Secondo gli osservatori Israele, dopo aver ucciso i fratellini Bibas, sta usando la tragedia per sabotare il cessate il fuoco a Gaza

Redazione di MEMO

19 febbraio 2025 – Middle East Monitor

Secondo gli osservatori la morte dei fratellini Bibas, uccisi oltre un anno fa nel corso di un bombardamento israeliano contro Gaza, viene sfruttata nel tentativo di sabotare l’attuale accordo per un cessate il fuoco. Hamas ha programmato di restituire i loro corpi giovedì ma, mentre Israele e i suoi alleati impongono una falsa narrazione sulla loro morte, gli osservatori segnalano che si vuole utilizzare questa tragedia per giustificare la ripresa del genocidio israeliano a Gaza.

La maggioranza della Commissione per gli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti USA ha scatenato polemiche affermando senza prove che: “Hamas ha giustiziato a sangue freddo una madre e i suoi due bambini,” contraddicendo i resoconti assodati secondo i quali Shiri Bibas, 32 anni, e i suoi figli, Kfir e Ariel, sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano nel novembre 2023.

Yarden Bibas, liberato da Hamas questo mese, aveva in precedenza attribuito al governo di Benjamin Netanyahu la responsabilità delle loro morti. In una dichiarazione del novembre 2023 aveva affermato che il primo ministro israeliano aveva bombardato e ammazzato sua moglie e i suoi due bambini.
È stato anche riferito che, raccontando la morte della famiglia Bibas, la
CBS è stata costretta ad ammettere che erano stati uccisi nel corso di attacchi aerei israeliani, non da Hamas.

Vari osservatori hanno fatto notare che il governo israeliano era a conoscenza della loro morte da 15 mesi, ma ha scelto di mantenere un alone di incertezza, forse per usare la tragedia per violare l’accordo sul cessate il fuoco. Hamas afferma di aver offerto in precedenza di restituire i corpi: “La resistenza aveva offerto di restituire le tre salme, ma il governo di occupazione aveva rifiutato di riceverli e sta ancora manovrando e negoziando.”

La provocatoria dichiarazione della Commissione secondo cui “Israele ha tutti i diritti di finire il lavoro e cancellare questi terroristi dalla faccia della terra” ha sollevato preoccupazioni per i tentativi di sabotare l’accordo sul cessate il fuoco che si avvicina alla fine della prima fase.

Anche Eylon Levy, ex portavoce israeliano, ha sostenuto falsità sulla famiglia Bibas: “Hamas sta ancora trattenendo in ostaggio due BAMBINI. Da circa dieci mesi! Spero che siano ancora vivi,” ha detto sui social media.

La falsa affermazione è stata respinta dagli attivisti. “Nel novembre 2023 Hamas aveva annunciato che Shiri, Ariel e Kfir Bibas erano stati uccisi nel corso di un attacco israeliano. La notizia era stata ampiamente diffusa anche dai media israeliani. La maggioranza della Commissione per gli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti USA ha delle prove a sostegno delle sue accuse?” ha detto Jeremy Scahill, un reporter di DropSiteNews.

Il giornalista di Gaza Muhammad Shehada ha fatto notare di aver messo in guardia per mesi sulla manipolazione della tragedia dei Bibas da parte di Israele. “Ho detto che sarebbe successo! L’ho detto un mese fa! Ho detto che il governo israeliano e i suoi alleati avrebbero usato la tragedia dei Bibas per far saltare l’accordo sul cessate il fuoco alla fine della prima fase. Il governo israeliano sa da 15 mesi che i Bibas sono morti e ha deliberatamente scelto di fingere che non sia così!”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Soldati israeliani hanno usato un ottantenne gazawi come scudo umano. Poi lo hanno ucciso

Illy Pe’ery 

16 febbraio 2025 – +972 Magazine

Alcuni soldati gli hanno messo una miccia esplosiva al collo e lo hanno obbligato a perlustrare edifici per otto ore. Quando è stato rilasciato un altro reparto lo ha ucciso.

Un ufficiale superiore della brigata Nahal dell’esercito israeliano ha legato una miccia esplosiva attorno al collo di un ottantenne palestinese e lo ha obbligato a fare da scudo umano, ordinandogli di perlustrare case abbandonate e minacciandolo di fargli saltare in aria la testa. Dopo averlo usato a questo scopo i soldati hanno ordinato all’uomo di scappare con sua moglie, ma dopo essere stati avvistati da un altro battaglione entrambi sono stati uccisi sul posto.

I soldati che hanno assistito alla scena hanno detto alla rivista israeliana d’inchiesta The Hottest Place in Hell [Il Posto Più Caldo dell’Inferno, pseudo-citazione dantesca riferita agli ingnavi, ndt.] che questo incidente è avvenuto a maggio nel quartiere di Zeitun, a Gaza City. Mentre perlustravano le case della zona alcuni soldati si sono imbattuti nella coppia di anziani nella loro abitazione, che hanno detto ai soldati arabofoni di non essere stati in grado di scappare nel sud di Gaza a causa delle loro difficoltà motorie; i figli erano già scappati e l’uomo aveva bisogno di un bastone per camminare.

“A quel punto il comandante ha deciso di utilizzarli come ‘zanzare’, ha spiegato un soldato in riferimento a una procedura rivelata di recente in base alla quale l’esercito obbliga civili palestinesi a servire come scudi umani in zone di conflitto per proteggere i soldati dall’essere colpiti o saltare in aria.

Alcuni soldati hanno tenuto la donna in casa mentre l’uomo, con il suo bastone, è stato fatto camminare davanti ai soldati del reparto. “É entrato in ogni casa prima di noi in modo che, se dentro ci fossero stati (ordigni esplosivi) o miliziani, sarebbe stato colpito lui al nostro posto,” ha spiegato un militare.

Secondo uno dei soldati, prima di iniziare la perlustrazione un ufficiale ha preso una miccia, utilizzata per collegare cariche esplosive, l’ha attaccata a un innesco esplosivo e l’ha girata attorno al collo dell’anziano “in modo che non potesse scappare, benché stesse camminando con un bastone. Gli è stato detto che se avesse fatto qualcosa di sbagliato o non avesse eseguito gli ordini il soldato dietro di lui avrebbe tirato il cavo e lui sarebbe stato decapitato.”

Dopo otto ore così i soldati hanno riportato a casa l’anziano e hanno ordinato a lui e a sua moglie di andarsene a piedi verso la “zona umanitaria” nel sud di Gaza. Secondo le testimonianze i soldati non hanno informato le forze di altre divisioni che si trovavano nei dintorni che una coppia di anziani stava per attraversare l’area. “Dopo 100 metri l’altro battaglione li ha visti e gli ha immediatamente sparato,” ha affermato un soldato. “Sono morti così, in strada.”

Come indicato anche da altre testimonianze raccolte da The Hottest Place in Hell, le regole d’ingaggio dell’esercito su quando aprire il fuoco a Gaza stabiliscono esplicitamente che chiunque si muova in una zona di combattimento dopo che sia passato il “tempo di evacuazione” definito è considerato un nemico combattente, anche quando si tratti di una coppia di anziani ottantenni. L’esercito israeliano lo nega, ma la procedura esiste.

Il mese scorso The Hottest Place in Hell ha evidenziato un altro caso di Procedura della Zanzara, sempre messa in atto dalla brigata Nahal. Secondo questo reportage, un palestinese che aveva ottenuto il permesso di rimanere in un edificio con i soldati è stato colpito a morte da un comandante che non era stato informato della sua presenza. In risposta all’articolo l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha affermato che l’incidente era stato indagato e che “la lezione era stata appresa”.[ vedi Zeitun, ndt]

In risposta a un’inchiesta di Haaretz dello scorso agosto che denunciava la Procedura della Zanzara, il portavoce dell’IDF ha affermato: “Le direttive e gli ordini dell’IDF vietano l’utilizzo di civili gazawi trovati nella zona per compiti militari che mettano deliberatamente in pericolo la loro vita. Gli ordini e le istruzioni dell’IDF a questo proposito sono stati chiariti alle truppe.” L’uso di civili come scudi umani è stato vietato anche dalla Corte Suprema israeliana durante la Seconda Intifada in seguito all’adozione da parte dell’esercito della tattica nota all’epoca come la “Procedura del Vicino”. Tuttavia alcuni soldati hanno testimoniato a The Hottest Place in Hell che, soprattutto dal 7 ottobre, “questa procedura è diventata di norma nell’esercito.”

“La Procedura della Zanzara è assolutamente istituzionalizzata ed è veramente una zona grigia all’interno dell’esercito,” ha affermato un soldato della brigata Nahal, spiegando che l’esercito tenta di nasconderla incolpando i soldati più giovani: “E’ un qualcosa che arriva come un ordine esplicito dal livello del comandante di battaglione in giù. Ma da qualche parte a livello del comando di brigata lo negano tassativamente. Quando iniziano i problemi attribuiscono la responsabilità a un livello di comando inferiore e dicono di non farlo.”

“Persino quando [le conclusioni] delle inchieste vengono pubblicate non c’è verso che l’IDF ammetta che si tratta di un ordine ufficiale,” ha spiegato un soldato. “Ma se chiedi a ogni soldato in prima linea che combatte a Gaza non ce n’è uno che ti dica che non succede. Non c’è alcun battaglione, almeno nell’esercito regolare, che possa onestamente dire di non aver usato questa pratica.”

L’uso di una miccia esplosiva come parte della Procedura della Zanzara non era ancora stato riportato. È possibile che sia avvenuto anche altrove, ma questo è stato un fatto estremo,” ha detto un soldato. Il portavoce dell’IDF ha risposto: “In seguito a un’indagine basata sull’informazione fornita da questa richiesta [di spiegazioni] sembra che il caso sia sconosciuto. Se si dovessero ricevere dettagli aggiuntivi si condurranno ulteriori accertamenti.”

Illy Pe’ery è una giornalista d’inchiesta e co-redattrice della rivista on line indipendente israeliana The Hottest Place in Hell.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




FOTO: Israele devasta i campi profughi in Cisgiordania

Wahaj Bani Moufleh

12 febbraio 2025 – +972

Le forze israeliane hanno sfollato 40.000 palestinesi da quattro campi profughi nella più grande operazione militare in Cisgiordania dalla Seconda Intifada.

Il 21 gennaio, appena due giorni dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco a Gaza, Israele ha lanciato una nuova grande operazione militare nella Cisgiordania occupata. Concentrata dapprima sul campo profughi di Jenin, l’Operazione muro di ferro si è poi allargata ad altri tre campi nel nord della Cisgiordania: Tulkarem, Nur Shams e Al-Far’a.

Queste incursioni, sostenute dalle forze aeree, sono intese a reprimere la resistenza armata palestinese che negli ultimi anni si è rafforzata nei campi profughi. Ma l’esercito israeliano ha anche provocato gravissimi danni alle infrastrutture civili: ha divelto strade, raso al suolo interi isolati a uso abitativo e sfollato forzosamente dalle loro case 40.000 persone. Si tratta, sia per scala che per intensità, della più grande operazione militare israeliana in Cisgiordania dai tempi della Seconda Intifada, conclusasi vent’anni fa.

Soldati israeliani avanzano per le strade del campo profughi di Tulkarem, 6 febbraio 2025. (Wahaj Bani Moufleh)

Israele dichiara di avere ucciso nelle ultime tre settimane più di 50 militanti palestinesi, ma il suo esercito ha ucciso anche diversi civili. Tra questi si contano anche una bambina di due anni, vicino a Jenin, due giovani donne di poco più di vent’anni nel campo di Nur Shams, una delle quali incinta di otto mesi, e un bambino di 10 anni a Tulkarem.

Saddam Hussein Iyad Rajab, il bambino di 10 anni, era arrivato il 28 gennaio dal villaggio di Kafr Al-Labad per fare visita ai parenti di Tulkarem quando un soldato israeliano gli ha sparato all’addome. “Saddam era in piedi di fronte alla casa mentre ci preparavamo alla preghiera”, ha raccontato suo padre Iyad a +972. “Nelle vicinanze non c’erano veicoli dell’esercito né cecchini o combattenti della resistenza. È uscito prima di me per andare a parlare a sua madre. Venti secondi dopo ho sentito le sue grida”.

Nel campo profughi di Nur Shams, Cisgiordania occupata, un operatore umanitario assiste una famiglia in fuga lungo una strada sterrata mentre i soldati israeliani osservano sullo sfondo, 10 febbraio 2025. (Wahaj Bani Moufleh)

Poiché da due anni la sua mobilità è limitata a causa di un infortunio sul lavoro, Iyad ha faticato a raggiungere suo figlio in fretta. “Mi ci è voluto un po’ per metterlo al riparo e portarlo in ospedale”, ha detto. Una settimana e mezza dopo, Rajab soccombeva alle sue ferite.

“Dopo il mio infortunio lo consideravo l’uomo di casa”, ha raccontato Iyad. “Mi aiutava sempre in tutto, mi accompagnava all’ospedale e alla moschea. Possa Dio avere pietà di lui”.

Soldati israeliani lanciano una granata stordente verso un gruppo di donne e bambini su una strada tra il campo di Nur Shams e quello di Tulkarem, Cisgiordania occupata, 9 febbraio 2025. (Wahaj Bani Moufleh)

Da quando il 27 gennaio Israele ha allargato l’assalto anche a Tulkarem, la stragrande maggioranza dei residenti è stata sfollata con la forza. Quelle famiglie adesso sono sparpagliate tra le case dei parenti, le scuole e varie strutture pubbliche, dove dipendono dall’aiuto delle autorità municipali e dei villaggi circostanti.

Ahmed Al-Dosh, che lavora per il Ministero dell’Istruzione a Tulkarem, ha una disabilità e si avvale di una sedia a rotelle per spostarsi. La distruzione delle infrastrutture del campo gli ha reso estremamente difficile lasciare la zona. “Quattro giovani mi hanno sollevato con la mia sedia a rotelle per aiutarmi ad andarmene” ha riferito a +972.

Ahmed Al-Dosh sulla sua sedia a rotelle al Centro culturale di Tulkarem, Cisgiordania occupata, 7 febbraio 2025. (Wahaj Bani Moufleh)

Oggi ha trovato rifugio con la sua famiglia presso il Centro Culturale di Tulkarem, insieme a una cinquantina di altri sfollati di ogni età. Lo spazio è organizzato in tre sezioni: una per le scorte di cibo, una per donne e bambini, una per gli uomini.

Mentre queste famiglie cercano di adeguarsi alla loro nuova realtà, i loro cuori rimangono nel campo, dove molte delle loro case sono ormai macerie e il loro futuro incerto. Al-Dosh è affranto per aver dovuto abbandonare i suoi uccelli e il suo gatto. “Sono sicuro che non li troverò vivi, ci penso a ogni pasto che consumo qui”, ha aggiunto.

Una strada principale distrutta dai bulldozer nel campo profughi di Jenin, Cisgiordania occupata, 10 febbraio 2025. (Ahmad Al-Bazz)

Più di 20.000 palestinesi sono stati sfollati dal solo campo di Jenin.

Nell’ultima settimana alcuni di loro hanno rischiato la vita per cercare di raggiungere le loro case e recuperare alcuni dei beni, come vestiti, cibo e documenti importanti che avevano lasciato mentre nel campo fervevano le attività dell’esercito israeliano. Se alcuni hanno avuto fortuna, altri sono stati arrestati dai soldati israeliani e i loro beni sono stati confiscati, mentre altri ancora si sono persino trovati sotto il fuoco delle armi.

Queste foto ci offrono una testimonianza, ancorché parziale, della distruzione in alcuni dei quartieri più esterni del campo assediato, ma i residenti riferiscono di devastazioni ancora più gravi più all’interno. Gli sfollamenti e i martirii si ripetono e l’occupazione continua a sradicare i palestinesi, lasciando dietro di sé ferite infinite.

Famiglie palestinesi fuggono dal campo profughi di Jenin dopo essere tornate a raccogliere gli effetti personali dalle loro case, Cisgiordania occupata, 10 febbraio 2025. (Ahmad Al-Bazz)

Wahaj Bani Moufleh è un fotografo originario della città palestinese di Beita, in Cisgiordania, ed è membro del collettivo Activestills. Per anni ha documentato le proteste contro la colonizzazione e l’occupazione israeliane nel suo villaggio. Il suo lavoro è stato pubblicato da diverse testate ed esposto in diversi paesi, tra cui una mostra personale al Museo WORM di Rotterdam, Olanda.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




“L’essenza del sogno sionista”: la storia dettagliata del dibattito sul trasferimento dei palestinesi

Ofer Aderet

12 febbraio 2025 – Haaretz

Donald Trump ha riportato nel dibattito pubblico una parola che un tempo era troppo scioccante per essere pronunciata. Si scopre che i piani di trasferimento per i palestinesi hanno radici profonde nella storia sionista.

Il piano di Donald Trump per svuotare Gaza dai suoi residenti, che ha già guadagnato l’appellativo di “Trumpsfer”, ha scatenato un putiferio riportando nel dibattito pubblico un termine che molti speravano appartenesse solo agli estremisti più radicali della società israeliana.

Le reazioni sono state varie, passando dal conduttore televisivo di destra Yinon Magal, che ha citato il Salmo 126:1: “Eravamo come coloro che sognano”, fino all’affermazione di Yair Golan secondo cui il trasferimento “è un’idea antitetica al giudaismo e al sionismo”, come ha scritto l’ex generale e leader del partito di sinistra Democrats su Haaretz. Dietro tutto questo si cela una storia interessante.

Quando gli israeliani sentono la parola “trasferimento”, pensano a Rehavam Ze’evi, il ministro del turismo di estrema destra e generale in pensione che credeva che la soluzione al conflitto israelo-palestinese fosse il “trasferimento degli arabi fuori dai confini di Israele” e che “questo dovrebbe essere detto apertamente e senza vergogna”. Ze’evi fu assassinato dai palestinesi nel 2001.

Le sue parole scatenarono un’ondata di indignazione, con richieste di rimuoverlo dalla direzione del Museo Eretz Israel di Tel Aviv e dal suo ruolo di riservista nellesercito. Ci furono persino richieste di processarlo per incitamento al razzismo e, “sulla base del diritto internazionale, per prevenire il crimine di genocidio.”

Shlomo Lahat, sindaco di Tel Aviv dal 1974 al 1993, prese le difese di Ze’evi, dichiarando che era “una persona perbene che dice quello che pensa. Ci sono un mucchio di bastardi che la pensano come lui e non hanno il coraggio di esprimere apertamente le proprie opinioni”.

Inoltre Ze’evi fece storcere il naso a qualcuno citando due fondatori del movimento sionista laburista. “Ho saputo dei [propositi sui] trasferimenti da [Yitzhak] Tabenkin e Berl Katznelson. Rispetto a loro sono un minimalista”, disse Ze’evi, che sarebbe stato presto eletto alla Knesset.

Prima di lui c’era stato Meir Kahane, membro della Knesset dal 1984 al 1988 finché il suo partito non venne escluso dalla corsa per la rielezione. “Trasferimento, allontanamento, volontario o no” era la soluzione di Kahane. “Con il pugno di ferro, senza paura, li espelleremo”.

Nel 1988, quando Kahane fu escluso e Ze’evi venne eletto, Shabtai Teveth, giornalista di spicco di Haaretz e biografo di David Ben-Gurion, scrisse per il giornale una serie di articoli dal titolo: “La metamorfosi del [concetto di] trasferimento nel pensiero sionista”. Teveth sosteneva che accenni al[l’idea di] trasferimento “baluginavano timidamente ai margini del sionismo” ed erano “idee poco elaborate” tra le “malattie infantili del sionismo”.

Ma le prime fonti da lui fornite parlavano da sole e, come ha scritto lo storico Benny Morris nel suo libro “Correcting a Mistake: Jews and Arabs in Palestine/Israel, 1936–1956” [Un errore da correggere: ebrei e arabi in Palestina/Israele, 1936-1956, ndt.], l’idea del trasferimento non è nata nel 1948. Ha radici profonde nel sionismo sin dalla fondazione del movimento nel XIX secolo.

Lo storico Tom Segev intervenne nel dibattito col suo libro “One Palestine, Complete: Jews and Arabs Under the British Mandate” [Una Palestina, integra: ebrei e arabi sotto il mandato britannico, ndt.]. Secondo lui nel movimento sionista prevaleva un forte consenso sul fatto che un trasferimento degli arabi fosse auspicabile e anche morale. Questo in sostanza era il sogno sionista, scrisse Segev.

Contrariamente a quanto Yair Golan ha scritto questa settimana su Haaretz Segev ritiene che il trasferimento sia radicato nell’ideologia sionista e sia stato reso necessario dal terrorismo arabo e dal rifiuto degli arabi di consentire al movimento sionista di fondare un Paese con una maggioranza ebraica.

Ebbene, questo è ciò che Theodor Herzl, il padre del sionismo moderno, scrisse nel suo diario nel 1895: “Cercheremo di deportare la popolazione senza un soldo oltre confine, procurandole un impiego nei Paesi di transito e negandole al contempo qualsiasi impiego nel nostro paese”.

Due anni dopo uno dei colleghi di Herzl, Israel Zangwill, visitò la Terra Santa. “Concluse che non c’era altra scelta che rimuovere gli arabi e trasferirli con la forza nei Paesi vicini”, scrisse Teveth nella sua rubrica su Haaretz. Come disse Zangwill nel 1904: “Dobbiamo essere pronti a espellerli dalla terra con la forza della spada, come fecero i nostri antenati con le tribù che la abitavano”.

Nel 1920 anche Teveth parafrasò la posizione di Zangwill: “Dobbiamo convincerli gentilmente a intraprendere un viaggio migratorio. Dopo tutto hanno a loro disposizione la penisola arabica con i suoi milioni di miglia quadrate”.

Teveth scrisse che due “grandi e devoti sionisti” avevano avuto un’idea simile, riferendosi a Nachman Syrkin (1868-1924): “La Terra di Israele, che è molto scarsamente popolata e dove oggi gli ebrei sono il 10% della popolazione, dovrebbe essere consegnata agli ebrei”, e a Aaron Aaronsohn (1876-1919) il quale propose che gli arabi della Palestina ottomana andassero a vivere in Iraq, terra molto più fertile. Scrisse: “si dovrebbe convincere il maggior numero possibile di arabi a emigrare”.

Yosef Sprinzak, presidente della Knesset dal 1949 al 1959, aveva 10 anni quando Herzl scrisse sul tema del trasferimento nel suo diario. Nel 1919, durante un’assemblea dei leader della comunità ebraica, Sprinzak disse: “Dobbiamo ottenere la Terra di Israele senza alcuna riduzione o restrizione, ma c’è un dato numero di arabi che vivono nella Terra di Israele ed essi avranno soddisfazione. Chiunque desideri coltivare coltiverà il suo appezzamento. Chiunque non desideri coltivarlo riceverà un risarcimento e cercherà la sua felicità in un’altra terra”.

Arthur Ruppin disse nel 1938: “Non credo nel trasferimento di individui. Credo nel trasferimento di interi villaggi”. Menachem Ussishkin aggiunse nello stesso anno che era disposto a difendere davanti a Dio e alla Società delle Nazioni il lato morale del trasferimento, e Ben-Gurion, che sarebbe diventato il primo ministro fondatore di Israele, disse che non riteneva il trasferimento in alcun modo immorale.

Il trasferimento venne discusso in pieno quando la Commissione Peel pubblicò il suo rapporto nel 1937. Le autorità britanniche istituirono la commissione nel 1936 dopo l’inizio della rivolta araba contro gli inglesi nella Palestina mandataria. La commissione propose di dividere il territorio in tre parti: uno Stato ebraico, uno arabo e una porzione, inclusa Gerusalemme, sotto il dominio britannico.

Ci fu una proposta di trasferimento, sia volontario che forzato, degli arabi dallo Stato ebraico, chiamato ufficialmente “scambio di popolazioni”, ma l’intenzione era quella di un trasferimento o un’espulsione di massa, scrive Morris.

Ben-Gurion aggiunse nel suo diario – come citato da Morris nel suo libro “Righteous Victims”[Vittime innocenti, ndt.] : “Il trasferimento forzato degli [arabi] dalle valli del progetto di Stato ebraico potrebbe darci qualcosa che non abbiamo mai avuto, nemmeno quando eravamo autonomi nell’epoca del primo e del secondo Tempio. Ci viene data un’opportunità che va al di là della più fervida immaginazione”.

Ben-Gurion vedeva il trasferimento della popolazione come un punto chiave del piano e aggiunse: “Con il trasferimento forzato [avremmo] una vasta area [per l’insediamento coloniale]. Io sostengo il trasferimento forzato. Non ci vedo nulla di immorale”.

Era convinto che in molte parti dello Stato non sarebbero stati possibili nuovi insediamenti coloniali senza il trasferimento dei contadini arabi. “Il potere ebraico, che cresce costantemente, aumenterà anche le nostre possibilità di portare avanti il trasferimento su larga scala”, disse Ben-Gurion nel 1937.

Nell’agosto di quell’anno disse al XX Congresso Sionista di emergenza di Zurigo: “Non vogliamo espropriare, ma un trasferimento [graduale] della popolazione [attraverso l’acquisto ebraico e l’allontanamento dei mezzadri arabi] è già avvenuto nella valle [di Jezreel], nello Sharon e in altri luoghi. … Ora dovrà essere effettuato un trasferimento di portata completamente diversa. … Il trasferimento è ciò che renderà possibile un programma di insediamento coloniale [ebraico] completo. Fortunatamente il popolo arabo ha vaste aree vuote [in Transgiordania e Iraq]. Il potere ebraico, in costante crescita, aumenterà anche le nostre possibilità di realizzare il trasferimento su larga scala”.

Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente di Israele, parlò in modo simile, cosa che possiamo dedurre dal suo ascendente sugli ascoltatori. Tra di loro c’era anche il caporedattore di Haaretz, Moshe Glickson, che dichiarò: “Ci sono degli entusiasti che credono che sia possibile allontanare centinaia di migliaia di arabi dallo Stato ebraico praticamente stando su una gamba sola”.

Gli archivi mostrano che non si trattava solo di dibattiti teorici. Negli anni ’30 il movimento sionista iniziò a elaborare un piano di trasferimento; istituì persino un comitato speciale per farlo. Il dibattito includeva la questione se il trasferimento sarebbe stato volontario, se sarebbero stati svuotati prima i villaggi o le città, a quale ritmo, dove sarebbero andate le persone e a quale costo economico.

Ben-Gurion propose che all’Iraq venissero pagati 10 milioni di sterline britanniche perché accogliesse 100.000 famiglie arabe. Weizmann si illudeva che il re Ibn Saud avrebbe accettato da 10 a 20 milioni di sterline per accogliere tutti gli arabi nella Palestina mandataria, un passaggio che sarebbe stato finanziato dagli Stati Uniti.

Ma la Commissione Peel, simile ad altre commissioni istituite dagli inglesi, non riuscì a trovare una soluzione. Ciò infranse le speranze sioniste di un trasferimento della popolazione araba sotto gli auspici britannici.

Anche la destra partecipò al dibattito. Nel 1940, Ze’ev Jabotinsky scrisse: “Il mondo si è abituato all’idea delle migrazioni di massa e ha iniziato ad apprezzarle. … Hitler per quanto odioso sia per noi ha dato a questa idea una buona reputazione nel mondo.”

Nel dicembre del 1944, verso la fine della Seconda guerra mondiale, il trasferimento ricevette un sorprendente sostegno, ancora una volta dai britannici. Il Partito Laburista adottò la seguente risoluzione durante la sua 43ª conferenza annuale: “Qui ci siamo fermati a metà strada, irresoluti tra politiche contrastanti. Ma sicuramente non c’è né speranza né significato in una ‘Casa Nazionale Ebraica’, a meno che non siamo disposti a permettere agli ebrei, se lo desiderano, di entrare in questa piccola terra in numero tale da diventare una maggioranza. C’erano forti ragioni per questo prima della guerra. Ora, dopo le indicibili atrocità del freddo e calcolato piano nazista tedesco per uccidere tutti gli ebrei in Europa, le ragioni sono diventate perentorie.

Anche qui, in Palestina, ci sono sicuramente delle ragioni, su base umanitaria e a favore di uno stabile insediamento coloniale, per trasferire la popolazione. Facciamo in modo che gli arabi siano incoraggiati a andarsene, come gli ebrei a trasferirvisi. Facciamo in modo che siano ben compensati per la loro terra e che il loro insediamento altrove sia attentamente organizzato e generosamente finanziato. Gli arabi sono proprietari di molti vasti territori; non devono pretendere di escludere gli ebrei da questa piccola area della Palestina, inferiore alla dimensione del Galles.

In effetti, dovremmo riesaminare anche la possibilità di estendere gli attuali confini palestinesi, tramite un accordo con l’Egitto, la Siria o la Transgiordania. Inoltre, dovremmo cercare di ottenere il pieno accordo e supporto sia del governo americano che di quello russo per la messa in atto di questa politica sulla Palestina.”

Nel 1944 Ben-Gurion disse che un trasferimento degli arabi sarebbe stato più facile rispetto a qualsiasi altra popolazione. Come scrive Morris, Ben-Gurion notò che c’erano molti paesi arabi nella regione e sostenne che gli espulsi avrebbero percepito un miglioramento della loro condizione.

Morris cita anche un commento del maggio 1944 di Moshe Sharett, che sarebbe diventato il secondo primo ministro di Israele: Il trasferimento può essere il coronamento di un’impresa, la fase finale di uno sviluppo politico, ma in nessun caso il punto di partenza. Una volta istituito lo Stato ebraico è molto probabile che il trasferimento degli arabi ne sia la conseguenza.

Yitzhak Gruenbaum, che sarebbe diventato il primo ministro degli interni di Israele, aggiunse: “Il ruolo degli ebrei è talvolta quello di spingere i gentili a cose che non sono ancora in grado di vedere… ad esempio, creare artificiosamente condizioni in Iraq che attirino gli arabi dalla Terra di Israele… Non vedo alcuna ingiustizia in questo, e nessun crimine”.

Eliyahu Dobkin, il capo del dipartimento dell’Agenzia ebraica dell’aliyah [immigrazione, letteralmente “ascesa”, ndt.] affermò che il nuovo Stato avrebbe avuto una grande minoranza araba, che avrebbe dovuto essere allontanata.

Il capitolo successivo del dibattito sul trasferimento della popolazione fu scritto durante la Guerra d’Indipendenza (di Israele, ndt.), quando circa 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi e divennero rifugiati. Come ha sostenuto Morris, è impossibile capire gli eventi del 1948, comprese le espulsioni di massa e l’impedimento del ritorno dei rifugiati, senza comprendere l’ideologia dei leader dell’Israele pre-Stato, per i quali l’idea del trasferimento era centrale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Opinione | Il 7 ottobre non è stata la prima volta che il sionismo ha abbandonato l’ostaggio assassinato Shlomo Mantzur

Avi Shlaim

12 febbraio 2025-Haaretz

L’ostaggio di origine irachena è stato sacrificato sull’altare del sionismo due volte: prima in Iraq e poi di nuovo al confine di Gaza.

Shlomo Mantzur, 86 anni, era il più anziano dei 251 ostaggi israeliani presi dai miliziani di Hamas durante il loro attacco omicida del 7 ottobre. Mentre la versione sionista degli eventi afferma che Mantzur è stato vittima due volte del feroce antisemitismo arabo, in realtà il movimento sionista stesso ha avuto un ruolo nelle sue disgrazie: prima mettendolo sulla linea del fuoco in Iraq nel 1951 e poi non proteggendolo nella sua casa nel kibbutz Kissufim negli ultimi anni della sua vita.

Mantzur era nato in Iraq nel 1938, sopravvisse al famigerato pogrom contro gli ebrei, il Farhud, nel 1941, ed emigrò con la sua famiglia in Israele all’età di tredici anni come parte della “Grande Aliyah” [emigrazione degli ebrei originari di Paesi musulmani in Israele, ndt.] nel 1951. Non ho idea di cosa pensasse del trasferimento. Nel 1950 avevo cinque anni quando mi trasferii con la mia famiglia da Baghdad e sicuramente ci sentivamo arruolati nel progetto sionista contro la nostra volontà.

Il Farhud, il massacro degli ebrei iracheni nel giugno 1941, è comunemente citato dagli storici sionisti come prova del perenne antisemitismo arabo e musulmano. Ma il Farhud era l’eccezione piuttosto che la norma.

Era chiaramente una manifestazione di antisemitismo, ma era anche il prodotto di altre forze, in particolare della politica imperiale britannica che trasformò gli ebrei in capri espiatori. Furono uccisi 165 ebrei, donne ebree furono violentate e le case e i negozi degli ebrei furono saccheggiati. Ma dopo il Farhud la vita ebraica in Iraq riprese gradualmente il suo corso normale senza questo violento assalto ai cittadini ebrei di Baghdad si ripetesse.

Il vero punto di svolta nella storia ebraica irachena non fu il 1941, ma il 1948, quasi un decennio dopo, con la fondazione dello Stato di Israele e l’umiliante sconfitta araba nella guerra per la Palestina.

Nel marzo 1950 il governo iracheno approvò una legge che consentiva agli ebrei, per un periodo limitato di un anno, di lasciare il paese legalmente con un visto di sola andata. Senza altri passaporti l’unico Paese in cui potevano andare era Israele, con una valigia e cinquanta dinari. Le organizzazioni sioniste organizzarono per loro il trasporto aereo, prima via Cipro e poi direttamente da Baghdad a Tel Aviv.

Nel 1950, c’erano circa 135.000 ebrei in Iraq; alla fine del 1952, circa 125.000 di loro finirono in Israele nei ma’abarot, o campi di transito. Abbiamo lasciato l’Iraq come ebrei e siamo arrivati ​​in Israele come iracheni. C’erano fiorenti comunità ebraiche in molte parti del mondo arabo, ma la comunità ebraica in Iraq era la più antica, la più prospera e la più fortemente integrata nella società locale.

Abbiamo perso la nostra considerevole ricchezza, il nostro elevato status sociale e il nostro fiducioso senso di orgoglio per la nostra identità di ebrei iracheni. Per noi l’Aliyah in Israele non ha comportato un’ascesa, ma una ripida “yerida”, o discesa, ai margini della società israeliana. Una volta in Israele siamo stati sottoposti a un sistematico processo di de-arabizzazione: siamo stati spruzzati con insetticida DDT e catapultati in un paese alieno, dominato dagli ashkenaziti [ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndt.].

La principale narrazione sionista attribuisce la responsabilità dell’esodo ebraico iracheno all’endemico antisemitismo arabo. Il neonato Stato di Israele venne eroicamente in soccorso offrendo agli ebrei arabi un rifugio sicuro.

La realtà era più complessa. È vero che la causa principale dell’esodo fu l’ostilità diffusa a livello popolare e la persecuzione degli ebrei da parte del governo iracheno a livello ufficiale dopo la prima guerra arabo-israeliana. Nonostante questa persecuzione, solo alcune migliaia di ebrei scelsero di rinunciare alla loro cittadinanza irachena dopo l’approvazione della legge del 1950.

Il vero impulso furono cinque attentati in locali ebrei a Baghdad nel 1950 e nel 1951, che alimentarono incertezza e paura accelerando l’esodo.

Le voci persistenti secondo cui il Mossad avrebbe avuto un ruolo nel piazzare queste bombe alimentarono il risentimento degli immigrati ebrei iracheni contro il loro nuovo Stato. Israele negò categoricamente queste voci e due commissioni d’inchiesta assolsero Israele da qualsiasi coinvolgimento. Questa svolta nella storia ebraica irachena mi ha affascinato fin da quando ero adolescente a Ramat Gan, una città a est di Tel Aviv. Nel 2023 ho pubblicato un’autobiografia dal titolo “Three Worlds: Memoirs of an Arab-Jew” (“Tre mondi: memorie di un ebreo arabo”). I miei tre mondi sono Baghdad, Ramat Gan e Londra.

Nel corso della ricerca per questo libro mi sono imbattuto in due fonti di prove che indicavano chiaramente il coinvolgimento israeliano nelle bombe che contribuirono ad accelerare l’esodo. Una fonte era Yaacov Karkoukli, un anziano amico di mia madre che era stato un membro della rete segreta sionista a Baghdad.

Karkoukli mi raccontò nei dettagli il suo lavoro, insieme ai suoi compagni, nella falsificazione di documenti, nel pagamento di tangenti a funzionari e nell’incoraggiamento all’emigrazione in Israele, prima illegalmente e poi legalmente. Uno dei suoi colleghi, un avvocato e ardente sionista di nome Yusef Ibrahim Basri, nel 1950-1951 fu responsabile di tre dei cinque attentati dinamitardi di locali ebraici nella capitale irachena. Karkoukli mi diede anche una pagina di un rapporto della polizia di Baghdad che indicava Basri come il principale colpevole e forniva dettagli del suo interrogatorio sulle sue attività terroristiche. Basri fu processato e condannato a morte per impiccagione. Le sue ultime parole furono “Lunga vita allo Stato di Israele!”

Lo stesso Karkoukli era un convinto sionista di destra che mirava a consolidare e rafforzare il neonato Stato ebraico a qualsiasi costo. Mi disse con orgoglio che il referente di Basri era un ufficiale dell’intelligence israeliana di nome Max Binnet, di stanza a Teheran. Nel 1954, Binnet fu coinvolto nel famigerato Affare Lavon, in cui reclutò ebrei egiziani in una rete di spie e sabotaggi per creare ostilità tra le potenze occidentali e il regime di Nasser. Piazzarono bombe in luoghi pubblici e negli uffici informazioni degli Stati Uniti. Il piano fallì disastrosamente: tutti i membri della rete furono catturati, processati e condannati, e lo stesso Binnet si suicidò in prigione.

Come le bombe a Baghdad, questa fu un’operazione sotto copertura. Fu un esempio di ciò che Shalom Cohen, il vicedirettore iracheno della rivista Haolam Hazeh, definì “Sionismo crudele”. E, come le bombe a Baghdad, alimentò il sospetto musulmano verso gli ebrei che vivevano in mezzo a loro e contribuì a trasformare gli ebrei da pilastro della società irachena ed egiziana in una potenziale quinta colonna.

Il movimento sionista, nel suo disperato bisogno di Aliyah, dopo che le armi tacquero nel 1949, mise ebrei come Shlomo Mantzur e la mia famiglia in pericolo nella nostra patria araba. Il governo israeliano di estrema destra guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu ha tradito Mantzur una seconda volta verso la fine della sua vita, abbandonandolo alle tenere attenzioni dei miliziani di Hamas il 7 ottobre. Fu rapito dalla sua casa nel kibbutz Kissufim e probabilmente ucciso all’arrivo nella Striscia di Gaza, dove il suo corpo giace ancora oggi.

Questo governo sostiene che Israele è l’unico posto sicuro per gli ebrei in un mondo infestato di antisemitismo. La triste ironia è che Israele è diventato oggi il posto meno sicuro al mondo per gli ebrei a causa della sua dipendenza dall’occupazione e dall’oppressione dei palestinesi. Israele ha avuto un ruolo nell’incitamento all’antisemitismo negli anni ’40 e il governo Netanyahu continua oggi ad alimentare questi terribili episodi in tutto il mondo. Questo governo non si vergogna di accogliere antisemiti come l’ungherese Viktor Orban perché sono filo-israeliani. Come Theodor Herzl aveva previsto, “gli antisemiti saranno tra i nostri più forti sostenitori”.

Avi Shlaim è professore emerito di relazioni internazionali all’Università di Oxford. È autore di “The Iron Wall: Israel and the Arab World” [Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo] e di “Three Worlds: Memoirs of an Arab-Jew” [Tre mondi: memorie di un ebreo arabo]. L’edizione in ebraico di questo libro sarà pubblicata da Am Oved nei prossimi mesi.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il nostro film gareggerà agli Oscar. Ma qui a Masafer Yatta ci stanno ancora eliminando

Basel Adra

10 febbraio 2025 – +972 Magazine

Mentre il mondo guarda il film ‘No other land’ i coloni israeliani aggrediscono e bruciano i nostri villaggi e i soldati ci arrestano, ci fanno violenza e demoliscono le nostre case.

Durante le riprese di “No other land” – il nostro documentario sulla lotta e la resilienza degli abitanti palestinesi di Masafer Yatta di fronte ai tentativi di Israele di espellerci – si riproponeva una sola domanda: ci sarà qualcuno che lo guarderà? Importerà a qualcuno?

Dal momento in cui il film ha debuttato a Berlino l’anno scorso la risposta è diventata chiara. Migliaia di messaggi di solidarietà, ricerche su come vederlo e inviti da festival cinematografici di tutto il mondo hanno dimostrato che vi era una voglia travolgente di ascoltare la nostra storia. E il mese scorso è stato addirittura nominato per un Oscar.

È un risultato formidabile – non solo per noi registi, ma per gli attivisti, gli amici e i compagni nella lotta, che passano lunghe ore sul campo, affrontando violenze e arresti nella lotta contro l’oppressione e la colonizzazione. È anche un riconoscimento per gli avvocati che perseverano nei tribunali israeliani, determinati a garantire ogni mezzo per aiutare i palestinesi a rimanere sulla loro terra all’interno di un sistema concepito per legittimare l’occupazione.

Ma prima e soprattutto è una vittoria per la gente di Masafer Yatta, un insieme di piccoli villaggi nella punta meridionale della Cisgiordania occupata, la cui resilienza riflette il suo incrollabile impegno nei confronti della propria terra. Mentre l’occupazione cerca di cancellare la loro esistenza, la loro risolutezza continua a spingerci a resistere, documentare e lottare per la giustizia.

Tuttavia, nonostante il sensazionale successo del film nei festival e tra i giornalisti e il pubblico di tutto il mondo, la situazione qui sul campo sta rapidamente peggiorando e il futuro appare cupo. Negli ultimi 16 mesi i coloni e i soldati israeliani si sono avvantaggiati del clima di guerra per ridisegnare la realtà a Masafer Yatta a favore dei coloni e dei loro avamposti, intensificando gli sforzi per espellerci dalla nostra terra. Anche mentre sto scrivendo l’esercito israeliano sta compiendo un’importante operazione di demolizione nella comunità di Khalet-A-Daba, abbattendo case, gabinetti, pannelli solari e alberi.

Anche se questo articolo non può ragionevolmente dar conto di tutti i recenti attacchi o atti di spossessamento contro gli abitanti palestinesi, volevo evidenziare alcuni dei più notevoli incidenti delle ultime settimane, per mostrare che, mentre noi stiamo ricevendo un riconoscimento internazionale, la nostra concreta realtà resta una lotta quotidiana contro la cancellazione.

Nulla di ciò che fanno mi costringerà a lasciare questo luogo’

Khaled Musa Abdel Rahman Al-Najjar, di 72 anni, vive con i 10 membri della sua famiglia nella comunità di Oawawis. Per la maggior parte delle notti rimane sveglio per paura di attacchi dei coloni. “L’insediamento di Mitzpe Ya’ir è ad un chilometro a sud est della nostra comunità e dopo l’inizio della guerra a ottobre 2023 è stato creato un avamposto illegale a 400 metri di distanza”, mi dice. “I coloni hanno anche costruito una struttura di legno ad appena 200 metri dalla mia casa, consentendogli una chiara vista su di essa.”

Il 3 gennaio Al-Najjar era in casa quando ha sentito un cane fuori abbaiare forte poco dopo le 3 del mattino. “Ho afferrato la mia torcia elettrica e sono andato a controllare il mio asino, che avevo legato (vicino alla casa) per timore che i coloni potessero rubarlo. Ma non ho visto nulla per cui sono tornato dentro.”

Dieci minuti dopo ha nuovamente sentito abbaiare. “Sono tornato fuori e ho improvvisamente visto un colono avvicinarsi a me”, racconta Al-Najjar. “Ha detto ‘Vieni qui’ e ha cercato di afferrare la mia torcia, ma io l’ho spinto via. Allora altri tre coloni mascherati hanno iniziato a correre verso di me, brandendo bastoni.

Ho cominciato a gridare chiedendo aiuto, ma nessuno mi sentiva”, continua. “Il primo colono che avevo visto mi ha colpito il braccio facendomi cadere la torcia dalla mano. Gli altri l’hanno raggiunto gettandomi a terra e colpendomi su tutto il corpo finché ho iniziato a perdere conoscenza. È stato come se fossi caduto dentro un vespaio.” 

Dopo parecchi minuti di aggressione i coloni sono andati via, lasciando Al-Najjar a terra sanguinante. “Ho raccolto le mie forze e sono tornato dentro casa, con il sangue che mi colava dalla testa e dalla fronte. Non riuscivo a parlare.” Poco dopo sono arrivati degli attivisti internazionali ed hanno condotto Al-Najjar ad un’ambulanza che lo ha portato in un ospedale nella vicina città di Yatta.

Dopo le prime cure Al-Najjar è stato trasferito in un ospedale più grande ad Hebron, dove un’ecografia ha rivelato un’emorragia cerebrale. “Sono stato ricoverato in terapia intensiva in condizioni critiche”, dice. “Due giorni dopo sono stato dimesso, ma sono ancora convalescente da questa brutale aggressione.”

Non è stata la prima volta che Al-Najjar è stato attaccato dai coloni. Nel 2001 un colono gli ha sparato al ventre usando un fucile prestatogli da un soldato israeliano. Gli restano le cicatrici ancora adesso.

Eppure, nonostante le sue gravi ferite e i reiterati attacchi, Al-Najjar resta indomito. “Nulla di ciò che fanno mi costringerà a lasciare questo luogo”, mi dice mentre gli do un passaggio di ritorno da Yatta il giorno dopo la dimissione dall’ospedale. “Tutto ciò che voglio è vedere i miei nipoti e passare del tempo con loro a casa.”

Con tutta la disperazione che proviamo e la mancanza di speranza, sono persone come Khaled Al-Najjar, che rifiutano di lasciare la loro terra nonostante subiscano brutali aggressioni, che ci spingono a continuare a resistere, per quanto ci sentiamo impotenti.

Terrorismo dei coloni al servizio del furto di terre

Dal 7 ottobre i coloni hanno costruito almeno otto nuovi insediamenti in diverse zone di Masafer Yatta. Nel villaggio di Tuba i coloni dell’avamposto illegale di Havat Ma’on hanno creato un nuovo avamposto non residenziale – consistente in altalene e una bandiera israeliana – a soli 100 metri dalle case della famiglia Awad, dove si radunano frequentemente prima di provocare e attaccare gli abitanti palestinesi.

Nel pomeriggio del 25 gennaio il ventiseienne Ali Awad era seduto nella sua jeep parcheggiata vicino alla casa della sua famiglia quando ha visto sei coloni mascherati che correvano verso di lui. Uno aveva un fucile, un altro una bottiglia di benzina. “Volevo mettere in moto la macchina e scappare, ma poi ho visto il mio cuginetto e i miei anziani nonni”, racconta. “Sono uscito dalla macchina e sono andato verso i bambini per spostarli dalla casa. Poi ho sentito il vetro andare in frantumi.”

Quando ha guardato verso la sua macchina Awad ha visto che ne usciva del fumo. I coloni le avevano dato fuoco. “Sapevano che usavo portare i bambini a scuola e trasportare gli abitanti in città per le loro necessità, da quando l’esercito ha bloccato la strada normale (per i veicoli non fuoristrada)”, spiega.

Dopo aver incendiato la jeep di Awad i coloni hanno spostato l’attenzione sul magazzino adiacente alla sua casa, che conteneva 10 tonnellate di cibo per animali e hanno dato fuoco anche a quello. “Per fortuna il fuoco non si è propagato”, mi dice Awad.

Ma la situazione è presto ulteriormente peggiorata. Uno dei coloni è entrato con la forza nella casa dello zio di Awad, Mahmoud, mentre i suoi cuginetti – Jouri di 6 anni e Jude di 9 – erano all’interno. “L’attacco è durato circa 10 minuti”, racconta Awad. “Il colono ha frantumato il vetro in cucina, ha distrutto due armadi ed ha mischiato le scorte di farina e riso nella dispensa. Ha anche rovesciato sul pavimento un contenitore di 100 chili di yogurt e spaccato un lavandino.”

Più tardi la famiglia ha scoperto che anche i bambini potevano essere stati aggrediti. “Jouri aveva una visibile traccia di un colpo sulla schiena, mentre Jude è stato colpito al braccio destro”, dice. Awad ha sporto denuncia alla polizia israeliana sull’incidente, ma finora non ha ricevuto riscontro.

Quattro giorni dopo, mentre la famiglia si stava ancora riprendendo dal precedente attacco, un pastore colono, accompagnato dalla polizia israeliana e da soldati, è arrivato di mattina al villaggio con il suo gregge ed è entrato nel terreno agricolo di proprietà palestinese.

Mi sono svegliato e c’era un intero esercito di fronte a casa mia”, racconta Awad. È risultato che il colono ha sostenuto che alcuni abitanti di Tuba lo avevano attaccato e gli avevano rubato il telefono. Ma, nonostante che Awad non fosse nemmeno tra coloro che il colono aveva accusato, è stato arrestato dall’esercito insieme ad altri quattro abitanti.

Durante l’arresto i soldati mi hanno umiliato”, mi dice Awad. “Mi hanno gettato con la faccia a terra sulla jeep militare. I soldati mi stavano intorno e uno di loro mi ha tenuto il piede sulla schiena durante tutto il viaggio. La mano destra mi sanguinava per quanto mi avevano stretto le manette.”

Awad è rimasto ammanettato per ore prima di essere trasferito alla stazione di polizia della colonia di Kiryat Arba per l’interrogatorio. Lui e altri due arrestati sono stati rilasciati più tardi nello stesso giorno, mentre altri due, compreso lo zio di Awad, Khalil, sono stati trattenuti per diversi altri giorni prima di essere rilasciati.

Mentre i coloni attaccano, i soldati stanno a guardare

All’ombra della guerra di Israele contro Gaza, l’esercito ha cominciato a mettere in atto nuove restrizioni sui proprietari di terreni in Cisgiordania, obbligandoli a ottenere un permesso dall’Amministrazione Civile (ente governativo israeliano che si occupa della Cisgiordania, ndtr.) prima di ogni uscita nei loro terreni agricoli. In molti casi i coloni entrano illegalmente in questi terreni, mentre i proprietari palestinesi ne restano esclusi.

Nel villaggio di Oawawis l’esercito ha concesso ai proprietari dei terreni, compresa la famiglia Hoshiyah, il permesso di accedere ai loro campi il 14 gennaio, ma poi ha annullato il permesso senza spiegazioni solo 10 minuti prima che loro incominciassero a lavorare. Una settimana dopo, il 22 gennaio, finalmente l’esercito ha permesso alla famiglia di accedere alla sua proprietà.

Nelle prime ore del mattino di quel giorno la famiglia ha preso i due trattori ed è andata ad arare la propria terra, ma presto ha incontrato i coloni. “Ero vicino a casa mia intorno alle 8,30 quando ho visto un gruppo di circa 30 coloni provenienti da Susya, Mitzpe Yair e da avamposti vicini correre verso la terra degli Hoshiyah per impedire ai trattori di arare”, racconta Taleb Al-Nu’amin, un abitante del luogo.

Il guidatore del trattore si è velocemente ritirato verso Oawawis per evitare i coloni, alcuni dei quali erano mascherati ed armati di bastoni ed altre armi”, continua. “Uno dei coloni ha tagliato le gomme di uno dei trattori con un coltello, costringendo il guidatore a fuggire verso Yatta, mentre l’altro è riuscito a nascondere il suo trattore tra le case della comunità.”

Le forze dell’esercito e il personale dell’Amministrazione Civile che erano presenti sul luogo “non hanno fatto niente per intervenire”, ha sottolineato Al-Nu’amin. “Mentre noi chiamavamo la polizia israeliana e la informavamo dell’incidente, i coloni hanno preso un gregge di pecore e lo hanno fatto entrare nei nostri campi di grano. Io, i miei figli e altri abitanti del villaggio abbiamo gridato ai coloni di portare via le pecore, ma gli agenti della polizia di frontiera ci hanno impedito di avvicinarci a loro.” 

Dopo un po’ gli agenti di polizia hanno fatto uscire i coloni dalla zona e sono andati via. Ma alcuni minuti dopo circa 15 coloni sono tornati, uno con un fucile e gli altri con dei bastoni. “Hanno iniziato a lanciarci delle pietre e alcuni palestinesi hanno risposto rilanciando le pietre per proteggere le loro case”, dice Al-Nu’amin. “Io ho ripetutamente chiamato la polizia che alla fine ha detto di essere per strada, ma non è mai arrivata.”

I coloni hanno presto raggiunto i proprietari dei terreni e le loro famiglie. “Mio nipote, il 21enne Nour Al-Din Abdul Aziz Abu Arama, è stato colpito in fronte da una pietra che ha provocato un forte sanguinamento”, dice Al-Nu’amin. “Jibreel Abu Aram, di 65 anni, è stato colpito alla gamba destra. Un altro abitante, Jaafar Nu’aman, di 29 anni, è stato colpito dietro alla testa ed è stato asfissiato dallo spray al peperoncino usato da uno dei coloni.”

Jibreel, la cui casa è stata demolita l’anno scorso, è stato in seguito arrestato in casa sua ed è tuttora in prigione. Le ferite di Nour Al-Din – una frattura alla testa e un’emorragia cerebrale – hanno richiesto un intervento chirurgico il giorno seguente. Attualmente è convalescente a casa.

Caos autorizzato dallo Stato

Il 2 febbraio intorno alle 8 del mattino, mentre ero a casa, ho ricevuto una telefonata che diceva che i coloni stavano attaccando il villaggio di Susiya. Ho radunato in fretta alcuni amici e siamo andati là in macchina il più velocemente possibile.

Quando siamo arrivati abbiamo saputo che decine di coloni erano calati sulla casa del mio amico Nasser Nawajah, bersagliandola di pietre mentre la sua famiglia terrorizzata era dentro. Hanno fracassato la sua auto, tagliato le gomme coi coltelli e poi sono andati alla casa di suo fratello, dove hanno perforato il serbatoio dell’acqua.

Dopo che quei coloni se ne sono andati altri 15 sono usciti dalle auto che arrivavano dal vicino insediamento ebraico, Susya. Mentre si lanciavano verso di noi Nawajah ha chiamato la polizia – che era stata già avvisata almeno 15 minuti prima, ma doveva ancora arrivare. Alcuni coloni hanno lanciato pietre nella nostra direzione, mentre altri prendevano di mira una casa vicina fracassando un’auto parcheggiata, distruggendo la videocamera di sicurezza e bersagliando di sassi l’edificio. All’interno la famiglia terrorizzata ha sprangato la porta e ha gridato aiuto.

In mezzo alla confusione io e i miei amici abbiamo cercato di documentare quanto più potevamo. Alla fine, dopo mezz’ora, è arrivata una macchina della polizia e i coloni si sono ritirati. Abbiamo acceso le nostre torce elettriche e abbiamo gridato all’agente di arrestarli, ma lui non ha fatto niente fino a quando loro non erano già ritornati all’avamposto. Mentre lui andava a cercarli loro erano già scappati.

Una delle auto dei coloni è rimasta parcheggiata nella strada, abbandonata. Abbiamo chiesto all’agente di perquisirla o confiscarla, ma lui si è rifiutato.

Nel frattempo nel vicino villaggio di Umm Al-Khair i coloni hanno usato dei bulldozer per scavare proprio vicino alle case palestinesi e al centro della comunità locale, che dal 2 febbraio include un giardino infantile. Secondo il capo del consiglio regionale Har Hevron intendono costruire un parco per soli coloni all’interno del villaggio palestinese.

Lo stanno facendo col pretesto che si tratta di “terra dello Stato”, nonostante il fatto che il terreno sia stato di proprietà degli abitanti palestinesi per decenni. Questo progetto è un chiaro esempio di come lo Stato israeliano utilizza l’espansione delle colonie per soffocare le comunità palestinesi in questa zona.

Per molti anni Israele ha tentato di nascondere l’aspetto brutale dell’occupazione dietro una facciata “democratica”. Usando diversi ambigui concetti giuridici come “costruzione illegale” (su una terra occupata illegalmente), ha cercato di demolire e cancellare intere comunità palestinesi dalle terre su cui erano esistite per decenni, se non per secoli.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha affermato, in risposta alle domande di +972, di non essere a conoscenza degli incidenti citati nell’ articolo e che le violazioni della legge da parte di Israele cadono sotto la giurisdizione della polizia israeliana. La polizia non ha risposto alle domande di +972 riguardo a nessuno degli incidenti.

Basel Adraa è un attivista, giornalista e fotografo del villaggio di a-Tuwani nelle colline a sud di Hebron.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




“Umiliante e doloroso”: testimonianze dalle evacuazioni di massa nella Cisgiordania settentrionale  

Qassam Muaddi  

11 febbraio 2025 Mondoweiss

L’evacuazione forzosa di oltre 40.000 persone nella Cisgiordania settentrionale sta riproponendo scene viste a Gaza e alimenta il timore di una pulizia etnica. “La cosa più importante è restare a casa nostra”, dice a Mondoweiss una residente del campo profughi di al-Far’a

Israele ha esteso la sua offensiva nella Cisgiordania settentrionale dal campo profughi di Jenin ai campi profughi di Nur Shams a Tulkarem e di al-Far’a a Tubas. Denominato “Operazione Muro di Ferro”, secondo una dichiarazione dell’UNRWA di lunedì, l’attacco israeliano è in corso da tre settimane, ha ucciso almeno 25 palestinesi ferendone oltre 100 e costringendo 40.000 persone a lasciare le loro case. “Lo sfollamento forzato delle comunità palestinesi nella Cisgiordania settentrionale sta aumentando a un ritmo allarmante”, ha affermato l’UNRWA. “L’uso di attacchi aerei, bulldozer blindati, esplosioni controllate e armi avanzate da parte delle forze israeliane è diventato una cosa normale, una ricaduta della guerra a Gaza”.

La settimana scorsa le forze israeliane hanno fatto esplodere 20 edifici residenziali nel campo profughi di Jenin, una delle più grandi demolizioni in Cisgiordania degli ultimi anni. I residenti locali e le fonti dei media hanno paragonato l’effetto della distruzione alla strategia della “cintura di fuoco” impiegata a Gaza da Israele, che prevede il bombardamento concentrato e ripetuto di piccole aree che distrugge interi isolati residenziali. L’offensiva di Israele in Cisgiordania è in corso da metà gennaio, di fatto l’invasione militare più lunga e di più ampia portata dalla Seconda Intifada. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha affermato che l’offensiva si estenderà al resto della Cisgiordania con le invocazioni dei politici israeliani di estrema destra di trasferire la guerra da Gaza alla Cisgiordania prima di annetterla ufficialmente. Si prevede che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump farà presto un annuncio sulla possibilità che gli Stati Uniti sostengano una simile mossa.

“È stato umiliante e doloroso”

Come conseguenza i palestinesi della Cisgiordania hanno visto le loro vite paralizzate e sconvolte dalla repressione israeliana. Le chiusure e i blocchi stradali israeliani sono diventati una pratica quotidiana, rendendo gli spostamenti tra città e paesi carichi di incertezze per centinaia di migliaia di palestinesi. Questi fatti hanno trasformato la Cisgiordania in una zona di guerra, soprattutto nei campi profughi. “Prima di essere costretti a lasciare la nostra casa con mio marito e i miei figli abbiamo trascorso due giorni senza acqua, poiché le forze di occupazione hanno tagliato l’acqua all’intero campo”, ha detto a Mondoweiss Nehaya al-Jundi, residente del campo profughi di Nur Shams e direttrice del locale Centro di Riabilitazione per Disabili.

“I soldati dell’occupazione andavano di casa in casa e costringevano la gente ad andarsene, mentre io e la mia famiglia abbiamo aspettato due giorni che arrivasse il nostro turno”, ha continuato al-Jundi. “La mia vicina, Sundos Shalabi, incinta all’ottavo mese, ha deciso con suo marito di andarsene domenica per paura di dover partorire durante l’assedio del campo”. La straziante tragedia di Sundos Shalabi ha fatto notizia all’inizio di questa settimana. “Suo marito stava guidando sulla strada verso la città di Bal’a, appena fuori dal campo profughi, quando i soldati dell’occupazione hanno aperto il fuoco contro l’auto”, ha raccontato al-Jundi. “Lui è stato ferito e ha perso il controllo, quindi l’auto si è ribaltata e Sundos e il suo bambino non ancora nato sono rimasti entrambi uccisi. Suo marito è ancora in terapia intensiva nell’ospedale di Tulkarem”.

“Lunedì i soldati hanno demolito il muro esterno della mia casa, poi con gli altoparlanti hanno invitato tutti i residenti del quartiere ad andarsene”, ha continuato al-Jundi. “Ho preso un po’ di cose necessarie e qualche cambio di vestiti, poi abbiamo chiuso a chiave le porte di casa e ci siamo uniti agli altri residenti in strada, mentre i soldati dell’occupazione separavano gli uomini dalle donne”. “Ci hanno perquisito e interrogato, e ci hanno fatto andare dieci alla volta in una certa direzione”, ha ricordato. “Camminavamo per le strade piene di buche e distrutte in mezzo a pozze di acqua piovana. Alcuni inciampavano e cadevano, uomini e donne, bambini e anziani. Alcuni piangevano. È stato molto umiliante e doloroso”.

La cosa più importante è restare nella nostra casa”

Dopo aver bloccato per dieci giorni gli ingressi del campo profughi ad al-Far’a a Tubas l’esercito israeliano ha intensificato le sue operazioni. Martedì i residenti hanno riferito che le forze israeliane stavano iniziando a demolire negozi e case all’interno del campo.

Avevamo sperato che oggi l’occupazione si sarebbe ritirata dal campo, ma siamo rimasti senza parole nel vederli demolire e in alcuni casi far esplodere i negozi nelle strade interne, senza sosta dalla mattina”, ha detto martedì a Mondoweiss Lara Suboh, una residente di al-Far’a di circa venti anni.

Per dieci giorni non abbiamo avuto acqua, perché la prima cosa che hanno fatto le forze di occupazione è stata di far saltare le tubature dell’acqua e noi dipendiamo dalle cisterne di riserva idrica sui nostri tetti”, ha spiegato. “Alcune persone se ne sono andate subito perché hanno familiari malati o disabili, ma altre persone sono state costrette ad andarsene ieri. I soldati dell’occupazione hanno intimato loro di andarsene entro dieci minuti”.

“Nella nostra strada non l’hanno ancora fatto”, ha aggiunto. “Siamo in cinque in casa, con i miei due fratelli e entrambi i miei genitori. Stiamo sopravvivendo con il cibo che avevamo comprato prima che iniziasse l’assedio, sperando che l’offensiva finisse prima del nostro cibo e della nostra acqua. La cosa più importante per me è che restiamo nella nostra casa, anche se la distruggono e distruggono tutto il resto, possiamo ricostruirla più tardi. Ma non voglio che la mia famiglia e io veniamo sfollati”. In una dichiarazione di martedì il Comitato di Emergenza del campo profughi di al-Far’a ha detto che le forze israeliane hanno già sfollato 3.000 persone su una popolazione del campo di 9.000. A Tulkarem il Comitato di Emergenza del campo profughi di Nur Shams ha affermato che metà della popolazione del campo è stata sfollata e che le forze israeliane hanno distrutto completamente 200 case e “parzialmente” altre 120.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il giorno in cui Israele è andato a prendere i librai

Oren Ziv

11 febbraio 2025 – +972 Magazine

Con un libro palestinese da colorare come prova di “istigazione all’odio”, la polizia israeliana ha fatto irruzione nella libreria di Gerusalemme est Educational Bookshop, famosa in tutto il mondo, e ne ha arrestato i proprietari.

Se in qualunque momento durante lo scorso anno e mezzo potreste aver pensato che le autorità israeliane avevano già superato qualunque possibile limite nel restringere la libertà di espressione dei palestinesi, vi sareste sbagliati. Perché ieri la polizia israeliana ha fatto irruzione nei due locali di una libreria famosa nel mondo nella Gerusalemme est occupata, ha arrestato il proprietario e suo nipote e sequestrato una serie di libri, tra cui un album per l’infanzia da colorare.

Durante l’udienza che si è tenuta oggi presso la pretura di Gerusalemme la rappresentante della polizia, sergente maggiore Ortal Malka, ha affermato che sono stati identificati otto libri dell’ Educational Bookshop che rispondono ai criteri di “istigazione all’odio”, ma non ha specificato quali. Si è anche rifiutata di commentare il fatto che la maggior parte dei libri non è neppure scritta in arabo e che la clientela del negozio è principalmente internazionale.

Dato che un arresto per sospetta “istigazione all’odio” richiede l’approvazione preventiva dell’ufficio della procura generale, il proprietario del negozio, Mahmoud Muna, e suo nipote Ahmad Muna, che lavora insieme a lui, sono stati arrestati per sospetto “disturbo alla quiete pubblica”, una prassi comune in casi riguardanti la libertà d’espressione. In un comunicato la polizia ha tuttavia sostenuto che il negozio vende libri che includono “contenuti che istigano all’odio e sostengono il terrorismo,” e che il mandato di perquisizione utilizzato dalla polizia per fare irruzione nei due locali del negozio citava come presunto reato il fatto di “aver espresso solidarietà con un’organizzazione terroristica”.

Durante la notte i due sono stati rinchiusi nel Russian Compound, un centro per gli interrogatori e carcerario di Gerusalemme ovest, e portati lunedì pomeriggio davanti al giudice per un’udienza sulla proroga della loro detenzione. Fuori dall’aula del tribunale si sono riunite decine di attivisti e di diplomatici per protestare a favore dei detenuti, mentre familiari e amici hanno affollato la zona cercando di entrare. Il giudice ha stabilito di prorogare la loro detenzione fino a martedì mattina, dopodiché ha raccomandato il loro rilascio. [Aggiornamento: Mahmoud e Ahmad sono stati rilasciato martedì con 5 giorni di arresti domiciliari e gli è stato proibito di recarsi alla libreria per 20 giorni].

Quando il loro avvocato, Nasser Odeh, ha chiesto perché i Muna fossero stati accusati di disturbo della quiete pubblica Malka ha risposto: “La polizia israeliana crede che, soprattutto durante questo periodo, e in particolare a Gerusalemme, vendere libri che contengono quello che sospettiamo rappresenti un pericolo, tenendo conto dei soggetti.”

Riguardo al numero di libri sequestrati – Odeh ha notato che la polizia ha lasciato il negozio portando via varie casse – Malka ha replicato: “Trenta, forse quaranta, non so quanti alla fine considereremo come incitamento all’odio. Abbiamo sequestrato almeno ottanta libri che sospettiamo di istigazione, forse di più, ma non è sicuro che tutti vengano classificati come tali. Gli agenti hanno preso tutto quello che hanno ritenuto rispondesse ai criteri.”

Quando Odeh ha chiesto di sapere i titoli dei libri sequestrati e i nomi dei loro autori, Malka ha risposto: “Non posso rispondere. Ci confronteremo con i Muna sui libri quando riceverò l’autorizzazione… Ci vorrà tempo per esaminarli, ed è per questo che siamo qui a chiedere una proroga della detenzione (dei Muna) per vari giorni… Molti dei libri sono in arabo, altri in inglese, e qualcun altro in tedesco. Non posso esaminarli uno per uno.”

In base a un’immagine di alcuni dei libri confiscati che poi sono stati restituiti, i titoli includono lavori di Noam Chomsky, Ilan Pappé e Banksy, insieme a libri sul conflitto israelo-palestinese, su rivolte studentesche e arte. Secondo un comunicato della polizia reso pubblico dopo l’irruzione, tra quelli sequestrati c’è un libro per bambini da colorare intitolato Dal Fiume al Mare dell’illustratore sudafricano Nathi Ngubane.

Tra le righe

I due locali di Educational Bookshop si trovano uno di fronte all’altro su via Salah Al-Din, la principale strada commerciale di Gerusalemme est, adiacente alla Porta di Damasco nella Città Vecchia. Fondata nel 1984, l’istituzione ora è considerata una delle librerie più importanti del Medio Oriente, frequentata da giornalisti, ricercatori, diplomatici e turisti per la sua estesa collezione di libri su politica e storia di Israele/Palestina in inglese, arabo e altre lingue. Ospita regolarmente anche eventi pubblici come presentazioni di libri.

Oltre a gestire i negozi, Mahmoud Muna è co-curatore di un’antologia di storie di scrittori di Gaza intitolata Daybreak in Gaza: Stories of Palestinian Lives and Culture [Alba a Gaza: storie di vite e cultura palestinesi], stilata sullo sfondo del massacro israeliano contro Gaza per “preservare l’eredità del popolo di Gaza attraverso letteratura, musica, storie e memorie.”

I negozi sono famosi tra la clientela internazionale e si trovano nei pressi della pretura, ma sono praticamente sconosciuti in Israele. I funzionari del tribunale, gli agenti di polizia e le guardie sono rimasti sorpresi dall’interessamento da parte di mezzi di comunicazione e diplomatici, e lunedì pomeriggio, quando l’udienza è iniziata, le librerie erano aperte e decine di israeliani e stranieri di sinistra sono andati a comprare libri e manifestare solidarietà.

Murad Muna, fratello di Mahmoud e zio di Ahmad, ha descritto a +972 l’irruzione e l’arresto come gli è stato raccontato da un terzo fratello che ha assistito agli eventi: “Alle 15 la polizia israeliana è arrivata ai due locali della libreria cercando libri con la bandiera palestinese,” ha detto. Benché molti dei volumi che hanno confiscato fossero in inglese non sapevano lo leggere, così hanno usato il traduttore di Google per capire di cosa trattassero.”

Mai, moglie di Mahmoud, ha detto a +972 che la loro figlia di 11 anni era presente durante l’incursione della polizia: “Sfortunatamente Laila era in negozio. Ha visto tutto ed era veramente scioccata. Ma le abbiamo parlato e detto che suo padre è forte e non deve preoccuparsi. Non capisce perché hanno preso i libri né quello che cercavano.” Mai nota di aver avuto paura che un tale momento sarebbe arrivato: “Ho sempre detto a Mahmoud di temere che qualcosa del genere sarebbe successo, l’ho visto arrivare.”

Secondo Murad “si tratta di un problema politico. I libri che vendiamo si possono trovare in rete, li puoi comprare ovunque. Trattano del conflitto israelo-palestinese. Abbiamo molti libri scritti da professori e accademici israeliani. Non credo che ci sia una logica o una ragione per arrestarli.” Con le lacrime agli occhi aggiunge: “Non è facile per la famiglia. Speriamo che vengano liberati oggi.”

Per smentire l’accusa di istigazione all’odio da parte della procura, durante l’udienza Odeh ha cercato di spiegare al tribunale che i clienti dei negozi sono per lo più stranieri: diplomatici, giornalisti e turisti. Il rappresentante della polizia ha replicato: “Non so (chi siano i clienti), e ciò non ha importanza. La cosa importante è che c’è un pubblico e il tribunale dovrebbe capirlo.”

“Dal momento in cui ho saputo degli arresti,” ha proseguito Odeh, “mi sono ricordato di due attacchi drammatici. Nel 1258, quando i mongoli invasero Baghdad, entrarono nelle biblioteche, confiscarono e bruciarono libri e ne buttarono alcuni nel fiume nel tentativo di controllare il sapere dell’opinione pubblica, solo per vendetta. Il secondo caso fu in Germania nel 1933, quando la comunità ebraica venne perseguitata. Non sto facendo un confronto, (ma) scrittori e autori furono arrestati per evitare che la loro arte fosse una critica delle atrocità del regime.”

Lunedì in un comunicato il portavoce della polizia ha affermato: “E’ stata effettuata una perquisizione in due librerie di Gerusalemme est sospettate di vendere libri che contengono istigazioni. I sospetti che vendevano i libri sono stati arrestati da agenti di polizia. Come parte dell’inchiesta gli investigatori… si sono trovati davanti a numerosi libri che contengono vari materiali di natura nazionalista palestinese che istigano all’odio, compreso un libro da colorare per bambini intitolato Dal Fiume al Mare. I sospetti, sulla trentina, sono stati arrestati dagli agenti e trattenuti per essere interrogati.

Oggi i due saranno portati davanti al tribunale in quanto la polizia chiede di prorogare la loro detenzione per completare l’indagine. La polizia israeliana continuerà nei suoi sforzi per impedire l’istigazione all’odio e il sostegno al terrorismo utilizzando ogni risorsa disponibile, comprese potenzialità tecnologiche avanzate. Ciò include individuare e arrestare quanti sono coinvolti in reati intesi a minare la sicurezza di cittadini israeliani, ovunque essi siano.”

Oren Ziv è un fotogiornalista, inviato di Local Call [versione in ebraico di +972, ndt.] e membro fondatore del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Hamas ha annunciato il rinvio dello scambio dei prigionieri: per quale regione e perché in questo momento – Analisi

Robert Inlakesh

11 febbraio 2025 – Palestine Chronicle

Ora Hamas deve fare del suo meglio per negoziare l’ingresso a Gaza di aiuti sufficienti garantendo al contempo la fine della guerra e il governo per il dopoguerra in modo da ridare vita al territorio e ricostruirlo.

Lunedì Abu Obeida, il portavoce delle Brigate Al-Qassam di Hamas, ha rilasciato un comunicato affermando che, viste le continue violazioni dalla tregua da parte di Israele, lo scambio di prigionieri verrà rinviato alla prossima settimana. Quella che ora è presentata come una possibile ragione per il fallimento dell’accordo, è invece una tattica negoziale in un frangente critico.

Lo scambio di prigionieri sionisti programmato per sabato prossimo… verrà rinviato a data da destinarsi,” ha annunciato il portavoce militare di Hamas. Il messaggio continua: “Noi confermiamo il nostro impegno in base ai termini dell’accordo purché la potenza occupante lo sia altrettanto”. 

Anche se i politici israeliani hanno immediatamente iniziato a sostenere che Hamas ha violato l’accordo di cessate il fuoco e Itamar Ben-Gvir, il famigerato sodale nella coalizione di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha invocato un’immediata campagna di bombardamenti, sul terreno niente è sostanzialmente cambiato. Tuttavia dichiarazioni provocatorie come quelle di Ben-Gvir sono scontate e anche importanti in questa situazione.

Facendo seguito alla dichiarazione di Abu Obeida, in cui accusa Israele di violazioni dei termini del cessate il fuoco, Hamas ha deciso di pubblicare una lista delle molteplici violazioni israeliane dell’accordo fra cui: 

  • Rallentare il ritorno degli sfollati nel nord di Gaza.” 

  • Prendere di mira civili con bombardamenti e sparatorie che hanno provocato numerose morti in tutta la Striscia.” 

  • Ostacolare l’ingresso di forniture essenziali per ripararsi, come tende, case prefabbricate, carburante e macchinari necessari per rimuovere le macerie e recuperare i corpi.”

  • Ritardare la consegna di materiale sanitario essenziale e di risorse necessarie per riattivare gli ospedali e il settore sanitario.” Hamas ha affermato di aver rilevato da sé le succitate violazioni al cessate il fuoco, ma queste sono state ben documentate anche da gruppi per i diritti, da giornalisti e citate da funzionari delle Nazioni Unite. Tuttavia le violazioni israeliane sono iniziate il 19 gennaio alle 8:30 (ora locale), circa 15 minuti dopo la prevista entrata in vigore dell’accordo. 

L’uccisione di civili con attacchi aerei e colpi sparati da cecchini è continuata nelle settimane seguenti, oltre ad altre violazioni del cessate il fuoco, tuttavia Hamas ha scelto di non aprire il fuoco o persino di non rilasciare dichiarazioni minacciose in risposta, come invece è successo oggi.

Perché Hamas lo sta facendo ora?

I commenti a caldo proposti dalla maggioranza degli analisti all’indomani della dichiarazione di Hamas si concentrano quasi completamente su un approccio riguardante un battibecco tra due litiganti. Mentre divampano queste polemiche su chi abbia violato il cessate il fuoco e su quale delle parti cerchi di far fallire l’accordo è importante prendere in esame il contesto più a fondo.

Come detto sopra, Hamas ha scelto di non sparare una sola pallottola o razzo, né di minacciare o ritardare il rilascio dei prigionieri israeliani per settimane durante le quali ci sono state violazioni quotidiane del cessate il fuoco. Ci sono stati momenti in cui l’esercito israeliano ha giustiziato minori, rallentato il ritorno degli sfollati palestinesi alle proprie case per 24 ore e limitato l’accesso alla Striscia di Gaza di beni essenziali: tutto ciò avrebbe dato a Hamas l’imperativo morale di ostacolare l’accordo per porre fine a tali violazioni dell’accordo.

Se Hamas si è trattenuta da ritorsioni per motivi affettivi, legali e morali, ha poi segnalato nelle sue dichiarazioni che da oggi sono strategicamente calcolati e non semplicemente una reazione. La tempistica della dichiarazione del portavoce delle Brigate Al-Qassam sembra anche coincidere ed essere legata al ritorno del team israeliano di negoziatori da Doha.

Nel corso della scorsa settimana il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cambiato i componenti della sua delegazione di negoziatori, lanciando a quanto si dice l’idea di un’estensione della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco. Queste modifiche al corso del processo negoziale sono state aggravate dalle minacce del presidente USA Donald Trump di impossessarsi della Striscia di Gaza, oltre alla pulizia etnica della popolazione del territorio.

Ora Israele ha anche ritirato le sue forze dal corridoio Netzarim, che divide il nord dal resto di Gaza, abbandonando quella che potrebbe essere una posizione militare chiave nel caso decidesse di ritornare nel territorio, mentre la maggioranza degli sfollati dal nord del territorio è anche ritornata nei suoi quartieri distrutti.

Un altro fattore da considerare è che il primo ministro israeliano è riuscito fino ad ora a tenere insieme la sua coalizione di estrema destra, anche se parlamentari chiave del blocco del Sionismo Religioso hanno minacciato di affondare il governo nel caso approvasse la seconda delle tre fasi dell’accordo di cessate il fuoco. È interessante notare che le proposte piuttosto stravaganti ed estremamente illegali di Donald Trump sono riuscite a persuadere i falchi nella coalizione di Netanyahu che il cessate il fuoco è un buon accordo, molto probabilmente aiutando a salvarlo.

Incoraggiato dalla retorica intransigente del presidente americano, Netanyahu si è imbarcato in una serie di sparate in cui non solo ha appoggiato l’idea della pulizia etnica della gente di Gaza da spostare in Nazioni vicine, ma ha persino detto che l’Arabia Saudita dovrebbe ritagliare una parte del suo territorio per fare uno Stato palestinese.

Ironicamente queste minacce estreme sono riuscite a unire il Medio Oriente non con Israele ma contro. Contrariamente alle affermazioni di Netanyahu e Trump su fatto che Riyadh avrebbe abbandonato la sua richiesta di una via praticabile per uno Stato palestinese in cambio di un accordo di normalizzazione con Tel Aviv, si è solo raddoppiata la posta. Infatti le dichiarazioni di condanna di Israele che arrivano dall’Arabia Saudita sono le più forti da decenni. 

Hamas è al centro di questa svolta regionale apparentemente estemporanea, che è stata certamente uno dei fattori della decisione di cominciare ad applicare una pressione sulla compagine di negoziatori israeliani. 

Il sovrano hashemita della Giordania, il re Abdullah II, si è opposto fortemente e pubblicamente alla proposta USA-Israele di trasferire centinaia di migliaia, se non quasi un milione di palestinesi da Gaza nel suo territorio. Ed è stato riportato che l’esercito egiziano si stia mobilitando per affrontare ogni importante sviluppo destabilizzante. Sia Il Cairo che Amman temono ripercussioni potenziali per la sopravvivenza dei loro leader nel caso di un’espulsione di massa da Gaza.

Nel frattempo anche l’Arabia Saudita è stata messa in una posizione difficile. Come la Giordania e l’Egitto, è in rapporti amichevoli non solo con gli USA ma anche con Israele. Tuttavia, tenendo in considerazione la caduta del governo di Bashar al-Assad in Siria, oltre allo stato d’animo popolare dei sauditi che sostengono la causa palestinese, normalizzare le relazioni con Israele proprio ora e permettere un importante evento destabilizzante nella regione che potrebbe persino causare il collasso della monarchia giordana è un rischio che al momento non vogliono accollarsi.

Un altro fattore importante qui è il disgelo delle relazioni fra Riyadh e Teheran, combinato con il recente indebolimento dell’asse della resistenza a guida iraniana. Essenzialmente ciò significa che c’è poco da guadagnare unendosi a un’alleanza contro l’Iran che potrebbe riaccendere il conflitto congelato in Yemen, al momento con un ruolo secondario da giocare. In tale scenario l ‘Arabia Saudita sarebbe completamente subordinata agli USA, cosa che limiterebbe opportunità future in un emergente mondo multipolare. Detto ciò, la minaccia di destabilizzazione in Arabia Saudita va in due direzioni: se si spingesse troppo in là nell’opporsi ad americani e israeliani anch’essa potrebbe incorrere nelle loro ire.

Hamas ha deciso di rilasciare ora la sua dichiarazione quando la regione è unita contro il piano israeliano-statunitense di invasione/pulizia etnica. Le Nazioni arabe e islamiche probabilmente adotteranno presto una piattaforma comune e collaboreranno nel presentare proposte urgenti per ottenere l’attuazione del cessate il fuoco a Gaza nel corso della seconda e terza fase. Ciò include appoggiare l’affermazione di un governo postbellico nella Striscia di Gaza.

D’altro canto Israele ha poco margine in questa situazione, a parte mettere in atto piani che provochino una destabilizzazione regionale massiccia e la ripresa del suo catastrofico genocidio a Gaza. Questo è il motivo per cui, fino ad ora, le minacce israeliane contro Gaza si sono concentrate su quale sarà la sua risposta se fallirà lo scambio di prigionieri sabato, fra cinque giorni.

Se Israele nei prossimi giorni effettuasse degli attacchi aerei avrebbe due opzioni: far fallire completamente il cessate il fuoco o effettuare solo attacchi a caso che uccideranno civili ma non in modo che porterebbe alla fine del cessate il fuoco. Tuttavia c’è anche una trappola se gli israeliani decidessero di attuare attacchi significativi a Gaza, perché ciò darebbe quindi ad Hamas, e forse al suo alleato Ansarallah [gli Houthi yemeniti, ndt.], la scusa per rispondere allo stesso modo.

Se Hamas lanciasse dei razzi verso gli insediamenti israeliani, forse persino verso Tel Aviv, sarebbe una grave fonte di imbarazzo per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e potrebbe persino incoraggiare i suoi alleati estremisti a minacciare il crollo della sua coalizione. Gli alleati di Netanyahu come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir credono che Hamas debba essere annientata scacciando l’intera popolazione dalla Palestina. Perciò i razzi di Hamas potrebbero innescare reazioni emotive da parte loro che metterebbero Netanyahu in una difficile posizione politica.

 Nel frattempo le famiglie degli ostaggi israeliani che sono ancora prigionieri a Gaza hanno già preso l’iniziativa di bloccare le strade principali a Tel Aviv, chiedendo l’attuazione dell’accordo sul cessate il fuoco.

Al momento Hamas deve cercare di fare del suo meglio per negoziare l’ingresso di aiuti sufficienti a Gaza, garantendo allo stesso tempo la fine della guerra e la formazione di un’amministrazione per rivitalizzare e ricostruire il territorio. Sebbene possa essere una scommessa pericolosa da parte sua, sembra essere un tentativo di utilizzare il clima attuale per far pressione sugli israeliani perché consentano il passaggio di aiuti sufficienti, spianando la strada anche al successo delle prossime fasi dell’accordo di cessate il fuoco. 

Qui il jolly è rappresentato da un potenziale piano USA-Israele per ricorrere a livelli folli di violenza che farebbero precipitare l’intera regione nel caos. 

Robert Inlakesh è un giornalista, scrittore e documentarista. Si interessa di Medio Oriente ed è specializzato in Palestina. Ha fornito questo contributo a The Palestine Chronicle. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Fantasie di controllo [Seconda Parte]

Tom Stevenson

12 febbraio 2025, London Review of Books

Hamas: La ricerca del potere

di Beverley Milton-Edwards e Stephen Farrell.

Politica, 331 pp., £17.99, giugno 2024, 978 1 5095 6493 4

Col senno di poi questo flirt con la resistenza civile sembra essere stato il primo tentativo di Hamas di uscire dall’impasse in cui si trovava. Sinwar aveva trascorso più di vent’anni nelle prigioni israeliane, dal suo arresto nel 1989 al rilascio nel 2011 nell’ambito dello scambio di prigionieri per Shalit [militare israeliano catturato da Hamas e liberato in cambio della liberazione di un migliaio di carcerati palestinesi, ndt.]. L’operazione Shalit era stata per molti aspetti un successo. Ma Sinwar vi si era opposto ritenendo troppo esiguo il numero di palestinesi liberati. Quando non era in isolamento o non tentava la fuga dalla sua cella scavando un tunnel Sinwar aveva trascorso il periodo di prigionia studiando diligentemente e scrivendo due libri (nel primo, un romanzo, il protagonista osserva suo padre scavare un rifugio di fortuna sotto la loro casa in un campo profughi). Era stato arrestato prima che Gaza fosse assediata e non aveva assistito alla graduale trasformazione della Striscia da parte di Israele in un campo di sorveglianza. Tuttavia, quando tornò a Gaza nel 2011 la sua ascesa alla leadership fu rapida. Molti dei leader della nuova generazione erano veterani delle prigioni israeliane: Rawhi Mushtaha divenne il primo ministro de facto di Gaza mentre Tawfiq Abu Naim capo della sicurezza interna. Eppure sotto la loro guida la linea iniziale era quella di una “resistenza popolare pacifica”.

Nel 2018 in un’intervista con la giornalista italiana Francesca Borri Sinwar parlò della necessità di un cessate il fuoco. “Quello che conta è che finalmente ci si renda conto che Hamas è qui… siamo parte integrante di questa società, anche se dovessimo perdere le prossime elezioni”, disse. “Inoltre, siamo un pezzo della storia dell’intero mondo arabo, che include islamisti, laici, nazionalisti, militanti di sinistra”. Eppure nel 2021 ci furono chiari segnali di un cambiamento. “Per molto tempo abbiamo provato ad attuare una resistenza civile pacifica”, disse Sinwar al giornalista Hind Hassan. “Ci aspettavamo che il mondo e le organizzazioni internazionali avrebbero fatto cessare i crimini e i massacri commessi sul nostro popolo dall’occupazione. Ma sfortunatamente il mondo è rimasto a guardare mentre l’occupazione uccideva i nostri figli.’

Il fallimento di queste tattiche potrebbe aver portato all’Operazione Al-Aqsa Flood. L’attacco lanciato il 7 ottobre ha fatto seguito al periodo più sanguinoso di violenza dei coloni in Cisgiordania da anni. L’intelligence israeliana afferma di aver scoperto documenti che dimostrano che Hamas avrebbe iniziato a pianificare un “grande progetto” all’inizio del 2022, anche se è molto difficile verificare tale affermazione. A dicembre 2022 Sinwar parlava di arrivare in Israele “come un travolgente diluvio“. È chiaro che l’operazione era ben pianificata. L’attacco è stato guidato dalle Brigate Qassam, ma supportato da altri cinque gruppi armati di Gaza: le Brigate Al-Quds della Jihad islamica palestinese, le Brigate di Resistenza Nazionale del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, le Brigate Martire Abu Ali Mustafa del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, le Brigate Martiri di Aqsa e le Brigate Mujaheddin. Nonostante il coinvolgimento di così tante fazioni le informazioni sull’operazione sono state strettamente custodite e rivelate alle singole unità simultaneamente all’ultimo minuto. La comunicazione digitale è stata ridotta al minimo. Sono stati utilizzati droni e missili per distruggere i siti di sorveglianza e i posti di comando e controllo mentre il muro veniva sfondato con bulldozer ed esplosivi. Ciò che più ha colpito è stata l’adozione sia delle tattiche che delle modalità d’intervento proprie delle forze speciali statunitensi e israeliane (le Brigate Qassam chiamavano “commando” le proprie unità Nukhba). In totale gli attacchi hanno provocato la morte di 725 civili israeliani, 36 dei quali bambini e 71 cittadini stranieri e di 379 membri del personale di sicurezza israeliano.

La versione riveduta del libro di Beverley Milton-Edwards e Stephen Farrell Hamas: The Islamic Resistance Movement ha il grande vantaggio di offrire un’analisi degli eventi nei primi mesi successivi all’ottobre del 2023. Nell’edizione originale, pubblicata nel 2010, Milton-Edwards, un esperto accademico, e Stephen Farrell, ex capo dell’ufficio Reuters a Gerusalemme, hanno fornito una buona panoramica su Hamas che differiva relativamente poco dalle testimonianze ufficiali. Come altri scrittori, hanno intervistato molti leader di Hamas. Tra loro ce n’erano alcuni che in seguito sono ascesi alla ribalta, in particolare Abu Obaida, il portavoce delle Brigate Qassam, e Saleh al-Arouri, vicepresidente dell’ufficio politico di Hamas fino al suo assassinio l’anno scorso. Farrell ha anche intervistato Sinwar a Khan Younis nel 2011, subito dopo la sua liberazione.

Ciò che finalmente Hamas ha ottenuto il 7 ottobre è stato stroncare l’illusione di un controllo che Israele credeva di aver raggiunto. “L’inimmaginabile spettacolo dei parapendio motorizzati che sorvolavano gli accessi di Gaza” è stato di per sé una sorta di vittoria. La presa del valico di Erez, dove i metodi di repressione del XXI secolo (droni, torri di sorveglianza elettronica, database biometrici) si sono aggiunti alle vecchie perquisizioni corporali, è stato un enorme colpo di scena simbolico. I primi obiettivi di Hamas sono state le installazioni militari israeliane, tra cui Reim, il quartier generale della divisione Gaza dell’esercito israeliano. Ma l’apparenza di un’operazione di forze speciali si è rapidamente trasformata in violenza incontrollata (un modello non estraneo a chiunque abbia una conoscenza anche superficiale delle azioni delle forze speciali britanniche in Afghanistan). Milton-Edwards e Farrell elencano quanto di peggio è accaduto. La milizia di Gaza ha sparato contro le auto trascinando fuori i non combattenti per giustiziarli. Hamas non si aspettava che un festival di musica trance si svolgesse a pochi minuti dalla recinzione. Quando i suoi combattenti sono arrivati ​​lì, hanno “svuotato i caricatori nelle tende e nelle cabine dei servizi igienici”. Gli abitanti dei kibbutz vicino al confine sono stati rapiti o uccisi e le loro case saccheggiate e incendiate.

Nel gennaio 2024 Hamas ha pubblicato il suo resoconto sull’operazione, presentandolo come la spiegazione delle proprie motivazioni e “una confutazione delle accuse israeliane”. Milton-Edwards e Farrell menzionano il documento ma non lo descrivono in dettaglio. Secondo il resoconto di Hamas, intitolato “Our Narrative”, l’operazione al-Aqsa Flood “ha preso di mira siti militari israeliani con l’intento di catturare i soldati nemici per fare pressione sulle autorità israeliane affinché liberassero migliaia di palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane attraverso un accordo di scambio di prigionieri”. Affermava che i principali obiettivi erano la Divisione Gaza dell’esercito israeliano e siti militari “vicini agli insediamenti israeliani intorno a Gaza”. Hamas ha respinto come “bugie e invenzioni” l’idea che i suoi combattenti avessero preso di mira i civili e ha affermato di aver “preso di mira solo i soldati dell’occupazione e coloro che portavano armi”. Tutte le morti di civili sarebbero state accidentali o il risultato di fuoco incrociato. E durante l’operazione si sarebbero verificati “alcuni errori a causa del rapido crollo del sistema militare e di sicurezza israeliano e del caos provocato lungo le aree di confine con Gaza”.

Ovviamente questo resoconto non regge. È vero che alcune delle vittime delle unità Qassam nei kibbutz erano Kitat Konenut armati, riservisti locali addestrati per una risposta d’emergenza, che sono morti combattendo. Alcune morti possono anche essere attribuite alla direttiva Annibale, messa in atto da Israele dalle prime ore di quel giorno, che ha imposto alle sue forze di sparare ai veicoli che si muovevano in direzione di Gaza con droni, attacchi aerei e mortai al fine di uccidere gli ostaggi piuttosto che lasciarli catturare per un riscatto. Alcuni civili sono stati uccisi dall’esercito israeliano sia al festival che nei kibbutz. Nel kibbutz Be’eri un carro armato israeliano ha sparato contro una casa in cui era nota la presenza di combattenti di Hamas e civili israeliani causando la morte di tredici civili. Ma questo non mette in discussione la chiara evidenza che gravi crimini di guerra sono stati commessi dalle Brigate Qassam e da altre milizie di Gaza.

Israele e i suoi sostenitori hanno esagerato e montato ciò che non aveva bisogno di esagerazione o invenzione. I combattenti Qassam hanno lanciato granate nei rifugi e sparato con lanciarazzi contro le case. A Be’eri una granata a frammentazione è stata lanciata contro una clinica odontoiatrica. Delle unità Qassam hanno ucciso a colpi di arma da fuoco donne disarmate che stavano fuggendo a piedi. Ci sono prove che le Brigate Mujahideen e Al-Quds (sebbene non combattenti Qassam) hanno decapitato soldati israeliani. Nel kibbutz Alumim lavoratori nepalesi e thailandesi sono stati uccisi indiscriminatamente. In una dichiarazione successiva Hamas ha riconosciuto che abitanti di Gaza “si sono precipitati [oltre i confini] senza coordinamento con Hamas”, il che “ha portato a molti errori”. Ma dire che Hamas “ha perso il controllo” dell’operazione a causa del rapido crollo delle forze di sicurezza israeliane significa negare la responsabilità che comporta un‘azione militare. In un messaggio trapelato, rivolto a dei funzionari di Hamas, Sinwar sembrava riconoscerlo. “Le cose sono andate fuori controllo… la gente si è lasciata trascinare in tutto questo, e ciò non sarebbe dovuto accadere”.

Milton-Edwards e Farrell sostengono che il 7 ottobre l’obiettivo principale di Hamas era catturare ostaggi. Stimano che dal 1983 Israele abbia scambiato 8500 detenuti palestinesi con diciannove israeliani e le spoglie di altri otto. Non è un cattivo tasso di scambio (anche se è una goccia nell’oceano, dato che quattro palestinesi su dieci vengono “prima o poi imprigionati da Israele nel corso della loro vita”). Sostengono anche che un obiettivo secondario era far deragliare il processo di normalizzazione diplomatica israelo-saudita sponsorizzato dagli Stati Uniti. Milton-Edwards e Farrell non presentano prove concrete di ciò e non è chiaro perché le pressioni a cui Gaza era sottoposta non avrebbero potuto determinare un 7 ottobre anche se gli Stati Uniti non fossero stati impegnati in un maldestro tentativo di rinnovare i propri accordi con l’Arabia Saudita. In alcune interviste Milton-Edwards ha sostenuto con più sottigliezza che Hamas stava reagendo all’emarginazione della causa palestinese a livello internazionale. Lei e Farrell scrivono che Deif vedeva l’operazione come un modo per ispirare una “rivoluzione che avrebbe posto fine all’ultima occupazione e all’ultimo regime di apartheid razzista al mondo”. C’è una dimensione internazionale in questo modo di pensare, ma non riducibile a un’agenda diplomatica.

Un’altra domanda è se Hamas avesse previsto quanto sarebbe stata brutale la rappresaglia di Israele. Milton-Edwards e Farrell sostengono che Hamas credeva che se Israele avesse invaso loro sarebbero stati avvantaggiati dal fatto di trovarsi nel proprio territorio. Citano al-Arouri, che considerava un’invasione terrestre israeliana di Gaza “lo scenario migliore per porre fine a questo conflitto e sconfiggere il nemico”. Hamas ha tratto vantaggio dalla distruzione di Gaza da parte dell’aeronautica israeliana. I suoi combattenti hanno usato tattiche mordi e fuggi e sfruttato efficacemente i tunnel, rallentando l’avanzata israeliana e rendendo impossibile anche solo liberare le strade e proseguire. Di conseguenza, le forze speciali hanno dovuto entrare nei tunnel oppure costringere i civili a entrarvi per verificare la presenza di trappole. I combattenti di Hamas sono tornati anche nelle zone che le forze israeliane pensavano di aver sgomberato. Ma nel tempo le forze israeliane sembrano essere diventate più brave a difendersi dalle imboscate, almeno sulle unità corazzate. Più di quattrocento soldati israeliani sono stati uccisi a Gaza. È più del doppio del numero di soldati britannici uccisi in Iraq, ma molti meno dell’obiettivo di Hamas.

Nulla di ciò che Hamas ha compiuto il 7 ottobre si avvicina a quello che Israele ha fatto a Gaza. Eppure, chiunque abbia visto i video delle Brigate Qassam nei kibbutz quella mattina e conosca minimamente Israele deve aver avuto in mente limmagine pulsante di una Gaza subito destinata a essere rasa al suolo. Perché Hamas non ha optato per un’operazione puramente militare? Perché prendere in ostaggio dei bambini? È facile pensare che se avesse condotto unoperazione militare disciplinata – come i suoi leader hanno descritto al-Aqsa Flood – prendendo di mira esclusivamente forze militari e non commettendo crimini di guerra avrebbe potuto evitare critiche e persino trovare sostegno per un atto di resistenza legittima contro gli orribili e continui crimini israeliani. Ma la reazione di Israele e degli Stati Uniti sarebbe stata comunque la stessa. In assenza di atrocità reali ne sarebbero state inventate di false, e lazione militare sarebbe stata comunque definita terrorismo. Tutto ciò che Israele ha fatto era prevedibile dal momento in cui Hamas ha sorvolato la barriera con i parapendio. Il sostegno ricevuto a Washington, New York, Londra, Berlino e Bruxelles era scontato. Gaza sarebbe stata comunque distrutta.

Per Hamas il grande valore del 7 ottobre era quello di un attacco simbolico al sistema di confinamento e divisione su cui si basa l’apartheid di Israele. Al-Aqsa Flood ha definitivamente confutato l’idea che Israele potesse semplicemente mettere in gabbia gli zotici e continuare a vivere normalmente. Ma se catturare ostaggi è stata la tattica principale di Hamas, come sostengono Milton-Edwards e Farrell, è risultata chiaramente imperfetta. Per quanto abbia mostrato di ritenere importante il recupero degli ostaggi Israele ha sempre scelto la vendetta anziché il negoziato per le loro vite. Inoltre sembra che Hamas abbia gravemente sopravvalutato il sostegno che avrebbe ricevuto da Hezbollah in Libano, dall’Iran e, cosa fondamentale, dai palestinesi in Cisgiordania. Se l’attacco è stato un disperato tentativo di rilanciare il sostegno regionale alla Palestina, allora, con la notevole eccezione dello Yemen, è fallito. Milton-Edwards e Farrell sostengono che il 7 ottobre ha rivelato la vacuità dell'”asse della resistenza”. Le risposte di Hezbollah e dell’Iran sono state deboli. Israele ha finito per attaccare il Libano e devastare Hezbollah, non il contrario. “Sostegno alla Palestina, contenimento di Israele: questo è stato il vero limite dell’asse”, concludono. “Tutte le parole spese sul fervore rivoluzionario in Medio Oriente non sono state altro che parole”.

Se il 7 ottobre ha segnato una svolta strategica per Hamas la domanda ovvia è: non ha reso la possibilità di un miglioramento della condizione dei palestinesi ancora più incredibilmente remota? Gaza è stata distrutta. Israele sostiene di aver eliminato 23 dei 24 battaglioni delle Brigate Qassam, anche se è un errore concepire la potenza di Hamas come si trattasse di un esercito permanente (una valutazione dell’Institute for the Study of War e del Critical Threats Project suggerisce che solo tre dei battaglioni sono ora di fatto “non in grado di combattere”). Sinwar ha descritto le morti a Gaza come “sacrifici necessari” per la causa della liberazione. Lo storico palestinese Yezid Sayigh ritiene che il 7 ottobre abbia fatto arretrare di trent’anni la causa della liberazione palestinese. Chi ha ragione? È il classico dilemma del rivoluzionario: rompendo violentemente la stasi si possono scatenare forze che ritardano o annientano i propri progetti.

È nella natura della violenza rivoluzionaria creare problemi insolubili. Bisogna schierarsi con le persone che fuggono da un campo di concentramento. Ma bisogna anche schierarsi con i non combattenti contro l’uomo che punta loro un fucile. È comprensibile la determinazione nell’asserire che l’orrenda violenza israeliana debba essere affrontata solo con la non violenza, ma quand‘è che questo diventa ciò che il grande scrittore pacifista A.J. Muste chiamava “predicare la non violenza agli oppressi”? La strategia di Israele è stata coerente per decenni: sottomettere con la sopraffazione per mantenere il controllo della terra e impedire qualsiasi tipo di autodeterminazione palestinese. È difficile per un estraneo entrare veramente nella prospettiva di Gaza, dove la non violenza può significare solo essere sottomessa a una forza superiore.

La possibilità che Israele non provocasse una resistenza armata a Gaza è sempre stata pari a zero. I gazawi erano di fatto sotto assedio e un’azione militare per rompere l’assedio non può essere liquidata come terrorismo o classificata come un pogrom. Per Israele e i suoi sostenitori il crimine del 7 ottobre è stato in ultima analisi quello di aver violato la legge fondamentale della situazione palestinese, dirigendo contro Israele una piccolissima parte della violenza dell’occupazione. Tuttavia, non bisogna cadere nella trappola di dire che i movimenti di resistenza armata non commettono crimini. L’uccisione di non combattenti è indifendibile, sia quando si manifesta come crudeltà inutile (uccisione di lavoratori nepalesi con granate), sia quando si presenta sotto le mentite spoglie della resistenza militare (uccidere a colpi di arma da fuoco un uomo perché è in “età militare” ed è costretto entro i confini di Gaza).

Negli Stati Uniti e in Europa la tendenza prevalente è quella di accettare il modo in cui Israele inquadra la situazione. Qualsiasi azione israeliana, per quanto aberrante, è automaticamente supportata come parte del “diritto di Israele a difendersi”. Il sostegno degli Stati Uniti in particolare non ha vacillato. A gennaio il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, ha parlato del “dovere” di Israele di andare contro un “nemico terrorista ben radicato”. Marco Rubio, il nuovo segretario di Stato di Trump, ha detto che Hamas è un gruppo di “selvaggi” che devono essere sradicati. Il numero noto di morti a Gaza ammonta a cinquantamila. La falsa narrazione dei sostenitori di Hamas come demoni irrazionali è una parte fondamentale della giustificazione ideologica dietro ogni morte, ogni mutilazione, ogni scena di distruzione.

Il 15 gennaio i mediatori del Qatar hanno annunciato che Hamas e Israele avevano concordato un cessate il fuoco. L’accordo prevedeva una tregua di sei settimane durante la quale 33 ostaggi israeliani sarebbero stati rilasciati insieme a centinaia di palestinesi tenuti in detenzione amministrativa in Israele. La seconda fase, che includerebbe il rilascio di tutti gli ostaggi rimanenti e il completo ritiro delle forze israeliane, è stata tenuta in sospeso in vista di una successiva decisione. Così come la fase finale, che in teoria comporterebbe la ricostruzione di Gaza. Dopo l’annuncio dell’accordo le operazioni militari israeliane a Gaza sono continuate. L’aeronautica militare israeliana ha festeggiato la notizia con una serie di bombardamenti e un imponente attacco aereo su Jenin in Cisgiordania.

L’accordo è arrivato dopo un anno intero di farsa diplomatica, durante il quale Israele e gli Stati Uniti hanno condotto una messinscena di colloqui senza alcuna intenzione di fermare l’assalto. Hamas è sempre stata disposta a rilasciare gli ostaggi rimasti in cambio del ritiro delle forze israeliane da Gaza e del rilascio di alcuni prigionieri palestinesi. Israele ha sempre rifiutato questa proposta. Se gli Stati Uniti o Israele lo avessero voluto, un accordo molto simile avrebbe potuto essere raggiunto un anno prima, quando il numero stimato delle vittime era inferiore alla metà dell’attuale. Trump potrebbe aver contribuito a far passare un accordo, ma qual è l’alternativa del governo degli Stati Uniti al ripristino di Gaza allo status di campo di concentramento? In risposta alla notizia dell’accordo il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Mike Waltz, ha affermato: “Gaza deve essere smilitarizzata, Hamas deve essere distrutta… Israele ha tutto il diritto di proteggersi in ogni modo”. Non c’è nulla che impedisca a Israele di riprendere gli attacchi su Gaza ogni volta che lo desidera.

L’obiettivo dichiarato di Israele era quello di eliminare Hamas. Milton-Edwards e Farrell non pensano che “distruggere” Hamas sia mai stata un’idea praticabile. Sicuramente anche i leader israeliani lo sapevano. Ma poi Gaza stessa, non Hamas, è sempre stata il vero bersaglio di una campagna che l’ex ministro della difesa israeliano Moshe Ya’alon ha descritto come “pulizia etnica”. Hamas è stata indebolita (attualmente non è in grado di impedire il saccheggio dei camion degli aiuti a Gaza), ma non è stata distrutta. Mohammed Sinwar ha sostituito suo fratello come leader de facto a Gaza. Hamas è ancora parte integrante della società di Gaza. Il suo sistema amministrativo è malconcio, ma è sopravvissuto. Il 14 gennaio Blinken ha affermato che, secondo le valutazioni degli Stati Uniti, “Hamas ha reclutato quasi tanti nuovi militanti quanti ne ha persi”. Il movimento è nato dall’occupazione, ma l’attacco genocida a Gaza supera la crudeltà delle circostanze che hanno portato alla sua costituzione. Hamas si è trasformata molte volte in passato e lo farà di nuovo. I campi di tortura, gli stupri documentati di detenuti palestinesi, le file di uomini spogliati e bendati, inginocchiati nella polvere tra le macerie di quella che un tempo era la loro casa: cosa ne verrà fuori? Israele potrebbe finire col desiderare il ritorno della versione di Hamas che un tempo malediva.

24 gennaio

[Prima Parte]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)