Palestina e Ucraina: un esperto di diritto internazionale parla dei doppi standard della Corte Penale Internazionale (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Romana Rubeo

7 marzo 2022 – PALESTINE CHRONICLE

Il 2 marzo la Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato che procederà immediatamente ad un’indagine sull’operazione militare russa in Ucraina. Quella che è stata denominata “invasione” dall’Occidente e “operazione militare speciale” da Mosca, ha immediatamente generato una rapida condanna e reazione internazionale. La CPI è stata in prima linea in questa reazione.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha affermato in un intervento che l’indagine è stata richiesta da 39 Stati membri e che il suo ufficio ha già trovato una base ragionevole per ritenere che siano stati commessi crimini rientranti nell’ambito giurisdizionale della Corte e ha identificato dei casi come potenzialmente ammissibili.”

Mentre qualsiasi procedura genuina e non politicizzata volta a indagare su possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità in qualsiasi parte del mondo dovrebbe, in effetti, essere accolta favorevolmente, il doppio standard della CPI è palpabile. Tra le altre nazioni, i palestinesi e i loro sostenitori sono perplessi in considerazione dei numerosi indugi da parte della CPI nell’indagare sui crimini di guerra e contro l’umanità in Palestina, che si trova da decenni sotto l’occupazione militare israeliana.

Per comprendere meglio questo argomento ho parlato con il Dr. Triestino Mariniello, professore associato di diritto presso la Liverpool John Moores University, e membro della squadra di avvocati per le vittime di Gaza presso la Corte Penale Internazionale. Gli ho chiesto:

D. Per prima cosa, ci faccia conoscere a quale stadio si trova attualmente il procedimento della CPI sulla Palestina.

R. Il 3 marzo 2021 l’ex procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha aperto ufficialmente un’indagine, attualmente incentrata su possibili crimini di guerra, in particolare legati all’aggressione militare del 2014 a Gaza, alla Grande Marcia del Ritorno e alle colonie israeliane illegali in Cisgiordania.

Tecnicamente, il passo successivo dovrebbe essere la richiesta di mandati di arresto o di comparizione, passando quindi da una fase procedurale” a una fase processuale”, sulla base dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale, ndtr.].

D. Tuttavia, finora non è successo nulla.

R. Tutto è iniziato molto prima del 2021. La situazione della Palestina è stata inizialmente portata all’attenzione della Corte nel 2009. Nel 2015, a seguito dell’aggressione israeliana alla Striscia di Gaza assediata, lo Stato di Palestina ha formalmente accettato l’autorità della Corte e ha ratificato lo Statuto di Roma. Ci sono voluti quasi sei anni (dicembre 2019) perché Bensouda dichiarasse che sussisteva “una base ragionevole per procedere ad un’indagine sulla situazione in Palestina”. La questione è stata deferita alla Camera preliminare, alla quale è stato chiesto di deliberare in merito alla giurisdizione sulla Palestina. La Camera ha emesso una decisione solo più di un anno dopo, nel febbraio 2021.

D. Come descriverebbe le differenze tra i due casi: Russia in Ucraina, Israele in Palestina? E perché nel caso russo il tribunale ha potuto agire immediatamente e senza indugi?

R. Ovviamente è difficile mettere a confronto le due situazioni.

L’Ucraina ha accettato l’autorità della CPI nel 2013 e l’ex procuratore capo della CPI Bensouda aveva già dichiarato che esisteva una base ragionevole per procedere.

Dopo l’inizio dell’operazione militare russa, l’attuale procuratore della CPI Khan ha annunciato l’apertura ufficiale delle indagini.

Avendo già ricevuto mandati da 39 Stati contraenti la CPI il suo ufficio non è tenuto a richiedere un’autorizzazione alla Camera preliminare competente. In realtà anche nella situazione della Palestina la Corte non necessitava di ulteriori autorizzazioni e la richiesta della Procura alla Camera era del tutto facoltativa.

In qualità di rappresentanti legali delle vittime, abbiamo espresso ai giudici della CPI le nostre preoccupazioni sul fatto che questa richiesta non necessaria della Procura avrebbe causato un ulteriore ritardo nell’apertura delle indagini.

Tra i 39 Stati ci sono tre paesi che si erano apertamente opposti alle indagini in ambito israelo-palestinese, ovvero Austria, Germania e Ungheria.

 Generalmente si dice che i procedimenti penali internazionali siano particolarmente lunghi. Se questo è vero nel caso della Palestina, per l’Ucraina la durata è ridotta al minimo. Lo stesso è accaduto per la situazione libica, dove la decisione di aprire un’indagine è stata presa con una rapidità senza precedenti, a soli sette giorni dal deferimento del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, ndtr.].

Tuttavia, nel caso della Palestina la quantità di prove è molto più significativa. Anche prima di avviare le indagini la Corte dispone di una quantità impressionante di prove, grazie al meticoloso lavoro della società civile palestinese, che non ha mai smesso di raccogliere prove, anche durante le guerre israeliane.

D. Lei fa parte di una squadra che difende le vittime di Gaza. Ritenete che da parte della CPI ci sia una politica di doppio standard?

R. Indagare su gravi violazioni dei diritti umani è sempre un’iniziativa lodevole. Ciò che è meno lodevole è la politica del doppio standard. La realtà dolorosa è che dopo 13 anni non abbiamo ancora un procedimento.

Per decenni i civili palestinesi hanno subito le più gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, equivalenti a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’interesse principale delle vittime di Gaza è che l’indagine tanto attesa e tanto necessaria passi immediatamente alla fase successiva: l’identificazione dei presunti colpevoli. Per loro è davvero difficile capire quali siano gli ostacoli che gli impediscono di presentarsi in tribunale per raccontare finalmente le loro vicende e ottenere giustizia.

L’assenza fino ad ora di misure efficaci adottate dalla Corte rafforza l’opinione delle vittime di aver subito per lungo tempo una negazione della giustizia. Inoltre l’impunità concessa da tanto tempo a Israele incoraggia i responsabili a commettere nuovi crimini.

Dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina abbiamo assistito al ritorno del diritto internazionale nell’arena globale. Quello che sta accadendo ora mostra che il diritto internazionale può essere, nei fatti, uno strumento efficace, se attuato correttamente.

Le vittime palestinesi continuano a nutrire grandi speranze per le indagini della CPI, ma sono seriamente preoccupate che “la giustizia rimandata sia giustizia negata”.

D. Cosa può fare la società civile per accelerare le procedure relative alla Palestina?

È essenziale continuare a fare pressione sulla CPI anche presentando ulteriori prove che possano attestare gravi violazioni dei diritti umani in corso, equivalenti a crimini di guerra. Pensiamo, ad esempio, ai crimini di guerra commessi lo scorso maggio a Gaza, che dovrebbero essere immediatamente inseriti nell’indagine in corso.

Inoltre, la società civile dovrebbe invitare la CPI ad ampliare l’ambito delle indagini per includere altri crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità, compreso il crimine di apartheid, anche alla luce dei recenti rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani.

Il messaggio alla Corte e alla comunità internazionale deve essere chiarissimo: i palestinesi non sono vittime di serie B e continueranno a far sentire la loro voce.

Sebbene apprezziamo gli sforzi della CPI per fare luce sulla situazione ucraina, dobbiamo ribadire che altri casi non dovrebbero essere dimenticati o archiviati.

La CPI è stata creata per porre fine all’impunità di cui godono gli autori dei crimini più gravi. Dopo vent’anni, dovremmo pretendere che lo Statuto sia pienamente attuato, indipendentemente dall’origine geografica delle vittime.

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un messaggio da una persona “non civilizzata”

Ghada Hania

7 marzo 2022- Mondoweiss

Ghada Hania risponde all’inviato della CBS Charlie D’Agata che ha messo a confronto la vita nella “civilizzata” Ucraina a luoghi come Iraq, Afghanistan, o forse Palestina, che hanno visto “infuriare conflitti per decenni”.

Sono Ghada. Non sono civilizzata. Mi sono laureate presso il dipartimento di Letteratura inglese. Sto per terminare un master in Linguistica applicata. Sono ricercatrice, traduttrice, scrittrice di contenuti [in rete] e blogger con 4 anni di esperienza sia in arabo che in inglese.

Non sono civilizzata: faccio parte dell’Associazione degli Scrittori Palestinesi. Ho pubblicato un libro con una nota casa editrice giordana ed ho scritto un blog di ottimo livello nei blog di Al Jazeera.

Mio padre non civilizzato è docente di matematica che ha insegnato a generazioni di alunni ed ha ispirato la mia sorella maggiore non civilizzata, docente di matematica. Il mio incivile fratello minore si è recentemente laureato in fisica presso la facoltà di scienze. La mia incivile madre ha una piccola biblioteca con molti libri di vario genere, legge e scrive riassunti su carta filigranata di alta qualità.

Il mio zio non civilizzato ha conseguito un dottorato in chimica ed è docente universitario. La mia zia non civilizzata è infermiera pediatrica all’ospedale. Si prende cura dei pazienti. La mia cugina non civilizzata è ingegnera informatica, sviluppatrice di siti in rete e programmatrice di computer.

Alla mia non civilizzata nipotina piace comprare pupazzi di astronauti e spera di diventare astronauta da grande. La mia non civilizzata nipotina ha un piccolo pianoforte e sta imparando le note musicali grazie a un’applicazione sul telefono di sua madre.

La mia non civilizzata famiglia ha insegnato a me e ai miei fratelli ad amare gli altri, rispettare gli anziani ed essere gentili con i bambini. La mia non civilizzata famiglia ci ha insegnato onore, dignità, giustizia, generosità e onestà. Ci hanno insegnato anche a diffondere amore e armonia.

Il nostro non civilizzato vicino è responsabile operativo all’ospedale al-Shifa. Passa la maggior parte della giornata al lavoro. Può a malapena vedere la sua famiglia. Tuttavia è contento in quanto fornisce servizi umanitari a persone indifese.

La mia amica non civilizzata è un’artista. Disegna personaggi a carboncino e i suoi quadri sono stati esposti in molte mostre d’arte.

Il mio non civilizzato insegnante ha vinto un premio per l’editoria internazionale, e ricordo che ha pubblicato con una prestigiosa casa editrice britannica un libro sulla traduzione giuridica.

La mia non civilizzata compagna di classe ha pubblicato il suo primo romanzo nel 2017. È una scrittrice ed ha ricevuto molti premi letterari. Il suo piccolo figlio non civilizzato è ossessionato dalla raccolta di libri di fumetti per bambini.

Sono iscritta a un corso di formazione sull’imprenditorialità nella produzione letteraria. Ho incontrato una ragazza non civilizzata affetta da una malattia nell’infanzia, eppure ha resistito e non si è arresa. Con il passare del tempo è guarita. È diventata un’artista poliedrica: disegna, scrive e ha un’impresa di piccoli mobili in legno.

La responsabile di questo corso di formazione è una donna non civilizzata che ha un master in chimica medica e ha brevettato una cura per una malattia della pelle.

Sono state aperte due librerie di proprietà di persone non civilizzate che vivono nel quartiere. Lì puoi trovare tutto quello che puoi immaginare.

La nostra società non civilizzata dimostra collaborazione e unità durante le aggressioni da parte dell’occupazione israeliana. Nella nostra casa diamo rifugio a chiunque ne abbia disperatamente bisogno. Li nutriamo e ci prendiamo cura di loro.

Inoltre la nostra società non civilizzata promuove campagne di finanziamento per aiutare persone bisognose. E, cosa più importante, un grande numero di persone non civilizzate risponde alle campagne per la donazione del sangue nei centri sanitari.

I nostri combattenti per la libertà non civilizzati difendono coraggiosamente la loro patria dal vero nemico. Si preparano e si equipaggiano molto bene giorno e notte per la libertà, la dignità e l’onore del loro popolo. Sacrificano le loro anime, anelando alla libertà.

I nostri lavoratori edili non civilizzati ricostruiscono dalle rovine edifici, grattacieli, case, istituzioni, centri educativi. L’occupazione israeliana distrugge ogni cosa e loro continuano a ricostruire, ancora e ancora.

Il nostro popolo non civilizzato ha nel cuore la fervida speranza che un giorno sarà indipendente e libero dall’occupazione.

Siamo non civilizzati e non abbiamo occhi azzurri né capelli biondi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il rifiuto di accogliere rifugiati ucraini da parte di Israele dimostra il suo essere tenebra tra le nazioni

[rovesciamento ironico della profezia di Isaia secondo cui Israele avrebbe dovuto essere luce tra le nazioni, ndt]

Gideon Levy

5 marzo 2022 – Haaretz

Quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto di Israele e espulsi o viene loro richiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che c’è qualcosa di distorto nella bussola morale di Israele.

Il Paese che ha fatto il massimo nel prendersi cura dei suoi cittadini e degli ebrei in Ucraina è anche il Paese che ha chiuso le sue porte – e in una certa misura il suo cuore – a tutte le altre vittime.

Il Paese il cui ethos si basa su un’accusa feroce verso il mondo che ha taciuto, distolto lo sguardo e chiuso i suoi cancelli sta facendo esattamente la stessa cosa in questo momento della verità.

Il Paese che ha così abilmente sfruttato il senso di colpa del mondo per raggiungere i suoi obiettivi politici potrebbe fare i conti con una nuova immagine di sé nel mondo, un mondo che potrebbe non dimenticare il suo silenzio e le sue esitazioni e un giorno regolare i conti con esso.

E infine, il Paese che l’ha fatta franca con la sua occupazione senza fine potrebbe trovarsi di fronte a un mondo nuovo che forse, ma solo forse, non approverà e non tacerà più.

È commovente vedere i diplomatici israeliani fare di tutto per liberare dall’inferno tutti i possessori di un passaporto israeliano, compresi quelli che quasi mai hanno messo piede in Israele, anche se per settimane sono stati pressantemente sollecitati a uscire [dall’Ucraina, ndtr.] anche se non se ne curavano un accidente. In un Paese i cui cittadini cercano un secondo passaporto per motivi di sicurezza il passaporto israeliano si è improvvisamente rivelato una polizza assicurativa.

La preoccupazione per gli ebrei a cui non è mai venuto in mente di trasferirsi qui potrebbe semplicemente infervorare gli appassionati dell’Yiddishkeit [“ebraismo” nel senso di stile di vita ebraico, ndtr.]. Ma quando i profughi di guerra vengono fermati all’aeroporto israeliano ed espulsi o viene loro chiesto di versare ingenti somme che non possiedono per assaporare la libertà e la sicurezza, è chiaro che qualcosa nella bussola morale di Israele è distorto, persino patologico.

Prendersi cura dei propri poveri va bene, ma prendersi cura solo di loro è mostruoso. La preoccupazione per il tuo stesso popolo è comprensibile, ma la preoccupazione solo per loro è una perversione.

C’è davvero differenza tra un bambino ucraino che fugge per salvarsi la vita e che non ha una bisnonna ebrea e un bambino ucraino che ce l’ha? Qual è la differenza? La differenza si chiama razzismo. Questo rovistare nel sangue, anche in tempo di guerra, si chiama “selezione”.

Mentre l’Unione Europea si sveglia lentamente, rivelandosi molto più unita e ideologica di quanto pensassimo, emerge la brutta faccia del Paese dei profughi e dell’Olocausto. Decenni di discriminazioni all’aeroporto Ben-Gurion, compreso il respingimento di rifugiati da tutto il mondo, hanno lasciato il segno; anche i decenni di espropriazioni e occupazione rimasti impuniti da parte della comunità internazionale stanno dando i loro frutti.

In quest’ora di oscurità calata sul mondo Israele si sta ergendo come la terra delle tenebre tra le nazioni. Nessuno si sarebbe aspettato che costituisse una luce tra le nazioni. Perché mai una luce? Ma almeno avremmo potuto aspettarci che fosse come tutte le altre.

Quanto sarebbe stato bello se Israele avesse agito come l’oscura Polonia o l’oscura Ungheria, per non parlare della Svezia o della Germania, che ora rappresentano la vera luce tra le nazioni, e avesse aperto le nostre porte come le loro.

Israele ha un dovere verso i rifugiati non solo a causa del suo passato, ma ha anche un obbligo nei confronti dei rifugiati ucraini principalmente a causa della grande comunità di lavoratori ucraini in Israele. Un Paese che vieta ai devoti custodi dei suoi anziani e a coloro che svolgono le pulizie delle sue case di invitare i propri parenti per salvare le loro vite è chiaramente un paese immorale. La marea di squallide scuse sulla condotta dell’Ucraina durante l’Olocausto non fa che peggiorare il quadro, punendo i nipoti dei nipoti per i peccati dei loro padri e delle loro madri.

A Galina, una donna delle pulizie che vive in questo paese da anni, è vietato portare i suoi figli nella sua nuova casa solo perché non sono ebrei. Questo sta realmente accadendo e, a quanto pare, è persino accettato dalla maggior parte degli israeliani.

No, non è paura della Russia. La paura della Russia è solo la scusa. Non è nemmeno il governo, l’attuale o un altro. Questa crisi ha finalmente dimostrato che non c’è differenza morale tra l’attuale governo e il suo nefasto predecessore.

Sono entrambi ugualmente ottusi e insensibili. Naftali Bennett è uguale a Benjamin Netanyahu, Miri Regev [parlamentare israeliana, già componente del governo Netanyahu, ndtr.] è uguale a Ayelet Shaked [attuale ministra dell’interno del governo Bennet, ndtr.] e anche Merav Michaeli [attuale ministra dei trasporti, ndtr.] è allo stesso livello.

È qualcosa sepolto nel profondo del DNA nazionale, tra anni di lavaggio del cervello sulla necessità di essere forti, solo forti, in mezzo a frottole sul popolo eletto e le uniche vittime nella storia alle quali è permesso di fare qualsiasi cosa. E questa immagine è accompagnata dall’ allevare una xenofobia in dimensioni che sarebbero illegali in qualsiasi altro Paese. Ora tutto questo viene alla luce con un effetto particolarmente orrendo.

Forse è il peccato originale di un paese che è stato fondato sull’espulsione di centinaia di migliaia di profughi, forse è la religione sionista che sostiene la supremazia ebraica in ogni sua sfaccettatura. Qualunque siano le ragioni nulla di tutto ciò giustifica la richiesta di un versamento di un solo shekel [valuta ufficiale israeliana, ndtr.] da un rifugiato di guerra all’aeroporto Ben-Gurion.

Ed oscurità era sulla faccia dell’abisso. [Genesi 1.1, Bibbia ebraica, ndt]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le forze israeliane hanno colpito a morte due adolescenti palestinesi a Gerusalemme est occupata

Agenzie e redazione di Middle East Eye

6 marzo 2022 – Middle East Eye

Una delle vittime era un sedicenne che è stato ucciso a Abu Dis dopo che avrebbe lanciato una bottiglia molotov contro una postazione militare israeliana

Domenica le forze israeliane hanno sparato uccidendoli a due adolescenti palestinesi nel corso di due distinti incidenti a Gerusalemme est occupata.

Secondo funzionari palestinesi un sedicenne è stato colpito ed ucciso ad un posto militare ad Abu Dis, appena fuori dalla Città Santa. Un portavoce dell’esercito israeliano ha detto che il ragazzo è stato colpito dopo che avrebbe lanciato una bottiglia molotov contro la postazione.

Un altro adolescente è stato ucciso nella serata di domenica dentro le mura della Città Vecchia dopo che avrebbe accoltellato un poliziotto israeliano di guardia ad una delle porte della città.

Un portavoce della polizia israeliana, che ha definito il diciannovenne “un terrorista”, ha detto che altri poliziotti lì accanto hanno aperto il fuoco, provocando la sua morte. La polizia ha affermato che due poliziotti sono stati lievemente feriti, uno dal presunto accoltellamento e un altro durante la sparatoria della polizia.

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese Wafa ha riferito che domenica “estremisti israeliani” sono stati arrestati dalle forze israeliane “per motivi razziali e nazionali, dopo che hanno condotto un attacco contro una chiesa a Gerusalemme”, vandalizzando la proprietà. Non è chiaro se l’incidente sia in relazione [con gli altri].

Secondo l’ufficio dell’ONU di Coordinamento per le Questioni Umanitarie (OCHA), tra l’8 e il 21 febbraio le forze israeliane in tre distinti incidenti in Cisgiordania hanno colpito e ucciso cinque palestinesi, compreso un bambino. Nello stesso periodo sono stati feriti in totale 544 palestinesi, compresi 54 minori. L’OCHA ha riferito che nello stesso arco di tempo nessun israeliano è stato ucciso e cinque sono stati feriti in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.

Israele ha occupato Gerusalemme est, compresa la Città Vecchia, durante la guerra in Medioriente del 1967 e l’ha annessa con una iniziativa non riconosciuta a livello internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Guardare l’Ucraina attraverso gli occhi dei palestinesi

Yousef Munayyer

4 marzo 2022 – The Nation

La legittima corsa al sostegno dell’Ucraina ci insegna che quando vuole l’occidente può condannare l’occupazione.

Carri armati che sferragliano per le strade della città. Bombe sganciate dai caccia su palazzi civili. Posti di blocco militari. Città sotto assedio. Famiglie separate, in fuga per cercare rifugio e senza sapere quando rivedranno i loro familiari o le loro case. Quando un’occupazione militare inizia a prendere corpo davanti ai nostri occhi il mondo intero è costretto a prestare attenzione. Ma mentre possiamo guardare tutti la stessa cosa, alcuni di noi la vedono in modo leggermente diverso.

Il mio primo pensiero quando l’invasione russa dell’Ucraina è iniziata la scorsa settimana è stato per la popolazione civile in Ucraina che dovrà affrontare il fardello più pesante dato che una forza molto più potente cerca di imporre loro la propria volontà. Quanti devono morire? Quanti civili saranno uccisi da “bombe di precisione” tutt’altro che precise? Quando arriverà la libertà per loro? La vedranno durante la loro vita? Oppure, come noi palestinesi, vedranno la lotta durare per generazioni? Spero, per il loro bene, che la risposta sia la prima.

Tuttavia, anche se come palestinese è stato facile identificarsi con le scene di bombardamenti, distruzione e rifugiati, la risposta internazionale all’invasione russa dell’Ucraina è stata per noi qualcosa di totalmente alieno.

Da un giorno all’altro, il diritto internazionale sembra essere di nuovo importante. L’idea che un territorio non possa essere preso con la forza è divenuta improvvisamente una norma internazionale da difendere. I Paesi occidentali hanno cercato di promuovere una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condannasse le azioni della Russia, nonostante sapessero perfettamente che la Russia, membro permanente del Consiglio di sicurezza, avrebbe posto il veto. “La Russia può porre il veto a questa risoluzione, ma non può porre il veto alle nostre voci”, ha affermato l’ambasciatrice degli Stati Uniti, Linda Thomas-Greenfield. “La Russia non può porre il veto alla Carta delle Nazioni Unite. E la Russia non porrà il veto alla sua responsabilità [di fronte alla comunità internazionale, ndt]”.

Quando è piombato l’inevitabile veto russo, i diplomatici occidentali hanno sottolineato come esso abbia messo in evidenza l’isolamento della Russia. In effetti, la Russia è stata isolata. Proprio come lo sono stati gli Stati Uniti ogni volta che hanno posto un veto solitario al Consiglio di Sicurezza su oltre 40 risoluzioni che condannano le violazioni israeliane del diritto internazionale e gli abusi contro i palestinesi.

Gli Stati Uniti hanno anche deciso di rientrare nel Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite proprio in questo momento. Avevano lasciato l’UNHRC diversi anni fa perché si opponevano agli sforzi del consiglio di chiedere conto a Israele. Nel frattempo, diversi paesi hanno chiesto alla Corte penale internazionale di agire sull’invasione della Russia, la stessa Corte il cui Pubblico Ministero è stato sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti per aver indagato sui crimini di guerra commessi in Palestina.

Poi c’è il regime delle “misure economiche restrittive” che gli Stati Uniti e i loro partner europei hanno adottato contro la Russia. Insieme non solo hanno imposto ampie sanzioni, ma hanno avviato una impressionante serie di sanzioni ad personam per colpire i potenti attori che ritengono responsabili dell’aggressione. Nel frattempo, non solo le nazioni occidentali si sono rifiutate di usare sanzioni per colpire le responsabilità di Israele per le sue violazioni, ma le hanno attivamente favorite attraverso sostegno economico, militare e diplomatico.

L’occidente annuncia anche iniziative di boicottaggio e disinvestimento. I negozi di liquori in Canada e negli Stati Uniti stanno ritirando dagli scaffali la vodka russa. Il Metropolitan Opera ha dichiarato che non impiegherà più artisti che supportano Putin. Entro due giorni dall’invasione, la Russia è stata espulsa dall’Eurovision. È stata anche sospesa dai principali campionati di calcio internazionali come FIFA e UEFA. I balletti russi vengono cancellati.

Tutto questo dopo appena cinque giorni. Non cinque settimane o mesi, per non parlare di decenni. Cinque giorni.

Sorprendentemente, boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni non sono controversi se usati per colpire le responsabilità di alcuni trasgressori, ma quando si tratta dei diritti dei palestinesi ci viene ripetutamente detto che misure economiche non violente come il boicottaggio sono sbagliate. In effetti, diversi Stati degli Stati Uniti che hanno preso provvedimenti per vietare l’uso del boicottaggio per i diritti dei palestinesi stanno ora approvando risoluzioni di boicottaggio e disinvestimento contro la Russia!

I doppi standard non si fermano alle iniziative non violente. In Ucraina l’occidente sostiene attivamente la resistenza armata sia inviando armi sia glorificandone l’uso. Anche in Palestina l’occidente sta inviando armi … a un governo israeliano che pratica l’apartheid.

Quando gli ucraini preparano bottiglie molotov da utilizzare nella resistenza contro l’esercito russo, li chiamiamo combattenti per la libertà e il New York Times esalta i loro sforzi con video girati da esperti che mostrano il processo di produzione degli ordigni. Quando i palestinesi lo fanno contro l’esercito israeliano, vengono invariabilmente uccisi da un’arma finanziata dall’occidente nelle mani di un soldato israeliano che poi proteggeremo dal renderne conto presso le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.

E mentre i social media sono pieni di link di crowdfunding per aiutare l’acquisto armi per l’Ucraina, quelli di noi che cercano di inviare denaro per cibo o medicine alle famiglie a Gaza, in Siria o nello Yemen si vedono regolarmente respinte le loro transazioni.

Cosa potrebbe mai spiegare questi sbalorditivi doppi standard che sono stati applicati senza vergogna questa settimana?

Bene, alcuni giornalisti occidentali ci hanno offerto degli indizi. Gli ucraini, ci viene detto, non sono come gli iracheni o gli afgani, perché l’Ucraina è “relativamente civile, relativamente europea”. Questa non è “una nazione in via di sviluppo del terzo mondo”. Le loro auto “sembrano le nostre”. Sembrano “persone prospere della classe media… come qualsiasi famiglia europea a cui potresti vivere accanto”. Sono “persone con gli occhi azzurri e i capelli biondi. O, come ha detto un corrispondente, “sono cristiani. Sono bianchi”.

Quanto profondamente è radicato questo razzismo? Quando i soldati russi sono entrati in Ucraina, la foto di una giovane e bionda ragazza ucraina che si è fatta valere coraggiosamente davanti a un soldato russo è diventata virale sui social media. Cioè, stava diventando virale, finché non è stato rivelato che la ragazza non era ucraina ma palestinese e il soldato era israeliano, non russo.

Sembra che il motivo principale per cui gli occidentali si sono affrettati a difendere i diritti umani degli ucraini mentre hanno ignorato i diritti umani dei palestinesi e di tanti altri è che vedono alcuni di noi come meno umani di altri.

Per essere chiari, la comunità internazionale deve assolutamente chiedere conto a coloro che violano i diritti umani e le leggi: la rapida azione contro l’invasione russa dell’Ucraina dimostra inequivocabilmente che tale azione è possibile quando i governi hanno il coraggio politico di farlo. Ma non farlo quando i nostri alleati sono gli oppressori, o quando le vittime hanno un aspetto diverso da noi, ha costi significativi, più direttamente per persone come i palestinesi e altri con una carnagione e occhi generalmente più scuri, ma anche per il mondo in generale.

Quando il diritto internazionale viene applicato solo quando fa comodo a nazioni potenti farlo rispettare e viene ignorato quando fa comodo a nazioni potenti ignorarlo, allora il diritto internazionale esiste solo come strumento di potere. Se vogliamo che ci sia una norma internazionale contro l’aggressione, la colonizzazione e l’acquisizione di terra con la forza, non possiamo continuare a fare eccezioni per i nostri amici quando la violano.

Quando facciamo queste cose, e lo abbiamo fatto in modo sistematico, per esempio, quando si trattava di Israele, rendiamo evidente che non esiste un ordine internazionale basato su regole: esiste solo la regola della forza. La forza stabilisce il diritto.

Un mondo basato sulla forza che stabilisce il diritto è in definitiva una minaccia per tutti – umani con gli occhi azzurri e marroni allo stesso modo – e chiunque dubiti di questo dovrebbe semplicemente guardare l’Ucraina.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 




Organizzazioni israeliane chiedono agli USA di non sottoporre a sanzioni il miliardario russo Roman Abramovich

3 Marzo 2022 – Middle East Monitor

Alcune importanti istituzioni e cittadini israeliani si sono appellati agli Stati Uniti perchè non sottopongano a sanzioni il miliardario russo-israeliano Roman Abramovich.

In una lettera inviata all’ambasciatore statunitense Tom Nides, Yad Vashem – il memoriale ufficiale israeliano dell’Olocausto – David Lau, il rabbino capo aschkenazita di Israele, e Yitshak Kreiss, il direttore del centro medico Sheba, hanno chiesto a Washington di non sanzionare Abramovich, che è uno dei maggiori donatori della causa sionista.

Abramovich, che ha preso la cittadinanza istraeliana nel 2018 dopo non essere riuscito a prolungare il suo visto nel Regno Unito, ha donato quasi 102 milioni di dollari ad una organizzazione di coloni israeliani di estrema destra che espelle famiglie palestinesi da Gerusalemme Est occupata. Tuttavia il totale delle sue donazioni per la causa israeliana sarebbe di oltre 500 milioni di dollari. L’oligarca ha anche acquistato almeno tre proprietà, di cui una da 64,5 milioni [di dollari].

Nella lettera si afferma che sanzionare Abramovich danneggerebbe le istituzioni israeliane che fanno affidamento sulle sue donazioni. Dani Dayan [esponente dei coloni e di Nuova Speranza, un partito di destra, ndtr.], il presidente di Yad Vashem, ha aggiunto che Abramovich è il secondo più importante donatore del museo, dopo il defunto Sheldon Adelson e la sua vedova, Miriam.

Il mese scorso il museo del memoriale dell’Olocausto Yad Vashem ha annunciato che Abramovich ha fatto una donazione di molti milioni di dollari allo stesso e l’ha definita “un nuovo partenariato strategico di lunga durata”.

Dayan ha affermato che “siamo profondamente grati a Roman Abramovich per il suo generoso contributo che rafforzerà significativamente la missione dello Yad Vashem”.

In un articolo apparso sul quotidiano Haaretz, la scrittrice israeliana Noa Landau ha descritto la lettera come “imbarazzante”. Landau ha anche criticato lo Yad Vashem per aver facilitato ciò che lei chiama “Shoah-washing” [ripulitura dell’immagine attraverso la Shoah, ndtr.] invitando soggetti come il leader di destra ungherese, Viktor Orban, a visitare il museo come parte della offensiva politica israeliana contro i palestinesi e gli iraniani, nonostante l’accusa di antisemitismo nei confronti di Orban.

Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina Abramovich ha camminato sul filo del rasoio diplomatico. L’Occidente ha risposto imponendo sanzioni contro il presidente russo Vladimin Putin, i membri della sua cerchia ristretta e gli oligarchi russi vicini a lui.

Inoltre la decisione delle istituzioni israeliane di intervenire in aiuto di Abramovich sottolinea l’equilibrismo diplomatico dello Stato occupante. Sebbene politici israeliani abbiano criticato l’invasione russa dell’Ucraina, essi hanno rifiutato molteplici richieste di aiuto da parte del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, incluso il trasferimento di equipaggiamento militare.

L’ambasciatore ucraino a Tel Aviv, Yevgeny Kornichuk, ha affermato di essere “deluso” che Israele non abbia accettato tuttti i profughi dalla guerra nella sua Nazione. Anche le pratiche razziste dello Stato di Israele sono diventate una fonte di rabbia e frustrazione per i dirigenti ucraini. Mentre lo Stato occupante ha aperto le sue porte agli ebrei ucraini, non è altrettanto accogliente con i non ebrei che fuggono dalla guerra.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Esplorare la nostra umanità: Ilan Pappé sulle quattro lezioni dall’Ucraina.

Ilan Pappe

4 marzo 2022 – Palestine Chronicle

USA Today [terzo quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] ha informato che una foto diventata virale di un grattacielo colpito da un bombardamento russo in Ucraina è risultata essere di un grattacielo demolito nella Striscia di Gaza dall’aviazione israeliana nel maggio 2021. Pochi giorni prima il ministero degli Esteri ucraino si è lamentato con l’ambasciatore israeliano a Kiev che “ci state trattando come Gaza”. Era furioso che Israele non avesse condannato l’invasione russa e fosse interessato esclusivamente a portare via i cittadini israeliani dallo Stato (Haaretz, 17 febbraio 2022). Si è trattato di un misto di riferimenti all’evacuazione da parte dell’Ucraina di mogli ucraine sposate con palestinesi dalla Striscia di Gaza nel maggio 2021 e un ricordo a Israele del pieno appoggio del presidente ucraino all’attacco israeliano contro la Striscia di Gaza di quel mese (tornerò a quell’appoggio verso la fine di questo articolo).

In effetti quando si valuta l’attuale crisi in Ucraina gli attacchi israeliani contro Gaza dovrebbero essere citati e presi in considerazione. Non è un caso che alcune foto vengano confuse: non ci sono molti grattacieli che siano stati abbattuti in Ucraina, ma ce ne sono parecchi che sono stati distrutti nella Striscia di Gaza. Tuttavia quando si prende in considerazione la crisi ucraina in un contesto più ampio non emerge solo l’ipocrisia riguardo alla Palestina. È il complessivo doppio standard dell’Occidente che dovrebbe essere analizzato, senza rimanere neppure per un istante indifferenti alle notizie e alle immagini che ci giungono dalla zona di guerra in Ucraina: bambini traumatizzati, flussi di rifugiati, bellezze architettoniche distrutte dai bombardamenti e il pericolo incombente che ciò sia solo l’inizio di una catastrofe umanitaria nel cuore dell’Europa.

Nel contempo quanti di noi hanno sperimentato, informato e raccontato le catastrofi umanitarie in Palestina non possono ignorare l’ipocrisia dell’Occidente, e possiamo evidenziarlo senza sminuire per un solo momento la nostra solidarietà umana ed empatia con le vittime di ogni guerra.

Lo dobbiamo fare in quanto la disonestà etica che è implicita negli scopi ingannevoli stabiliti dalle élite politiche e dai media occidentali li porterà ancora una volta a nascondere il loro razzismo e la loro impunità in quanto continuerà a garantire l’immunità a Israele e alla sua oppressione dei palestinesi. Ho individuato quattro affermazioni false che fino ad ora sono al centro dell’impegno delle élite occidentali con la crisi ucraina e le ho strutturate come quattro lezioni.

Prima lezione: i rifugiati bianchi sono benvenuti, gli altri molto meno

L’inedita decisione collettiva dell’UE di aprire le sue frontiere ai rifugiati ucraini, seguita da una politica più prudente della Gran Bretagna, non può passare inosservata rispetto alla chiusura della maggior parte degli ingressi in Europa ai rifugiati che arrivano dal mondo arabo e dall’Africa dal 2015. La priorità chiaramente razzista che distingue in base al colore, alla religione e all’etnia tra chi cerca di salvarsi la vita è aberrante, ma è improbabile che cambi molto rapidamente. Alcuni dirigenti europei non si vergognano neppure di esprimere pubblicamente il proprio razzismo, come ha fatto il primo ministro bulgaro Kiril Petkov:

Questi (i rifugiati ucraini) non sono i rifugiati a cui siamo abituati…questa gente è europea. Queste persone sono intelligenti, sono istruite… Non è l’ondata di rifugiati a cui siamo abituati, persone della cui identità non siamo sicuri, senza un passato chiaro, che potrebbero persino essere stati dei terroristi…

Non è solo. I mezzi di comunicazione occidentali parlano tutto il tempo del “nostro tipo di rifugiati”, e questo razzismo si esprime chiaramente ai valichi di confine tra l’Ucraina e i suoi vicini europei. Questo atteggiamento razzista, con sfumature chiaramente islamofobe, non cambierà, dato che i dirigenti europei stanno ancora negando il tessuto multietnico e multiculturale delle società in tutto il continente. Una realtà umana creata da anni di colonialismo e imperialismo europei che gli attuali governi europei negano e ignorano e, nel contempo, questi governi perseguono politiche migratorie basate sullo stesso razzismo che permeava il colonialismo e l’imperialismo del passato.

Seconda lezione: puoi invadere l’Iraq ma non l’Ucraina

La mancanza di volontà dei media occidentali di contestualizzare la decisione russa di invadere all’interno di una più ampia, e ovvia, analisi di come nel 2003 siano cambiate le regole del gioco internazionale è veramente sconcertante. È difficile trovare un’analisi che evidenzi il fatto che gli USA e la Gran Bretagna violarono le leggi internazionali contro la sovranità di uno Stato quando i loro eserciti, con una coalizione di Paesi occidentali, invasero l’Afghanistan e l’Iraq. Occupare un intero Paese per scopi politici non è stato inventato in questo secolo da Vladimir Putin, è stato inaugurato dall’Occidente come uno strumento giustificato di politica.

Terza lezione: a volte il neonazismo può essere accettabile

L’analisi riguardo all’Ucraina non evidenzia neppure alcuni dei validi argomenti di Putin, che non giustificano affatto l’invasione, ma che richiedono la nostra attenzione persino durante l’invasione. Fino all’attuale crisi i mezzi di comunicazione progressisti occidentali, come The Nation, the Guardian, the Washington Post, ecc., ci hanno messi in guardia dal crescente potere dei gruppi neonazisti in Ucraina che potrebbe incidere sul futuro dell’Europa, e non solo. Gli stessi mezzi di informazione oggi ignorano l’importanza del neonazismo in Ucraina.

Il 22 febbraio 2019 The Nation informava:

Oggi crescenti notizie sulla violenza di estrema destra, dell’ultranazionalismo e dell’erosione delle libertà fondamentali stanno smentendo l’iniziale euforia dell’Occidente. Ci sono pogrom neonazisti contro i rom, crescenti aggressioni contro femministe e gruppi LGBT, censura di libri e glorificazione sponsorizzata dallo Stato di collaboratori del nazismo.”

Due anni prima il Washington Post (15 giugno 2017) aveva avvertito, in modo molto perspicace, che uno scontro dell’Ucraina con la Russia non avrebbe dovuto portarci a dimenticare il potere del neonazismo in Ucraina:

Mentre la lotta dell’Ucraina contro i separatisti appoggiati dalla Russia continua, Kiev affronta un’altra minaccia a lungo termine alla sua sovranità: potenti gruppi ultranazionalisti di estrema destra. Queste organizzazioni non si vergognano di utilizzare la violenza per raggiungere i propri obiettivi, che sono sicuramente in contrasto con la tollerante democrazia di tipo occidentale che Kiev cerca apparentemente di diventare.”

Tuttavia oggi il Washington Post adotta un atteggiamento sprezzante e definisce una descrizione simile come un’“accusa falsa”:

In Ucraina agiscono una serie di gruppi nazionalisti paramilitari, come il movimento Azov e il Settore di Destra, che abbracciano un’ideologia neonazista. Benché di spicco, sembrano avere scarse adesioni. Solo un partito di estrema destra, Svoboda, è rappresentato nel parlamento ucraino, e ha solo un deputato.”

I precedenti avvertimenti di un mezzo di comunicazione come The Hill (9 novembre 2017), il principale sito indipendente di notizie degli USA, sono dimenticate:

In effetti ci sono formazioni neonaziste in Ucraina. Ciò è stato massicciamente confermato da quasi tutti i principali mezzi di informazione occidentali. Il fatto che alcuni analisti possano smentirlo come propaganda diffusa da Mosca è profondamente inquietante, soprattutto alla luce dell’attuale incremento di neonazisti e suprematisti bianchi in tutto il pianeta.”

Quarta lezione: colpire grattacieli è un crimine di guerra solo in Europa

Non solo la dirigenza ucraina ha rapporti con questi gruppi e milizie neonazisti, è anche filo-israeliano in modo preoccupante e imbarazzante. Uno dei primi atti del presidente Volodymyr Zelensky è stato il ritiro dell’Ucraina dalla Commissione delle Nazioni Unite sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese, l’unico tribunale internazionale a garantire che la Nakba non venga negata o dimenticata.

L’iniziativa è stata del presidente ucraino. Egli non ha dimostrato alcuna solidarietà nei confronti delle sofferenze dei rifugiati palestinesi, né li ha considerati vittime di crimini. Nella sua intervista dopo l’ultimo barbaro bombardamento israeliano della Striscia di Gaza nel maggio 2021 ha affermato che l’unica tragedia a Gaza è stata quella patita dagli israeliani. Se è così, allora sono solo i russi che soffrono in Ucraina.

Ma Zelensky non è solo. Quando si tratta della Palestina l’ipocrisia raggiunge livelli mai visti. Un grattacielo vuoto colpito in Ucraina ha dominato le notizie e provocato profonde analisi su brutalità umana, Putin e disumanità. Ovviamente questi bombardamenti devono essere condannati, ma risulta che quelli tra i leader del mondo che guidano la condanna rimasero in silenzio quando Israele rase al suolo la città di Jenin nel 2000, il quartiere di Al-Dahaya a Beirut nel 2006 e la città di Gaza negli ultimi 15 anni in un’ondata di brutalità dietro l’altra.

Non è stata discussa, per non dire imposta, alcuna sanzione di qualunque tipo contro Israele per i suoi crimini di guerra dal 1948 in poi. Di fatto nella stragrande maggioranza dei Paesi occidentali che oggi stanno guidando le sanzioni contro la Russia persino menzionare la possibilità di imporre sanzioni contro Israele è illegale e considerato antisemita.

Persino quando è giustamente espressa la sincera solidarietà umana dell’Occidente nei confronti dell’Ucraina non possiamo ignorare questo contesto razzista ed eurocentrico. La massiccia solidarietà dell’Occidente è riservata a chi voglia unirsi al suo blocco e alla sua sfera di influenza. Questa empatia ufficiale non appare affatto quando violenze simili, e peggiori, sono dirette contro non-europei in generale, e verso i palestinesi in particolare.

Ci possiamo orientare come persone di coscienza tra le nostre risposte alle calamità e la nostra responsabilità per evidenziare l’ipocrisia che in molti modi ha aperto la strada a queste catastrofi. Legittimare a livello internazionale l’invasione di Paesi sovrani e consentire la continua colonizzazione e oppressione di altri, come la Palestina e il suo popolo, porterà in futuro a ulteriori tragedie come quella dell’Ucraina, e ovunque sul nostro pianeta.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Secondo un ministero palestinese vari palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane

1 Marzo 2022 – Al Jazeera

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che una persona è stata uccisa a Beit Fajar e altre due a Jenin, nella Cisgiordania occupata.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due differenti incidenti nella Cisgiordania occupata.

Martedì il ministero ha affermato che Ammar Shafiq Abu Afifa è stato ucciso dalle “forze israeliane di occupazione che gli hanno sparato vicino alla città di Beit Fajar”.

Quando l’agenzia di notizie AFP ne ha chiesto conto, sul momento l’esercito israeliano non ha commentato.

Wafa, l’agenzia di notizie palestinese ufficiale, ha riferito che Afifa era un abitante del campo per rifugiati Al-Aroub a nord di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Secondo la polizia di frontiera israeliana e le autorità sanitarie palestinesi, martedì prima dell’alba in un’altra circostanza, dopo essere finite sotto il fuoco durante un arresto nel nord della Cisgiordania, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi.

La polizia di frontiera israeliana ha affermato che agenti e polizia sotto copertura sono entrati nel campo profughi di Jenin per arrestare un sospetto “ricercato per attività terroristica”.

La polizia ha affermato che “dopo l’arresto del sospetto, non appena le forze hanno lasciato la casa, è stato aperto un intenso fuoco da molteplici direzioni e le forze sotto copertura operanti sulla scena hanno risposto con una fitta sparatoria”.

La polizia ha affermato che, quando gli agenti hanno raggiunto i loro veicoli, un altro assalitore ha sparato alle forze dell’ordine “che hanno risposto con fuoco preciso”.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che due uomini sono stati uccisi nel combattimento. Wafa li ha identificati come Abdullah al-Hosari, di 22 anni e 3, di 18.

Wafa ha riferito che le truppe hanno arrestato Imad Jamal Abu al-Heija, un prigioniero che era stato liberato.

L’agenzia di notizie ha affermato che l’uccisione dei due palestinesi ha provocato a Jenin una “manifestazione imponente ed irata”.

Forza eccessiva

Le uccisioni sono avvenute a poco più di una settimana di distanza da quando un ragazzo quattordicenne, Mohammed Shehadeh, è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane nella città di Al-Khader in Cisgiordania.

Organizzazioni per i diritti umani palestinesi e internazionali hanno a lungo condannato ciò che sostengono sia un uso eccessivo della forza da parte delle forze israeliane.

B’Tselem, una organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che lo scorso anno ha registrato 77 morti palestinesi per mano delle forze israeliane. Più della metà degli uccisi non erano implicati in nessun attacco, ha aggiunto.

Il mese scorso, Amnesty International in un nuovo rapporto ha sostenuto che Israele sta mettendo in atto “il crimine di apartheid contro i palestinesi” e che deve essere ritenuto responsabile perché li tratta come un “gruppo razziale inferiore”.

Israele ha occupato la Cisgiordania e Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 in Medioriente.

Le colonie israeliane costruite nel terrritorio palestinese sono considerate illegali dal diritto internazionale. Oggi tra 600.000 e 750.000 coloni israeliani vivono in almeno 250 colonie nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Nove mesi di proteste contro un nuovo avamposto coloniale: sette morti e decine di feriti nella cittadina di Beita

28 febbraio 2022 – B’TSELEM

Nel maggio 2021 Israele ha realizzato una nuova colonia, conosciuta come avamposto di Evyatar, su terreni appartenenti alle città di Beita e Qabalan e al villaggio di Yatma in cima al monte (Jabal) Sabih. L’operazione è stata realizzata dal movimento di coloni Nachala [organizzazione internazionale che finanzia l’espansione coloniale nella Cisgiordania, ndtr.], con l’assistenza del Consiglio regionale della Samaria e il consenso dei militari. In precedenza, nel 2013, 2016 e 2018, dei coloni avevano tentato di impossessarsi della terra con la realizzazione di un avamposto ma ogni volta l’Amministrazione Civile aveva prontamente demolito le strutture. Questa volta Israele ha lasciato l’avamposto coloniale intatto.

Secondo un calcolo commissionato da B’Tselem [ONLUS israeliana che promuove i diritti umani nei territori occupati, ndtr.] a Kerem Navot [organizzazione che monitora e documenta la politica di espansione coloniale di Israele nella Cisgiordania, ndtr.] l’avamposto coloniale controlla un’area di 36 dunam [1 dunam = 1.000 metri quadrati]. Copre in parte dei terreni privati palestinesi e in parte un territorio che Israele considera “terreno sotto indagine”. La colonia comprende circa 50 strutture permanenti, un parco giochi, una sinagoga, un’aula per gli studi religiosi, un negozio di alimentari, una rete elettrica e strade completamente asfaltate. Secondo la sua pagina Facebook l’avamposto coloniale è stato istituito per creare un cuneo tra la città di Qabalan e il villaggio di Yatma, a sud della strada 505, e la città di Beita a nord.

All’inizio di luglio 2021 l’avamposto coloniale è stato evacuato dopo un accordo firmato fra i coloni e il governo. In base all’accordo tutte le strutture dell’insediamento sarebbero rimaste al loro posto e i coloni che vi abitavano se ne sarebbero andati, mentre il governo avrebbe esaminato lo stato del terreno. Se fosse emerso che l’avamposto avrebbe potuto essere “legalizzato” alcuni dei coloni sarebbero stati in grado di tornare e lì sarebbe stato istituito un programma di yeshiva militare (hesder) [yeshiva è un’istituzione educativa ebraica che si basa sullo studio dei testi religiosi tradizionali, hesder è un programma di yeshiva che combina studi talmudici avanzati con il servizio militare, ndtr.] Come parte dell’accordo, i militari avrebbero mantenuto una presenza permanente nell’avamposto.

Anche prima di una decisione relativa all’approvazione “legale” dell’avamposto coloniale, e da quando è stato installato, i militari hanno impedito agli agricoltori palestinesi di accedere a centinaia di dunam della loro terra adiacente. Questa restrizione riguarda circa 80 famiglie di agricoltori di Beita e Yatma.

Nell’agosto 2021 l’Alta Corte di giustizia israeliana ha respinto una petizione presentata dai proprietari terrieri palestinesi contro l’istituzione dell’avamposto, sulla base del fatto che la proprietà terriera nell’area era ancora sotto esame. L’indagine è stata completata, secondo i media, nell’ottobre 2021. Nelle ultime settimane gli organi di informazione hanno riferito che lo Stato sta valutando un “compromesso” secondo il quale la yeshiva smantellata nell’avamposto di Homesh [una delle colonie nella striscia di Gaza distrutte e abbandonate dopo il disimpegno di Israele da Gaza nel 2005, ndtr.] verrebbe ricostruita a Evyatar. Poco prima della fine del suo mandato il procuratore generale uscente ha approvato i risultati della “ricerca fondiaria” e ha accelerato le procedure di pianificazione del sito. Il governo ora può, secondo la sua logica, andare avanti con la legalizzazionedell’avamposto e fondare lì la yeshiva.

La città di Beita, sulla cui terra è stato edificato l’avamposto coloniale, si trova a sud della città di Nablus e ospita circa 9.000 palestinesi. Da quando è stato realizzato l’avamposto gli abitanti della città hanno protestato contro la sottrazione della loro terra. Tengono manifestazioni notturne alla periferia della città, nonché proteste di massa il venerdì, che includono una marcia verso l’avamposto coloniale con centinaia, e talvolta migliaia, di partecipanti. All’inizio di ogni protesta si tengono delle preghiere, di solito seguite da scontri nel corso dei quali giovani palestinesi incendiano pneumatici e lanciano pietre contro le forze di sicurezza israeliane. Queste ultime reprimono violentemente le proteste con massicce quantità di lacrimogeni scagliati intorno anche da droni e lanciabombe montati su jeep e sparano proiettili di metallo ricoperti di gomma, granate a spugna [armi antisommossa non letali, ndtr.], proiettili veri, inclusi proiettili calibro 22 sparati da cecchini.

Ad oggi, sette abitanti di Beita sono stati uccisi nel corso delle manifestazioni o nelle loro immediate vicinanze. Inoltre, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 180 persone sono state ferite da proiettili veri, altre 1.000 circa da proiettili di “gomma” e granate a spugna, e più di 4.200 hanno avuto problemi a causa dell’inalazione di gas lacrimogeni. Un altro abitante di Beita è stato ucciso vicino alla condotta idrica della città. Un abitante di Yatma è stato ucciso durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale nel suo villaggio.

Dall’inizio delle proteste, oltre ad attuare una politica di uso letale delle armi da fuoco, le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato decine di abitanti della città. Per fiaccare i manifestanti i militari hanno chiuso per un mese e mezzo l’ingresso principale della città e le ruspe militari hanno bloccato e scavato le strade agricole che portavano ai punti chiave della manifestazione, danneggiando circa un chilometro di terrazzamenti agricoli e circa 2.000 alberi a un chilometro dall’avamposto coloniale. Il vice capo del consiglio comunale di Beita ha detto a B’Tselem che Israele ha revocato i permessi di lavoro a circa 150 residenti. I soldati hanno anche esercitato gravi violenze contro i manifestanti israeliani che sono accorsi alle manifestazioni per mostrare solidarietà ai manifestanti palestinesi e li hanno arrestati con falsi pretesti.

Evyatar è stata fondata in terra palestinese non su iniziativa privata di diversi coloni, ma come parte della politica di insediamento coloniale di Israele in Cisgiordania, con la piena collaborazione di tutte le autorità israeliane competenti. Tuttavia, lo Stato non si accontenta di appropriarsi della terra e di costruirvi una colonia. Insiste anche nel proibire agli abitanti palestinesi di protestare contro questi atti e impedisce con la forza, anche letale, qualsiasi tentativo di resistenza. Ribadiamo: la creazione di insediamenti coloniali è illegale ai sensi del diritto internazionale e la Corte Penale Internazionale dell’Aia sta attualmente indagando sulla politica di Israele in materia. La scelta di Israele di impedire agli abitanti dell’area di protestare contro la realizzazione di Evyatar, di attuare una politica di uso letale delle armi da fuoco in circostanze che non mettano in pericolo la vita dei soldati e di sostenere questa politica anche dopo che i suoi esiti fatali sono evidenti aggiunge la beffa al danno.

* Database sulla protezione dei civili dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA).

La ricercatrice sul campo Salma a-Deb’i di B’Tselem ha raccolto le seguenti testimonianze di persone che hanno assistito all’uccisione o al ferimento di abitanti della città durante le proteste:

10 dicembre 2021: L’uccisione di Jamil Abu ‘Ayash, 32 anni

Venerdì 10 dicembre 2021, verso mezzogiorno, Jamil Abu ‘Ayash (32 anni), abitante a Beita, è arrivato nell’area in cui si stava svolgendo la manifestazione quella settimana. Il sito è noto come al-Hutah e si trova a circa 700 metri dall’avamposto coloniale di Evyatar. Intorno alle 14:30 Abu ‘Ayash è stato colpito da un colpo di pistola da una distanza di 200 metri, mentre teneva in mano una fionda.

Con una testimonianza resa il 12 dicembre 2021 A.S. (33 anni), un abitante di Beita presente sul posto, ha raccontato:

Verso le 14:20 ero in piedi a parlare con alcuni ragazzi. C’erano molti soldati e agenti di polizia di frontiera sulla collina di fronte a noi, che sparavano lacrimogeni e proiettili “di gomma”. A circa 200 metri da noi c’erano una decina di soldati. I ragazzi che tiravano dei sassi erano molto lontani da loro, e i sassi non li raggiungevano nemmeno.

Ho visto che due soldati si sono uniti a loro. Sono avanzati e uno di loro si è sdraiato a terra in posizione di cecchino. Poi si è alzato, sono tornati indietro e si è ripetuta la stessa cosa. Dopo 10 minuti ho visto Jamil Abu ‘Ayash passarci accanto e fermarsi circa 50 metri oltre. Aveva in mano una fionda. Sono trascorsi solo pochi minuti, poi uno dei due soldati, che era davanti e sdraiato a terra, ha aperto il fuoco. Ho sentito diversi spari, uno dopo l’altro. Ci siamo tutti chinati o sdraiati a terra. Non appena ho alzato la testa, ho visto Jamil sdraiato a terra e ho sentito i ragazzi urlare. Alcuni di loro lo hanno prelevato e, allo stesso tempo, i soldati hanno sparato nell’area molti lacrimogeni. La testa e il viso di Jamil erano coperti di sangue.

È stato portato in ambulanza e poi in ospedale a Nablus. Sono andato in ospedale e i dottori mi hanno detto che aveva perso parte del cervello. In quel tipo di situazione, quando un ragazzo viene gravemente ferito, l’80% dei manifestanti lascia la manifestazione e va in ospedale, ed è così che i soldati riescono a fermare la manifestazione.

SH. (29 anni), abitante a Beita, è arrivato verso mezzogiorno alla preghiera, da cui è partita mezz’ora dopo la manifestazione settimanale.

In una testimonianza resa il 15 dicembre 2021 descrive quanto accaduto:

Quando siamo arrivati ​​nella zona chiamata al-Hutah, abbiamo visto molti soldati sparsi sulla collina. Di fronte a noi, a circa 150 metri di distanza, c’erano sette o otto soldati. Stavano sparando molti lacrimogeni e alcuni proiettili “di gomma”. Accanto a loro c’erano due jeep militari da cui dei soldati stavano sparando lacrimogeni con i lanciatori. I giovani hanno iniziato a scagliare pietre contro i soldati.

Verso le 14:30 ho visto due soldati a circa 200 o 250 metri da noi. Uno di loro era sdraiato a terra e l’altro gli stava mostrando dove mirare. Ci siamo nascosti dietro un muro di pietra. Dopo pochi minuti il soldato ha ripreso la posizione di cecchino. Ci siamo seduti per terra. Ho visto arrivare Jamil Abu ‘Ayash. Non l’avevo visto fino a quel momento alla manifestazione. Gli ho detto di sedersi e stare attento, poi ho sentito uno sparo ed è caduto. Era a un metro da me.

Quando mi sono avvicinato a lui, il soldato ha sparato di nuovo e ha colpito le pietre sul terrazzamento. Ho continuato ad andare verso Jamil. Aveva una ferita d’ingresso sulla fronte e una ferita d’uscita nella parte posteriore della testa.

Lo abbiamo preso e lo abbiamo portato a circa 500 metri a un’ambulanza lì in attesa. Gli agenti della polizia di frontiera ci sono corsi dietro e hanno sparato decine di lacrimogeni nella nostra direzione. Poiché i militari hanno riempito di buche le strade che portano alla collina, il punto più vicino in cui l’ambulanza poteva raggiungerci era a 500 metri. In seguito ho scoperto che era stato ucciso. Fu sepolto quel giorno nel cimitero del villaggio.

24 settembre 2021: L’uccisione di Muhammad Khabisah, 28 anni

Venerdì 24 settembre 2021, verso mezzogiorno, diverse centinaia di abitanti di Beita e dei villaggi vicini sono partiti per la preghiera e la manifestazione settimanali. Dopo le preghiere, alcuni abitanti sono avanzati per circa 800 metri verso l’avamposto, dove hanno incendiato pneumatici e lanciato pietre contro membri delle forze di sicurezza, che hanno sparato lacrimogeni e proiettili “di gomma”. Muhammad Khabisah (28 anni), un abitante di Beita, si è unito ai lanciatori di pietre.

Intorno alle 15:00 Khabisah e diversi giovani erano seduti sotto un ulivo vicino al luogo della manifestazione. A diverse decine di metri di distanza un gruppo di giovani stava lanciando pietre contro le forze di sicurezza, che si stavano riparando dietro un muro di pietra e di tanto in tanto si alzavano per sparare lacrimogeni e proiettili “di gomma” contro i giovani. Circa mezz’ora dopo un membro delle forze di sicurezza si è sdraiato davanti al muro e ha sparato diversi colpi con proiettili veri, colpendo Khabisah alla testa. È stato portato in ospedale, dove i medici non sono riusciti a rianimarlo.

In una testimonianza data al telefono a B’Tselem l’11 ottobre 2021 l’amico di Khabisah ‘A. (21 anni) riferisce ciò che è capitato quel giorno:

Venerdì 24 settembre 2021 siamo andati alla preghiera che precede la manifestazione. Dopodiché ci siamo incamminati verso l’avamposto, che dista circa 800 metri. I soldati erano sparsi in gruppi da tre a cinque. Ci siamo avvicinati a loro. Ero con Muhammad Khabisah e altri ragazzi che stavano lanciando pietre contro i soldati. I soldati hanno sparato dei lacrimogeni e si sono mossi verso di noi, allora ci siamo tirati indietro, poi di nuovo avanti, e così via. I soldati hanno sparato anche proiettili “di gomma” e alcuni giovani che non conoscevo sono stati colpiti.

Più tardi, verso le 15:30, Muhammad ed io stavamo riposando con altri sei giovani sotto un ulivo. Circa 20 o 30 giovani stavano lanciando pietre contro tre o quattro soldati che si trovavano dietro un muretto agricolo. I soldati hanno sparato proiettili veri ma non hanno colpito nessuno di noi. Eravamo tranquilli, perché i ragazzi che tiravano sassi si trovavano a diverse decine di metri da noi e i soldati erano a circa 150 metri da noi, oltre i giovani.

Poi uno dei soldati si è sdraiato a terra davanti al muretto. Uno dei giovani ci ha avvertito di stare attenti al soldato dicendo che poteva stare per uccidere qualcuno. Pochi minuti dopo ho sentito quattro o cinque spari. Mi sono abbassato e dopo che gli spari sono cessati, ho tirato su la testa. Ho visto Muhammad Khabisah sdraiato su un fianco. Gli ho sollevato la testa e ho sentito qualcosa muoversi nel suo cranio e il suo sangue coprirmi la mano. Ho gridato: “Muhammad!” Io e i ragazzi lo abbiamo preso, ma dopo pochi metri non potevo andare avanti. Non potevo credere a quello che era successo.

YH (22 anni), un abitante di Beita, è arrivato alla manifestazione verso mezzogiorno. In una testimonianza resa l’11 ottobre 2021 racconta:

Verso le 15:00 mi sono seduto con alcuni ragazzi sotto un ulivo, a circa 50 metri dai ragazzi che stavano lanciando pietre, e a circa 150 metri da tre soldati che si nascondevano dietro un muro di pietra. Quando uno dei soldati decideva di sparare lacrimogeni o proiettili “di gomma” contro i lanciatori di pietre si sporgeva dal muretto, sparava e si abbassava di nuovo. Uno dei ragazzi ha detto che aveva sete e che non c’era acqua. Muhammad Khabisah, che era appoggiato al tronco dell’albero, ha chiamato suo cugino chiedendogli di portare dell’acqua, ma alla fine non è arrivato.

Dopo circa mezz’ora, ho visto un soldato sdraiato a terra. Ho detto ai ragazzi che stava per uccidere qualcuno. Muhammad ha detto che eravamo lontani da lui. Sono passati solo pochi minuti quando ho sentito quattro o cinque spari di proiettili veri. Mi sono abbassato perché sembravano vicini. Quando ho alzato la testa, ho visto Muhammad sdraiato a terra sul fianco sinistro. Ho gridato: “Qualcuno è stato colpito, qualcuno è stato colpito”. Siamo andati da lui e abbiamo cercato di tirarlo su, e alcuni ragazzi sono venuti di corsa e ci hanno aiutato. Lo hanno portato via. Sanguinava molto dalla nuca e non si muoveva. Lo hanno portato su un’ambulanza che si trovava, che lo ha trasportato in ospedale.

6 agosto 2021: L’uccisione di ‘Imad Dweikat, 38 anni

Venerdì 6 agosto 2021, verso mezzogiorno, circa 700 abitanti di Beita e dei villaggi vicini si sono mobilitati per la manifestazione settimanale contro l’avamposto. Intorno alle 15:00 le forze di sicurezza hanno sparato contro i manifestanti da circa 300 metri di distanza, colpendo al petto ‘Imad Dweikat (38 anni) residente a Beita mentre stava bevendo una tazza d’acqua. Dweikat è stato portato in ospedale, dove poco dopo è stato dichiarato morto.

J.D. (45 anni), abitante di Beita, si è recato alla preghiera e alla successiva dimostrazione con suo fratello (49 anni). In una testimonianza resa il 12 agosto 2021, ricorda:

Quando siamo arrivati c’erano già sul posto da 600 a 700 abitanti. Alcuni di loro avevano con sè dei documenti riguardanti i terreni di cui i coloni si sono appropriati. Alcuni abitanti si sono spinti fino a 700 metri dall’avamposto coloniale. I soldati erano sparsi in gruppi di cinque o sei ai piedi della collina e stavano effettuando dei lanci massicci di lacrimogeni e granate assordanti. Successivamente hanno anche sparato proiettili “di gomma”. Diversi residenti sono rimasti feriti, incluso mio fratello, che è stato colpito alla gamba da un proiettile “di gomma” mentre cercava di prestare i primi soccorsi a un altro abitante che era stato colpito da un proiettile “di gomma” al ginocchio. Per quanto ferito, mio ​​fratello non è andato via per farsi curare. Ho visto più abitanti colpiti da proiettili “di gomma” e soffocati dal gas.

Intorno alle 15:15 le cose si sono calmate un po’. Mio fratello ed io ci siamo spostati a diverse decine di metri dagli scontri insieme ad altri ragazzi. Ci siamo seduti sotto un ulivo e abbiamo preparato il caffè. Due ambulanze erano parcheggiate a 20 metri e i soldati a circa 300 metri da noi. La situazione era tranquilla.

Improvvisamente ho sentito uno sparo. Ho guardato i ragazzi che stavano lanciando pietre e ho visto uno degli abitanti che diceva: “Non può essere” e correva nella direzione opposta rispetto agli scontri. Ho visto qualcuno sdraiato a terra e sanguinante dal naso e dalla bocca. Alcuni ragazzi lo hanno preso tra le braccia mentre gridavano il suo nome, ‘Imad Dweikat. Ho capito che era un mio parente.

Poco dopo ho saputo che era morto. La notizia mi ha devastato. Era molto lontano dagli scontri. Era padre di quattro ragazze. La più grande ha 10 anni e la più giovane un mese e mezzo. Ha lavorato duramente per mantenere le sue bambine piccole e ha dedicato tutta la sua vita alla famiglia. Sono rimasto molto addolorato per la sua morte.

KB (31 anni), un abitante di Beita, verso mezzogiorno si è recato anche lui alla preghiera e alla manifestazione. In una testimonianza resa il 22 agosto 2021 riferisce:

Verso le 15:15 ero lontano dai ragazzi che lanciavano pietre. Due ambulanze erano ferme a pochi metri da me, in attesa di evacuare i feriti. Ho parlato con ‘Imad, e poi un ragazzo è passato portando piccole tazze d’acqua con un coperchio. ‘Imad ha preso una tazza, l’ha aperta e ha iniziato a bere, e poi è caduto a terra a faccia in giù. Era a due metri da me. Pensavo fosse svenuto per un colpo di sole. L’ho girato sulla schiena e ho visto che sanguinava dal naso e dalla bocca e aveva sangue sulla maglietta. Ho urlato più forte che potevo: “C’è un uomo ferito qui, ragazzi!” e poi diversi ragazzi sono corsi verso di me e mi hanno aiutato a portare ‘Imad su una delle ambulanze.

Sono rimasto scioccato da quello che è successo. Non ho sentito nessuno sparo. «Imad non ha fatto niente. Stava solo bevendo dell’acqua ed era molto lontano dai ragazzi in testa alla manifestazione, alcuni dei quali stavano lanciando pietre. I soldati erano a una distanza di circa 200-300 metri da noi, e noi eravamo a 70-80 metri di distanza dai ragazzi che lanciavano pietre. Pensavo di essere un ragazzo forte, che non si innervosisce facilmente, ma quello che è successo mi ha scioccato. Un uomo in piedi accanto a me, che mi parlava, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre non faceva altro che bere dell’acqua.

16 giugno 2021: L’uccisione di Ahmad Bani Shamsah, 15 anni

Mercoledì 16 giugno 2021, intorno alle 17:30, diversi giovani, tra cui Ahmad Bani Shamsah (15 anni), si sono recati nella zona di Jabal Sabih per preparare i pneumatici da incendiare durante la manifestazione notturna che si doveva tenere sul posto. I giovani si sono portati a varie centinaia di metri dall’avamposto e a circa 150 metri da diversi coloni e un soldato che si trovavano nella zona. Bani Shamsah ha appeso una bandiera palestinese a uno degli ulivi e ha iniziato a scappare. A quel punto un soldato gli ha sparato colpendolo alla nuca. Bani Shamsah è morto il giorno successivo per le ferite riportate.

Un suo amico, M.H. (16 anni), racconta in una testimonianza da lui resa:

Io e gli altri ragazzi abbiamo deciso di andare un po’ più in là per vedere dove fossero i soldati. Volevamo sventolare la bandiera palestinese il più vicino possibile a loro, per provocarli. Abbiamo camminato fino a circa 500 metri dall’avamposto. Abbiamo visto circa 10 coloni e un soldato a circa 150 metri da noi.

Il mio amico, Ahmad Bani Shamsah, ha appeso una bandiera palestinese a un ulivo e abbiamo iniziato a gridare “Allahu Akbar”. È quello che facciamo sempre quando i soldati ci vedono, anche per far sapere a tutti che ci sono soldati in zona. Il soldato ha sparato diversi colpi nella nostra direzione e siamo scappati tutti. Ho sentito Ahmad dire che era stato colpito. Mi sono fermato e mi sono guardato intorno, e l’ho visto sdraiato a terra a 10 metri di distanza. Sono andato ad aiutarlo, ma poi il soldato mi ha sparato. Mi sono allontanato e mi sono nascosto dietro un masso.

Nel frattempo è arrivato un altro ragazzo e abbiamo deciso di andare insieme a prendere Ahmad. Quando lo abbiamo raggiunto sanguinava abbondantemente dalla testa. Altri ragazzi sono venuti e ci hanno aiutato a portarlo su un’auto vicina, e da lì un’ambulanza lo ha trasportato in ospedale. Sono salito su una macchina per andare in ospedale, ma sono rimasto così scioccato che ho chiesto all’autista di portarmi a casa. A casa ho aspettato notizie di Ahmad, anche se sapevo che era morto.

Ci sono voluti alcuni giorni perché recuperassi l’appetito. Ho perso due amici in meno di una settimana: Ahmad e Muhammad Hamayel. È difficile e incredibilmente crudele.

14 maggio 2021: L’uccisione di ‘Issa Barham, 40 anni

La prima manifestazione degli abitanti di Beita contro la costruzione dell’avamposto di Evyatar si è tenuta venerdì 14 maggio 2021. I soldati disposti sulla collina hanno sparato lacrimogeni e proiettili “di gomma”, e successivamente proiettili veri, contro i manifestanti, alcuni dei quali lanciavano pietre contro i soldati da centinaia di metri di distanza. Diversi residenti sono stati feriti da proiettili veri. ‘Issa Barham (40), un abitante di Beita, è arrivato per aiutare a evacuare i feriti. È stato colpito al petto da una distanza di circa 70 metri mentre era in piedi vicino alla sua auto.

Nella sua testimonianza un parente di ‘Issa A.B. (41 anni) descrive gli avvenimenti:

Venerdì 14 maggio 2021, verso le 13:30, sono andato alla manifestazione a Jabal Sabih, a sud del villaggio, contro l’istituzione dell’avamposto di Evyatar. Ho visto circa 10 soldati e sette o otto coloni in piedi lontano da loro. I soldati stavano osservando da lontano, sparando lacrimogeni e lanciando granate assordanti anche prima che ci avvicinassimo a loro. Eravamo a circa 300 metri dai soldati e le pietre che stavano lanciando i ragazzi nemmeno li raggiungevano.

I soldati hanno sparato verso di noi proiettili veri ferendo diversi abitanti, tutti nella parte superiore del corpo. Le ambulanze hanno prelevato due dei feriti, ma quando altre persone sono rimaste ferite, abbiamo chiesto agli abitanti di portarle via con auto private. Ho visto un mio parente, ‘Issa Barham, arrivare con la sua macchina dalla direzione del villaggio. Gli ho chiesto: “Perché sei qui?” e lui mi ha risposto: “Dove sono i feriti?”. Ha subito voltato la macchina in modo da poter partire velocemente. Gli ho detto: “I feriti sono stati portati sul Mashtubah (veicolo senza patente) di uno dei residenti, perché è ciò che avevamo a disposizione qui”.

«Issa ha parcheggiato l’auto, è sceso e si è fermato accanto. Poi ho visto uno dei soldati accovacciarsi in posizione di cecchino e spararci addosso. A quel punto, le cose si erano già calmate ed erano tranquille. Tutti erano impegnati con i feriti o in attesa di notizie su un abitante gravemente ferito. Non mi è assolutamente venuto in mente che il soldato avrebbe sparato. Improvvisamente, ho sentito uno sparo e ho visto ‘Issa cadere all’indietro. Gli sono corso incontro e quando gli ho tolto i vestiti ho visto del sangue al centro dell’addome. Io e i ragazzi abbiamo chiamato un’ambulanza, l’abbiamo preso, lo abbiamo trasportato per un breve tratto e lo abbiamo messo su un’auto senza targa che era lì in modo che potesse essere trasportato in ospedale. Poco dopo l’auto è partita andando incontro ad un’ambulanza che ha portato via ‘Issa. Sono salito subito in macchina e sono andato alla clinica del villaggio, perché pensavo che l’ambulanza avesse portato ‘Issa lì, ma non l’ho trovato. Mi è stato detto che era stato trasferito in ospedale a Nablus.

Quando sono arrivato in ospedale, mi è stato detto che ‘Issa era stato ucciso. È stato uno shock terribile. Un uomo che è venuto ad aiutare i feriti è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Era un pubblico ministero presso l’ufficio del procuratore distrettuale e padre di quattro figli di età compresa tra 1,5 e otto anni. Era un uomo meraviglioso. L’intera città lo amava. Aiutava tutti ed era una persona gentile.

R. (36 anni) è andato alla preghiera e alla successiva dimostrazione. In una testimonianza resa telefonicamente il 9 giugno 2021, riferisce:

Diversi abitanti sono stati gravemente feriti dagli spari dei soldati, uno dopo l’altro, tutti nella parte superiore del corpo. Abbiamo avuto difficoltà a evacuare i numerosi feriti e alcuni sono stati portati via con auto private. Le persone sono state chiamate dagli altoparlanti della moschea e attraverso i social media per venire ad aiutare a portare i feriti in ospedale con auto private.

Ho visto ‘Issa Barham in piedi con le mani in tasca. I suoi vestiti puliti e ordinati dimostravano chiaramente che non era un uomo che stava prendendo parte agli scontri. Era in piedi e osservava i giovani da lontano. Ero a circa 15 metri di distanza da lui e i soldati erano a 70-80 metri di distanza. Improvvisamente l’ho visto cadere.

I giovani gli sono corsi incontro, lo hanno preso e portato su una delle auto. Sono salito in macchina con lui, insieme ad altri ragazzi. L’ho schiaffeggiato per svegliarlo, ma non si è svegliato. Gli ho sfilato i vestiti da sopra la pancia e ho visto che sanguinava. Abbiamo incontrato un’ambulanza dopo circa 50 metri e lui vi è stato trasferito all’interno. Poco dopo, è stato dato l’annuncio che era stato ucciso e la maggior parte degli abitanti è tornata al villaggio per partecipare al funerale e sostenere la sua famiglia.

25 giugno 2021: Il ferimento di Samer Khabisah, 18 anni

Venerdì 25 giugno 2021, verso mezzogiorno, Samer Khabisah (18 anni) di Beita si è recato alla preghiera prima della manifestazione settimanale.

In una testimonianza rilasciata il 25 ottobre 2021 Khabisah riferisce che durante le preghiere i soldati stavano già sparando lacrimogeni contro i residenti con un drone. Continua con la descrizione di ciò che è successo durante la dimostrazione:

I soldati si sono divisi in gruppi di otto o giù di lì e hanno continuato a lanciare granate assordanti e lacrimogeni contro di noi. I giovani gli hanno rilanciato contro le granate stordenti scagliando anche delle pietre. Diversi residenti sono rimasti feriti a causa delle inalazioni del gas. Ad un certo punto mi sono unito ai ragazzi e mi sono coperto il viso con una maglietta a causa di tutto quel gas. Ho visto una jeep militare arrivare dalla direzione dell’avamposto coloniale e fermarsi e i giovani hanno iniziato a tirare pietre. Ho anche visto quattro soldati a 30-40 metri di distanza dalla jeep, che sparavano contro i giovani proiettili veri. Poi sono svenuto.

Mi sono svegliato all’ospedale al-Istishari di Ramallah, dopo 12 giorni in terapia intensiva. Non potevo muovermi o parlare. Non capivo cosa stesse succedendo o perché fossi lì. In seguito ho scoperto di essere stato colpito in faccia da un proiettili veri e che avevo molte schegge conficcate in testa. Neanche dopo cinque operazioni i medici non sono riusciti a tirar fuori tutto. Sono stato in ospedale per 35 giorni, 22 dei quali in terapia intensiva. Per tutto il tempo non riuscivo a respirare e mi hanno fatto un foro nel collo. Non potevo nemmeno mangiare o parlare. Mi hanno messo un dispositivo nella mascella per fissarla e parte della mia lingua è stata amputata.

Dopo essere stato dimesso ho mangiato solo cibo frullato attraverso una cannuccia. Mi sono rimasti solo otto denti e anche questi devono essere fissati. Ho avuto tre operazioni e dovrò subirne altre. Il mio medico dice che ci vorranno almeno due anni per completare il trattamento. Ho bisogno di un innesto osseo nella mascella inferiore e superiore e di un impianto dentale. Faccio logopedia da tre mesi, perché dopo essere stato ferito non riuscivo a pronunciare parole e nemmeno sillabe. Le persone non capivano ciò che dicevo e dovevo ripetere le cose più volte per farmi comprendere.

Il mio progetto era di andare in America e lavorare per mio zio. Volevo conoscere altri posti. Non ho mai viaggiato o lasciato la Cisgiordania. Ora, non sono più sicuro di poter viaggiare. Tutta la mia vita è stata sconvolta.

5 novembre 2021: F.M. (19 anni), ferito a un occhio da un proiettile “di gomma”.

Venerdì 5 novembre 2021, intorno alle 13:30, F.M. (19 anni) di Beita è giunto ​​alla manifestazione settimanale, alla quale partecipavano diverse centinaia di persone.

In una testimonianza rilasciata il 25 novembre 2021 ha descritto la perdita di un occhio a causa di un proiettile “di gomma”:

Quando i manifestanti si sono trovati a una distanza compresa tra 150 e 200 metri i soldati hanno iniziato a sparare lacrimogeni. Hanno sparato 15 o 20 candelotti e la maggior parte delle persone si è dispersa. Alcuni di loro hanno afferrato i lacrimogeni e li hanno scagliati contro i soldati. E’ andata avanti così per circa mezz’ora. I soldati hanno sparato anche proiettili “di gomma”, ma nessuno è rimasto ferito.

Gli altri ragazzi ed io siamo andati verso i soldati, arrivando fino a circa 100 metri da loro. Uno dei soldati continuava a dirigersi verso di noi e poi indietreggiava. Temevo che ci sparasse, così mi sono nascosto con alcuni altri ragazzi dietro un cumulo di terra che i soldati avevano sistemato lì per impedire ai manifestanti di avanzare verso la collina e l’avamposto. Ogni volta tiravo pietre e poi tornavo a nascondermi dietro il cumulo. Stavo osservando i soldati mentre sparavano candelotti lacrimogeni che atterravano lontano da me quando all’improvviso sono stato colpito all’occhio sinistro e ho iniziato a sanguinare. Ero sicuro di aver perso l’occhio.

I ragazzi sono venuti a prendermi e hanno camminato molto fino a un’area che le ambulanze potevano raggiungere, perché i militari avevano scavato il terreno con una ruspa e i veicoli non potevano arrivarci.

Sono stato trasportato in ambulanza all’ospedale a-Najah di Nablus, dove sono stato curato e sottoposto a raggi X. Il dottore ha detto che il proiettile “di gomma” mi era penetrato nell’occhio. Dopo tre ore, mi hanno operato e hanno estratto il proiettile insieme all’occhio. Sono stato dimesso il pomeriggio successivo. Ora ho bisogno di un intervento chirurgico in un ospedale di Gerusalemme per farmi inserire una protesi oculare.

Mia madre sta ancora piangendo. Non riesce a credere che ho perso l’occhio. In questo momento sono a casa e amici e parenti vengono a trovarmi. Non so ancora come sarà la mia vita dopo l’infortunio, senza un occhio.

* * *

Da quando nei territori di Beita, Qabalan e Yatma è stato edificato l’avamposto coloniale di Evyatar le forze israeliane hanno ucciso nove palestinesi:

Issa Suliman Barham Barham

Un abitante di Beita di 40 anni. Ucciso il 14 maggio 2021. I soldati lo ferito all’addome con un colpo di arma da fuoco mentre era in piedi vicino alla sua auto, durante una manifestazione contro la costruzione dell’avamposto coloniale su territorio comunale. E’ morto poco dopo per le ferite riportate.

Tareq Omar Ahmad Snobar

Tareq ‘Omar Ahmad Snobar, un abitante di Yatma di 27 anni. Ferito il 14 maggio 2021 e morto il 16 maggio 2021. I soldati gli hanno sparato al torace mentre i palestinesi stavano lanciando pietre contro di loro all’ingresso del villaggio di Yatma, per protestare contro la costruzione dell’avamposto coloniale e l’operazione di Israele nella Striscia di Gaza.

Zakaria Maher ‘Abd al-Hamid Fallah

Zakaria Maher ‘Abd al-Hamid Fallah, un abitante di Beita di 25 anni. Ucciso il 28 maggio 2021. I soldati gli hanno sparato al torace durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Muhammad Sa’id Muhammad Hamayel

Muhammad Sa’id Muhammad Hamayel. Un abitante di Beita di 16 anni. Ucciso l’11 giugno 2021. Ucciso dai soldati durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Ahmad Zahi Ibrahim Bani Shamsah

Ahmad Zahi Ibrahim Bani Shamsah. Un abitante di Beita di 15 anni. Ferito il 16 giugno 2021 e morto il 17 giugno 2021. I soldati gli hanno sparato alla nuca dopo che aveva appeso una bandiera palestinese a un albero, in un’area in cui i palestinesi manifestano contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Shadi ‘Omar Lutfi Salim

Shadi ‘Omar Lutfi Salim. Un abitante di Beita di 41 anni. Ucciso il 27 luglio 2021. I soldati gli hanno sparato vicino alla condotta idrica della città. Il giorno successivo, sul posto sono stati trovati strumenti idraulici di metallo. Salim, che faceva l’idraulico, vi era già andato diverse volte per aggiustare la rete. E’ morto poco dopo per le ferite riportate. Israele ha trattenuto il suo corpo fino al 10 agosto 2021.

Imad Ali Muhammad Dweikat

Imad Ali Muhammad Dweikat. Un abitante di Beita di 38 anni. Ucciso il 6 agosto 2021. Le forze di sicurezza israeliane gli hanno sparato al torace da diverse centinaia di metri di distanza, durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Muhammad ‘Ali Muhammad Khabisah

Muhammad ‘Ali Muhammad Khabisah. Un abitante di Beita di 28 anni. Ucciso il 24 settembre 2021. Le forze di sicurezza israeliane gli hanno sparato alla testa durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale.

Jamil Jamal Ahmad Abu ‘Ayash

Jamil Jamal Ahmad Abu ‘Ayash. Un abitante di Beita di 32 anni. Ucciso il 10 dicembre 2021. I soldati gli hanno sparato alla testa da 200 metri di distanza durante una manifestazione contro la realizzazione dell’avamposto coloniale su territorio comunale. E’ morto poco dopo per le ferite riportate.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte suprema si pronuncia contro la restituzione di terra palestinese a Hebron a causa di problemi di sicurezza

Agar Shezaf

2 marzo 2022 – Haaretz

L’Alta Corte di giustizia israeliana ha confermato l’uso da parte dei militari di un complesso di proprietà palestinese a Hebron, sostenendo che “restituire la terra … danneggerebbe in modo significativo la sicurezza della popolazione israeliana nell’area”

Lunedì l’Alta Corte di giustizia israeliana ha respinto una petizione presentata dai palestinesi per impedire alle forze di difesa israeliane [IDF] di continuare a utilizzare un edificio a Hebron. costruito per la maggior parte su terreni palestinesi di proprietà privata, affermando che gli insediamenti fanno parte della “dottrina della sicurezza” dell’esercito israeliano.

L’esercito israeliano negli anni ’80 costruì una postazione militare su un terreno dove in precedenza era situata la stazione centrale degli autobus della città cisgiordana. A seguito di una risoluzione del governo del 2018, parte della terra è stata esclusa dall’ordine di requisizione militare originale in modo che su di essa potesse essere costruito un nuovo quartiere ebraico.

I firmatari hanno sostenuto che la destinazione di una parte della proprietà a edilizia residenziale dimostra che gli ordini di requisizione non sono stati emessi a fini di sicurezza, quindi devono essere annullati. Nel respingere la petizione, la corte ha stabilito che la presenza ebraica fa parte della dottrina della sicurezza regionale dell’esercito israeliano e che consentire agli ebrei di vivere lì non invalida la giustificazione per la confisca dell’appezzamento. L’opinione di maggioranza è stata redatta dal giudice Alex Stein.

L’ex stazione degli autobus appartiene in parte alla città di Hebron, che aveva preso in concessione il sito dal supervisore per le proprietà governative e abbandonate poste sotto l’Autorità Territoriale israeliana di Giudea e Samaria come affittuario protetto.

Nel 1983 fu emesso un ordine militare di requisizione della proprietà per costruire una postazione militare. Da allora l’ordinanza è stata impugnata più volte in tribunale. Ogni volta, l’esercito israeliano ha sostenuto che l’esproprio era basato esclusivamente su esigenze di sicurezza e le petizioni sono state respinte.

Trentacinque anni dopo, il governo decise che per costruire un nuovo quartiere – il quartiere Hizkiya, con 31 unità abitative – l’ordine di requisizione doveva essere ridotto e l’area di proprietà dell’Autorità Territoriale doveva esserne esclusa. Tale manovra amministrativa alla fine permise alla comunità ebraica di Hebron di presentare un piano edilizio per il nuovo quartiere che sarebbe sorto su terreni posti sotto l’egida dell’Autorità. Successivamente, l’ordine di requisizione militare è stato rinnovato per il resto dell’edificio di proprietà privata palestinese, su cui sono attualmente previsti edifici militari permanenti.

I firmatari della petizione, i proprietari delle terre e la città di Hebron hanno affermato che fare un’eccezione per una parte del terreno per costruire un nuovo quartiere ebraico ha rivelato il vero motivo degli ordini militari di confisca: il desiderio di espandere gli insediamenti.

Restituire la terra ai proprietari palestinesi, tuttavia, “danneggerebbe in modo significativo la sicurezza della popolazione israeliana nell’area e del reparto militare lì stanziato” ha affermato lo Stato israeliano. Il governo ha anche affermato di aver valutato la costruzione di strutture permanenti per la postazione militare sul terreno demaniale – dove oggi è previsto il nuovo quartiere – ma che è tecnicamente impossibile.

Per quanto riguarda le affermazioni dei firmatari secondo cui [il progetto, ndt.] di un quartiere ebraico sul sito è la prova che le necessità militari non sussistono, Stein ha scritto nella decisione del tribunale: “La presenza civile ebraica fa parte della dottrina della sicurezza regionale dell’ esercito israeliano nell’area. Questo perché la presenza di cittadini che detengono i beni confiscati contribuisce notevolmente al mantenimento della sicurezza in quella stessa area e facilita lo svolgimento della loro missione da parte dei militari”.

Stein ha citato due sentenze della fine degli anni ’70 che sono considerate centrali nel dibattito sulle colonie: le sentenze Beit El ed Elon Moreh. Entrambi questi casi riguardavano l’istituzione di comunità ebraiche su terreni palestinesi di proprietà privata sulla base di ordini militari.

La sentenza del 1978 ha consentito all’insediamento di Beit El, adiacente a Ramallah, di rimanere perché una presenza civile aiuta l’apparato di sicurezza dello Stato. La sentenza Elon Moreh, emessa pochi mesi dopo, ha riscontrato il contrario: la comunità ebraica dovrebbe essere rimossa dalle terre dei firmatari. Ciò era in parte dovuto al fatto che l’allora ministro della Difesa Ezer Weizman aveva votato contro l’istituzione di Elon Moreh. Questa sentenza ha dato vita a quella che viene chiamata la regola Elon Moreh, secondo la quale un ordine militare di confisca non può essere emesso per terreni palestinesi di proprietà privata per costruirvi una comunità ebraica.

In un’opinione dissenziente il giudice George Karra ha scritto che nel momento in cui parte della terra è stata esentata dall’ordine di confisca militare a causa della decisione del governo di costruirvi un quartiere civile, il comando militare non è più guidato da considerazioni esclusivamente di sicurezza. Pertanto, ha affermato, il tribunale avrebbe dovuto emettere un’ordinanza di motivazione – primo passo verso l’accoglimento del ricorso – che richiedesse allo Stato di spiegare il suo rifiuto di annullare l’ordine di confisca.

In un’opinione concorrente con Stein, il giudice Isaac Amit ha scritto che la vera domanda che sorge dalla petizione è perché le strutture militari permanenti vengono costruite sulla terra palestinese di proprietà privata piuttosto che sulla sezione in cui sarà costruito il nuovo quartiere ebraico. Ha ammesso di essere angosciato per questa questione, ma alla fine ha deciso di accettare la posizione dello Stato secondo cui quest’ultima sezione era stata giudicata strutturalmente inadatta per gli edifici militari progettati.

In ogni caso ha aggiunto che, anche se gli edifici militari fossero stati costruiti sul terreno previsto per il quartiere ebraico, l’esercito non avrebbe restituito l’altra parte ai palestinesi, poiché l’assunto è che consentire l’edificazione di case palestinesi vicino a edifici militari metterebbe in pericolo i soldati.

Samir Shihadia, l’avvocato che rappresenta il comune di Hebron nella causa, ha affermato che i firmatari “hanno dimostrato in tribunale che la presunta necessità militare per il cui la terra è stata confiscata da anni in realtà non è strettamente militare, ma è mescolato a considerazioni diverse, soprattutto se si tiene conto che parte di questa terra è stata destinata alla costruzione di una colonia. Quello che sta succedendo qui è il furto delle terre palestinesi”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)