Awawdeh, si trova in gravi condizioni di salute in quanto è arrivato al novantaseiesimo giorno di sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione amministrativa, senza processo o accuse.

Khalil, padre di quattro figli, è stato imprigionato il 27 dicembre 2021 e messo in detenzione amministrativa – una norma che permette alle autorità israeliane di tenere in carcere chiunque per un periodo di sei mesi senza accuse o processo e che può essere esteso indefinitamente.

Secondo la Palestinian Prisoner Society (PPS) [organizzazione non governativa, N.d.T.], il prigioniero palestinese di quaranta anni ha difficolta a parlare e a comunicare. Soffre anche di forti dolori in tutto il corpo, specialmente agli arti inferiori e ai muscoli.

In seguito alla visita alla prigione di Ramleh, nella zona centrale di Israele, un legale della PPS, Jaward Boulos, ha riferito che oltre alle difficoltà alla vista, Khalil sta anche vomitando sangue e ha difficoltà di respirazione.

In precedenza era stato trasferito in ospedale, ma poi, nonostante le sue condizioni di salute, è stato riportato nell’infermeria della prigione di Ramleh.

Ieri i palestinesi hanno organizzato una manifestazione nella Striscia di Gaza per esprimere solidarietà a Khalil e a un altro detenuto in sciopero della fame, Raed Rayan, che sta protestando anche lui per la detenzione amministrativa.

Organizzata dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) [storico gruppo marxista della resistenza armata palestinese, N.d.T.], la manifestazione si è tenuta fuori dall’ufficio della Croce Rossa Internazionale a Gaza City.

Lo Stato di Israele è pienamente responsabile per la vita dei palestinesi in sciopero della fame,” ha detto alla manifestazione Awas Al-Sultan, un membro del FPLP.

Egli ha invitato le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani ad inviare squadre di medici per esaminare le condizioni dei palestinesi in sciopero della fame e “per fare luce sulle sofferenze dei detenuti nelle carceri israeliane”.

Secondo l’organizzazione non governativa Palestine Prisoner Society nelle carceri israeliane ci sono circa 4.700 detenuti, di cui 600 senza accusa o processo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele vuole il “completo controllo ” della terra palestinese: il rapporto delle Nazioni Unite

Redazione Al Jazeera

7 giugno 2022-Al Jazeera

La commissione indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite afferma che Israele deve porre fine all’occupazione e cessare di violare i diritti umani dei palestinesi.

Una commissione d’inchiesta indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dopo l’assalto israeliano del 2021 alla Striscia di Gaza assediata ha affermato che Israele deve fare di più oltre che porre fine all’occupazione della terra che i leader palestinesi vogliono per un futuro Stato.

Secondo il rapporto pubblicato martedì, in cui si sollecita l’adozione di ulteriori azioni per garantire l’uguale godimento dei diritti umani per i palestinesi, “La fine dell’occupazione da sola non sarà sufficiente”

Il rapporto produce prove di come Israele “non ha intenzione di porre fine all’occupazione”.

Israele sta perseguendo il “completo controllo” su quello che il rapporto chiama Territorio Palestinese Occupato, inclusa Gerusalemme Est, conquistata da Israele nella guerra del 1967 e successivamente annessa con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il governo israeliano, ha affermato la commissione, ha “agito per alterare la demografia attraverso il mantenimento di un contesto repressivo per i palestinesi e un contesto favorevole per i coloni israeliani”.

Citando una legge israeliana che nega la cittadinanza ai palestinesi sposati con cittadini israeliani, il rapporto accusa Israele di offrire “stato civile, diritti e protezione legale diversi” ai cittadini palestinesi di Israele.

Più di 700.000 coloni israeliani ora vivono in insediamenti e avamposti in Cisgiordania e Gerusalemme est, dove risiedono più di tre milioni di palestinesi. Gli insediamenti israeliani sono complessi residenziali fortificati per soli ebrei e sono considerati illegali dal diritto internazionale.

Le principali organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno equiparato le politiche israeliane contro i palestinesi all’apartheid.

Alle radici del conflitto.

L’inchiesta e il rapporto delle Nazioni Unite hanno preso avvio dall’offensiva militare israeliana di 11 giorni nel maggio 2021 durante la quale più di 260 palestinesi a Gaza sono stati uccisi e 13 persone sono morte in Israele.

Nel maggio 2021 Hamas ha lanciato razzi contro Israele dopo che le forze israeliane avevano attaccato i fedeli palestinesi nel complesso della Moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro dell’Islam, con decine di feriti e arresti. La cosa ha fatto seguito anche alla decisione del tribunale israeliano di espellere con la forza delle famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere a Gerusalemme est.

L’ambito dell’inchiesta includeva indagini su presunte violazioni dei diritti umani prima e dopo l’assalto di Israele contro Gaza e cercava anche di indagare sulle “cause profonde” del conflitto.

Hamas ha accolto favorevolmente il rapporto e ha esortato a perseguire penalmente i leader israeliani per quelli che ha definito “crimini” contro il popolo palestinese.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese ha elogiato il rapporto e ha richiesto anche di chiamare Israele a rendere conto dei suoi atti, “in modo da mettere fine all’impunità di Israele”.

Il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha definito il rapporto “uno spreco di denaro e fatica”, niente più che una caccia alle streghe.

Israele ha boicottato l’indagine, accusandola di parzialità e vietando agli investigatori l’ingresso in Israele e nei territori palestinesi, costringendoli a raccogliere testimonianze a Ginevra e in Giordania.

Il rapporto sarà discusso al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite con sede a Ginevra la prossima settimana. Gli Stati Uniti hanno lasciato il Consiglio nel 2018 per quello che hanno descritto come un “cronico pregiudizio” contro Israele e sono rientrati completamente solo quest’anno.

La commissione, guidata dall’ex capo delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay, è la prima ad avere un mandato “permanente” dall’agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite.

I suoi sostenitori affermano che la commissione è necessaria per tenere sotto controllo le continue ingiustizie affrontate dai palestinesi durante decenni di occupazione israeliana.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)