Il padiglione israeliano alla Biennale di Venezia non aprirà finché non verrà raggiunto un cessate il fuoco, affermano un’artista israeliana e le curatrici

Naama Riba e Rachel Fink

16 aprile 2024 – Haaretz

Nel contesto di appelli per l’esclusione di Israele dall’evento artistico internazionale e timori di atti di vandalismo, l’artista Ruth Patir e le curatrici della sua esposizione hanno chiesto il cessate il fuoco a Gaza e un accordo per la liberazione degli ostaggi e hanno affermato che “il padiglione israeliano aprirà quando queste cose verranno raggiunte.” A quanto pare il governo israeliano non sarebbe stato informato di questa protesta.

Il padiglione israeliano alla Biennale di Venezia, che avrebbe dovuto aprire alla fine della settimana, rimarrà chiuso al pubblico “finché non verranno raggiunti un cessate il fuoco e un accordo per la liberazione degli ostaggi” tra Israele ed Hamas, secondo un comunicato dell’artista israeliana Ruth Patir e delle curatrici della mostra, Mira Lapidot e Tamar Margalit.

I tre lavori di videoarte dell’artista Ruth Patir che compongono l’esposizione (M)otherland saranno riprodotti nel padiglione e i passanti potranno vederli attraverso i vetri delle finestre.

Il padiglione è curato da Mira Lapidot, curatrice del Museo d’Arte di Tel Aviv, e Tamar Margalit, curatrice del Centro di Arte Contemporanea. Lapidot ha detto ad Haaretz che sono “molto orgogliose della mostra. Abbiamo discusso fino all’ultimo minuto su cosa fare.”

Lapidot ha spiegato le due ragioni che hanno portato alla decisione di non aprire il padiglione, affermando: “L’arte ha bisogno di un cuore aperto, che ora non esiste, quindi è meglio rimanere chiusi. Ma, cosa più importante, come esseri umani, donne e cittadine, non possiamo stare qui mentre niente cambia nella situazione degli ostaggi. Fino all’ultimo minuto abbiamo pensato che stavamo dirigendoci verso una direzione diversa e che c’è un accordo sul tavolo.”

“Abbiamo messo un cartello affermando che apriremo il padiglione quando sarà raggiunto un cessate il fuoco e un accordo per gli ostaggi, e speriamo che ciò avvenga durante i sette mesi della Biennale,” ha continuato. Margalit, la seconda curatrice, ha detto al New York Times che il governo israeliano non è stato informato in anticipo della protesta dall’artista e dalle curatrici. Il ministero della Cultura ha scelto l’artista ed è il principale finanziatore dell’esposizione.

Lapidot ha sottolineato che il padiglione non verrà completamente chiuso. “A differenza di quello russo, questo non verrà chiuso. Rimarrà illuminato e pronto ad aprire. I video verranno proiettati.”

La decisione di non aprire il padiglione giunge contestualmente ad appelli per il boicottaggio di Israele e la sua esclusione dalla Biennale di Venezia da parte di un’organizzazione di artisti e attivisti, ANGA, che sta per “Art Not Genocide Alliance”[Alleanza per l’Arte e non per il Genocidio]. La petizione dell’ANGA è stata firmata da decine di migliaia di persone. La Biennale in febbraio ha risposto alla lettera con un comunicato ufficiale in cui afferma che ogni Paese riconosciuto dal governo italiano è invitato ad esporre alla mostra internazionale e che appelli o petizioni per escludere la partecipazione di un Paese non saranno accolti.

Nell’esibizione generale della Biennale curata da Adriano Pedrosa verranno esposti i lavori di vari artisti palestinesi, alcuni direttamente legati alla guerra a Gaza. Inoltre uno degli eventi collaterali della Biennale, South West Bank [Sud della Cisgiordania], è stato iniziato da un collettivo di artisti palestinesi che mostreranno il proprio lavoro. Nel Centro della Cultura Europea a Palazzo Mora verrà esposta anche una mostra del Museo Americano Palestinese.

L’esposizione nel padiglione israeliano ruota attorno alla fertilità. Patir, che ha meno di 40 anni, ha creato una serie di video riguardo all’argomento da un punto di vista personale e israeliano. Quando aveva 35 anni ha scoperto di essere portatrice (come la curatrice Lapidot) del gene BRCA2 che, se muta, aumenta notevolmente le possibilità di sviluppare un cancro al seno o alle ovaie.

A causa del discutibile privilegio di essere portatrice del gene, Patir, che non è sposata e non ha figli, ha ottenuto dallo Stato una cura gratuita per la preservazione della fertilità.

Il video artistico presentato nell’esposizione mostra l’artista mentre attraversa l’umiliante mondo della medicina istituzionale dominata dai maschi. I video si basano sulla sua auto-documentazione durante tre sedute di congelamento degli ovuli, mentre parla con ginecologi e medici, tecnici, membri della famiglia e con il suo compagno dell’epoca.

Nei video è interpretata da una figurina archeologica che muove il proprio corpo in risposta ai movimenti di Patir attraverso sensori (l’artista non compare nei video e si può sentire solo la sua voce).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Di fronte a livelli catastrofici di acuta insicurezza alimentare a Gaza, Israele continua a impedire l’accesso ai rifornimenti necessari per salvare le vite

Euro Mediterranean Monitor

15 aprile 2024-Euro-Mediterranean Human Rights Monitor.

Territorio palestinese – Israele continua a ostacolare l’ingresso e la distribuzione di rifornimenti umanitari di base nella Striscia di Gaza, in particolare nella città di Gaza e nei governatorati di Gaza Nord, minacciando di esacerbare e approfondire la carestia diffusa in quei luoghi. Secondo le stime delle Nazioni Unite questi due governatorati ospitano  almeno 300.000 persone.

La restrizione da parte di Israele dell’accesso umanitario nella Striscia di Gaza, in particolare nelle parti settentrionali della Striscia, e il suo blocco alla consegna tempestiva di forniture alimentari salvavita stanno peggiorando drasticamente la già terribile insicurezza alimentare che la popolazione palestinese si trova ad affrontare. Ciò la espone al rischio di morte per fame, in particolare visto l’aumento del numero di bambini che muoiono per malnutrizione acuta, fame e malattie correlate: 28 bambini sono morti solo per fame e malnutrizione.

Le autorità israeliane continuano a impedire l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia attraverso i valichi terrestri; ne consegue che gli aiuti non possono entrare in modo tempestivo, efficiente e sistematico. Israele sta inoltre imponendo ulteriori restrizioni alle operazioni di distribuzione e consegna anche dopo l’ingresso degli aiuti nell’enclave, in particolare ostacolandone su base quasi quotidiana l’arrivo e la distribuzione nelle aree settentrionali della Striscia. Ciò è particolarmente problematico alla luce dell’attacco in corso da parte dell’esercito israeliano al campo profughi di Nuseirat, iniziato due giorni fa e che si prevede peggiorerà la situazione, e del suo potenziale attacco a Rafah.

Israele continua a violare i suoi obblighi internazionali – compresi quelli di potenza occupante – nonché la sentenza del 28 marzo della Corte Internazionale di Giustizia che gli impone di adottare misure necessarie ed efficaci e di collaborare con le Nazioni Unite per garantire che gli aiuti umanitari raggiungano la Striscia senza ostacoli o ritardi al fine di adempiere ai propri obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio.

Inoltre Israele sta violando la risoluzione n. 2728 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 25 marzo, la quale afferma che tutti gli ostacoli che impediscono agli aiuti umanitari di raggiungere i residenti della Striscia di Gaza devono essere rimossi; chiede inoltre di aumentare la quantità di aiuti che vi affluiscono e di migliorare la sicurezza dei residenti. Israele non ha fatto alcuno sforzo per modificare le sue politiche illegali o le misure arbitrarie per facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e garantirne l’arrivo sicuro e tempestivo, in particolare nelle regioni settentrionali. Israele persiste nel suo crimine di affamare la popolazione civile della Striscia nonostante tutte queste risoluzioni internazionali giuridicamente vincolanti e gli obblighi ad esso imposti.

Israele ha permesso a 169 camion umanitari di entrare quotidianamente a Gaza attraverso il valico Kerem Abu Slem/Kerem Shalom e il valico terrestre di Rafah dall’inizio di aprile. Si tratta comunque di un numero di gran lunga inferiore ai 500 camion al giorno che entravano nella Striscia prima del 7 ottobre, nonché alla capacità operativa di entrambi i valichi di frontiera. Gli aiuti umanitari che arrivano a questo ritmo fanno presagire una vera catastrofe e un’ulteriore diffusione della fame, che ha già fatto sì che i residenti perdessero peso in modo pericoloso per la salute e rischiassero la vita aspettando i camion degli aiuti vicino ai checkpoint israeliani, che sono diventati “aree di morte”  e quindi le folle affamate di civili sono spesso prese di mira dall’esercito israeliano.

Nonostante non siano stati compiuti reali progressi, Israele sostiene da settimane che c’è stato un cambiamento nella quantità di aiuti che entrano nella Striscia, in conformità con i termini dell’accordo degli Stati Uniti e con i dati forniti da Israele al Coordinatore delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati. Tuttavia non è stata intrapresa alcuna azione reale. Il numero di camion autorizzati ad entrare nella Striscia, in particolare nella città di Gaza e nel nord di Gaza, rimane invariato. Inoltre, il checkpoint di Erez/Beit Hanoun nel nord di Gaza resta chiuso e, contrariamente a quanto riportato dai media israeliani, il porto di Ashdod non è stato utilizzato per trasportare aiuti umanitari nella Striscia.

Da quando Israele ha deciso ufficialmente di tagliare cibo e acqua ai residenti della Striscia di Gaza ci sono stati ministri del governo israeliano che hanno dichiarato apertamente che la fame e gli aiuti devono essere usati come strumento di pressione, ricatto e arma a sostegno dei continui attacchi militari ormai in corso da sette mesi consecutivi.

Le notizie di un aumento del numero di camion che entrano nella Striscia di Gaza sono di per sé insufficienti, soprattutto se si tengono presenti i disperati e crescenti bisogni degli abitanti della Striscia.

Israele deve porre fine al suo crimine di affamare il popolo della Striscia e garantire che gli aiuti umanitari possano arrivare regolarmente su base permanente e in una quantità tale da soddisfare i bisogni della popolazione palestinese, indipendentemente dalle convenienze e dalle condizioni israeliane. È inoltre necessario compiere ulteriori sforzi per garantire il lavoro degli operatori umanitari che distribuiscono questi aiuti, la sicurezza dei civili che li ricevono e per garantirne il flusso verso il nord di Gaza il più rapidamente possibile.

Jamie McGoldrick, il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite che supervisiona gli aiuti alla crisi a Gaza, ha recentemente dichiarato che “La situazione per gli abitanti di Gaza rimane disastrosa nonostante le speranze derivanti dai recenti impegni di Israele di aumentare l’assistenza”.

Nel frattempo, Jens Laerke, portavoce dell’ufficio per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite (OCHA), ha recentemente affermato che “ai convogli alimentari coordinati dalle Nazioni Unite è tre volte più probabile che venga negato l’accesso al nord di Gaza rispetto ad altri convogli umanitari”.

Secondo un recente rapporto dell’OCHA l’accesso a Gaza è caratterizzato da “lunghi processi di ispezione, carenza di carburante derivante dalle restrizioni israeliane e restrizioni sulla circolazione di camion, convogli e controlli dei conducenti… e congestione al valico di Kerem Shalom” mentre l’ingresso di assistenza umanitaria e beni commerciali direttamente nel nord di Gaza, dove si prevede che il 70% della popolazione sarà a rischio di carestia tra metà marzo e metà luglio 2024, rimane estremamente limitato.

Il rapporto sottolinea che all’interno di Gaza solo il 26% delle missioni alimentari pianificate verso aree ad alto rischio che richiedono coordinamento con le autorità israeliane sono state agevolate; Il 51% ha ricevuto un rifiuto o un impedimento; e il 23% è stato rinviato o ritirato a causa di “problemi di sicurezza” o “vincoli operativi”.

Ci sono solo tre strade che Israele consente di utilizzare ai convogli di aiuti umanitari per raggiungere la Striscia di Gaza settentrionale: la strada militare sul lato orientale di Gaza, la strada costiera Rashid e la strada centrale Salah al-Din. Ciò che è molto meno ampiamente documentato è che in contemporanea anche le Nazioni Unite hanno due o tre strade di accesso e che queste strade sono “in pessime condizioni” e non forniscono alcuna garanzia di sicurezza.

L’UNICEF ha dichiarato il 10 aprile che uno dei suoi veicoli è stato colpito da “proiettili veri” mentre attendeva a un posto di blocco israeliano allestito su Salah al-Din Road per consegnare aiuti salvavita nel nord di Gaza, compreso cibo terapeutico per i bambini a rischio di malnutrizione e mortalità prevenibile.

Allo stesso modo Oxfam ha recentemente riferito che le persone nel nord di Gaza sono costrette a sopravvivere con una media di appena 245 calorie al giorno da gennaio. Si ritiene che oltre 300.000 persone siano ancora intrappolate lì, impossibilitate ad andarsene e sopravvivendo con meno del 12% del fabbisogno calorico giornaliero medio. Gaza è una trappola mortale per i bambini.

Trenta palestinesi, per lo più bambini, sono morti negli ospedali per malnutrizione e disidratazione; tuttavia le stime di Euro-Med Monitor suggeriscono che il numero delle vittime della fame è molto più elevato. Ciò è dovuto alla mancanza di meccanismi chiari per tenere traccia delle morti legate al problema e al collasso del sistema sanitario nella parte settentrionale della Striscia dove le vittime continuano a cadere, anche a seguito dei bombardamenti israeliani, e vengono sepolte dalle loro famiglie senza registrazione ufficiale.

Alla luce di quanto sopra Euro-Med Human Rights Monitor sollecita, tra le altre raccomandazioni, la comunità internazionale a rispettare i propri doveri legali e morali nei confronti delle persone che vivono nella Striscia di Gaza. La comunità internazionale deve garantire che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia venga eseguita e porre fine al genocidio che la Corte ha dichiarato a gennaio probabilmente in corso nella Striscia di Gaza. Euro-Med Monitor invita tutti gli Stati a rispettare i propri obblighi internazionali interrompendo ogni sostegno militare, finanziario e politico alla guerra genocida di Israele contro il popolo palestinese della Striscia di Gaza e, in particolare, tutti i trasferimenti di armi a Israele.

È necessario esercitare immediatamente una pressione internazionale su Israele per impedirgli di compiere il crimine di affamare la popolazione della Striscia di Gaza; costringere Israele a revocare completamente l’assedio; stabilire i sistemi necessari per garantire la consegna sicura, efficiente e tempestiva dei rifornimenti umanitari e intraprendere azioni decisive contro la carestia che si diffonde rapidamente tra i civili palestinesi nella Striscia di Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Diversi palestinesi feriti in seguito ai nuovi attacchi dei coloni in Cisgiordania

Fayha Shalash , Ramallah

13 aprile 2024 – Middle East Eye

Gli attacchi sono avvenuti il giorno dopo che centinaia di coloni hanno devastato il villaggio di al-Mughayyir, uccidendo un palestinese e ferendone altri 25.

Sabato coloni israeliani hanno attaccato dei villaggi nella Cisgiordania occupata, ferendo diversi palestinesi e dando fuoco a case e automobili, con la totale protezione dell’esercito israeliano.

L’attacco è avvenuto il giorno dopo che centinaia di coloni, molti dei quali armati, hanno devastato il villaggio di al-Mughayyir, a nordest di Ramallah, dopo che venerdì un adolescente israeliano era scomparso da una vicina colonia.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sabato ha detto che il ragazzo israeliano scomparso è stato trovato morto in Cisgiordania.

Barakat Dawabsha, un abitante di Duma, a sud di Nablus, ha detto a Middle East Eye che più di 500 coloni armati hanno attaccato il villaggio dai lati nord, ovest e sud.

Ha detto che parecchie persone sono state ferite da proiettili veri e decine di case e veicoli sono stati bruciati. I coloni hanno anche assalito le persone con bastoni e pietre, causando ulteriori traumi. Dawabsha afferma: “L’esercito israeliano protegge i coloni. Ho visto con i miei occhi un soldato dare fuoco ad un veicolo. La situazione è molto difficile e le persone cercano di proteggere le loro case e proprietà con i loro corpi”.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto che i soldati israeliani hanno impedito alle sue squadre di entrare nel villaggio per curare i feriti. Alla fine un’ambulanza è stata lasciata entrare dopo tre ore.

Secondo Dawabsha decine di palestinesi abitanti del villaggio non hanno potuto ritornare alle loro case da venerdì sera a causa delle chiusure imposte dall’esercito israeliano in diversi villaggi a sud di Nablus e a nord di Ramallah per condurre le ricerche del colono scomparso.

Decine di veicoli e autobus pieni di coloni stanno ancora arrivando agli ingressi di Duma per partecipare al feroce attacco.

Secondo la Wafa [agenzia stampa ufficiale dell’Autorità Palestinese, ndt.]

da sabato mattina i coloni israeliani hanno attaccato anche le cittadine di Silwad, Turmus Aya, Sinjil e Deir Dibwan.

Il più terribile attacco negli ultimi anni’

Centinaia di coloni spalleggiati da soldati venerdì pomeriggio hanno attaccato al-Mughayyir, sparando agli abitanti e bruciando proprietà palestinesi. Secondo la Mezzaluna Rossa Palestinese, un palestinese, identificato come il 26enne Jihad Abu Alia, è stato ucciso e altri 25 sono stati feriti, inclusi otto con pallottole vere.

Kazem al-Hajj, uno degli attivisti che si oppongono alle colonie israeliane nel villaggio, ha detto a Middle East Eye che l’attacco è stato “il più terribile degli ultimi anni.”

Appena gli abitanti del villaggio hanno sentito dell’attacco dei coloni hanno cercato di contrastarli dirigendosi verso la zona a nord. Jihad Abu Alia era uno di loro, ma è stato colpito alla testa dai proiettili dei coloni ed è caduto immediatamente a terra”, dice Hajj.

Abu Alia è morto dissanguato perché i soldati israeliani hanno impedito alle ambulanze di raggiungere il ferito.

Durante l’assalto i coloni hanno dato fuoco a più di 40 strutture palestinesi e a 50 veicoli ad al-Mughayyr, provocando incendi anche nei terreni agricoli vicini.

La scena era terribile, nuvole di fumo riempivano il villaggio e il suono delle ambulanze non cessava in mezzo alle intense e continue sparatorie”, dice Hajj.

I coloni provenivano dall’avamposto Mallahi, creato negli ultimi due anni sopra il campo dell’esercito israeliano Jabeit, originariamente costruito su terra palestinese a nord di Ramallah.

Hajj ha detto che il villaggio ha subito attacchi quotidiani da parte dei coloni “che perseguivano una politica di insediamento pastorizio per controllare i terreni del villaggio”, con la palese protezione dei soldati israeliani.

In isolamento

Diverse ore dopo l’inizio dell’attacco l’esercito israeliano si è ritirato dal villaggio, ma è rimasto ai suoi ingressi imponendo una chiusura totale e installando posti di blocco.

Le forze israeliane hanno anche devastato parecchi villaggi palestinesi vicini e hanno condotto operazioni di ricerca con il sostegno di un elicottero.

Durante la notte cinque palestinesi sono stati feriti in un altro attacco dei coloni nel villaggio di Abu Falah vicino a Ramallah, come riferito dall’agenzia stampa ufficiale palestinese Wafa.

Il giornalista Mohammed Turkman ha detto che i soldati hanno deliberatamente attaccato i giornalisti mentre documentavano l’attacco dei coloni a al-Mughayyir.

Uno dei soldati mi ha preso di mira e un altro mi ha sparato direttamente. Fortunatamente il proiettile è finito vicino a me, ma avrei potuto essere uno dei feriti”, ha detto Turkman a MEE.

Turkman ha detto che il vasto attacco è stato condotto dai coloni da un lato e dai soldati dall’altro, mentre veniva totalmente impedito alle ambulanze di avvicinarsi.

I giornalisti non hanno potuto lasciare il villaggio dopo che l’esercito israeliano si è ritirato e ha isolato al-Mughayyir e sono stati costretti a rimanere a casa di Hajj.

Due auto bruciate durante il pogrom dei coloni al villaggio al-Mughayyir. Foto Mohammed Turkman

Non è la prima volta che abbiamo subito aggressioni durante il nostro lavoro. Durante ogni reportage i soldati cercano di attaccarci, soprattutto se intorno ci sono dei coloni”, dice Turkman.

Al-Mughayyr è rimasto isolato sabato e le forze israeliane hanno impedito che il corpo di Abu Alia fosse portato nel villaggio per il funerale, costringendo a rimandarlo fino a quando l’esercito non rimuoverà i posti di blocco.

(Traduzione dall’inglese di cristiana Cavagna)




Dr. Ghassan Abu-Sittah: “Domani sarà il giorno della Palestina”

Ghassan Abu Sitta

12 aprile 2024 – Mondoweiss

Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite della Gaza di domani. Il domani sarà nostro. Domani sarà il giorno della Palestina.

Il 12 aprile il governo tedesco ha impedito al dottor Ghassan Abu-Sittah di entrare nel Paese per parlare ad una conferenza a Berlino come testimone del genocidio di Gaza. Il giorno prima, l’11 aprile, Abu-Sittah era stato insediato come rettore dell’Università di Glasgow alla Bute Hall dopo la sua vittoria schiacciante con l’80% dei voti. Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del dr. Abu-Sittah.

Ogni generazione deve scoprire la propria missione, compierla o tradirla, in relativo anonimato”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 minori palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% minori e dei 4-5.000 minori ai quali sono stati amputati gli arti.

Hanno votato in solidarietà con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e di 12 università completamente rase al suolo. Hanno espresso solidarietà con i familiari e in ricordo di Dima Alhaj [palestinese di 29 anni, amministratrice per lOMS presso il Centro di ricostruzione degli arti a Gaza City, ndt.] una ex studentessa dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

Allinizio del XX secolo Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nellEuropa occidentale sarebbe dipeso dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro limperialismo e con le colonie schiaviste. Gli studenti dellUniversità di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo che la nostra politica divenga disumana. Capiscono anche che ciò che vi è di importante e diverso a Gaza è che essa è il laboratorio in cui il capitale globale elabora la modalità di gestione della sovrappopolazione.

Hanno espresso solidarietà con Gaza e il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni dotati di fucili di precisione – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte allospedale Al-Ahli abbiamo accolto oltre 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste creazioni tecnologiche – impiegati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, Nairobi e San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn [quartieri operai di Glasgow, ndt.].

Quindi chi hanno eletto in definitiva questi studenti? Mi chiamo Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, a parte me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che venne ceduta da uno dei rettori dell’Università di Glasgow che mi hanno preceduto. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dellUniversità di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, evidentemente ad uno stadio culturale non profondamente diverso da quello prevalente tra gli uomini preistorici”, disse Balfour durante il suo discorso in rettorato nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò lAliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dellEuropa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920 mio nonno Sheikh Hussain costruì con i propri soldi una scuola nel piccolo villaggio dove viveva la mia famiglia. Lì gettò le basi per un legame che avrebbe reso leducazione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dellHaganah [organizzazione paramilitare ebraica, ndt.] effettuarono la pulizia etnica in quel villaggio e portarono la mia famiglia, che viveva su quella terra da generazioni, in un campo profughi a Khan Younis, ora in rovina, nella Striscia di Gaza. Le memorie dellufficiale dellHaganah che aveva invaso la casa di mio nonno furono ritrovate da mio zio. In queste memorie l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e vi fosse un certificato di laurea in giurisprudenza dell’Università del Cairo appartenente a mio nonno.

Lanno dopo la Nakba mio padre si laureò in medicina allUniversità del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nellUNRWA nelle sue cliniche appena aperte. Ma come molti della sua generazione, si trasferì nel Golfo per contribuire a costruire il sistema sanitario di quei Paesi. Nel 1963 venne a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.

E così è stato che nel 1988 sono arrivato a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui ho scoperto cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone a confronto con i momenti più dolorosi della vita della e come, se sei dotato della giusta visione politica, sociologica ed economica, puoi comprendere come la vita delle persone venga modellata, e molte volte distorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho scoperto il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di associazioni che organizzavano momenti di solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il Comune di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato in Iraq in occasione della prima guerra americana nel 1991; poi nel 1993 con Mike Holmes nel Libano meridionale; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi in occasione delle guerre intraprese dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021 e della guerra di Mosul nel nord dellIraq, a Damasco durante la guerra in Siria e in occasione della guerra nello Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre, quando sono arrivato a Gaza, che ho visto svolgersi il genocidio.

Tutto ciò che sapevo sulle guerre è nulla rispetto a ciò che ho visto. È come paragonare unalluvione con a uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine assassine nella Striscia di Gaza fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi, metà dei quali minori. Dopo il mio rientro gli studenti dellUniversità di Glasgow mi hanno chiesto di candidarmi alla nomina di rettore. Poco dopo uno dei selvaggi di Balfour ha vinto l’elezione.

Quindi cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scuolicidio, leliminazione di intere istituzioni educative, sia delle infrastrutture che delle risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo: 12 università e 400 scuole completamente rase al suolo; 6.000 studenti, 230 insegnanti di scuola, 100 tra docenti e presidi e due rettori universitari uccisi.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocidario è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto delliceberg è costituito da un asse del genocidio. Questo è costituito dagli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, lAustralia, il Canada e la Francia… Paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano con le armi a sostenere il genocidio – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida perché proseguisse. Non dovremmo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone col lancio paracadutato di aiuti alimentari.

Ho anche scoperto che a far parte dell’iceberg ci sono dei facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni ambito dell’esistenza, in ogni istituzione. Questi facilitatori del genocidio sono di tre tipi:

    • I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterizzazione dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 minori uccisi e che rimangono incapaci di piangere per loro. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati profondamente distrutti da tale barbarie.

    • Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “erano privi di qualsiasi motivazione, a parte una scrupolo eccezionale nel badare al proprio tornaconto”.

    • I terzi sono gli apatici. Come dice Arendt, il male prospera nellapatia e non può esistere senza di essa”.

Nellaprile del 1915, un anno dopo linizio della prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse sulla società borghese tedesca. Violati, disonorati, che sguazzano nel sangue… la bestia famelica, il sabba anarchico delle streghe, una piaga per la cultura e lumanità.” Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno di proposito al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato gli arti incurabili di bambini feriti non possono mai provare altro che il massimo disprezzo per tutti coloro coinvolti nella fabbricazione, progettazione e vendita di questi strumenti brutali. Lo scopo della produzione di armi è distruggere la vita e devastare la natura. Nellindustria degli armamenti i profitti aumentano non solo come risultato delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma mediante il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. Lidea che ci sia la pace o un mondo non inquinato mentre il capitale cresce grazie alla guerra è ridicola. Né il commercio delle armi né quello dei combustibili fossili trovano posto allUniversità.

Allora, qual è il nostro piano, di questo selvaggio” e dei suoi complici?

In questa università faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili, sia per ridurre i rischi dell’università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia secondo cui si tratta plausibilmente di una guerra genocida sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità in genocidio.

Il denaro insanguinato dal genocidio ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà a nome di Dima Alhaj, in ricordo di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di organizzazioni di studenti e della società civile e di sindacati per trasformare lUniversità di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.

Faremo una campagna per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca allUniversità di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.

Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dalla complicità con lapartheid e la negazione dellistruzione per i palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Faremo una campagna per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda lantisionismo e l’opposizione al colonialismo genocida israeliano con lantisemitismo.

Lotteremo insieme a tutte le comunità alterizzate e soggette a razzismo, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi sottoposti a razzismo, contro il nemico comune del crescente fascismo di destra, ora assolto dalle sue radici antisemite da parte di un governo israeliano in cambio del sostegno alleliminazione del popolo palestinese.

Proprio questa settimana abbiamo appena visto come unistituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato unintellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista ebreo antisionista, per antisemitismo.

Durante il volo ho avuto la fortuna di leggere We Are Free to Change the World[Siamo liberi di cambiare il mondo] di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando lesperienza dellimpotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complesso, è più importante”. 90 anni fa, nel suo Canto della solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: Di chi è il domani? E di chi è il mondo?”

Ebbene, ecco la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è vostro il mondo per cui lottare. È vostro il domani da realizzare. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza per la cancellazione del genocidio è parlare del domani di Gaza, pianificare domani la guarigione delle ferite di Gaza. Prenderemo possesso del domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando lUniversità di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto sognare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto sostenere e difendere davanti alla Corte Internazionale di Giustizia il diritto del popolo palestinese a vivere come liberi cittadini di una libera nazione.

Uno degli obiettivi di questo genocidio è quello di lasciarci affogare nel nostro dolore. Come nota personale, voglio dedicare uno spazio per poter, io e la mia famiglia, piangere i nostri cari. Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni nel giorno del suo compleanno. Lo dedico alla memoria del mio collega dottor Midhat Saidam, uscito per mezz’ora per portare nella loro casa sua sorella perché stesse al sicuro con i figli e non più tornato. Lo dedico al mio amico e collega dr. Ahmad Makadmeh, giustiziato con sua moglie poco più di 10 giorni fa dall’esercito israeliano nell’ospedale di Shifa. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, responsabile del pronto soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole del sempre presente Mahmoud Darwish,

Per la nostra terra, ed è un prezzo della guerra,

la libertà di morire di nostalgia e di incendio

e la nostra terra, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per chi è lontano, lontano

e illumina ciò che c’è fuori…

Quanto a noi, dentro,

soffochiamo di più!”

E ora voglio concludere con una speranza. Con le parole dellimmortale Bobby Sands, La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Un nuovo abisso”: Gaza e la guerra dei cento anni contro la Palestina

Rashid Khalidi

Giovedì 11 aprile 2024 – The Guardian

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi terribili degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia

Per le persone di tutto il mondo, me compreso, le immagini terribili che giungono da Gaza e da Israele dal 7 ottobre 2023 sono ineludibili. Questa guerra incombe su di noi come un’immobile nuvola nera che diventa sempre più oscura e inquietante con il passare delle interminabili settimane di orrore che si succedono davanti ai nostri occhi. Avere amici e parenti lì rende tutto questo molto più difficile da sopportare per molti di noi che vivono lontano.

Alcuni hanno sostenuto che questi eventi rappresentano una rottura, uno sconvolgimento, che questo sia stato “l’11 settembre di Israele” o che si tratti di una nuova Nakba, un genocidio senza precedenti. Certamente, la portata di questi eventi, le riprese quasi in tempo reale di atrocità e devastazioni insopportabili – in gran parte catturate sui telefoni e diffuse sui social media – e l’intensità della risposta globale non hanno precedenti. Sembra di trovarsi in una nuova fase, dove l’esecrabile “processo di Oslo” è morto e sepolto, dove l’occupazione, la colonizzazione e la violenza si stanno intensificando, il diritto internazionale viene calpestato e le placche tettoniche da tempo immobili si stanno lentamente muovendo.

Ma anche se molto è cambiato negli ultimi sei mesi, gli orrori di cui siamo testimoni possono essere veramente compresi solo come una nuova fase catastrofica di una guerra che va avanti da diverse generazioni. Questa è la tesi del mio libro The Hundred YearsWar on Palestine [La Guerra dei Cent’anni contro la Palestina, ndt.]: che gli eventi succedutisi in Palestina a partire dal 1917 sono il risultato di una guerra in più fasi condotta contro la popolazione indigena palestinese da grandi potenti mecenati del movimento sionista – un movimento allo stesso tempo colonialista e nazionalista, che mirava a sostituire il popolo palestinese nella sua patria ancestrale. Queste potenze si sono successivamente alleate con lo Stato-Nazione israeliano nato da quel movimento. Nel corso di questa lunga guerra i palestinesi hanno resistito strenuamente all’usurpazione del loro Paese. Questo quadro è indispensabile per spiegare non solo la storia del secolo scorso e oltre, ma anche la brutalità a cui abbiamo assistito dal 7 ottobre.

Sotto questa luce, è chiaro che non si tratta di una lotta secolare tra arabi ed ebrei che va avanti da tempo immemorabile, e non è semplicemente un conflitto tra due popoli. È un prodotto recente dell’irruzione dell’imperialismo in Medio Oriente e dell’ascesa dei moderni nazionalismi degli Stati-Nazione, sia arabi che ebrei; è un prodotto dei violenti metodi di insediamento coloniale europei impiegati dal sionismo per “trasformare la Palestina nella terra di Israele”, secondo le parole di uno dei primi leader sionisti, Ze’ev Jabotinsky; ed è un prodotto della resistenza palestinese a questi metodi.

Inoltre questa non è mai stata solo una guerra tra il sionismo e Israele da una parte e i palestinesi dall’altra, occasionalmente sostenuta da attori arabi e di altro tipo. Ha sempre comportato l’intervento massiccio delle più grandi potenze dell’epoca dalla parte del movimento sionista e di Israele: la Gran Bretagna fino alla seconda guerra mondiale e da allora gli Stati Uniti e altri. Queste grandi potenze non sono mai state mediatori neutrali o onesti, ma hanno sempre partecipato attivamente a questa guerra a sostegno di Israele. In questa guerra tra colonizzatori e colonizzati, oppressori e oppressi, non c’è stato nulla che si avvicinasse lontanamente all’equivalenza tra le due parti, ma piuttosto un vasto squilibrio a favore del sionismo e di Israele.

Questa tesi è stata crudamente confermata dagli eventi successivi al 7 ottobre, con lo squilibrio di potere evidente nella sproporzione delle dimensioni di morte, distruzione e sfollamento: il rapporto tra palestinesi e israeliani uccisi finora è di circa 25 a 1. Ciò è ulteriormente rafforzato dallo straordinario livello di sostegno politico, diplomatico e militare degli Stati Uniti a Israele, combinato con quello del Regno Unito e di altri Paesi occidentali, in contrasto con il relativamente limitato sostegno militare e finanziario ai palestinesi da parte dell’Iran e di diversi attori non statali.

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia. Possiamo comprenderli correttamente solo nel contesto della guerra secolare intrapresa contro la Palestina, nonostante gli sforzi di Israele di negare la rilevanza del contesto e di spiegarli nei termini della “barbarie” caratteristica dei suoi nemici. Anche se le azioni di Hamas e Israele a partire dal 7 ottobre potrebbero sembrare un cambiamento o una svolta, esse sono coerenti con decenni di pulizia etnica israeliana, occupazione militare e furto della terra palestinese, con anni di assedio e deprivazione della Striscia di Gaza, e con una risposta palestinese a queste azioni spesso violenta.

Comunque vada a finire, questo episodio della lunga guerra contro la Palestina ha chiaramente avuto un profondo impatto traumatico sia sui palestinesi che sugli israeliani. Ciò è vero in termini di numero eccezionale di persone uccise, ferite, disperse, catturate o detenute; distruzione senza precedenti di case e infrastrutture nella Striscia di Gaza; l’enorme numero di famiglie colpite, soprattutto tra i palestinesi; e l’intenso impatto psicologico di questi eventi.

In un breve periodo sono stati arrecati danni immensi alle popolazioni civili palestinesi e israeliane. Il bilancio palestinese di oltre 33.000 morti, insieme a forse 8.000 dispersi e presumibilmente morti, la stragrande maggioranza dei quali civili, è di gran lunga il più alto mai registrato in qualsiasi fase di questa guerra lunga un secolo. Nella guerra del 1947-49 furono uccisi circa 15.000 civili e combattenti palestinesi; nel 1982, durante l’invasione del Libano e l’assedio di Beirut, Israele uccise più di 19.000 civili e combattenti palestinesi e libanesi. Nei sei mesi trascorsi dal 7 ottobre il numero di morti e feriti – circa 120.000 – corrisponde a circa il 5% della popolazione della Striscia di Gaza di 2,3 milioni.

Il bilancio di oltre 800 vittime civili in Israele è il più alto dalla guerra del 1948. Finora sono stati uccisi più di 685 soldati, poliziotti e personale di sicurezza israeliani – più del numero di soldati uccisi nella guerra del Sinai del 1956, nell’invasione del Libano del 1982, nella seconda Intifada e nella guerra del Libano del 2006. Il totale delle vittime israeliane, compresi soldati e civili uccisi e feriti, ha superato quello della guerra del 1967. Inoltre, nell’ottobre dello scorso anno sono stati fatti prigionieri circa 250 civili e soldati israeliani e cittadini stranieri, e più di 100 sono ancora tenuti in ostaggio.

Durante l’intero corso di questa lunga guerra, un numero così elevato di palestinesi e israeliani non era mai stato cacciato dalle proprie case. Mentre tra il 1947 e il 1949 circa 750.000 palestinesi – più della metà della popolazione palestinese dell’epoca – furono sottoposti alla pulizia etnica da quello che divenne Israele, e circa 300.000 nella Cisgiordania e la Striscia di Gaza dopo l’occupazione del 1967, questi numeri sono stati oscurati dalla cifra di circa 1,7 milioni di abitanti di Gaza che Israele ha sfollato dal 7 ottobre. Nel frattempo, almeno 250.000 israeliani sono stati sfollati dagli insediamenti coloniali e dalle città nelle aree al confine con la Striscia di Gaza e il Libano.

Questi shock traumatici hanno avuto un impatto enorme su entrambe le società. In Israele, la violenza del 7 ottobre, in particolare l’elevato numero di civili uccisi, feriti e catturati, con i raccapriccianti risultati diffusi in diretta streaming tramite i social media e ripetutamente trasmessi in televisione, ha avuto un impatto viscerale sull’intero Paese. Gli attacchi hanno evocato ricordi storici di violenza e persecuzione e hanno distrutto il senso di sicurezza che Israele riteneva di aver fornito ai suoi cittadini. Sembra quasi che, nella coscienza pubblica israeliana, dal 7 ottobre il tempo si sia fermato mentre l’effetto bruciante di questo trauma collettivo si ripete come in un ciclo senza fine. Il risultato è stato quello di accelerare lo spostamento verso destra in atto nella società israeliana, con i politici e il discorso pubblico diventati ancora più aggressivi e intransigenti. Gli attacchi hanno provocato un’intensa sete di vendetta, evidente dal modo brutale in cui è stata condotta la guerra di Israele, e il senso di perpetuo vittimismo della nazione è stato rafforzato, nonostante l’immenso squilibrio di potere tra Israele e palestinesi.

Il flusso infinito di immagini della devastazione di Gaza, dell’enorme numero di vittime, delle decine di famiglie completamente spazzate via dagli attacchi dell’intelligenza artificiale israeliana, e della fame e delle malattie causate dalle paralizzanti restrizioni israeliane sul transito di acqua, cibo, medicine, carburante ed elettricità nella Striscia di Gaza – palesi violazioni del diritto internazionale umanitario – hanno traumatizzato i palestinesi ovunque. Genitori e nonni avevano raccontato loro della Nakba e di altri tragici episodi della storia del loro popolo. Ma guardando il paesaggio lunare in cui Israele ha trasformato Gaza, i palestinesi sono comunque rimasti scioccati dallo spietato omicidio di migliaia di civili e dalla vasta distruzione di case, ospedali, scuole, luoghi di culto e infrastrutture, in quello che è stato descritto da un rapporto statunitense storico militare come “una delle più intense campagne di punizione sui civili della storia”. Oltre a dover affrontare per mesi queste orribili realtà i palestinesi sono ossessionati dai ricordi storici della Nakba e dalla domanda su quando e se questa guerra finirà e su come gli abitanti di Gaza potranno mai avere di nuovo una vita normale.

Questi eventi scioccanti hanno avuto eco in tutto il mondo, poiché la serie apparentemente infinita di atrocità che Israele ha inflitto agli abitanti di Gaza è stata vista in tempo reale sui media tradizionali, alternativi e sui social media. Questa è la prima volta che una generazione di giovani in tutto il mondo guarda da mesi tali immagini di carneficina. A gennaio un sondaggio ha rilevato che quasi la metà degli americani tra i 18 e i 29 anni crede che Israele stia commettendo un genocidio. La Palestina è diventata una causa fondamentale per attivisti giovani e meno giovani, unendo varie correnti di opposizione allo status quo globale. Allo stesso tempo, ha diviso le famiglie lungo linee generazionali, mandando in frantumi il compiacente consenso tra i liberali occidentali secondo cui, nonostante i suoi difetti, Israele sarebbe una forza positiva.

Israele è stato accusato dal Sudafrica del genocidio di Gaza davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che con un voto schiacciante ha accettato di esaminare il caso e ha ordinato misure provvisorie. Questa non è la prima volta che Israele viene accusato di violare il diritto internazionale, accuse che disprezza, ma durante questa guerra il processo ha subito un’accelerazione infliggendo un danno crescente all’immagine internazionale sempre più offuscata di Israele.

La sofferenza che Israele sta provocando a Gaza ha ulteriormente diminuito la sua legittimità, già gravemente compromessa, a livello globale. Al di là della possibilità di una maggiore escalation della guerra in altre parti del Medio Oriente, le scosse di assestamento potrebbero avere conseguenze a lungo termine per la politica interna di Israele, dei palestinesi e degli Stati arabi e regionali, nonché sul futuro di Israele nella regione, e forse anche sull’esito delle elezioni presidenziali americane.

Questa guerra produrrà senza dubbio cambiamenti nella strategia a lungo termine di Israele nei confronti dei palestinesi. L’attacco a sorpresa del 7 ottobre e i successivi fallimenti sul campo di battaglia hanno messo in luce le debolezze della pianificazione militare, dell’intelligence e della sua decantata tecnologia di sorveglianza. Questi fallimenti hanno portato all’uccisione o alla cattura di più di 1.000 soldati e civili israeliani e all’invasione di numerosi insediamenti coloniali di confine, alcuni dei quali non sono stati riconquistati fino al 10 ottobre. Questa è stata una delle peggiori sconfitte nella storia militare di Israele. Questa è anche la prima volta dal 1948 che una guerra viene condotta con un tale grado di ferocia all’interno di Israele. Con la parziale eccezione della Seconda Intifada, in 75 anni Israele non è stato esposto a nulla di paragonabile a questo attacco diretto alla popolazione civile sul suo territorio.

Scosso da questa catastrofica sconfitta, il governo israeliano ha asserito che manterrà a lungo termine il controllo di sicurezza sulla Striscia di Gaza, rifiutandosi di ritirare completamente le sue truppe; il che in pratica equivarrebbe ad una estesa rioccupazione totale o parziale. Considerata la storia dell’enclave, che dal 1948 rappresenta il luogo di più intensa resistenza dei palestinesi all’espropriazione e al dominio da parte di Israele, potrebbe non esserci nel prossimo futuro un termine definito di questa nuova fase del conflitto.

Un altro cambiamento radicato nel fiasco militare del 7 ottobre è che esso rappresenta il temporaneo collasso della dottrina sulla sicurezza di Israele. Questa è spesso chiamata erroneamente “deterrenza”, ma in realtà deriva dall’approccio aggressivo insegnato per la prima volta ai fondatori delle forze armate israeliane – ufficiali come Moshe Dayan, Yigal Allon e Yitzhak Sadeh, membri scelti delle milizie Haganah e Palmach, addestrati alla fine degli anni ’30 da esperti veterani della contro-insurrezione coloniale britannica. La dottrina sostiene che attaccando preventivamente o attraverso una ritorsione con una forza schiacciante e colpendo direttamente le popolazioni civili considerate favorevoli agli insorti il nemico può essere sconfitto in modo decisivo, intimidito in modo permanente e costretto ad accettare le condizioni del colonizzatore. In passato, per quanto riguardava Gaza, questa dottrina – descritta dagli analisti israeliani come “falciare il prato” – prevedeva di colpire periodicamente la popolazione e ucciderne un gran numero per costringerla ad accettare uno status quo di assedio e blocco che durava da 17 anni.

Chiamo questo un crollo temporaneo della dottrina, perché mentre gli eventi del 7 ottobre hanno messo in luce nel fallimento di un approccio basato sulla forza l’esistenza di un problema essenzialmente politico, è chiaro che la leadership israeliana non ha imparato nulla. Invece ha raddoppiato le pratiche precedenti, in linea con l’adagio israeliano: “Se la forza non funziona, usa più forza”. I leader israeliani sembrano aver dimenticato la massima di Clausewitz secondo cui la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi.

Nelle parole del sociologo politico israeliano Yagil Levy, nella sua guerra contro Gaza il “quadro politico di Israele è un quadro militare. Netanyahu modella la politica all’interno di un mondo di concetti militari. Non esiste una strategia di uscita politica né una visione politica, che sono l’abc di ogni guerra”. Spinta dal desiderio di vendetta per l’umiliante sconfitta militare e dalla cieca adesione all’antiquata dottrina israeliana sulla sicurezza basata sulla forza, una leadership divisa non ha alcun comune obiettivo politico in questa campagna. Al contrario, brandisce il vuoto slogan della “vittoria completa” e l’idea di ripristinare un atteggiamento aggressivo di “deterrenza”, che è inutile perché manifestamente non è riuscito a scoraggiare gli attacchi in passato, e probabilmente sarà altrettanto inefficace in futuro.

Ci sono ampie prove che il governo israeliano originariamente desiderasse sfruttare l’opportunità offerta dalla guerra per effettuare un’ulteriore pulizia etnica dei palestinesi, sia con la loro espulsione in Egitto che in Giordania, e che, vergognosamente, gli Stati Uniti hanno cercato di persuadere entrambi i Paesi ad accettare questa soluzione, cosa che si si sono rifiutati categoricamente di fare. La forte fazione di coloni all’interno del governo sostiene ancora questo, e spera anche nella possibilità di reinsediarsi nella Striscia di Gaza.

Invece di definire un obiettivo politico preciso un governo israeliano privo di consenso sulla politica ha dichiarato che il suo obiettivo è la completa distruzione di Hamas, un’entità politico-militare-ideologica con diramazioni in tutta la Palestina e nella diaspora palestinese – una missione manifestamente impossibile. Potrebbe essere o meno fattibile per l’esercito israeliano sconfiggere in modo decisivo le forze militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, se Hamas riuscisse a mantenere anche solo una frazione delle sue capacità militari dopo molti mesi di combattimenti [Israele] potrebbe rivendicare una vittoria di Pirro. Come scrisse una volta Henry Kissinger: “La guerriglia vince se non perde. L’esercito convenzionale perde se non vince”. Qualunque sia l’esito militare, Hamas non sarà distrutta come forza politica né ideologica.

Alla luce dell’impatto devastante su Israele dell’attacco di ottobre, e nonostante il bilancio feroce della sua risposta, è improbabile che la filosofia della resistenza armata di Hamas scompaia finché non ci sarà la prospettiva di porre fine all’occupazione militare, alla colonizzazione e all’oppressione del popolo palestinese, o di un orizzonte politico che prometta una vera autodeterminazione e uguaglianza palestinese. Pertanto, uno sconvolgimento che avrebbe potuto essere un catalizzatore di cambiamento potrebbe di fatto produrre la continuità della colonizzazione e dell’occupazione, dell’affidamento esclusivo sulla forza da parte della classe dirigente israeliana e della resistenza palestinese armata.

Se le prospettive israeliane sono poco chiare, anche l’orizzonte politico postbellico per i palestinesi è nebuloso. In termini puramente militari, l’entità e la portata dell’attacco di Hamas a ottobre non hanno precedenti. Eppure, facendo ancora riferimento a Clausewitz, è difficile scorgere gli obiettivi politici di Hamas. Nel passato, in vari momenti, Hamas ha proclamato la sua disponibilità ad accettare uno Stato palestinese accanto a Israele, come nella sua dichiarazione di principi del 2017 che considerava “una formula di consenso nazionale la fondazione di uno Stato palestinese indipendente pienamente sovrano e con Gerusalemme come sua capitale sui confini del 4 giugno 1967, con il ritorno di rifugiati e sfollati alle loro case da cui erano stati espulsi.”

D’altro canto, nello stesso documento, Hamas aveva chiesto “la piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare,” e ha sistematicamente rifiutato di accettare la legittimità di Israele o di rinunciare alla violenza. Entrambe le tendenze sono state presenti in dichiarazioni contraddittorie fatte dai leader di Hamas da ottobre e in iniziative, precedenti e attuali, rivolte ad unirsi all’OLP e ad altre forze politiche palestinesi, o, alternativamente, a trattarle come rivali di cui prendere il posto.

Dal 7 ottobre entrambe queste tendenze si sono rafforzate fra differenti segmenti del popolo palestinese, con la resistenza armata che trova nuovi sostenitori, specialmente fra i giovani, e altri che cautamente sperano in una svolta nella direzione di uno Stato palestinese, sebbene l’Autorità Palestinese a Ramallah sia disprezzata dalla maggioranza dei palestinesi in quanto appaltatrice della sicurezza per conto dell’occupazione israeliana.

Una constante nei 100 anni di questa guerra è che ai palestinesi non è stato permesso di scegliere chi li rappresenta. Come nel passato, le loro preferenze possono risultare inaccettabili alle potenze, che siano Israele, gli stati occidentali o i loro clienti arabi. Queste potenze stanno probabilmente ancora cercando di imporre la loro scelta su chi rappresenti i palestinesi e chi non sia autorizzato a farlo, con i palestinesi stessi senza una voce in questa decisione. In mancanza di un accordo palestinese su una voce politica unificata e credibile che rappresentanti un consenso nazionale, questo significherebbe che la cruciale decisione sul futuro del loro popolo sarà presa da potenze esterne come è successo molte volte nel passato.

Israele ha presentato questa guerra come mirata esclusivamente contro Hamas, affermando di aver scrupolosamente obbedito al diritto umanitario internazionale, usando una forza “proporzionale” e discriminata e che le morti civili erano “danni collaterali” involontari perché Hamas ha usato i civili come “scudi umani”. I governi occidentali e i media mainstream hanno ripetuto queste affermazioni essenzialmente false, sebbene smentiti dalla morte di oltre 33.000 civili, fra cui, secondo l’Unicef, 13.000 minori, la cacciata di 1,7 milioni di persone e la distruzione, ovviamente intenzionale, della maggior parte delle infrastrutture della Striscia di Gaza con ospedali, impianti di purificazione dell’acqua, fogne, centrali elettriche, sistemi di telefonia e internet, scuole, università, moschee e chiese come obiettivi. Dopo sei mesi di guerra, le dimensioni di questa devastazione e del massacro e la fame di massa causati da Israele sembrano penetrare attraverso la nebbia del pensiero di gruppo perpetuato dai governi occidentali e la maggior parte dei media mainstream che precedentemente avevano ripetuto a pappagallo i punti salienti israeliani anche se ovviamente falsi.

Molti osservatori non accecati da questa fasulla narrazione israeliana vedono correttamente questa guerra come diretta contro la popolazione di Gaza nella forma di punizione collettiva, se non di genocidio. La risultante reazione sdegnata è stata quasi universale nel mondo arabo, in quasi tutti i Paesi musulmani e nella maggioranza dei Paesi del sud globale. In aumento sono le fasce delle popolazioni americane ed europee che hanno risposto in modo simile. Fino a tempi recentissimi questa reazione ha avuto uno scarso effetto sulle politiche di totale sostegno a Israele dell’amministrazione Biden, che vanno poco oltre deboli e palesemente insinceri rimproveri retorici. Per molti osservatori le consegne di armi e munizioni americane che bypassano le garanzie del congresso, la protezione diplomatica di Israele all’ONU, ripetizioni meccaniche dei punti chiave israeliani e la durezza di Biden e dei suoi funzionari verso le sofferenze palestinesi sono viste come elementi dell’attiva partecipazione nel commettere crimini di guerra e genocidio, guadagnando a Biden l’epiteto di “Genocida Joe”.

Dal 7 ottobre la forte simpatia per i palestinesi da parte dei popoli dei Paesi arabi e il loro pubblico sostegno per la loro causa (ove tali espressioni sono permesse e spesso anche dove non lo sono) hanno svelato la deliberata ignoranza dei decisori politici e commentatori occidentali e israeliani che hanno sostenuto che la causa palestinese non è importante per gli arabi e che può essere ignorata. In risposta agli attacchi israeliani contro Gaza ci sono stati mesi con le più vaste manifestazioni popolari mai viste da una decina di anni in numerose città arabe, fra cui Il Cairo, Amman, Manama e Rabat, capitali di Paesi che hanno relazioni diplomatiche con Israele. Alla fine i regimi autocratici che rovinano la regione potrebbero riuscire a reprimere la simpatia dei loro cittadini per i palestinesi e l’ostilità verso Israele. Ciononostante, in futuro, questi governi saranno obbligati a prendere più attentamente in considerazione l’appassionato senso di identificazione del loro popolo con la causa palestinese e ad adattare di conseguenza le loro politiche.

Da ottobre un altro elemento è emerso con grande rilevanza: il valore diseguale che le élite occidentali attribuiscono da un lato alle vite israeliane (identificate come “bianche”) e dall’altro a quelle arabe (identificate come “di colore”). Questo vergognoso doppio standard ha prodotto un’atmosfera tossica, repressiva negli spazi dominati da queste élite negli USA e un po’ meno Europa, specialmente nell’ambito politico, corporativo, dei media e nei campus universitari. L’ondata risultante di caccia alle streghe nei parlamenti, fra imprenditori, nel mondo di cultura e università si è concentrata sulle accuse che sostenere la libertà per i palestinesi e criticare le politiche israeliane o il sionismo sia in un qualche modo antisemita.

Queste asserzioni accettano l’affermazione che Israele e sionismo siano sinonimi di ebraismo, mentre ignorano il posto di rilievo di ebrei più progressisti e giovani che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle azioni del governo israeliano. È totalmente assurdo affermare che l’opposizione al sionismo o al colonialismo israeliano sia per principio antisemita. Se coloro che si sono insediati in Palestina fossero stati scandinavi cristiani perseguitati che si percepissero come missionari mandati da dio per sottrarre il Paese alla sua popolazione indigena non ci sarebbe stato nulla di “anticristiano” nel resistere ai loro sforzi.

Le élite occidentali fra i politici, i media e in altri ambienti che promuovono questa atmosfera maccartista di repressione hanno dimostrato che considerano l’uccisione di civili israeliani più degna di attenzione di quella della morte di 25 volte tanto di civili palestinesi. Perciò, con qualche eccezione, in generale i media mainstream individuano in dettaglio le morti di civili israeliani, descritte come il risultato di atrocità perpetrate da Hamas. In contrasto, molto più frequentemente si descrive il grandissimo numero di morti civili palestinesi collettivamente e in termini passivi e senza nominare l’autore israeliano delle loro uccisioni, come se la causa fosse sconosciuta o un fenomeno naturale. Quindi Israele non uccide: i palestinesi muoiono, Israele non affama i palestinesi, loro soffrono la fame.

Questo approccio palesemente di parte è un’arma a doppio taglio: se nel breve periodo potrà servire a Israele per puntellare un pubblico di riferimento in diminuzione per il suo ritratto distorto della realtà in Palestina, il doppio standard inerente è trasparente alla maggior parte del mondo. È anche ovvio a segmenti crescenti di opinione pubblica in occidente, specialmente i più giovani. Invece di ottenere le loro informazioni dalle offerte dei media tradizionali che presentano le notizie in gran parte attraverso le lenti israeliane queste audience più giovani hanno una gamma variegata di fonti, a cui accedono principalmente tramite media alternativi e i social che offrono un panorama di immagini della morte, distruzione e miseria che Israele infligge sui gazawi. Di conseguenza capiscono perfettamente che un alto grado di censura di queste realtà è imposto dalla faziosità dei media tradizionali per i quali giustamente nutrono un totale disprezzo.

Nonostante una feroce ondata di repressione del sostegno ai palestinesi nella sfera pubblica, fra i giovani la maggiore disponibilità di una più ampia varietà di informazioni ha cominciato ad aver un effetto politico negli USA, particolarmente dopo che l’iniziale impennata di simpatia per Israele in risposta agli attacchi di Hamas è stata sostituita dalla simpatia per i civili palestinesi massacrati e affamati. In un sondaggio oltre il 68% degli americani sostiene un cessate il fuoco permanente a Gaza. Un altro ha mostrato che il 57% degli intervistati disapprovava la gestione della guerra a Gaza di Joe Biden, una cifra che sale a circa il 75% nella fascia di elettori fra i 18 e i 29 anni.

Sin dalla sua elezione a senatore nel 1972, Biden si è votato ai miti su Israele e Palestina che sono prevalenti nella conversazione politica e nei media americani. La sua amministrazione non ha ribaltato nessuna delle politiche che chiaramente favoriscono Israele promulgate dall’amministrazione Trump. Biden ha quindi mantenuto una serie di deviazioni significative dalle precedenti politiche USA, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la chiusura del consolato USA a Gerusalemme Est e della missione palestinese a Washington DC, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e riconoscendo l’annessione israeliana delle Alture di Golan.

Oltre a ciò e ben lontano dall’abbandonare l’approccio distintivo dell’amministrazione di Trump, detto “gli accordi di Abramo”, di ridurre l’importanza della questione palestinese e concentrarsi sulla normalizzazione delle relazioni fra Israele e gli Stati arabi, l’amministrazione Biden ha elogiato queste misure che hanno portato ad aprire le relazioni diplomatiche fra Israele e Emirati Arabi Uniti, Marocco e Bahrain, facendo infuriare i palestinesi. Biden e il suo team sono andati persino oltre. Hanno posto forti pressioni per un accordo di normalizzazione fra sauditi e israeliani che avrebbe schierato lo Stato arabo più influente con Israele, indebolendo ulteriormente i palestinesi e diminuendo ancora di più la prospettiva del loro raggiungimento di qualcuno dei loro obiettivi nazionali.

Sebbene la chimera di un accordo di normalizzazione saudita si scontri potentemente con la realtà dopo il 7 ottobre, rivelando le difficoltà che i regimi arabi avrebbero davanti se entrassero in relazione con un Paese che la vasta maggioranza del loro popolo pensa stia commettendo un genocidio, l’amministrazione Biden non ha mai oscillato nella sua promozione aggressiva dell’idea. L’ha fatto mentre indeboliva i suoi clienti arabi con un sostegno illimitato del selvaggio attacco di Israele contro la Striscia di Gaza, che ha con fermezza appoggiato come “autodifesa”. Questo sostegno include il rifiuto categorico di un cessate il fuoco permanente e la consegna di emergenza di aerei pieni di munizioni e armi, senza le quali Israele non avrebbe potuto sostenere la sua campagna militare. Recentemente sono stati promessi altri cacciabombardieri F-15 e F-35.

Con queste azioni e la sua costante ripetizione della retorica israeliana, Biden ha rafforzato la sensazione che gli USA siano visceralmente ostili verso i palestinesi. Anche quando, mesi dopo, ha finalmente insistito che Israele ponga fine alla fame di massa dei gazawi, questa è stata la risposta non alle immagini di neonati palestinesi emaciati ma alle morti dei volontari stranieri bianchi.

Anche la richiesta dell’amministrazione per la “soluzione a due Stati” suona falsa. Non ci sono segni che gli USA richiedano l’implementazione dei prerequisiti essenziali per una tale soluzione: una fine rapida e completa dell’occupazione militare israeliana durata quasi 57 anni e dell’usurpazione e colonizzazione delle terre palestinesi, che ha portato circa 750.000 coloni illegali sul 60% della Cisgiordania e Gerusalemme Est. L’amministrazione non ha neppure indicato se accetterebbe che i palestinesi scelgano democraticamente i propri rappresentanti.

Senza una decisa applicazione di queste misure la richiesta della “soluzione dei due Stati” è sempre stata priva di significato, una crudele truffa orwelliana. Invece di autodeterminazione, Stato e sovranità palestinesi, manterrebbe in effetti lo status quo in Palestina sotto forma diversa, con una “Autorità Palestinese” collaborazionista e controllata esternamente e mancante di reale giurisdizione o autorità rimpiazzata da uno “Stato palestinese” collaborazionista ugualmente privo di sovranità e indipendenza connessi a un autentico State. Sarebbe una farsa: un arcipelago spezzettato di bantustan sotto il controllo finale di Israele, con supervisione finanziaria e di sicurezza degli USA, dell’Europa occidentale e dei suoi alleati arabi.

Guardando indietro agli ultimi sei mesi, al crudele massacro di civili su scala senza precedenti, con milioni di persone che hanno perso la casa, la fame di massa e le malattie causate da Israele è chiaro che questo segna un nuovo abisso in cui è sprofondata la lotta per la Palestina. Se questa fase riflette gli aspetti di fondo delle precedenti in questi 100 anni di guerra, la sua intensità è unica, e ha creato nuovi e profondi traumi. Non solo non si vede la fine di questa carneficina, sembriamo più lontani che mai da una risoluzione duratura e sostenibile, basata sullo smantellamento delle strutture di oppressione e supremazia e giustizia, uguaglianza totale dei diritti e mutuo riconoscimento.

Rashid Khalidi è autore di libri come The Hundred Years’ War on Palestine: A History of Settler-Colonialism and Resistance (La guerra dei cent’anni contro la Palestina: una storia dell’insediamento dei coloni e della resistenza) (Profile, 2020) e docente di studi arabi moderni presso la Columbia University

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Aldo Lotta)




Netanyahu non è l’unico interessato a prolungare la guerra

Menachem Klein 

9 aprile 2024 – +972 magazine

Un’ampia coalizione di forze politiche, dall’estrema destra israeliana alla sinistra sionista, ha motivazioni diverse per trasformare la guerra nella nuova normalità.

Per la maggior parte degli israeliani la guerra è diventata una routine. Hanno imparato a conviverci. È scomoda, pensano, ma non c’è altra scelta. 

Ovviamente non tutti condividono questa forma di autocompiacimento: i familiari dei morti, i sopravvissuti, i feriti, gli sfollati e le famiglie di coloro ancora trattenuti in ostaggio a Gaza. E naturalmente i cittadini palestinesi in Israele, molti dei quali hanno perso amici o parenti nella Striscia assediata e che guardano con orrore i loro vicini e colleghi ebrei giustificare il brutale attacco israeliano. Queste vittime della guerra lottano contro la nuova normalità, ma il loro successo è limitato. 

Nelle ultime due settimane le manifestazioni settimanali per la liberazione degli ostaggi rimanenti si sono forse intensificate con un’esplosione di rabbia contro il primo ministro Benjamin Netanyahu per le sue evidenti lungaggini nei negoziati per un cessate il fuoco e per un accordo sullo scambio di ostaggi. Ma queste proteste comunque impallidiscono rispetto alle manifestazioni dell’anno scorso contro la riforma della giustizia del governo di destra, a proteste contro Netanyahu del 2020 e a quelle del 2011 contro l’aumento del costo della vita. Tutto mentre Israele sembra proseguire la sua offensiva a Gaza, incurante della Corte Internazionale di Giustizia o del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e che forse cerca persino di estendere l’escalation alla regione o almeno al fronte nord con Hezbollah a seguito dell’attacco contro l’ambasciata iraniana a Damasco all’inizio del mese.  

Questa nuova normalità che per ora sembra impossibile da interrompere non è saltata fuori dal nulla. Al contrario è stata attivamente prodotta, giorno per giorno, da coloro che hanno un interesse a mantenerla: un’ampia coalizione di individui e gruppi, ognuno con motivi diversi. 

Cominciamo con il ministro della Difesa, Yoav Gallant, e gli alti capi militari. Sanno molto bene che le unità dei riservisti non possono essere mobilitate per sempre e hanno una chiara immagine del danno che l’attentamente coltivata reputazione di Israele sta subendo nell’ambito della comunità internazionale come risultato del modo in cui sta continuando la guerra. Ma capiscono anche che fino a quando durerà non ci sarà una pressione da parte dell’opinione pubblica affinché si assumano la responsabilità dei gravi errori che hanno portato al 7 ottobre. Forse sperano che se riusciranno a collezionare qualche vittoria nella guerra non passeranno alla storia come i peggiori leader che Israele abbia mai avuto. Quindi parlano di una guerra che durerà anni.

È ben documentato che Netanyahu sia motivato da una logica simile. Fino a quando il Paese sarà in guerra resterà alla guida e potrà rimandare o persino annullare il suo annoso processo per corruzione: quindi perché preoccuparsi di porvi fine? 

Per i partner della sua coalizione la nuova normalità è una benedizione. Il Partito Sionista Religioso di estrema destra e Otzma Yehudit (Potere Ebraico), guidati rispettivamente da Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, vedono la guerra come un modo di vivere e un’applicazione dei loro principi politici fondamentali: l’espansione della supremazia ebraica e l’annientamento del nazionalismo palestinese. Al contempo gli ultraortodossi sono sintonizzati sull’euforia dei principi messianici dei partiti di estrema destra grazie alla nozione religiosa dell’ebreo “eletto”. Ma hanno anche un incentivo finanziario per continuare a sostenere la guerra: Smotrich, nella sua qualità di ministro delle Finanze, ha recentemente allocato una parte considerevole del budget governativo ai partiti ultraortodossi per comprarne la lealtà.  

Persino l’amministrazione Biden sta normalizzando la guerra. Biden si rifiuta di spingere per un cessate il fuoco permanente o di premere su Israele per porre fine alla sua operazione nella Striscia. L’astensione americana nella votazione sulla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza per un immediato cessate il fuoco non corrisponde certo a una netta approvazione della proposta, soprattutto quando l’ambasciatore Usa all’ONU ha immediatamente cercato di revocarla. Biden ha ripetutamente espresso preoccupazione per la mancanza di piani israeliani per proteggere i civili palestinesi e gli operatori umanitari, specialmente nell’eventualità di un’invasione di Rafah, e ha insistito con Israele per avere il suo progetto per il “giorno dopo,” ma si rifiuta di dire adesso basta.

Biden ha inoltre creato una divisione dei compiti fra sé stesso e Netanyahu: gli USA alleviano parte delle sofferenze dei civili a Gaza con lanci aerei di aiuti, mentre Israele attacca e continua ad affamarli. Neppure Biden ha presentato la sua proposta per il “giorno dopo,” alludendo invece a un vago processo alla fine del quale, in qualche modo, ci sarà la soluzione a due Stati. Netanyahu si compiace della vaghezza della proposta e ne sottolinea l’impossibilità.

Il centro israeliano e la sinistra sionista guardano imbarazzati da bordo campo. Sono sempre stati esempi del militarismo israeliano, quando non veri leader militari. Perciò sono incapaci di opporsi a questo militarismo, specialmente in tempo di guerra, nonostante il loro allarme per l’occupazione delle forze di sicurezza israeliane da parte di Sionismo religioso [coalizione di estrema destra dei coloni e attualmente al governo, ndt.]. 

Prima della guerra pochi di loro si erano preoccupati della condizione dei palestinesi assediati nella Striscia di Gaza, né avevano almeno auspicato negoziati per un accordo politico con l’Autorità Palestinese (AP). La vasta maggioranza concordava pienamente con la politica di Netanyahu di “gestire il conflitto” e anche loro hanno ignorato la disponibilità di Hamas a muoversi verso un fronte unito con l’AP, come si vede dal loro documento del 2017 “Principi Generali e Politiche” che in effetti riconosceva gli accordi di Oslo come un dato di fatto e l’accordo del 2021 con Mahmoud Abbas, presidente dell’AP, per indire delle elezioni politiche. Dal 7 ottobre quel poco entusiasmo che esisteva nella sinistra e nel centro sionisti per un accordo politico con i palestinesi si è completamente dissolto.

Con lo stile tipico dei governi israeliani di centro-sinistra fra gli anni ’50 e gli anni ‘80, specialmente quello dell’ipocrita Golda Meir, essi si dicono dispiaciuti per le sofferenze palestinesi, “ma di non avere scelta.” Citano appena la brutalità dell’esercito e dei coloni e la pulizia etnica dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme. E naturalmente si oppongono strenuamente alla denuncia presentata all’Aia contro Israele. Il risultato è una versione aggiornata della “gestione del conflitto”, che, nonostante le loro altre differenze, unisce virtualmente tutte le correnti della politica israeliana. 

Cosa potrebbe cambiare questa realtà della guerra come routine, in meglio o in peggio? Vedo tre possibilità che non si escludono a vicenda. 

La prima è un’azione radicale in Libano o un’invasione di Rafah che potrebbe arrivare quale risultato di un’escalation locale incontrollabile o di un errore di calcolo israeliano. La seconda possibilità è una decisione americana di chiedere un cessate il fuoco permanente con una coalizione militare internazionale che rimpiazzerebbe la presenza militare israeliana nella Striscia di Gaza. E la terza opzione è il risveglio del settore commerciale-industriale di Israele, per il quale la guerra non è una routine, ma piuttosto un grave danno al solito tran-tran. Politicamente e socialmente questo settore sta sia a destra che al centro. Ha oliato gli ingranaggi della protesta contro la riforma giudiziaria e, se attivato, potrebbe portare a nuove elezioni e a un successivo cambio nella continuazione della guerra.

Menachem Klein è docente di Scienze Politiche presso l’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 e uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra [incontri informali tra politici palestinesi e israeliani che proposero un progetto di pace, senza alcun risultato pratico, ndt.]. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il governo israeliano sta eliminando la Linea Verde – con i soldi Bilancio dopo bilancio, legge dopo legge: dall’obbligo per le imprese di telefonia mobile di estendere la copertura ai territori occupati alle leggi che agevolano il trasferimento di fondi pubblici alle colonie, ecco come il governo di estrema destra di Netanyahu sta lavorando verso un’annessione di fatto.

Tali Heruti-Sover

9 aprile 2024 – Haaretz

A febbraio, con la guerra in corso, il ministero dell’Economia ha inviato un annuncio ai giornalisti a nome del ministro Nir Barkat riguardo a un nuovo programma pilota per la formazione di 5.000 lavoratori israeliani nell’edilizia. Guarda un po’, l’annuncio ha specificato che l’iniziativa verrà effettuata “in collaborazione con l’Impresa per lo Sviluppo di Gush Etzion e con il Centro Israeliano per l’Edilizia.” Chi segue da vicino il comportamento dell’attuale governo non si è certo stupito per la combinazione tra un’iniziativa economica pilota che dovrebbe servire all’edilizia e un’impresa fondata per sviluppare le colonie nel blocco di Etzion, in Cisgiordania.

Riempirsi le tasche (di verde)

L’attuale governo non è il primo ad impegnarsi nel rafforzare il movimento delle “nuove colonie”. Tuttavia dimostra attivismo e creatività straordinari nel farlo. Il governo ha intrapreso una serie di misure con lo scopo di cancellare la Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndt.] e di annettere de facto la Cisgiordania a Israele.

Tra queste ci sono: la creazione di un nuovo ministero dedicato – il ministero delle Colonie e delle Missioni nazionali; la promozione di un programma che è già stato convertito in legge e consente il trasferimento di fondi dalle autorità locali in Israele alle loro omologhe nei territori [palestinesi] occupati;l’imposizione dell’obbligo alle compagnie private in possesso di licenze governative di investire denaro nei territori; il tentativo di espandere il controllo dei coloni e dei loro rappresentanti in ogni area della vita in Cisgiordania, relegando nel contempo ai margini l’Amministrazione Civile, che per decenni è stato l’ente militare responsabile delle attività di governo nelle aree civili del territorio.

Giustizia redistributiva per le colonie”

Negli ultimi giorni il processo di cancellazione della Linea Verde si è accentuato dopo che la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in seconda e terza lettura una legge presentata dal parlamentare Yaakov Asher di Giudaismo Unito per la Torah [partito religioso ortodosso ashkenazita attualmente al governo, ndt.], che era stata congelata dall’inizio della guerra. La nuova legge (un emendamento dell’Ordinanza per le Amministrazioni locali) autorizza il ministero dell’Interno a decidere che la tassa sulle proprietà economiche raccolta dalle aree industriali e commerciali sia divisa tra le autorità locali in cui queste zone si trovano e quelle limitrofe.

Apparentemente si tratta di un modo per distribuire equamente le risorse. Ma Asher ha voluto far emanare questa legge soprattutto a beneficio delle casse delle colonie israeliane al di là della Linea Verde, comprese quelle ultra-ortodosse.

Quindi la legge renderà possibile, per esempio, obbligare Modi’in-Maccabim-Reut [area che si trova nei pressi della Linea Verde sul lato israeliano, ndt.] a condividere le entrate delle sue zone industriali e commerciali, che lo stesso Comune di Modi’in si è assiduamente impegnato a creare, con le municipalità povere di Modi’in Illit e Betar Ilit, che si trovano dall’altra parte della Linea Verde. Durante il processo legislativo Asher non ha nascosto le sue intenzioni, affermando: “Ciò riguarda la giustizia redistributiva anche per le colonie di Giudea e Samaria [la definizione israeliana di Cisgiordania, ndt.].”

Durante il dibattito sulla legge alla Commissione Affari Interni della Knesset, presieduta da Asher, i deputati Naama Lazimi del partito Laburista e Naor Shiri di Yesh Atid [partiti di centro, ndt.] hanno sostenuto che il progetto avrebbe portato all’annessione de facto dei territori occupati. Asher ha replicato a questo proposito: “De jure, de facto, di Mosè, io non perdo tempo con queste cose.”

Nonostante gli avvertimenti del ministero della Giustizia che ciò potrebbe costituire una violazione delle leggi internazionali, e nonostante l’opposizione della Federazione degli Amministratori Locali, la legge è passata facilmente alla commissione e nella seduta plenaria della Knesset.

Tuttavia, anche se la legge è stata approvata, la sua applicazione è soggetta alla discrezionalità del ministero dell’Interno. Qualsiasi decisione in tal senso da parte sua potrebbe portare a una significativa rivolta dell’opinione pubblica, così come all’opposizione giudiziaria da parte dell’autorità a cui viene richiesto di cedere una parte che le spetta a favore di un’altra amministrazione. Di conseguenza le probabilità che ciò avvenga presto sono basse.

Una legge approvata lo scorso anno, anch’essa non ancora messa in pratica, riguarda la creazione di un fondo finanziato con un’imposta sugli immobili (Arnona) destinata alla redistribuzione di entrate dalle tasse sulle proprietà commerciali tra autorità locali, incoraggiando nel contempo la costruzione di appartamenti residenziali i cui versamenti delle tasse sugli immobili non coprono il costo dei servizi richiesti per i nuovi abitanti. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich [del partito di estrema destra dei coloni Sionismo Religioso, ndt.] ha messo tutto il suo peso politico per la creazione di questo fondo.

In apparenza anch’esso è inteso a una redistribuzione equa: le amministrazioni locali più forti trasferiscono una parte proporzionale delle loro entrate grazie alle tasse sulle proprietà commerciali a un fondo comune che verrà distribuito a quelle più deboli. Tuttavia una delle preoccupazioni sollevate da chi si oppone alla legge è che il flusso di denaro si baserebbe su considerazioni politiche.

Durante la discussione della legge sono state sollevate anche preoccupazioni riguardo al funzionamento del fondo con le autorità locali nei territori [palestinesi] occupati. Per la prima volta è stata approvata una legge che potrebbe vedere il trasferimento di fondi dalle autorità locali all’interno del territorio israeliano alle colonie.

Secondo alcuni critici della legge, mentre il diritto internazionale consente alle colonie di ricevere finanziamenti dallo Stato, proibisce loro di trasferire fondi ad altre autorità locali all’interno del territorio israeliano. Quindi, se alle colonie viene richiesto di trasferire fondi al fondo delle tasse sugli immobili, questa verrà considerata una violazione delle leggi internazionali. Nel tentativo di risolvere questo problema sono state aggiunte alla legge disposizioni riguardanti le amministrazioni locali in Cisgiordania.

In ogni caso, anche se il fondo della tassa sugli immobili avrebbe già dovuto essere attivato, di fatto non lo è ancora. L’Alta Corte ha già discusso ricorsi contro di essa, uno dei quali ha sollevato problemi sull’opportunità di includere le colonie nel fondo. L’Alta Corte ha chiesto alla Procura Generale di esprimere la propria opinione in materia.

Benché non ancora operativo, il fondo della tassa sugli immobili, potrebbe essere importante nel futuro in vista del previsto boom edilizio nelle colonie.

Il 2023 è stato un anno eccezionale in termini del numero di progetti edilizi promossi al di là della Linea Verde: più di 12.000 unità abitative sono state alla fine approvate dagli organi preposti alla pianificazione. Secondo Peace Now [organizzazione israeliana contraria all’occupazione, ndt.], che monitora queste decisioni, si tratta del più alto numero di unità abitative approvato dalla firma degli Accordi di Oslo.

La creazione di un ufficio specifico per le colonie

Per agire in modo efficiente al fine di cancellare la Linea Verde il governo ha creato un ufficio dedicato alle attività “civili” nei territori, il Ministero delle Colonie e delle Missioni Nazionali. Il suo principale obiettivo, anche se non dichiarato esplicitamente, è di fungere da braccio operativo del ministro Bezalel Smotrich che non è solo ministro delle Finanze ma anche uno dei ministri del ministero della Difesa per un flusso massiccio di finanziamenti verso i territori.

Il ministero delle Missioni Nazionali, guidato dalla deputata di Sionismo Religioso Orit Strock, ne ha beneficiato doppiamente: non solo è stato formato ed ha dato lavoro alla ministra e ai suoi sodali, ma, mentre il bilancio di tutti gli altri ministeri è stato tagliato a causa della guerra, quello di Strock non solo è stato risparmiato, ma è persino ottenuto di più. Appena prima della chiusura del bilancio 2023 il ministero ha ricevuto un aumento addizionale di 378 milioni di shekel (circa 95 milioni di euro), per cui il suo bilancio è salito a 543 milioni di shekel (circa 137 milioni di euro), con la guerra in corso.

Recentemente il governo ha persino deciso di trasferire la Divisione per le Colonie dell’Organizzazione Sionista Mondiale, che opera principalmente nei territori, dal ministero dell’Agricoltura all’ufficio di Strock, insieme a un generoso finanziamento supplementare. Tra le altre cose, ha deciso che d’ora in poi il controllo finanziario delle operazioni della divisione sarà fatto dalla ragioneria dello Stato invece che da un revisore esterno.

Inoltre la stessa Strock approverà i servizi forniti dalla divisione, senza dover passare prima attraverso il governo. Anche le decisioni riguardanti la creazione di nuove colonie verranno prese solo con l’approvazione di Strock, senza la necessità dell’approvazione da parte del ministero dell’Edilizia. Durante l’iter le spese generali della divisione saranno aumentate del 10% 40 milioni di shekel (oltre 9 milioni di euro) all’anno finanziati dal bilancio di base del ministero delle Missioni Nazionali. Strock non sta lavorando da sola. È stato nominato un vice-direttore generale del ministero delle Finanze, Israel Malachi. Meno ufficialmente egli è noto come la persona responsabile dei finanziamenti oltre la Linea Verde. Malachi lavora insieme a Strock ed è noto nel ministero delle Finanze come uno specialista nell’ottimizzazione del trasferimento di fondi alle colonie della Cisgiordania.

L’indebolimento dell’Amministrazione Civile

In più lo scorso anno è iniziato un significativo spostamento nella gestione della vita civile in Cisgiordania, dovuto ad una clausola negli accordi di coalizione tra il partito Sionismo Religioso di Smotrich e il Likud di Netanyahu. Secondo questo accordo verrà creato un nuovo ente governativo, l’“Amministrazione delle Colonie”, che si occuperà della gestione di ogni aspetto della vita nelle colonie. Invece l’Amministrazione Civile si occuperà esclusivamente dei palestinesi.

L’Amministrazione delle Colonie, che è in via di formazione, dovrebbe essere un ente civile indipendente, non soggetto a un ministero, e controllare ogni questione riguardante la pianificazione, la costruzione, la creazione ed espansione di colonie, infrastrutture e strade, senza la necessità di consultare il governo.

L’Amministrazione delle Colonie sarà anche responsabile della legalizzazione degli avamposti, di elettricità, acqua e infrastrutture per la comunicazione e avrà anche la responsabilità su siti archeologici, natura, riserve naturali e fattorie agricole. Nel febbraio 2023 il collega di partito di Smotrich Yehuda Eliahu è stato nominato capo dell’Amministrazione.

Tuttavia attualmente c’è una lotta sulla nomina di un vice-capo dell’Amministrazione Civile, una posizione che finora non esisteva. Smotrich sostiene per quel ruolo Hillel Roth, un colono della Cisgiordania e importante figura del Consiglio Regionale della Samaria. L’esercito israeliano si oppone a quella nomina, sostenendo che obbligherebbe i comandanti di brigata regionali a motivare varie operazioni nei territori ad enti civili invece che al capo del comando centrale dell’esercito, come succede ora.

Grandi finanziamenti, persino in tempo di guerra

Uno dei chiari meccanismi per cancellare la Linea Verde è l’iniezione di miliardi di shekel nelle colonie con l’aiuto di vari meccanismi di bilancio, compresi fondi della coalizione. Secondo i controlli di Peace Now, nei bilanci 2023-2024 in totale circa 620 milioni di shekel (circa 153 milioni di euro) dei fondi di coalizione sono stati destinati alle colonie.

Dopo lo scoppio della guerra è stato deciso di tagliare circa 140 milioni di shekel (circa 35 milioni di euro) dai fondi della coalizione per le colonie, ma allo stesso tempo si è deciso di trasferire fondi addizionali, come quelli per l’ufficio di Strock. In pratica nel 2024 i fondi della coalizione per i coloni ammonteranno a più di 737 milioni di shekel (circa 186 milioni di euro) invece dei 275 milioni di shekel (69 milioni di euro) stanziati a questo scopo nelle decisioni originarie del governo da maggio 2023.

Inoltre il ministero dell’Interno attualmente ha circa 330 milioni di shekel (circa 83 milioni di euro) stanziati solo per le colonie. Di questi 75 milioni di shekel (18 milioni di euro) sono destinati a questioni di sicurezza ed altri 75 milioni di shekel al “bilancio continuo per le colonie.”

Costruzione di strade ed espansione della rete per cellulari nei territori

L’oscuramento della Linea Verde include anche investimenti nelle infrastrutture in Cisgiordania, per esempio nel campo dei trasporti e delle reti per i cellulari. Con la formazione del governo i ministeri delle Finanze e dei Trasporti si sono accordati su un piano strategico quinquennale (2023-2027) che destina circa il 24% del bilancio per lo sviluppo viario a strade nelle colonie.

A causa della guerra e in attesa dell’approvazione del bilancio aggiornato per il 2024, nel gennaio 2024 il governo ha deciso di tagliare il bilancio per lo sviluppo del ministero dei Trasporti nel 2024-2027. Tuttavia, secondo la bozza di decisione discussa nel governo, gli investimenti in strade per le colonie rimarranno circa il 20% dell’investimento totale del governo in viabilità.

Un’altra area in cui il governo promuove investimenti in infrastrutture per le colonie è quella delle comunicazioni, soprattutto nella ricezione dei cellulari. Il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi ha criticato la cattiva ricezione in Cisgiordania e sostenuto che la situazione potrebbe mettere a rischio vite umane.

All’inizio di marzo sono entrate in vigore ordinanze emanate dal capo del Comando Centrale dell’esercito, generale Yehuda Fox, che obbligano le compagnie telefoniche a fornire la copertura dei cellulari sulle strade che raggiungono le colonie in Cisgiordania, simili agli obblighi che vigono all’interno di Israele. Le ordinanze consentono l’imposizione di multe sulle imprese se non soddisfino i requisiti.

Oltretutto il ministero delle Comunicazioni ha annunciato un piano per il posizionamento di infrastrutture per i cellulari nei territori con uno stanziamento dedicato di 50 milioni di shekel. Questo piano dovrebbe essere messo in pratica durante il 2024. Il capo dello Yesha Council [che unisce i consigli municipali delle colonie in Cisgiordania, ndt.], Shlomo Neeman, ha ringraziato Karhi per il suo “deciso impegno nella storica iniziativa” nel campo della ricezione dei cellulari.

D’altra parte sembra che Karhi, che lavora decisamente per i coloni, sia meno preoccupato dei problemi della copertura dei cellulari nelle comunità arabe in Israele, che soffrono di interruzioni nella ricezione dei telefonini e nella connessione a internet. Se il ministero delle Comunicazioni investisse altri 50 milioni di shekel nelle comunità arabe del nord del Paese là le cose andrebbero diversamente.

Conquista sotto le vesti della conservazione della natura

All’inizio della scorsa settimana la ministra della Protezione Ambientale Idit Silman, insieme a Smotrich e al capo del Consiglio della Valle del Giordano David Elhayani, si sono recati a Nahal Yitav – il nome in ebraico di Wadi Auja. Durante l’incontro è stato annunciato che, con l’aiuto di un investimento finanziario di una cifra indefinita, il posto sarebbe stato dichiarato riserva naturale, che include sentieri con segnavia e cartelli. Ciò presumibilmente è una risposta a un attacco terroristico avvenuto qualche giorno prima sulla Route 90 nei pressi del luogo.

La visita dei due ministri sul posto potrebbe aver creato l’impressione che si tratti di un sito naturalistico che verrà utilizzato da tutta la popolazione. Di fatto, sotto le vesti del lavoro nel campo delle riserve naturali, il ministero della Protezione dell’Ambiente sotto Silman ha piantato bandierine sulle terre della Cisgiordania.

Per esempio nel maggio 2023 Silman ha annunciato un piano per definire Sebastia [villaggio nei pressi di Nablus, in Cisgiordania, ndt.] parco nazionale, con un investimento di 32 milioni di shekel, che da allora è stato in parte tagliato. In un annuncio riguardo al progetto la ministra ha twittato all’epoca: “Stiamo riportando l’antica gloria. La Terra di Israele è nostra e continueremo a espanderci e stabilirci in essa.”

Questi tentativi di cancellare la Linea Verde sono aumentati nel corso degli anni e continuano anche ora. Lo scorso lunedì la parlamentare Limor Son Har-Melech di Potere Ebraico [estrema destra dei coloni, ndt.] ha presentato una proposta di legge che intende obbligare l’Autorità per lo Sviluppo del Negev ad operare anche nelle colonie del sud della Cisgiordania, come se fossero parte dei territori dello Stato di Israele.

“Le sfide della regione del Negev… la sua posizione periferica e distanza dal centro del Paese non escludono i cittadini della regione di Giudea e Samaria (il nome biblico della Cisgiordania), che sono anche a sud della linea che definisce la regione del Negev,” ha scritto nelle note esplicative del progetto di legge.

Questa proposta non arriva dal nulla: l’Autorità per lo Sviluppo del Negev, che è in parte finanziata dallo Stato, è sottoposta alla supervisione del ministro per lo Sviluppo del Negev e della Galilea Yitzhak Wasserlauf – membro del partito di Son Har-Melech.

Secondo l’avvocato Michael Sfard, esperto di diritto internazionale e attivista di sinistra, uno dei principi delle leggi sull’occupazione è il divieto di spostare la popolazione della potenza occupante sul territorio occupato. Di conseguenza ogni azione intesa a costruire una infrastruttura per le colonie può essere considerata una violazione delle leggi internazionali.

Un altro principio fondamentale delle norme sull’occupazione è il divieto di annessione unilaterale, da cui deriva la natura problematica del fatto di trattare i territori di Israele e Cisgiordania come una stessa unità dal punto di vista giuridico, burocratico, amministrativo, economico o infrastrutturale. E ciò è esattamente ciò che il governo israeliano cerca di normalizzare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gaza: la fame imposta da Israele è mortale per i bambini

Human Rights Watch

9 aprile 2024 – Human Rights Watch

Devastanti racconti di medici e genitori; denunce di una carestia imminente

(Beirut, 9 aprile 2024) – Da quando il governo israeliano ha iniziato a usare la fame come arma di guerra, un crimine di guerra, i bambini di Gaza stanno morendo per complicazioni legate alla fame, ha affermato oggi Human Rights Watch. A Gaza medici e famiglie hanno descritto bambini, così come donne incinte e madri in allattamento, affetti da grave malnutrizione e disidratazione, e ospedali mal attrezzati per poterli curare.

I governi interessati dovrebbero imporre sanzioni mirate e sospendere l’invio di armi per fare pressione sul governo israeliano affinché garantisca laccesso a Gaza degli aiuti umanitari e dei servizi di base, in conformità con gli obblighi di Israele ai sensi del diritto internazionale e della recente ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia in base alla denuncia di genocidio presentata dal Sudafrica.

Luso della fame come arma di guerra da parte del governo israeliano si è rivelato mortale per i bambini di Gaza”, ha affermato Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch. Israele deve porre fine a questo crimine di guerra e a questa sofferenza e consentire agli aiuti umanitari di raggiungere senza ostacoli tutta Gaza”.

Il 18 marzo 2024 una partnership coordinata dalle Nazioni Unite di 15 organizzazioni internazionali e agenzie dell’ONU che indagano sulla crisi della fame a Gaza ha riferito che tutte le prove indicano un forte incremento delle morti e della malnutrizione”. L’organizzazione afferma che nel nord di Gaza, dove si stima che il 70% della popolazione soffra di una fame di dimensioni catastrofiche, la carestia potrebbe verificarsi in qualsiasi momento tra metà marzo e maggio.

Il 1° aprile il Ministero della Sanità di Gaza ha riferito che 32 persone, tra cui 28 bambini, erano morte di malnutrizione e disidratazione negli ospedali del nord di Gaza. Il 2 aprile Save the Children ha confermato la morte per fame e malattie di 27 bambini. Allinizio di marzo, funzionari dellOrganizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno trovato bambini che morivano di fame” negli ospedali Kamal Adwan e al-Awda, nel nord di Gaza. Nel sud della Striscia, dove gli aiuti sono più accessibili ma comunque decisamente inadeguati, a metà febbraio le agenzie delle Nazioni Unite hanno affermato che il 5% dei bambini sotto i 2 anni risultava gravemente malnutrito.

A marzo Human Rights Watch ha intervistato un medico nel nord di Gaza, un volontario che nel frattempo ha lasciato Gaza, i genitori di due bambini che i medici hanno dichiarato morti per complicazioni legate alla fame che ha colpito sia la madre che il bambino, e i genitori di altri quattro bambini affetti da malnutrizione e disidratazione.

Human Rights Watch ha esaminato il certificato di morte di uno dei bambini e le foto di altri due in condizioni critiche che mostravano segni di deperimento. Tutti erano stati curati all’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, nel nord di Gaza.

I consulenti sanitari di Human Rights Watch hanno anche esaminato immagini e video verificati online di altri tre bambini chiaramente emaciati che sono morti e di altri quattro in condizioni critiche che mostravano anch’essi segni di deperimento.

Il 4 aprile il dottor Hussam Abu Safiya, che dirige lunità pediatrica dellospedale Kamal Adwan, ha dichiarato a Human Rights Watch che solo nel suo ospedale 26 bambini erano morti dopo essere stati colpiti da complicazioni legate alla fame. Ha detto che almeno 16 dei bambini deceduti avevano meno di 5 mesi, almeno 10 avevano tra 1 e 8 anni e che era morto anche un uomo di 73 anni affetto da malnutrizione.

Il dottor Safiya ha detto che uno dei bambini è morto dopo soli due giorni di vita in seguito a grave disidratazione alla nascita, chiaramente aggravata dalla cattiva salute della madre: [Lei] non aveva latte da dargli”.

Nour al-Huda, una ragazzina di 11 anni affetta da fibrosi cistica, è stata ricoverata all’ospedale Kamal Adwan il 15 marzo. I medici hanno detto a sua madre che Nour soffriva di malnutrizione, disidratazione e un’infezione ai polmoni, e le hanno somministrato ossigeno e una soluzione salina. Nour al-Huda ora pesa 18 chilogrammi”, ha detto sua madre a Human Rights Watch. “Posso vedere sporgere le ossa del suo petto.”

Il diritto internazionale umanitario vieta la riduzione alla fame dei civili come metodo di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente i civili privandoli di quanto sia indispensabile alla loro sopravvivenza, compreso limpedimento doloso delle forniture di soccorso”, è un crimine di guerra.

Dopo gli attacchi di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023 il governo israeliano ha deliberatamente bloccato la consegna di aiuti, cibo e carburante a Gaza, impedendo al contempo lassistenza umanitaria e privando i civili dei mezzi per sopravvivere. I funzionari israeliani che ordinano o eseguono queste azioni stanno commettendo il reato di punizione collettiva contro la popolazione civile e di riduzione dei civili alla fame come metodo di guerra, entrambi crimini di guerra.

Le azioni del governo israeliano che compromettono le capacità dellAgenzia dell’ONU per il soccorso e loccupazione dei rifugiati palestinesi nel Medio Oriente (UNRWA) di svolgere il suo ruolo riconosciuto nella distribuzione degli aiuti a Gaza hanno esacerbato gli effetti delle restrizioni.

Un medico volontario presso lospedale europeo di Khan Younis, nel sud di Gaza, per due settimane alla fine di gennaio ha affermato che il personale è stato costretto a curare pazienti con scorte mediche limitate. Ha descritto la difficoltà di trattare la malnutrizione e la disidratazione a causa della mancanza di elementi essenziali come glucosio, elettroliti e sonde per l’alimentazione. Ha detto che la madre di un paziente, alla disperata ricerca di soluzioni, ha fatto ricorso a patate schiacciate per creare un liquido improvvisato per lalimentazione tramite sonda. Nonostante l’inadeguatezza sul piano nutrizionale, il medico ha riferito: Ho finito per dire agli altri miei pazienti di procurarsi delle patate e di fare lo stesso”.

Il 26 gennaio la Corte Internazionale di Giustizia, in una causa intentata dal Sud Africa, ha ordinato misure provvisorie, tra cui la richiesta a Israele di adottare interventi immediati ed efficaci per consentire la fornitura di servizi essenziali e aiuti umanitari di urgente necessità” e altre azioni per conformarsi con la Convenzione sul Genocidio del 1948. Il 28 marzo la Corte ha evidenziato che Israele non aveva rispettato questordine e ha imposto una misura provvisoria più dettagliata che richiedeva al governo di garantire la fornitura senza ostacoli di servizi di base e di aiuti in piena collaborazione con l’ONU, rilevando che la carestia è alle porte.”

I governi dovrebbero imporre sanzioni mirate, compresi divieti di viaggio e congelamento dei beni, contro funzionari e individui responsabili della continua messa in atto di crimini di guerra rappresentati da punizione collettiva, ostruzione deliberata degli aiuti umanitari e riduzione di civili alla fame come arma di guerra.

Diversi Paesi hanno risposto alle restrizioni illegali del governo israeliano sullassistenza inviando aiuti aerei. Gli Stati Uniti si sono anche impegnati a costruire un porto marittimo temporaneo a Gaza. Tuttavia, organizzazioni umanitarie e funzionari dell’ONU hanno affermato che tali sforzi sono inadeguati per prevenire una carestia. Un altro tentativo di consegnare aiuti via mare è stato interrotto dopo un attacco israeliano contro gli operatori umanitari il 1° aprile.

Il 4 aprile, evidentemente in seguito alle pressioni del governo degli Stati Uniti, il governo israeliano ha approvato diverse misure per consentire l’ingresso a Gaza di una maggiore quantità di aiuti.

I governi indignati dal fatto che il governo israeliano affami i civili a Gaza non dovrebbero cercare soluzioni provvisorie a questa crisi umanitaria”, afferma Shakir. Lannuncio di Israele sull’incremento degli aiuti dimostra che la pressione esterna funziona. Gli alleati di Israele come Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania devono premere per una consegna di aiuti a pieno regime e sospendere immediatamente l’invio di armi”.

Fame a Gaza

Si stima che prima delle attuali ostilità 1,2 milioni degli allora 2,2 milioni di abitanti di Gaza si trovassero ad affrontare una grave insicurezza alimentare e oltre l80% dipendesse dagli aiuti umanitari. Israele mantiene il controllo generale su Gaza, compreso il movimento di persone e merci, le acque territoriali, lo spazio aereo, le infrastrutture su cui Gaza fa affidamento e il registro anagrafico. Ciò lascia la popolazione di Gaza, che Israele ha sottoposto a un blocco illegale per più di 16 anni, quasi interamente dipendente da Israele per laccesso a carburante, elettricità, medicine, cibo e altri beni essenziali.

Tuttavia, prima del 7 ottobre giungevano alla popolazione elevate quantità di aiuti umanitari. Prima di questa crisi a Gaza cera abbastanza cibo per nutrire la popolazione”, ha affermato il direttore generale dellOMS Tedros Adhanom Ghebreyesus. La malnutrizione era un evento raro. Ora le persone stanno morendo e molte altre sono malate”.

LOMS ha riferito che il numero di bambini sotto i 5 anni gravemente malnutriti è aumentato dallo 0,8% prima delle ostilità a Gaza al 12,4 e al 16,5% nel nord di Striscia. Il 3 aprile Oxfam ha affermato che da gennaio le persone nel nord di Gaza sono costrette a sopravvivere con una media di 245 calorie al giorno, meno di un barattolo di fave”.

Secondo unanalisi sulla vulnerabilità nutrizionale condotta a marzo dal Global Nutrition Cluster, una rete di organizzazioni umanitarie presieduta dallUNICEF, il 90% dei bambini di età compresa tra 6 e 23 mesi e delle donne incinte e che allattano in tutta Gaza hanno dovuto affrontare una grave insufficienza alimentare”, mangiando due o anche meno varietà di alimenti ogni giorno.

I bambini con patologie preesistenti sono particolarmente vulnerabili agli effetti devastanti della malnutrizione che indebolisce significativamente il sistema immunitario. E la fame, anche per i sopravvissuti, porta a danni persistenti, soprattutto nei bambini, causando arresto della crescita, problemi cognitivi e ritardi nello sviluppo.

L’8 marzo il Ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che a Gaza circa 60.000 donne incinte soffrivano di malnutrizione, disidratazione e assistenza sanitaria inadeguata. Una cattiva alimentazione durante la gravidanza danneggia sia il bambino che la madre, aumentando il rischio di aborti spontanei, morte del feto, compromissione dello sviluppo del sistema immunitario, impatti sulla crescita e mortalità materna.

Anche gli anziani sono particolarmente a rischio di malnutrizione che aumenta la mortalità tra coloro che soffrono di malattie acute o croniche. HelpAge International ha riferito che anche prima di ottobre il 45% degli anziani di Gaza andava a letto affamato almeno una volta alla settimana e il 6% ogni notte.

Limpatto sulla popolazione di Gaza delluso della fame come arma di guerra da parte del governo israeliano è aggravato dal collasso quasi totale del sistema sanitario. Secondo l’Ufficio dell’ONU per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) dei 36 ospedali di Gaza solo 10 sono operativi, nessuno di essi pienamente, sia a causa dei ripetuti, chiaramente illegali, attacchi dell’esercito israeliano contro strutture, personale e trasporti sanitari, nonché delle severe restrizioni allingresso di carburante e altre scorte.

Notizie da Gaza

Il 19 marzo Andrea De Domenico, capo dell’OCHA nei territori palestinesi occupati, ha visitato l’ospedale Kamal Adwan, dove ha riferito che ogni giorno arrivano circa 15 bambini malnutriti a causa della carenza di cibo, acqua e servizi igienici adeguati. Ha descritto le terribili condizioni dell’ospedale, sottolineando i danni in alcune aree e la dipendenza da un unico generatore.

Alcuni dei casi su cui Human Rights Watch ha indagato:

    • Un uomo di Beit Lahia ha detto che il figlio neonato, Abdelaziz, è morto poche ore dopo che sua madre, gravemente denutrita, lo aveva partorito nellospedale Kamal Adwan il 24 febbraio. Ha mostrato a Human Rights Watch il certificato di morte, in cui si afferma che Abdelaziz è nato prematuro. Suo padre ha detto che il personale dell’ospedale ha collegato Abdelaziz a un respiratore perché aveva difficoltà a respirare, ma che dopo poche ore il respiratore ha smesso di funzionare, avendo l’ospedale esaurito il carburante necessario. “Abdelaziz è morto immediatamente”, ha detto. Ha espresso preoccupazione per sua moglie, che sopravviveva con legumi e cibo in scatola, ponendo l’accento sul loro continuo lottare per avere un’alimentazione adeguata.

    • Il padre di due gemelle appena nate ha detto che una delle sue bambine, Joud, è morta all’ospedale Kamal Adwan il 2 marzo, otto giorni dopo la sua nascita, in seguito a malnutrizione. Ha affermato che prima della nascita delle bambine ha fatto di tutto per sfamare la sua famiglia, ma che avevano da mangiare solo pane, senza carne o proteine. Ha detto che, dopo la nascita delle gemelle, sua moglie non aveva latte per allattare le bambine e che quello in vendita nei negozi scarseggiava. Ha descritto il peggioramento delle condizioni di Joud, dicendo che “i suoi arti sono diventati molto freddi e respirava molto lentamente”. Sua suocera ha accompagnato Joud all’ospedale, dove poi è morta. Il padre ha espresso preoccupazione per la salute della gemella sopravvissuta.

    • Fadi, un bambino di 6 anni del quartiere al-Nasser di Gaza City, è affetto da fibrosi cistica, una malattia genetica che provoca danni ai polmoni. La madre di Fadi ha detto che a causa del blocco israeliano ha avuto difficoltà a procurarsi le medicine necessarie e a fornirgli unalimentazione adeguata. A metà gennaio la salute di Fadi era peggiorata al punto che non poteva più camminare, costringendolo al ricovero in ospedale. Prima della guerra Fadi pesava 30 chili, ora ne pesa 12”, afferma. Fadi è stato dimesso dall’ospedale Kamal Adwan il 23 marzo ed è in cura presso un ospedale del Cairo, ha detto un parente il 28 marzo.

    • Wissam Hammad, lo zio di Muhammad, 5 anni, che soffre di paralisi cerebrale, è intollerante al lattosio e al glutine e può mangiare solo cibi frullati, ha avuto grandi difficoltà a procurargli il cibo:

La maggior parte del suo cibo dovrebbe essere frutta e verdura, che è ciò che cerco di comprare. Ma tutto quello che riesco a trovare e permettermi sono le arance. Il problema è che non può masticare, quindi dobbiamo spappolargli il cibo. È tutto molto costoso.

    • Il dottor Ahmed Shahin, un pediatra, ha detto che prima di poter lasciare Gaza il 16 novembre, Osman, suo figlio di 14 anni affetto da paralisi cerebrale, che ha una gastrostomia e utilizza una sonda per l’alimentazione, aveva perso dall’inizio delle ostilità sette chili perché non avevano accesso né al cibo specifico di cui aveva bisogno, come le verdure, né all’elettricità per frullare gli alimenti.

Ostacoli alla fornitura degli aiuti

I continui bombardamenti e le operazioni di terra israeliane, la mancanza di garanzie di sicurezza da parte di Israele, i diffusi danni alle infrastrutture e le interruzioni delle comunicazioni rendono difficile la distribuzione dei pochi aiuti che arrivano a Gaza. Le organizzazioni umanitarie hanno riferito che le forze israeliane hanno attaccato i loro convogli umanitari e i loro operatori. Le forze israeliane hanno anche sparato e bombardato persone che si radunavano per la raccolta degli aiuti, uccidendone e ferendone centinaia.

Il 18 marzo un portavoce del governo israeliano ha dichiarato che gli aiuti che entrano a Gaza non incontrano nessun ostacolo a parte le preoccupazioni per la sicurezza. Altri funzionari hanno incolpato l’ONU per i ritardi nella distribuzione e hanno accusato Hamas di dirottare gli aiuti o la polizia di Gaza di non aver messo in sicurezza i convogli. Il 29 marzo lorganismo del Ministero della Difesa israeliano che governa gli affari civili nei territori palestinesi, il COGAT, ha contestato il rapporto umanitario del 18 marzo emesso dalle Nazioni Unite, che metteva in guardia sull’imminenza di una carestia, e ha affermato che non riflette la situazione nel suo insieme”. Il COGAT ha negato che il governo israeliano stesse intenzionalmente affamando la popolazione civile di Gaza. Il 2 aprile Human Rights Watch ha scritto al COGAT chiedendo commenti sui nostri riscontri, ma al momento della pubblicazione non ha ancora ricevuto risposta.

Tuttavia, l8 aprile lOCHA ha riferito che a marzo solo una delle quattro spedizioni di aiuti alimentari a Gaza che richiedevano un coordinamento è stata appoggiata dalle autorità israeliane. Dal primo gennaio sono arrivate al nord solo nove spedizioni di aiuti del Programma Alimentare Mondiale, l’ultima delle quali, composta da 18 camion, il 17 marzo. Il Programma Alimentare Mondiale ha affermato che sono necessari almeno 300 camion ogni giorno solo per il nord.

Gli Stati Uniti sono ricorsi al lancio di cibo a Gaza e progettano di costruire un molo galleggiante in mare per fornire aiuti, una proposta criticata da 26 organizzazioni non governative, tra cui Human Rights Watch, in quanto rischiosa, costosa e inefficace”. Il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite Jamie McGoldrick ha sottolineato che il trasporto su strada è lunica soluzione praticabile per aumentare il flusso di aiuti.

Le restrizioni sulla distribuzione degli aiuti rendono particolarmente difficile laccesso al cibo per le persone che necessitano di una dieta specifica. Diversi rappresentanti di organizzazioni umanitarie hanno affermato di non essere stati in grado di fornire alimentazione ai bambini che seguono diete speciali o di raggiungerli. Un membro dello staff del Palestine Childrens Relief Fund ha affermato che erano in grado di fornire solo latte artificiale e non potevano rispondere ai bisogni dei bambini con esigenze dietetiche specifiche. Medical Aid for Palestine ha affermato che gli alimenti speciali che avevano in deposito si sono esauriti rapidamente e da allora non sono stati in grado di trovare e fornire a coloro che ne avevano bisogno alimenti speciali.

Gli aiuti stentano ad arrivare: un quarto della popolazione è a rischio carestia. In queste circostanze le persone con disabilità e quelle vulnerabili soffrono di più. Nell’ambito nutrizionale è difficile sostenere le persone che necessitano di una dieta specifica e di assistenza medica.

Il 1° aprile 2024, a seguito di un attacco aereo israeliano nel centro di Gaza che ha colpito tre veicoli con il contrassegno dellorganizzazione alimentare internazionale World Central Kitchen e ha ucciso sette operatori umanitari provenienti da diversi Paesi, Cipro ha annunciato che le navi che trasportavano circa 240 tonnellate di aiuti per Gaza sarebbero tornate indietro. Alla luce dell’attacco World Central Kitchen, Project Hope e ANERA, tutti fornitori di aiuti alimentari, hanno sospeso le loro operazioni a Gaza, e gli Emirati Arabi Uniti hanno sospeso il loro coinvolgimento nel fornire aiuti attraverso un corridoio marittimo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




Biden non ha un legame affettivo con Israele, si tratta di politica Il New Yorker chiede: “Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da una Nazione che dipende da lui per gli aiuti?” e poi evita la risposta più ovvia.

Philip Weiss  

8 aprile 2024 – Mondoweiss

Il New Yorker [prestigioso settimanale statunitense, ndt.] ha chiesto ad Aaron David Miller, a lungo mediatore per la pace, perché Joe Biden stia assecondando i crimini di guerra di Israele, e Miller ha risposto che ciò è dovuto al fatto che ha un legame affettivo con Israele.

Joe Biden, unico tra i presidenti americani contemporanei, ha un rapporto affettivo con l’idea di Israele, il popolo di Israele, la sicurezza di Israele.”

Questa è la versione ufficiale. Questa settimana lo ha detto su NPR [National Public Radio, rete radiofonica USA, ndt.] anche Richard Haass, un sostenitore di Israele e decano di politica internazionale: “L’amministrazione sta cercando di equilibrare l’appoggio a Israele con i suoi dissensi sulla politica israeliana. Penso che il presidente in particolare provi un legame affettivo con Israele.”

Ed è quello che una volta Jeffrey Goldberg [giornalista e capo redattore di The Atlantic, importante rivista USA, ndt.] ha detto che Barack Obama non aveva. Gli elettori ebrei “si preoccupano riguardo al fatto che i candidati alla presidenza sentano l’importanza di Israele nelle loro kishkes, viscere.” È un’analisi falsa. Grandi politici non hanno un legame emotivo con i Paesi stranieri che ostacolano la loro politica. I politici imparano a gettare chiunque sotto l’autobus.

Biden prende questa posizione perché ha bisogno della lobby israeliana nelle elezioni del 2024. Il potere della comunità ebraica ufficiale nell’imporre l’appoggio di Biden ai crimini di guerra è una cosa che Chotiner [l’intervistatore del New Yorker, ndt.] e Miller sono incapaci di discutere.

L’intervista del New Yorker è utile come ulteriore indice della crisi di Israele nel discorso pubblico negli USA. Chotiner insiste sul carattere brutale dell’attacco israeliano: “Questo Paese che consideriamo alleato e parte dei nostri valori democratici condivisi” sta “intenzionalmente facendo morire di fame la popolazione palestinese.”

Miller è anche d’aiuto quando rileva che la posizione di Biden perché Netanyahu si dimetta non migliorerebbe le cose, perché tutto Israele appoggia le politiche genocide.

Non è che Benny Gantz, membri del gabinetto di guerra e la maggioranza dell’élite politica non siano completamente in sintonia con la strategia di guerra di Netanyahu.”

Poi Chotiner passa alla domanda fondamentale: ““Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da un Paese che dipende da lui per gli aiuti?”

Quando Miller risponde che si tratta di emotività, Chotiner sottolinea che lo stesso Miller non è altrettanto sensibile alle vittime palestinesi che a quelle ebraiche, e Miller lo riconosce.

Chotiner: “Mentre stavo ascoltando quello che dicevi a proposito degli orrori del 7 ottobre ho percepito nella tua voce un’emozione che non ho sentito in nessun altro momento in questa conversazione. Non voglio criticare ciò, ma mi domando se la gente che fa politica in America non abbia questa stessa commozione quando si tratta della vita di palestinesi. Pensi che sia corretto?”

Miller: “Penso che sia corretto dire, sì che… Se penso che Joe Biden abbia lo stesso profondo sentimento ed empatia per i palestinesi di Gaza che per gli israeliani? No, non ce l’ha.” Non c’è dubbio che ci sia parecchio razzismo in atto nelle istituzioni statunitensi. Basta vedere l’enorme reazione al massacro da parte di Israele di sette operatori umanitari (cittadini australiani, britannici, americani e canadesi) mentre centinaia di operatori umanitari palestinesi sono stati uccisi senza un barlume di questa indignazione.

Ma le istituzioni statunitensi hanno messo da parte il razzismo di fronte ad altri grandi movimenti politici, come quello contro l’apartheid in Sudafrica e il mutamento culturale di Black Lives Matter [movimento contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze negli USA, ndt.].

Ed hanno ripetutamente trattato i palestinesi come feccia.

Ci sono molte ragioni per l’esaltazione del sionismo da parte di Washington, ma la principale è il ruolo politico della lobby israeliana. Persino gli ebrei progressisti vedono la creazione di Israele come il più grande risultato del popolo ebraico nell’ultimo secolo, e hanno costruito istituzioni per appoggiare Israele e che hanno una considerevole influenza nel partito Democratico.

Miller è cresciuto in quella comunità. È membro di una facoltosa famiglia di Cleveland che ha incluso molti lobbisti filo-israeliani, tra cui il suo defunto padre. “Era un uomo di fiducia dei primi ministri e di altri dirigenti israeliani,” ha scritto il giornale ebraico di Cleveland. Il cugino di Miller, il defunto grande avvocato per i diritti umani Michael Ratner, nelle sue memorie postume del 2021 ha descritto il sentimento filo israeliano della famiglia: “In casa nostra la raccolta fondi per Israele non è mai cessata… All’epoca avevo 13 anni, la nostra famiglia aveva investito in vari progetti in Israele.”

Segui i soldi. Oggi Biden vede il genocidio a Gaza colpire gli elettori democratici, e forse persino costargli l’elezione, come ha avvertito James Carville, ma non può girare le spalle a Israele perché ha bisogno dei soldi della lobby. Lo scorso anno Biden ha avuto un incontro di tre ore alla Casa Bianca con il super donatore Haim Saban, che lo ha definito “impeccabile” sulla politica israeliana, e recentemente ha ospitato una grande raccolta fondi per Biden in California.

Quando i fratelli Koch [potente famiglia di industriali statunitensi, ndt.] influenzano la politica la si chiama corruzione, ma i media non fanno altrettanto quando lo fa Israele.

I sentimenti personali di Biden riguardo a Israele sono irrilevanti. La verità è che Biden è stato ripetutamente umiliato da Israele e si è rifiutato di fare qualcosa a questo riguardo. Nel 1982, quando era un giovane senatore, sbatté i pugni sul tavolo, fece la predica a Menachem Begin riguardo alle colonie e minacciò di tagliare l’aiuto degli USA. I suoi portavoce negarono questa vicenda quando correva per le elezioni del 2020 in modo che ciò non lo danneggiasse. Nel 2010 Netanyahu lo umiliò annunciando nuove colonie mentre l’allora vice presidente Biden atterrava in Israele. L’aperto disprezzo nei confronti della politica di Obama provocò il fatto che Biden rinviasse un incontro con Netanyahu, ma poi mise da parte il suo orgoglio e vi partecipò.

La politica è molto più importante dei sentimenti. Biden sa che i Democratici sono stati straordinariamente dipendenti dalla comunità ebraica per la raccolta fondi e quindi non possono fare niente che possa scoraggiare l’attaccamento percepito di quella comunità a Israele.

“C’è scarsa volontà tra i democratici di discutere pubblicamente un cambiamento sostanziale della politica di lungo corso verso Israele” in larga parte a causa “dell’influenza dei grandi donatori,” ha scritto nel 2019 sul New York Times Nathan Thrall [noto editorialista e scrittore statunitense di origini ebraiche, ndt.].

Delle decine di assegni personali di oltre 500.000 dollari versati al più grande PAC [Political Action Committee, che si occupa di raccogliere i fondi per le campagne elettorali, ndt.] per i Democratici nel 2018, il PAC della Maggioranza al Senato, circa tre quarti sono stati firmati da donatori ebrei. Ciò fomenta teorie cospirative antisemite e per qualcuno è l’elefante nella stanza. Benché il numero di donatori ebrei noti per dare la priorità alle politiche filo-israeliane su ogni altra questione sia piccolo, ce ne sono pochi, se non nessuno, che spingano nella direzione opposta…”

Dopo che Netanyahu umiliò Obama alla Casa Bianca nel 2011 dandogli lezioni su Gerusalemme, Ben Rhodes, il principale consigliere di Obama sulla politica estera, dovette poi prostrarsi davanti alla lobby filo-israeliana. Disse che dovette contattare per telefono “una lista di importanti donatori ebrei… per rassicurarli delle credenziali filoisraeliane di Obama.”

Una volta Tom Friedman [famoso giornalista filoisraeliano del New York Times, ndt.] spiegò la questione: “Se ho il timbro di approvazione dell’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] e tu no… Non devo fare molte telefonate per avere tutto il denaro di cui ho bisogno per correre contro di te. (Mentre) tu dovrai fare 50.000 telefonate.”

C’è una lunga storia della lobby filoisraeliana che ha danneggiato i politici che si sono messi di traverso. Clinton fece di George Bush un presidente con un solo mandato in parte correndo alla sua destra sulle colonie a cui Bush si era opposto. Come affermò Friedman, il figlio di Bush, George W., ne ricavò la lezione politica secondo cui i Repubblicani non avrebbero mai più dovuto essere contro Israele e divenne presidente con l’appoggio dei neocons, la cui intera visione del mondo era modellata sull’appoggio USA a Israele.

La convinzione secondo cui i neocons sono la ragione per cui Bush iniziò la guerra in Iraq è ampiamente sostenuta, anche da Tom Friedman, ma quando alcuni studiosi lo affermarono in un libro del 2007, The Israel Lobby, molti nella comunità ebraica ufficiale denunciarono l’idea come antisemita. “Gli ebrei sono responsabili di ogni guerra,” lo ridicolizzò Jeffrey Goldberg.

Chotiner e Miller sanno tutto ciò e non ne vogliono parlare. Se vuoi condannare le persone per una cattiva politica dovresti iniziare dal tuo stesso orticello. Questa è sempre stata la ragione per cui mi sono concentrato sulla lobby filoisraeliana, è un’istituzione nata nella mia comunità, su cui ho una particolare competenza.

Ora Chotiner ha l’obbligo di intervistare un esperto della lobby ebraica, come John Mearsheimer o Stephen Walt [autori di La Israel lobby e la politica estera americana, Mondadori, 2009], che hanno messo in pericolo la loro carriera per denunciare questa influenza. Loro risponderebbero a questa domanda fondamentale: perché una superpotenza fa tutto il possibile per agevolare il genocidio di un popolo dell’etnia sbagliata da parte di un piccolo Paese?

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Guerra contro Gaza: brutale il contrasto tra come la Gran Bretagna tratta i rifugiati palestinese e quelli ucraini

Richard Burden

2 aprile 2024 – Middle East Eye

Il governo britannico deve togliere i crudeli ostacoli per i profughi palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna e contribuire anche a porre fine alle estorsioni a danno dei disperati al valico di Rafah

Rifugiati di Gaza con familiari in Gran Bretagna affrontano sia ostacoli kafkiani da parte del governo inglese che estorsioni sul confine tra Rafah e l’Egitto. Una famiglia che conosco ha fatto l’esperienza di entrambi. Tuttavia, prima di affrontare queste vicende, chiariamo una cosa: il modo per porre fine alle sofferenze a Gaza è un cessate il fuoco immediato e un accesso senza restrizioni nella Striscia.

È assolutamente inaccettabile aspettarsi che i palestinesi lascino la propria patria, benché molti degli estremisti che dominano l’attuale governo israeliano vorrebbero spingerne quanti più possibile oltre il confine con l’Egitto.

La stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono a Gaza proviene da famiglie di rifugiati che scapparono lì cacciati dalle proprie case verso nord quando venne creato Stato di Israele nel 1948. I palestinesi la chiamano Nakba, o catastrofe.

Il massacro di Gaza è già più che terribile. Il mondo non deve consentire che l’orrore si trasformi nella Nakba 2.0.

Nessuno suggerisce neppure che la risposta per il popolo ucraino sia andarsene dalla patria di fronte all’aggressione russa. Ma ciò non ha impedito a molti Paesi, compreso il nostro, di aprire le porte per fornire un rifugio sicuro alle famiglie che scappano dal massacro in Ucraina.

Ciò non è altro che la cosa giusta da fare a livello umano e riflette lo spirito della Convenzione Internazionale sui Rifugiati del 1951, di cui Il Regno Unito è uno dei firmatari.

Netto e brutale

Ma il contrasto tra il modo in cui la Gran Bretagna tratta i rifugiati ucraini e quelli che fuggono da Gaza è netto e brutale. Per poter entrare nel Regno Unito chi fugge da Gaza deve dimostrare sia di avere il permesso di ingresso per più di sei mesi che un coniuge o un figlio con meno di 18 anni qui.

Se hai un fratello o una sorella che vive in Gran Bretagna, o sei un anziano vulnerabile con un figlio o una figlia adulti che vivono qui, le norme del Regno Unito ti dicono di scordartelo.

Tali condizioni non sono imposte alle persone che fuggono dall’Ucraina. Infatti, in base al programma “Case per l’Ucraina”, i cittadini britannici sono stati aiutati perché accogliessero in casa loro profughi ucraini, indipendentemente dal fatto che essi abbiano rapporti familiari. E a ragione.

Quando interrogati in parlamento, i ministri britannici spesso dicono che verificheranno casi individuali di palestinesi che scappano da Gaza che i parlamentari porteranno alla loro attenzione. Tuttavia finora ci sono poche prove che le loro parole significhino un granché nella pratica.

Niente obbliga il governo britannico a comportarsi in questo modo. È una decisione politica deliberata da parte sua ed è tempo che i ministri cambino direzione.

Molti membri del parlamento e della Camera dei Lord di vari partiti hanno firmato la lettera aperta della baronessa Bennett al ministro degli Interni che invoca l’introduzione di un regime di visti per i palestinesi modellato su “Case per l’Ucraina”.

Anche due mozioni simili sono state presentate alla Camera dei Comuni.

Tutti questi tentativi meritano il nostro appoggio. Sono necessarie anche azioni, non solo parole, da parte dei ministri britannici.

Estorsione

Ma queste cose sono solo una parte della vicenda. In primo luogo per uscire da Gaza ai rifugiati palestinesi deve essere permesso attraversare il valico tra Rafah e il deserto del Sinai egiziano.

Benché il confine sia direttamente amministrato dall’Egitto, anche Israele ha molta voce in capitolo su chi lo può attraversare e chi no. Dal 7 ottobre non c’è nessun altro modo per lasciare Gaza.

I palestinesi che cercano di andare in Gran Bretagna devono prima inserire il loro nome in una lista fornita alle autorità egiziane e israeliane dal consolato generale britannico a Gerusalemme. Se non sei un cittadino inglese o se non soddisfi i rigidi criteri del governo britannico sulla concessione dei visti non sarai inserito in quella lista.

Anche se la Gran Bretagna inserisce il tuo nome nella lista, ciò non garantisce il permesso di attraversare il valico di Gaza da parte delle autorità egiziane e israeliane.

Se ci sei o sei un palestinese che cerca di andare in un qualunque altro Paese dovrai anche pagare un pesante balzello perché ti sia consentito attraversare fisicamente il valico di Rafah. Di recente ai membri di una famiglia palestinese che conosco sono state fatte pagare quasi 9.000 sterline [oltre 10.000 euro, ndt.] per consentire a una madre con i figli di entrare in Egitto.

So di famiglie a cui è stata chiesta una quantità di denaro anche superiore. I miei amici sono stati sufficientemente fortunati ad avere la disponibilità di quel denaro. Sarebbe semplicemente al di là delle possibilità della stragrande maggioranza dei palestinesi di Gaza, una striscia di terra devastata dalla povertà molto prima dell’ultima invasione israeliana e che non ha avuto un’economia funzionante negli ultimi sei mesi di guerra.

Sembra che nessuno sappia quanto denaro richiesto ai palestinesi al valico di Rafah sia rappresentato da tributi ufficiali del governo egiziano e quanto sia dovuto alla corruzione alla frontiera. In ogni caso si tratta di un’estorsione a danno di persone che a Gaza hanno già vissuto orrori indicibili.

Il governo britannico non solo deve togliere i brutali ostacoli che mette sul percorso dei rifugiati palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna, soprattutto quando hanno una famiglia o altri rapporti qui. Deve anche, insieme ad altri Paesi, imporre una pressione documentabile sull’Egitto perché finisca l’estorsione a Rafah, sia che derivi da tasse di uscita ufficiali che da iniziative di funzionari corrotti.

Il comune senso del decoro non richiede niente di meno.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle Esta Eye.

Richard Burden è un ex-parlamentare laburista, ministro ombra e presidente del Gruppo Parlamentare Multipartito Gran Bretagna-Palestina. Per oltre 45 anni Burden ha militato in appoggio dei diritti umani e la giustizia in Israele e Palestina. È anche amministratore fiduciario dell’organizzazione benefica Balfour Project e vice presidente degli Amici Laburisti della Palestina e del Medio Oriente (LFPME).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)