Nel ’48 soldati e civili ebrei saccheggiarono in massa le proprietà dei loro vicini arabi. Le autorità fecero finta di niente

Ofer Aderet

3 ottobre 2020 – Haaretz

Frigoriferi e caviale, champagne e tappeti, il primo studio complessivo in assoluto dello storico Adam Raz rivela in quale misura gli ebrei saccheggiarono le proprietà arabe durante la Guerra d’Indipendenza e spiega perché Ben Gurion affermò: “La maggior parte degli ebrei è composta da ladri”

Trasformammo un armadio di mogano in un pollaio e portammo via la spazzatura con un vassoio d’argento. C’era una porcellana con decorazioni dorate e noi decidemmo di stendere un telo sul tavolo, disponemmo sopra la ceramica e l’oro e, quando il cibo fu terminato, tutto venne portato nello scantinato. In un altro luogo trovammo una dispensa con 10.000 scatole di caviale, questo risulta dal loro conteggio. Dopo di che i ragazzi non poterono più mangiare di nuovo caviale per il resto della vita. Da un lato c’era una sensazione di vergogna per questo comportamento, e dall’altro di sregolatezza. Passammo lì 12 giorni, quando Gerusalemme pativa di una terribile scarsità di mezzi, e noi stavamo ingrassando. Mangiavamo pollo e prelibatezze incredibili. Nel (quartier generale di) Notre Dame [ospizio francese per i pellegrini cattolici, ndtr.], qualcuno si faceva la barba con lo champagne.”

– Dov Doron, testimonianza sui saccheggi a Gerusalemme.

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Il 24 luglio 1948, due mesi dopo la Fondazione dello Stato di Israele, David Ben-Gurion, capo del governo provvisorio, espresse una pesantissima critica riguardo al suo popolo: “Risulta che la maggior parte degli ebrei è composta da ladri…Lo dico in modo deliberato e chiaro, perché purtroppo è la verità.” I suoi commenti compaiono nero su bianco negli appunti di un incontro del Comitato Centrale del Mapai [principale partito sionista, ndtr.], il predecessore del partito Laburista, conservati nell’archivio del partito Laburista.

Gente della valle di Jezreel ruba! I pionieri dei pionieri, genitori dei figli del Palmach (forse speciali pre-statali)! E tutti quanti vi hanno partecipato, baruch Hashem [Sia benedetto il nome di dio], la gente del (moshav [comunità agricola cooperativa, ndtr.]) Nahalal!… Questo è un brutto colpo. È terrificante, perché dimostra una carenza di base. Furto e rapina, e da dove ci viene questo? Perché la gente di questa terra, costruttori, creatori, pionieri, arriva a gesti di questo tipo? Cos’è successo?”

Il documento è stato riportato alla luce dallo storico Adam Raz nel corso della sua ricerca per il suo nuovo libro che, come suggerisce il titolo, affronta una questione molto pesante, delicata e pericolosa: “Saccheggio di proprietà arabe durante la Guerra d’Indipendenza” (Carmel Publishing House, in collaborazione con l’Akevot Institute for Israeli-Palestinian Conflict Research [Centro Israeliano per la Ricerca Archivistica, ndtr.], in ebraico). Il compito che ha intrapreso è arduo: raccogliere per la prima volta in un unico testo ogni informazione disponibile sui saccheggi di proprietà arabe da parte degli ebrei durante la guerra di indipendenza israeliana del 1947-48, da Tiberiade nel nord a Be’er Sheva nel sud; da Giaffa a Gerusalemme attraversando i villaggi, le moschee e le chiese sparse tra di esse. Raz ha analizzato attentamente oltre trenta archivi in tutto il Paese, ha sfogliato i giornali dell’epoca ed ha esaminato tutta la letteratura esistente sull’argomento. Il risultato è sconvolgente.

Molti israeliani, sia civili che militari, vennero coinvolti nel saccheggio delle proprietà della popolazione araba,” dice Raz ad Haaretz. “La spoliazione si diffuse come un incendio tra l’opinione pubblica.” Ciò comprese quanto contenevano migliaia di case, negozi e fabbriche, equipaggiamento meccanico, prodotti agricoli, bestiame e molto altro, continua. Vennero inclusi anche pianoforti, libri, vestiti, gioielli, mobili, elettrodomestici, macchinari e auto. Raz ha lasciato ad altri le ricerche sul destino di terre ed edifici abbandonati dai 700.000 mila arabi che scapparono o vennero espulsi durante la guerra. Si concentra solo su beni mobili, cose che potevano essere infilate in borse o caricate su veicoli.

Ben-Gurion non fu l’unico personaggio importante che Raz cita. Anche Yitzhak Ben-Zvi, decenni prima compagno di studi giuridici di Ben-Gurion e in seguito secondo presidente di Israele, citò il fenomeno. Secondo il suo resoconto, quelli che si impegnarono nei saccheggi erano “ebrei per bene che vedono il furto come naturale e consentito.” In una lettera datata 2 giugno 1948 a Ben-Gurion citata da Raz, Ben-Zvi scrisse che quello che stava avvenendo a Gerusalemme danneggiava “mortalmente” l’onore del popolo ebraico e delle forze combattenti.

Non posso restare in silenzio riguardo ai furti, sia organizzati da gruppi non organizzati, che da parte di singoli individui,” scrisse. “Il furto è diventato un fenomeno generalizzato… Chiunque sarà d’accordo sul fatto che i nostri ladri si sono lanciati sui quartieri abbandonati come cavallette su un campo o un orto.”

L’accurato lavoro d’archivio di Raz ha scoperto un numero infinito di citazioni, che rendono penosa la lettura, di personaggi più o meno importanti tra la popolazione e le istituzioni israeliane, dai leader fino ai soldati semplici.

In un documento d’archivio del Custode delle Proprietà degli Assenti (cioè di proprietà di palestinesi che lasciarono le loro case o il Paese dopo l’approvazione della risoluzione ONU del 29 novembre 1947 per la partizione e che vennero espropriati dal governo israeliano), Raz ha individuato un rapporto del 1949 di Dov Shafrir, il custode ufficiale, che afferma: “La fuga di massa nel panico degli abitanti arabi, che hanno lasciato dietro di sé immense proprietà in centinaia e migliaia (di) appartamenti, negozi, magazzini e laboratori, l’abbandono di raccolti nei campi e di frutti in giardini, orti e vigne, tutto ciò nel tumulto della guerra…ha messo di fronte l’Yishuv (la comunità ebraica in Palestina prima del 1948) a una grave tentazione materiale… in moltissimi sono scattati desiderio di vendetta, giustificazioni morali e lusinghe materiali …Gli avvenimenti sul terreno si sono scatenati senza controllo.”

La testimonianza di Haim Kremer, che fu arruolato nella Brigata Negev del Palmach e venne mandato a Tiberiade per impedire i saccheggi, è stata trovata nell’archivio Yad Tabenkin [del movimento dei kibbutz, ndtr.] , a Ramat Gan. “Come cavallette, gli abitanti di Tiberiade sono entrati nelle case… Abbiamo dovuto ricorrere a pugni e randelli per respingerli e obbligarli a lasciare le cose sul posto,” affermò Kremer.

Il diario di Yosef Nachmani, un abitante di Tiberiade che era stato un fondatore dell’organizzazione di difesa ebraica Hashomer, venne depositato nel suo archivio e contiene la seguente introduzione sugli avvenimenti nella sua città nel 1948: “La folla di ebrei si è scatenata ed ha iniziato a saccheggiare i negozi…A decine, in gruppi, gli ebrei hanno proceduto a rubare nelle case e nei negozi degli arabi.”

Anche molti soldati “non si sono trattenuti e si sono uniti ai festeggiamenti,” scrisse nelle sue memorie Nahum Av, il comandante dell’Haganah [principale milizia sionista, ndtr.] nella città vecchia di Tiberiade. Soldati ebrei, che avevano appena combattuto contro gli arabi vennero posti all’ingresso della città vecchia, scrisse, per impedire che gli abitanti ebrei facessero irruzione nelle case degli arabi. Erano armati “per affrontare gli ebrei che cercavano di entrare a forza nella città con l’intento di rubare e saccheggiare.” Durante tutto il giorno “la folla si è affollata attorno alle barriere e cercava di entrare. I soldati sono stati obbligati a resistere con la forza.”

A questo proposito Kremer notò che “c’era concorrenza tra diverse unità dell’Haganah… che sono arrivate in auto e in barca ed hanno preso ogni sorta di oggetti… frigoriferi, letti e via di seguito.” Egli aggiunse: “Naturalmente a Tiberiade la folla di ebrei è entrata per fare altrettanto. Ha lasciato su di me un’impressione molto sgradevole, l’abbruttimento di tutto ciò. Insudicia la nostra bandiera… La nostra lotta è minata a livello etico… è ignobile… che declino morale.”

Si vide gente “vagare tra i negozi saccheggiati e prendere qualunque cosa fosse rimasta dopo il vergognoso furto,” aggiunse Nahum Av nel suo resoconto. “Ho pattugliato le strade ed ho visto una città che fino a non molto tempo fa era stata più o meno normale. Invece ora è una città fantasma, depredata, i suoi negozi svaligiati e le case svuotate dei loro abitanti… Lo spettacolo più vergognoso è stato quello della gente che rovistava tra i mucchi rimasti dopo il grande saccheggio. Si vedono le stesse scene umilianti ovunque. Ho pensato: come può essere? Non si sarebbe mai dovuto permettere che ciò accadesse.”

Netiva Ben-Yehuda, leggendaria combattente del Palmach che partecipò alla battaglia di Tiberiade, fu inflessibile nella sua descrizione degli avvenimenti. “Queste immagini ci erano già note. È il modo in cui le cose sono sempre state fatte a noi, durante l’Olocausto, durante la guerra mondiale e in tutti i pogrom. Oh, come conosciamo bene queste immagini. E qui, qui, abbiamo fatto queste cose orribili ad altri,” scrisse. “Abbiamo caricato ogni cosa sul camioncino, con un terribile tremore delle mani. E non a causa del peso. Le mie mani stanno ancora tremando, solo perché ne sto scrivendo.”

Tiberiade, conquistata dalle forze ebraiche nell’aprile 1948, fu la prima città mista arabo-ebraica ad essere presa nel corso della Guerra d’Indipendenza. Fu “un archetipo in miniatura di quanto sarebbe avvenuto nei mesi seguenti nelle città arabe e miste del Paese,” afferma Raz. Nel corso della sua ricerca ha scoperto che non esiste nessun dato ufficiale sui saccheggi, sulle loro dimensioni quantitative ed economiche. Ma chiaramente queste azioni avvennero in modo esteso in ognuna di queste città.

In effetti Raz ha trovato resoconti simili a quelli riguardanti Tiberiade nella documentazione della battaglia di Haifa, che ebbe luogo qualche giorno dopo, il 21 e il 22 aprile. “Mentre con una mano lottavano e conquistavano, con l’altra i combattenti trovavano il tempo di saccheggiare, tra le altre cose, macchine da cucire, giradischi e vestiti,” secondo Zeev Yitzhaki, che combatté nel quartiere di Halisa, in città.

La gente ha arraffato tutto quello che ha potuto… Quelli più intraprendenti hanno aperto i negozi abbandonati ed hanno caricato le mercanzie in ogni veicolo. Regnava l’anarchia,” aggiunse Zadok Eshel, della brigata Carmeli. “Insieme alla gioia per la liberazione della città e il sollievo dopo mesi di incidenti sanguinosi, è stato scioccante vedere la smania dei civili nell’approfittare del vuoto di potere e fare irruzione nelle case delle persone che un fato crudele ha trasformato in rifugiati.”

Yosef Nachmani, che visitò Haifa dopo che era stata conquistata dalle forze ebraiche, scrisse: “Anziani e donne, indipendentemente dall’età e dallo status religioso, sono tutti impegnati a saccheggiare. E nessuno li ferma. Ciò si ritorcerà su di noi e sull’educazione dei giovani e dei bambini. La gente ha perso ogni vergogna, azioni come queste minano le fondamenta morali della società.”

Saccheggi e furti furono così diffusi che il procuratore generale che accompagnò le forze combattenti ad Haifa, Moshe Ben-Peretz, nel giugno del 1948 affermò: “Non è stato lasciato niente da prendere agli arabi. Semplicemente un pogrom… E tutti i comandanti hanno una scusa: ‘Sono arrivato qui solo due settimane fa’, ecc. Non c’è nessuno da arrestare.”

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C’erano tante case in rovina e mobili sfasciati abbandonati tra i mucchi di macerie. Le porte delle case da entrambi i lati della strada erano scassinate. Molti oggetti presi dalle case erano sparpagliati sui marciapiedi… Nell’ingresso della casa c’era una culla rovesciata e vicino una bambola nuda, un po’ rotta, con la faccia a terra. Dov’è il bambino? In quale esilio è finito? Quale esilio?”

Moshe Carmel, comandante della brigata Carmeli, sul saccheggio di Haifa.

Membri della Camera di Commercio e dell’Industria dell’Yishuv avevano messo in guardia sulla possibilità di saccheggi: “In futuro dovremo rispondere alla storia, che si occuperà dell’argomento,” scrissero all’Emergency Committee, l’istituzione [sionista] di governo pre-statale. In un documento intitolato “Epidemia di saccheggi e furti”, il personale dei servizi giudiziari dell’esercito, parte del sistema della giustizia militare, notò: “Questa piaga si è diffusa in tutte le unità e in tutti i ranghi degli ufficiali… I furti e i saccheggi hanno assunto dimensioni impressionanti e i nostri soldati sono impegnati in questa attività, con dimensioni che danneggiano la loro preparazione alla battaglia e il loro senso del dovere.”

Anche membri del partito Comunista si espressero sull’argomento. In un memorandum all’Amministrazione del Popolo (il governo provvisorio) e al quartier generale dell’Haganah, il partito riferì di “una campagna di saccheggi, rapine e furti di proprietà degli arabi di dimensioni impressionanti.” In effetti “la grande maggioranza delle case degli abitanti arabi è stata svuotata di ogni cosa di valore, le merci e i beni sono stati rubati dai negozi e le macchine portate via da laboratori e fabbriche.”

Dopo la conquista di Haifa Ben-Gurion scrisse nel suo diario riguardo a “ruberie totali e complete” nel quartiere di Wadi Nisnas perpetrate dall’Irgun, la milizia pre-statale guidata da Menachem Begin e da forze dell’Haganah: “Ci sono stati casi in cui gente dell’Haganah, compresi i comandanti, sono stati trovati con oggetti rubati,” scrisse. Pochi giorni dopo, in un incontro dell’esecutivo dell’Agenzia Ebraica, Golda Meir notò che “nel primo giorno o due (dopo la conquista della città) la situazione nella zona conquistata è stata cupa. In particolare nel settore occupato dall’Irgun nelle case non è rimasto neppure un ago.”

Informazioni sui saccheggi comparvero anche sulla stampa. Alla fine del 1948 Aryeh Nesher, il corrispondente di Haaretz da Haifa, scrisse: “Risulta che il popolo ebraico ha imparato anche questa professione (il furto), e molto approfonditamente, come è abitudine degli ebrei. ‘Il lavoro ebraico’ ora esiste anche in questo mestiere. In effetti il flagello dei furti ha colpito Haifa. Ogni settore dell’Yishuv vi ha preso parte, indipendentemente dalla comunità etnica e dal Paese d’origine. Nuovi immigrati ed ex-ospiti della prigione di San Giovanni d’Acri, abitanti da lungo tempo originari dell’Est e dell’Ovest, indistintamente… E dov’è la polizia?” Un inviato di Maariv, che nel luglio 1948 partecipò a una visita a Gerusalemme scrisse: “Portate giudici e polizia nella Gerusalemme ebraica, perché siamo diventati come tutte le altre Nazioni.”

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Lungo la strada non c’è una casa, un negozio, un’officina da cui non sia stato portato via tutto… Cose di valore o che non valgono niente, letteralmente tutto! Rimani con un’impressione scioccante di questa immagine di rovine e mucchi di detriti, tra cui si aggirano uomini che frugano tra gli stracci per prendersi qualcosa in cambio di nulla. Perché non prendere? Perché avere pietà?”

Ruth Lubitz, testimone del saccheggio di Giaffa

Raz, 37 anni, fa parte dell’Akevot Institute (che si dedica a questioni sui diritti umani relative al conflitto) e cura il giornale Telem per la Fondazione Berl Katznelson [legata al partito laburista, ndtr.]. (Egli collabora anche spesso ad Haaretz con articoli di storia). Benché non abbia conseguito un dottorato, il suo curriculum include un certo numero di studi che potrebbero benissimo essere serviti come base per una tesi di dottorato – sul massacro di Kafr Qasem [nel 1956 le truppe israeliane uccisero 48 palestinesi con cittadinanza israeliana, tra cui 6 donne e 23 minorenni dagli 8 ai 17 anni, ndtr.], sul progetto nucleare israeliano e su Theodor Herzl. Sul saccheggio di proprietà di arabi da parte degli ebrei si è già scritto, ma pare che Raz sia il primo ad aver dedicato un’intera monografia all’argomento.

A differenza di altri ricercatori che hanno scritto della guerra, vedo il saccheggio come un avvenimento di un’importanza molto maggiore di quanto è stato detto in precedenza in merito,” nota lo storico. “Nel libro mostro quanto fosse sconvolta la maggioranza dei decisori politici riguardo al saccheggio ed al pericolo che ciò poneva alla società ebraica, e il livello in cui ciò era una questione controversa tra loro.”

Egli sostiene anche che ci sia stata una “congiura del silenzio” sul fenomeno. Dice che in seguito a ciò persino ora, nel 2020, i colleghi che hanno letto il libro prima della sua pubblicazione sono rimasti “sorpresi dalle sue dimensioni”.

Egli descrive la spoliazione delle proprietà arabe da parte degli ebrei come un fenomeno “particolare”, perché i saccheggiatori erano civili (ebrei) che rubavano ai loro vicini civili (arabi). “Non erano ‘nemici’ astratti che arrivavano dal mare, ma i vicini di ieri,” afferma.

Su quale base affermi che questo fu un avvenimento particolare? La storia mostra che nella Seconda Guerra Mondiale anche la popolazione polacca saccheggiò le proprietà dei vicini ebrei, che avevano vissuto vicino a loro pacificamente per secoli. Che sia questa una reazione non limitata al nostro caso? Non è forse la natura umana?

Raz: “Il saccheggio in tempi di guerra è un antico fenomeno storico che è documentato in testi di migliaia di anni fa. Il mio libro non affronta il fenomeno in generale, ma nel caso israeliano-arabo-palestinese. È stato importante per me sottolineare che il saccheggio di proprietà arabe fu diverso dal ‘normale’ saccheggio di guerra. Non erano, per esempio soldati americani che depredavano i vietnamiti o tedeschi a migliaia di chilometri da casa. Furono civili che saccheggiarono i loro vicini della casa di fronte alla loro. Non intendo che conoscessero necessariamente Ahmed o Noor, le cui proprietà stavano rubando, ma che i vicini erano parte di un tessuto sociale civile condiviso.

Gli ebrei di Haifa e dei dintorni che saccheggiarono le proprietà di circa 70.000 arabi ad Haifa, per esempio, conoscevano gli arabi le cui case stavano depredando. Questo era sicuramente anche il caso delle città miste e dei villaggi che si trovavano nei pressi di kibbutz [comunità sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] e moshav. Il libro è pieno di esempi che attestano il fatto che i saccheggiatori sapevano che quello che stavano facendo era immorale. Oltretutto la gente sapeva che la maggioranza della comunità palestinese non aveva partecipato attivamente agli scontri. Nella maggioranza dei casi, di fatto, il saccheggio avvenne dopo la battaglia, nei giorni e nelle settimane seguenti la fuga e l’espulsione dei palestinesi.”

Comunque non è l’unico caso di questo genere.

Come storico non sono un sostenitore della storia comparata e non ritengo che dai saccheggi avvenuti nella storia si possa ricavare molto riguardo al caso israeliano.”

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Da Haifa il libro di Raz si sposta a Gerusalemme, dove i saccheggi andarono avanti per mesi, dice. Cita il diario di Moshe Salomon, un comandante di compagnia che combatté in città: “Fummo tutti travolti da questo, soldati semplici ed ufficiali. Ognuno venne preso da una brama di possesso. Frugarono in ogni casa e qualcuno trovò cibo, altri oggetti di lusso. La mania prese anche me e riuscii a fatica a trattenermi. A questo proposito non ci sono limiti a quello che la gente può fare…È lì che iniziano la morale e l’inclinazione dell’uomo, quindi si può capire il senso della teoria secondo cui in guerra i valori morali e l’umanità sfumano.”

Yair Goren, un abitante di Gerusalemme, raccontò che “la caccia al bottino fu intensa…Uomini, donne e bambini correvano di qua e di là come topi drogati. Molti litigavano su una cosa o l’altra in uno dei mucchi, o sul numero di oggetti, e ciò arrivò al punto di scontri sanguinosi.”

L’ufficiale operativo della brigata Harel, Eliahu Sela, descrisse come “un pianoforte e poltrone dorate e cremisi vennero caricati sui nostri camion. Fu orribile. Orribile. Dei combattenti videro una radio e dissero: ‘Ehi, ho bisogno di una radio.’ Poi videro un servizio di piatti. Buttarono via la radio e presero quelli… Soldati si avventarono su delle lenzuola. Continuarono ad ammucchiare (cose) nei loro cappotti.”

David Werner Senator, uno dei dirigenti di Brit Shalom, che invocava la coesistenza di arabi ed ebrei in un unico Stato e importante funzionario dell’Università Ebraica di Gerusalemme, descrisse quello che vide: “In questi giorni, quando passi per le vie di Rehavia (un quartiere elegante di Gerusalemme), vedi ovunque anziani, giovani e bambini che tornano da Katamon o da altri quartieri con borse piene di oggetti rubati. Il bottino è vario: frigoriferi e letti, orologi e libri, biancheria intima e vestiti… Che disgrazia e che rovina morale hanno portato su di noi i ladri ebrei! È ovvio, una terribile dissolutezza si diffonde tra giovani e anziani.”

Un ufficiale operativo della brigata Etzioni, Eliahu Arbel, descrisse soldati “avvolti in tappeti persiani” che avevano rubato. Una notte si imbatté in un veicolo blindato sospetto. “Scoprimmo che era pieno di frigoriferi, giradischi, tappeti e qualunque altra cosa.” L’autista gli disse: “Dammi il suo indirizzo, ti porterò tutto quello che vuoi a casa.” Arbel continua: “Non sapevo cosa fare. Arrestarlo? Ucciderlo? Gli ho detto: ‘Vattene al diavolo, via di qui!’ E se n’è andato.” Ricorda che in seguito “un abitante del quartiere disse a mia moglie che in un certo negozio un frigorifero elettrico costava poco. Sono andato al negozio e là ho incontrato l’uomo del veicolo blindato. Ha detto: ‘Per lei, 100 lire!’ ‘Non ti vergogni?!’ gli ho detto. Ha risposto: ‘Se tu sei un idiota, io dovrei vergognarmi?”

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Ho portato qualche bella cosa da Safed. Per Sara e per me ho trovato vestiti arabi finemente ricamati e qui possono essere adattati a noi. Coltelli e fazzoletti, braccialetti e collane, un tavolo placcato in oro e argento e un sevizio di splendide tazzine da caffè d’argento, e soprattutto ieri Sara ha portato un grande tappeto persiano nuovissimo e stupendo, di una bellezza mai vista. Una sala come questa può competere con quelle di tutti i ricchi di Tel Aviv.”

Un combattente del Palmach sul saccheggio di Safed

Nel libro di Raz ci sono riferimenti solo marginali al fenomeno opposto: casi in cui gli arabi saccheggiarono proprietà ebraiche.

In una nota a piè di pagina hai scritto che “anche gli arabi saccheggiarono e razziarono durante la guerra.” Ci si potrebbe anche chiedere perché non descrivi il saccheggio di proprietà ebraiche in Paesi arabi dopo che gli ebrei fuggirono o vennero espulsi da lì. Non sarebbe stato corretto parlare di questo?

Il libro è un documento storico, non un atto d’accusa. Lascia che ti racconti una storia. In seguito alla pubblicazione del mio libro sul massacro di Kafr Qassem sono stato invitato a tenere una lezione all’università di Ariel ([una colonia] in Cisgiordania). Alla fine tra il pubblico qualcuno, che evidentemente era infastidito da quello che ho detto, mi ha chiesto: “Perché non scrivi sul massacro perpetrato dagli arabi contro gli ebrei di Hebron nel 1929?” Bene, il titolo di questo libro è ‘Saccheggi di proprietà arabe da parte di ebrei nella Guerra d’Indipendenza.’ Non è ‘Saccheggi e furti nella storia del conflitto arabo-israeliano dalla prima Aliyah al piano Trump.’

Penso che i saccheggi di proprietà arabe durante la guerra siano un caso particolare e distintivo, almeno abbastanza particolare da scriverci un libro. Penso che questa spoliazione di proprietà abbia esercitato, e continui ad esercitare, una considerevole influenza sui rapporti tra i due popoli che condividono questa terra. Sulla base di un’ampia documentazione il libro mostra che una parte integrante della popolazione ebraica partecipò al saccheggio e al furto delle proprietà di più di 600.000 persone. Non assomiglia ai pogrom e ai furti commessi dagli arabi durante le rivolte palestinesi. Il saccheggio di proprietà ebraiche negli Stati arabi, di per sé un argomento affascinante, non è neppure collegato al mio libro, il cui primo capitolo intende descrivere il saccheggio come un fenomeno generalizzato nell’arco di molti mesi e il cui secondo capitolo spiega come queste azioni fossero intrecciate a un approccio politico.”

Scrivi che “non c’è paragone tra le dimensioni del saccheggio” da parte di arabi e quello degli ebrei e che in ogni caso la maggior parte dei saccheggiatori arabi “proveniva da Paesi vicini e non erano abitanti del posto.” Qual è la base di questa affermazione?

La questione è semplice. Gli abitanti arabi fuggirono o furono espulsi rapidamente. Non ebbero il tempo o la possibilità di occuparsi di armadi, frigoriferi, pianoforti e delle proprietà nelle migliaia di case e negozi che erano stati abbandonati. Fuggirono di corsa e la grande maggioranza di loro pensava che sarebbe tornata in breve tempo. Il Paese venne svuotato della sua popolazione araba in pochissimi giorni, e civili e soldati si affrettarono a saccheggiare i loro beni.

Anche le forze combattenti arabe, la grande maggioranza delle quali non era del posto, si dedicarono al saccheggio. Ma l’ordine di grandezza è completamente diverso. E, ovviamente, le conquiste dei combattenti arabi furono, fortunatamente, molto poche. Il kibbutz Nitzanim, preso dalle forze egiziane, venne saccheggiato e subì una massiccia distruzione. Faccio presente che in certi luoghi (cioè nei casi di Giaffa o del Blocco di Etzion) le forze arabe furono impegnate a saccheggiare. Nella confusione della precipitosa evacuazione, perfino i britannici compirono alcuni saccheggi. Ma non allo stesso livello. Bisogna capire che le forze ebraiche presero Tiberiade, Haifa, Gerusalemme ovest, Giaffa, San Giovanni d’Acri, Safed, Ramle, Lod e altre località. D’altra parte i combattenti arabi presero, per esempio, il kibbutz Yad Modechai, Nitzanim e il Blocco di Etzion.

Haifa, per esempio, prima della guerra aveva una popolazione di 70.000 ebrei ed altrettanti arabi. Dopo la conquista dell’Haifa araba vennero lasciati in città 3.500 arabi. Le proprietà di 66.500 arabi che fuggirono dalla città vennero saccheggiate dagli ebrei, non dalla minoranza araba sconfitta e terrorizzata.”

Cosa accadde ai saccheggiatori? I documenti d’archivio mostrano che da decine a centinaia di procedimenti giudiziari vennero aperti contro sospetti depredatori, sia civili che militari. Tuttavia, evidenzia Raz, “in genere le condanne furono comunque lievi, se non ridicole,” spaziando da multe a sei mesi di carcere. A quanto pare l’opinione di Raz venne condivisa da alcuni ministri del governo, come attestato da carteggi del 1948.

Il ministro della Giustizia Pinhas Rosen scrisse: “Tutto quello che è stato fatto in questa zona è una disgrazia per lo Stato di Israele e non c’è una risposta adeguata da parte del governo.” Il suo collega, il ministro dell’Agricoltura Aharon Zisling, lamentò che “nei pochi casi di processi le maggiori ruberie … ricevettero una punizione molto mite.” Il ministro delle Finanze Eliezer Kaplan chiese “se questo è il modo di combattere contro ruberie e furti.”

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La gente che è arrivata con camion è andata di casa in casa ed ha portato via le cose di valore: letti, materassi, armadi, utensili da cucina, bicchieri, sofà, tende e altri oggetti. Quando sono tornato a casa volevo proprio chiedere a mia madre perché lo avessero fatto, dopotutto quelle proprietà erano di qualcuno… Ma non ho osato farlo. La vista della città vuota e il fatto che siano stati presi i beni dei suoi abitanti, e le domande che tutto questo aveva suscitato in me, mi hanno tormentato per anni.”

Fawzi al-Asmar a proposito del saccheggio di Lod

Seguendo la discussione complessiva sul saccheggio che ci fu nel Paese, Raz si occupa delle sue implicazioni politiche. “Questo non è solo un resoconto dei saccheggi, è una vicenda politica,” scrive. Le razzie, sostiene, “erano tollerate” dai dirigenti politici e militari, e soprattutto da Ben-Gurion, nonostante le sue condanne in contesti ufficiali. Oltretutto, secondo Raz, il saccheggio “giocò un ruolo politico nel definire il carattere della società israeliana. Le venne consentito di procedere rapidamente senza interferenze. Questo fatto richiede una spiegazione politica.”

E secondo te qual è questa spiegazione?

Il saccheggio fu un mezzo per realizzare la politica di svuotare il Paese dei suoi abitanti arabi. Primo, il saccheggio trasformò, in senso letterale, i predatori in criminali. Secondo, trasformò, volenti o nolenti, quelli che perpetrarono azioni individuali in complici della situazione politica, partner passivi nell’approccio politico e di politiche che cercavano di svuotare la terra dai suoi abitanti arabi, con un interesse acquisito nel non consentire loro di tornare.”

Ciò può essere stato così in alcuni casi, ma pensi davvero che per strada le persone qualunque che vedevano un bellissimo tavolo e lo rubavano considerassero la faccenda con attenzione e si dicessero: “Sto rubando questo tavolo in modo che i suoi proprietari non possano tornare, per ragioni politiche” ?

La persona che derubava la proprietà del suo vicino non era consapevole del processo per cui lui era complice di una linea politica che intendeva impedire il ritorno degli arabi. Ma nel momento in cui entri nell’edificio del tuo vicino e porti via i beni di una famiglia araba che è vissuta lì fino al giorno prima, sei meno motivato a che essa ritorni entro un mese o un anno. La collaborazione passiva tra uno specifico approccio politico e il singolo saccheggiatore ebbe anche un’influenza a lungo termine. Rafforzò l’idea politica che fece propria la segregazione tra i popoli negli anni dopo la guerra.”

Senza giustificare i ladri, cosa pensi si sarebbe dovuto fare con queste proprietà? Trasferirle alla Croce Rossa? Distribuirle agli ebrei in modo “ordinato”?

La questione non è cosa io, lo storico, avrei voluto che succedesse ai beni degli arabi. È inutile fare raccomandazioni 70 anni dopo gli eventi. Il libro mostra che ci furono dirigenti che criticarono quello che stava avvenendo in quel momento, sia a livello degli eventi sul terreno che politico. Pensavano che il fatto che Ben-Gurion avesse consentito i saccheggi intendesse creare una particolare situazione politica e sociale, e fosse uno strumento nelle mani di Ben-Gurion per raggiungere questi obiettivi. La ragione (di un simile approccio) risiede nel fatto che c’è una sostanziale differenza tra il saccheggio da parte di masse di cittadini ebrei delle proprietà dei palestinesi che lasciarono le loro case, negozi e fattorie e l’acquisizione delle proprietà da parte di un’istituzione legittima. Socialmente e politicamente c’è una notevole differenza.

E questo fu esattamente il fulcro delle critiche a Ben-Gurion: che il saccheggio stava creando una società corrotta ed era funzionale alla linea di segregazione tracciata tra arabi ed ebrei. Ministri e decisori politici, come Bechor Shalom-Sheetrit, ministro degli Affari delle Minoranze, Zisling e Kaplan, criticavano la depredazione da parte di singoli individui. Secondo loro avrebbe dovuto essere creata un’autorità operativa e con un potere concreto per mettere insieme tutti i beni e sovrintendere alla loro distribuzione e utilizzo. Ben-Gurion si oppose a questa idea e la sabotò.”

Cosa ti rimane a livello personale della ricerca complessiva che hai condotto, al di là della documentazione storica? Come persona, come ebreo, come sionista?

Fino ad oggi il saccheggio delle proprietà degli arabi e la congiura del silenzio a questo riguardo costituiscono azioni con cui l’opinione pubblica ebraica e quella sionista, di cui faccio parte, devono fare i conti. In questo contesto Martin Buber [filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano, sostenitore del sionismo “spirituale”, ndtr.] affermò (in una lettera scritta all’epoca): ‘La redenzione interiore non può essere raggiunta se non quando guardiamo in faccia il carattere letale della verità.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi hanno bisogno di una visione alternativa

Haidar Eid


3 ottobre 2020 – Al Jazeera

Sono già stati scritti molti articoli che criticano l’accordo di normalizzazione firmato da Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele e che lo definiscono una pugnalata alle spalle per il popolo palestinese. Altri hanno affermato che non è stata una sorpresa dato che da anni le oligarchie al potere negli EAU e in Bahrain sono conniventi con Israele, in cui vige l’apartheid ed era solo questione di tempo che lo rendessero pubblico per rafforzare la loro alleanza contro i due pericoli principali: Iran e la diffusione della democrazia nel mondo arabo.

Questo articolo non segue lo stesso percorso, ma è piuttosto un tentativo di interagire con quella che sembra essere una formulazione sociale, politica, economica e storica di un programma alternativo a quello offerto dai poteri egemonici imperialisti, sionisti e reazionari, non solo per la Palestina, ma anche per il resto del mondo arabo.

È utile citare, in questo contesto, il critico letterario americano Fredric Jameson e la sua teoria delle “mappe cognitive”, un processo che ripete, aggiunge e rispetta profondamente le leggi della dialettica (lo sviluppo e il movimento degli opposti). In altre parole, interpretare e comprendere questo accordo solo nel quadro del contesto storico in cui è stato firmato non è sufficiente, si deve invece offrire un programma progressista che lo metta in discussione basandosi sul cambiamento delle condizioni che, in ultima analisi, l’hanno originato: colonialismo e apartheid in Palestina.

Indubbiamente la firma dell’accordo fra Israele, Bahrain e EAU avvenuta il 15 settembre alla Casa Bianca è l’inizio di una nuova era in Medio Oriente, ma comunque, con relazioni di potere così squilibrate, non porterà a una soluzione equa della questione palestinese.

Camp David (1979), Oslo (1993), Wadi Araba (1994) e quest’ultimo di Abramo (2020), tutti nati da accordi commerciali e diplomatici dietro le quinte fra Israele e gli altri Paesi arabi, hanno completamente svenduto la causa palestinese. Nessuno ha preso in considerazione i loro diritti fondamentali, il diritto al ritorno dei rifugiati, all’auto-determinazione, all’uguaglianza e alla libertà.

In breve, tutti hanno garantito il controllo israeliano sulla Palestina storica, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, una realtà de facto creata dalla parte più forte e colonialista e senza alcun compromesso.

Indubbiamente la situazione attuale è il prodotto degli squilibri internazionali e regionali prevalenti in questa specifica fase, che però non è né statica né eterna, ma anzi è passeggera e inevitabilmente verrà seguito da altre fasi, secondo le leggi della dialettica.

Non c’è dubbio che questa specifica fase storica rappresenti l’apice della passività palestinese e araba a causa dell’indebolimento del nazionalismo arabo progressista e del fatto che i leader palestinesi di destra sono caduti nella trappola dell’“industria della pace”. Comunque, si prevede che ogni fase che sta per arrivare vada contro quello che ci è offerto in queste stesse circostanze: “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria,” avrebbe detto Karl Marx.

L’opposizione da parte del mondo arabo, in generale, e degli Stati del Golfo in particolare, crescerà esattamente come gli egiziani e i giordani si sono opposti e hanno lottato contro gli accordi di Camp David e Araba [il trattato di pace tra Giordania e Israele nel 1994, ndtr.] dopo la loro firma.

La visione alternativa che i palestinesi devono adottare è una produzione geopolitica che metta in discussione lo spazio recentemente definito da Stati Uniti, Israele e dai loro alleati arabi – il cosiddetto nuovo Medio Oriente – e che presenti una nuova mappa di una Palestina secolare e democratica nel cuore di un mondo arabo democratico.

Abbiamo bisogno di una rappresentazione alternativa dell’intera “realtà” sociopolitica ora in crescita in quest’area che si distacchi dal mantra spesso ripetuto della soluzione razzista dei due Stati.

I palestinesi devono voltare pagina, ma con idee nuove scaturite da una profonda convinzione che “gli uomini (e noi aggiungiamo: le donne) fanno la storia, ma non in circostanze scelte da loro stessi”, come aveva detto Marx. Per troppo tempo i palestinesi sono stati guidati da politici di destra che non sono riusciti a ottenere nessun diritto fondamentale nemmeno per uno dei tre gruppi che compongono il popolo palestinese: per chi vive nella diaspora, per gli abitanti di Gaza e Cisgiordania e per i cittadini palestinesi di seconda classe in Israele.

Da qui la necessità di sottolineare l’importanza di un’azione palestinese a guida progressista che sia contro tutte le forme di sfruttamento di classe, nazionale, sessuale o religiosa, una leadership necessariamente secolare con una profonda conoscenza della questione palestinese.

Tale leadership non può prendere in considerazione soluzioni razziste. Deve raccogliere la sfida storica rappresentata dalla nuova-vecchia alleanza fra Israele, gli USA e i regimi arabi reazionari e perciò diventare uno stimolo per attività di carattere locale/nazionale e internazionale tramite la promozione del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele fino a quando esso non obbedirà alle leggi internazionali.

C’è un bisogno urgente di andare oltre l’attuale fase storica caratterizzata da una forma prevalente di dogmatismo nazionalista rappresentato da slogan come “due Stati per due popoli”, “L’unica soluzione è la soluzione dei due Stati” e altri. Tali slogan, in un certo senso, sono il prodotto di ondate di normalizzazione con l’Israele dell’apartheid, un processo per riplasmare la mente araba e palestinese tramite “apparati di Stato ideologici”, come i media, l’istruzione, le moschee, le leggi, che cercano di manipolare e modellare la coscienza degli individui, specialmente di quelli con potenziale rivoluzionario.

C’è anche un bisogno urgente di staccarsi dall’atteggiamento nichilista che ultimamente ha dominato gran parte del discorso della sinistra stalinista palestinese e di sottolineare l’importanza delle attività umane e la necessità di una comprensione storica post-Oslo del momento storico corrente.

Abbiamo bisogno di una visione alternativa che porti alla pace e alla giustizia. E sembra che i palestinesi colonizzati debbano essere quelli che offrono una visione che riumanizzi loro e i loro oppressori. Pare sia loro la responsabilità morale, dato che sono loro le vittime di un sistema di oppressione coloniale con tanti livelli.

Quando le cose erano così desolanti per i neri africani che soffrivano sotto un altro regime coloniale, in una situazione simile in cui si trovano i palestinesi, Nelson Mandela offrì questa visione alternativa: “Io ho lottato contro il dominio dei bianchi e contro il dominio dei neri. Io ho amato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone possono vivere insieme in armonia e con le stesse opportunità. È un ideale per cui vivo e che spero di raggiungere.”

Per i palestinesi l’alternativa deve essere quella di uno Stato secolare e democratico nella Palestina storica, uno Stato in cui tutti i cittadini abbiano parità di trattamento indipendentemente da religione, sesso e colore. Questo Stato deve favorire il ritorno dei rifugiati e adottare l’autodeterminazione, un passo verso la soluzione delle questioni palestinese ed ebraica. Per questo il popolo palestinese deve lottare: ribaltare completamente l’equilibrio dell’egemonia politica.

Haidar Eid è professore associato (di letteratura postcoloniale e postmoderna) all’università Al-Aqsa di Gaza

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dopo le pressioni a favore di Israele The Lancet censura una lettera sulla situazione sanitaria a Gaza

Omar Karmi

1 ottobre 2020 – The Electronic Intifada

Con un nuovo picco nel numero di infezioni da coronavirus, Gaza sta ancora una volta affrontando la prospettiva molto concreta che il suo sistema sanitario venga sopraffatto.

Gaza non sta solo facendo fronte ad una pandemia globale. Sottoposta dal 2007 al blocco israeliano e ai successivi attacchi militari, la fascia costiera è alle prese con uno dei più alti livelli di povertà e disoccupazione del mondo, oltre che con infrastrutture fatiscenti, anche nel settore sanitario.

Una grave carenza di medicine e attrezzature mediche, direttamente collegate all’assedio israeliano, combinata con le devastazioni di una pandemia, potrebbe preludere al completo collasso del servizio sanitario.

Almeno una di queste cose potrebbe essere risolta abbastanza rapidamente se Israele allentasse o ponesse fine al blocco.

Ma rimarcarlo non è così semplice come potrebbe sembrare, come hanno scoperto con sgomento da varie parti del mondo quattro professionisti nel settore medico e nei diritti umani.

A marzo, quando la pandemia ha colpito per la prima volta Gaza, David Mills del Children’s Hospital e Bram Wispelwey del Brigham and Women’s Hospital, entrambi di Boston, Rania Muhareb, in precedenza aderente al gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq, e Mads Gilbert, dell’ospedale universitario della Norvegia settentrionale, hanno scritto una breve lettera a The Lancet, una delle principali riviste mediche del mondo.

Le pandemie causeranno maggiori danni alle “popolazioni gravate da povertà, occupazione militare, discriminazione e oppressione istituzionalizzata”, evidenziano gli autori, che esortano la comunità internazionale ad agire per porre fine alla “violenza strutturale” che viene inflitta ai palestinesi a Gaza.

“Una pandemia da COVID-19, in grado di paralizzare ulteriormente il sistema sanitario della Striscia di Gaza, non dovrebbe essere vista come un inevitabile fenomeno biomedico vissuto allo stesso modo dalla popolazione mondiale, ma come un’ingiustizia biosociale che si potrebbe prevenire, radicata in decenni di oppressione israeliana e complicità internazionali”, concludono.

La lettera – “La violenza strutturale nell’era di una nuova pandemia: il caso della Striscia di Gaza” – è stata puntualmente pubblicata online il 27 marzo.

Solo tre giorni dopo, tuttavia, con una mossa insolita se non senza precedenti per The Lancet, la lettera è stata ritirata senza commenti. (Può ancora essere letta, su un motore di ricerca che pubblica testi accademici). [https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0140673620307303]

Boicottaggio

“Una volta che abbiamo saputo [della cancellazione], abbiamo contattato The Lancet per una spiegazione”, ha detto Wispelwey, che insegna anche presso la Harvard Medical School.

Secondo Wispelwey The Lancet avrebbe solo detto che “il nostro commento aveva provocato una grave crisi”, ma non ha offerto alcun dettaglio, nessun ulteriore commento e nessuna spiegazione pubblica per i lettori.

Gli autori hanno dedotto che la lettera avesse suscitato scalpore tra i sostenitori di Israele all’interno della comunità medica.

Un attivista di spicco, Daniel Drucker, rinomato endocrinologo canadese, il 29 marzo su Twitter ha criticato The Lancet e il suo editore, Richard Horton.

“Mentre il mondo combatte contro COVID-19”, ha scritto, The Lancet e Richard Horton “colgono l’occasione” per pubblicare lettere “che colpiscono Israele”.

Drucker ha anche paragonato l’antisemitismo a un virus, sostenendo che “l’antisemitismo, l’antisionismo e l’invettiva anti-israeliana sono ceppi altamente correlati”.

Drucker non è nuovo a questo tipo di difesa a favore di Israele. Nel 2014, dopo che la rivista aveva pubblicato “Una lettera aperta a favore del popolo di Gaza” per protestare contro gli effetti dell’aggressione militare israeliana di quell’anno, ha preso parte ad una campagna molto efficace contro The Lancet.

L’ attacco provocò la morte di oltre 2.200 persone, per lo più civili, tra cui 550 minorenni.

Alla fine del luglio 2014, e nel bel mezzo dell’offensiva israeliana, quella lettera aveva ricevuto più di 20.000 adesioni e i cui nominativi The Lancet annunciò che, in seguito a “numerose dichiarazioni minacciose nei confronti dei firmatari”, non li avrebbe pubblicati.

Tra le dichiarazioni minacciose, è stato poi rivelato, c’erano attacchi personali contro Horton, con l’accusa di antisemitismo e la sua raffigurazione in uniforme nazista. Sua moglie è stata aggredita verbalmente e a sua figlia è stato detto dai compagni di classe che suo padre era un antisemita.

In risposta a quella lettera, Drucker ha avviato una petizione per mantenere le pubblicazioni scientifiche e di medicina “libere da opinioni politiche controverse”.

La petizione ha ottenuto più di 5.000 firme e ha indotto medici filo-israeliani in tutto il mondo, ma soprattutto in Nord America, a boicottare The Lancet per cinque anni.

Mettere a tacere il dissenso

Alla fine, e dopo che nel 2017 The Lancet ha dedicato un intero numero al sistema sanitario israeliano, il boicottaggio è stato revocato.

Ma Wispelwey afferma che il timore è che le riviste mediche siano ora soggette a censura indiretta o autocensura sulla Palestina a causa del “generalizzato effetto dissuasivo” della campagna contro The Lancet.

Il resoconto di cui è stato cofirmatario a marzo, dice Wispelwey, non era formulato con un tono più perentorio rispetto agli articoli pubblicati altrove negli organi di informazioni ordinari e in quelli israeliani.

Wispelwey sostiene: “La violenza della risposta suggerisce l’impressione che questo spazio – riviste mediche accademiche – sia interdetto anche a idee, documentazioni e narrazioni pubbliche sul contesto sanitario palestinese che contengano critiche a Israele”.

Electronic Intifada ha riferito a marzo che il prospetto di diffusione dei dati ampiamente utilizzato per il COVID-19, diffuso dal Center for Systems Science and Engineering della Johns Hopkins University, aveva effettivamente cancellato i palestinesi unificando i dati riguardanti Israele, la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Quella decisione è stata alla fine revocata, ma silenziare le voci filo-palestinesi, nel mondo accademico e altrove, è stato ben documentato da tutti, da Edward Said [famoso intellettuale statunitense palestinese, deceduto nel 2003, ndtr.] a Judith Butler [filosofa post-strutturalista statunitense, esperta di filosofia politica ed etica, ndtr.].

È una prassi che mostra pochi segni di cedimento.

Proprio il mese scorso le principali compagnie di comunicazione sociale – Zoom, Facebook e YouTube – hanno fatto il possibile per impedire un evento organizzato dalla San Francisco State University con Leila Khaled, un’icona della resistenza palestinese ed ex combattente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, ora ultrasettantenne.

E in tutto il mondo i gruppi filo-israeliani stanno facendo pressioni sui governi a tutti i livelli per vietare il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, che accusano di antisemitismo.

L’argomento [utilizzato] per mettere a tacere le critiche al trattamento dei palestinesi da parte di Israele nelle pubblicazioni mediche e scientifiche è che queste dovrebbero essere prive di contenuto politico “divisivo”.

Ma questo, ha detto Rania Muhareb, studiosa e ricercatrice giuridica di Al-Haq nel momento in cui veniva scritta la lettera di marzo, è falso.

Le questioni di salute pubblica sono molto chiaramente politiche – l’assistenza sanitaria universale è un ovvio esempio – e le disuguaglianze sociali e politiche sono riconosciute come cause profonde dei problemi di salute. Nelle zone di conflitto è impossibile separare le cose.

“La concretizzazione del diritto alla salute è strettamente collegata al rispetto di altri diritti fondamentali”, ha detto Muhareb a The Electronic Intifada.

Vite in gioco

A Gaza, quando si tratta di salute la politica è sicuramente coinvolta.

Esercitando il controllo totale su tutte le importazioni a Gaza, compresi gli aiuti umanitari, l’esercito israeliano non è tuttavia riuscito a stabilire alcun piano di emergenza per Gaza mentre la regione impoverita cerca di far fronte al COVID-19.

Il rifiuto di Israele di agire persiste nonostante il fatto che in base al diritto internazionale risulti una potenza occupante e quindi sia legalmente responsabile del benessere di base di tutti a Gaza.

E ciò non avviene per mancanza di allarmi. Le organizzazioni per i diritti umani palestinesi, israeliane e internazionali hanno ripetutamente chiesto a Israele di formulare un piano o, più efficacemente, di revocare del tutto l’assedio prima che sia troppo tardi.

I numeri raccontano una storia inquietante: quando la pandemia ha colpito per la prima volta Gaza a marzo era limitata ai pochi viaggiatori che entravano e uscivano dalla fascia costiera assediata.

Era facile identificarli e metterli in quarantena.

Il primo decesso legato al COVID-19 si è verificato a maggio, circa due mesi dopo i primi casi confermati, ed è anche avvenuto in una struttura di isolamento.

Ma una volta che alla fine di agosto è iniziata la diffusione all’interno della comunità, i numeri sono aumentati.

I casi confermati sono balzati dai 200 alla fine di agosto a oltre 2.600 il 25 settembre. Ci sono stati 17 morti.

“Il sistema sanitario di Gaza è stato spinto sull’orlo del collasso”, afferma Mads Gilbert, un chirurgo che per molti anni ha lavorato a Gaza.

Il blocco israeliano e i ripetuti attacchi militari hanno minato irrimediabilmente l’erogazione di assistenza sanitaria a Gaza, dice, e hanno lasciato ospedali e cliniche incapaci e impreparati ad affrontare una pandemia.

Gilbert racconta a The Electronic Intifada: “Il timore è che un’epidemia incontrollata di COVID-19 nella Striscia di Gaza gravi in modo eccessivo sul sistema sanitario di Gaza, peggiorando in questo modo ulteriormente la vulnerabilità dei palestinesi alla pandemia in condizioni di violenza strutturale”.

Commento obiettivo

Commento obiettivo per i medici professionisti? Non secondo Zion Hagay dell’Israeli Medical Association, la cui risposta alla lettera ormai scomparsa scritta da Gilbert ed altri è stata pubblicata nell’ultima edizione online di The Lancet.

Hagay ha denunciato la lettera di marzo come “retorica politica” e ha difeso il blocco israeliano [di Gaza] come “una risposta necessaria al contrabbando di armi e alla violenza incessante contro Israele”.

Ha elogiato Israele per aver “permesso” ai pazienti palestinesi di “continuare a entrare in Israele per ricevere cure mediche salvavita”.

Ma i palestinesi di Gaza devono affrontare un percorso gravoso e ampiamente criticato per ottenere dai militari israeliani i permessi per viaggiare per curarsi o per qualsiasi altra ragione.

A causa del ritardo e del rifiuto dei permessi da parte di Israele i pazienti palestinesi muoiono regolarmente per mancanza di cure. Nel solo 2017 ci sono stati 54 decessi di questo tipo documentati dall’OMS.

Hagay ha anche omesso di notare che il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres – del quale invece cita le lodi per la cooperazione tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese in risposta al COVID-19 – ha ampiamente descritto Gaza come una delle crisi umanitarie più “drammatiche” del mondo e ha chiesto che venga revocato l’assedio.

Ma oltre a questo, dice Wispelwey, è stato “sbalorditivo” che The Lancet abbia deciso di pubblicare una lettera in risposta a un articolo che era già stato rimosso.

“Ciò rende l’intera situazione più assurda”, afferma Wispelwey. “Pubblicare una risposta a un articolo ora ‘scomparso’ e consentirgli di fare dei commenti sulla sua rimozione?”

“La censura e la sorveglianza sono metodi classici di controllo coloniale”, aggiunge.

Piuttosto che ambire ad un falso “equilibrio” di punti di vista che non riesca a tenere conto dei differenziali di potere, sostiene Wispelwey, dobbiamo “iniziare a riconoscere, chiamare col loro nome e resistere a queste costrizioni nella medicina accademica e altrove”.

The Lancet non ha voluto commentare.

Omar Karmi is an associate editor with The Electronic Intifada and a former Jerusalem and Washington, DC, correspondent for The National newspaper.

Omar Karmi è un redattore associato di The Electronic Intifada e un ex corrispondente da Gerusalemme e Washington per il quotidiano The National [quotidiano indipendentista scozzese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Alla fine la lobby israeliana dovrà fronteggiare delle conseguenze

Yves Engler

2 ottobre 2020 – The Palestine Chronicle

Quanto è troppo? Quand’è che i nazionalisti israeliani in Nord America si screditeranno del tutto a causa di un uso eccessivo del loro potere per annientare coloro che difendono i palestinesi?

L’attuale spregiudicatezza della lobby israeliana è notevole. Recentemente hanno convinto Zoom ad annullare un dibattito sponsorizzato da un‘università , un importante facoltà di legge a revocare un’offerta di lavoro, un’emittente pubblica a scusarsi per aver usato la parola Palestina e alcune aziende a interrompere le consegne per un ristorante.

Una settimana fa gruppi di pressione israeliani hanno convinto Zoom a cancellare dibattito alla San Francisco State University con l’icona della resistenza palestinese Leila Khaled [membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ndtr.] l’ex ministro sudafricano Ronnie Kasrils, la direttrice degli studi sulle donne alla Birzeit University Rula Abu Dahou [Bir Zeit è una città palestinese situata a circa 25 km a nord della città di Gerusalemme, alla periferia di Ramallah, ndtr.] e altri. Si ritiene che sia la prima volta che Zoom sopprima un dibattito sponsorizzato da un’università[vedi Zeitun]

Il mese scorso la lobby israeliana ha sollecitato la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Toronto a revocare un’offerta di lavoro per dirigere il suo Programma internazionale sui diritti umani. La pressione rivolta a bloccare la candidata della commissione per le assunzioni, Valentina Azarova, è giunta dal giudice David Spiro, che è stato a Toronto un ex co-presidente del Center for Israel and Jewish Affairs (CIJA) [organizzazione sionista di difesa ebraica e agenzia delle federazioni ebraiche del Canada, ndtr] e il cui zio Larry Tanenbaum possiede i Toronto Raptors [squadra di pallacanestro che milita nel massimo campionato professionistico statunitense e canadese, ndtr.] e la cui nonna Anne Tanenbaum ha finanziato il centro per gli studi ebraici dell’Università di Toronto. Mentre gli sforzi di Spiro erano segreti, B’nai B’rith [loggia massonica ebraica nata nel 1843 durante la presidenza di John Tyler ed ancora esistente ed attiva, ndtr.] ha apertamente invitato gli amministratori dell’Università di Toronto a bloccare la decisione del comitato di assunzione.

The Current [popolare programma radio canadese del mattino, ndtr.] della CBC si è recentemente scusato per aver utilizzato la parola “Palestina”. Il 18 agosto il presentatore ospite Duncan McCue ha presentato l’artista grafico Joe Sacco facendo riferimento al suo lavoro in Bosnia, Iraq e Palestina (Sacco ha prodotto un’opera chiamata Palestina). All’inizio dell’edizione del giorno successivo, McCue si è scusato per aver menzionato la Palestina e la Honest Reporting Canada [Honestreporting è un’organizzazione non governativa che “monitorizza i media riguardo le scorrettezze riguardanti Israele”, ndtr.] si è vantata dei propri interventi per fare pressione sull’emittente pubblica affinché non impieghi la parola P.

Come parte del tentativo di mandare in bancarotta un piccolo ristorante di Toronto simpatizzante per la sinistra che mostra sulla propria vetrina il messaggio “I love Gaza”, la CIJA e B’nai B’rith hanno condotto con successo una campagna per bloccare i servizi di consegna da parte di Foodbenders [rinomata azienda di Toronto che provvede alla fornitura di piatti pronti, ndtr.], oltre i contratti istituzionali e gli account sui social media. Si sono alleati con l’organizzazione di estrema destra Jewish Defense League e altri che hanno vandalizzato il ristorante a luglio.

In un articolo di agosto su Walrus [rivista politico-culturale canadese, ndtr.] intitolato “L’obiettività è un privilegio concesso ai giornalisti bianchi”, l’ex giornalista della CBC Pacinthe Mattar descrive un caporedattore che interviene per sopprimere un’intervista da Gerusalemme con Ahmed Shihab-Eldin, un giornalista di origini palestinesi con una nomina agli Emmy. Molti mesi dopo a Mattar non ha ottenuto una promozione già prevista da parte deldirettore che aveva deciso di non mandare in onda l’intervista del 2017 da Gerusalemme”, il quale “aveva espresso il timore che io fossi di parte e quindi non dovessi essere promossa, opinione condivisa da alcuni altri membri del comitato di redazione. Ed è andata così.”

Le organizzazioni anti-palestinesi stanno conducendo una campagna aggressiva per far sì che Facebook adotti la definizione di antisemitismo centrata su “basta con le critiche ad Israele”, della International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.]. L’obiettivo esplicito di coloro che promuovono la definizione di antisemitismo dell’IHRA è quello di mettere a tacere o emarginare chi critica la spoliazione dei palestinesi e sostiene il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento, le sanzioni (BDS) guidato dalla società civile palestinese.

La macchina della censura della lobby israeliana procede nonostante siano sempre più palesi il razzismo, l’ occupazione e le violazioni dei diritti israeliani. Molti di coloro che sono stati presi di mira nelle vicende di cui sopra hanno sofferto emotivamente e in termini di carriera, ma l’impatto su di loro sono è insignificante rispetto alle umiliazioni quotidiane che soffrono i palestinesi. Lo Stato israeliano continua a rubare territori palestinesi in Cisgiordania, a mantenere un blocco punitivo su Gaza e a consentire agli ebrei di Toronto di emigrare mentre i palestinesi cacciati dalle loro case nel 1948 non possono nemmeno andare a visitare [il loro Paese, ndtr.], figuriamoci emigrarvi.

La lobby israeliana è una forza politica compatta. Radicata nel colonialismo europeo e negli interessi regionali dell’impero statunitense, è sostenuta da molti zelanti miliardari e da una parte sostanziale di una comunità etnico / religiosa generalmente influente. Inoltre sfrutta in modo grossolano il vittimismo. Come John Clark ha recentemente postato su Facebook, “Il sionismo è l’unica ideologia politica che conosco che sostenga che il disaccordo con essa rappresenti un crimine d’odio”.

Fortunatamente, ogni campagna di esclusione e diffamazione che intraprende allontana nuove persone e apre gli occhi ad altre. Sfortunatamente, molte altre persone ben intenzionate subiranno conseguenze emotive e finanziarie prima che la macchina della censura della lobby israeliana venga fermata.

  • Yves Engler è l’autore di Canada and Israel: Building Apartheid [Canada e Israele: la costruzione dell’apartheid, ndtr.] e una serie di altri libri. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Coronavirus: Israele si rivolge all’esercito mentre si intensifica il giro di vite contro la pandemia

Lily Galili da Tel Aviv, Israele

25 settembre 2020 – Middle East Eye

Mentre peggiora la crisi da Covid-19, gli israeliani stanno vedendo nell’esercito un salvatore, ma il Paese assomiglia sempre più a un regime militare

Lasciate vincere l’esercito”, è un vecchio slogan israeliano coniato dai dirigenti della destra durante la Seconda Intifada (2000-2005).

Voleva dire: non lasciate che i politicanti vigliacchi, la sinistra amante dei palestinesi, i tribunali di parte e i media ostili interferiscano con l’azione dell’esercito, basta lasciare che faccia quello che ci vuole per vincere.

Circa 20 anni dopo questo slogan ha subito una curiosa modifica. Ora dice: “Lasciate che le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] vincano il Covid-19.”

Sottinteso: dato che nessun altro ha la più pallida idea di come fare, sicuramente non i politici né altre istituzioni civili al potere, lasciamo che l’esercito israeliano si prenda in carico la gestione della pandemia. Ha le competenze, la tecnologia e, cosa più importante, non è tra i 120 membri del parlamento israeliano, ognuno dei quali ha una propria agenda.

In un sondaggio dell’opinione pubblica reso noto in luglio da Channel 12 [canale televisivo privato israeliano, ndtr.], il 57% delle persone interpellate appoggiava la posizione del ministro della Difesa Benny Gantz [del partito di centro destra Blu e Bianco, ndtr.], che sosteneva che “la gestione del coronavirus deve essere trasferita al Comando del Fronte Interno (dell’esercito israeliano) e al ministero della Difesa”. Solo il 20% si opponeva a questa idea.

Gantz non è stato il primo a sostenerla. Il suo predecessore come ministro della Difesa, Naftali Bennett [del partito di estrema destra Yamina, ndtr.], e molti altri ufficiali di alto grado della riserva hanno affermato la stessa cosa. Ma all’epoca il primo ministro Benjamin Netanyahu era restio ad affidare la gestione della crisi al suo arci-rivale.

Ma il Covid-19 aveva progetti diversi. Durante un’intervista del 13 aprile un importante funzionario della sicurezza in anonimato ha detto ad Amos Harel, principale esperto del giornale Haaretz per le questioni militari, che “l’esercito israeliano non può risolvere la crisi da coronavirus.” Lo stesso giornale progressista ha messo in guardia contro l’intervento dell’esercito nella crisi civile.

Lasciate che l’esercito ci salvi

Arriviamo velocemente a cinque mesi dopo: questa settimana Harel ha chiesto esplicitamente al capo di stato maggiore Aviv Kochavi di “accettare la sfida mentre Israele affronta una dilagante epidemia da coronavirus.”

Il cambiamento è principalmente un riflesso della disperazione totale e della perdita di fiducia nel disastroso governo Netanyahu.

Questi risultati non sorprendono affatto, considerando l’enorme fallimento del governo nell’affrontare la crisi. Secondo tutti i sondaggi la maggioranza degli israeliani ha perso fiducia nel modo in cui il governo sta affrontando la pandemia, una bella differenza rispetto alla generale soddisfazione per l’operato del governo in occasione della prima ondata del virus in marzo-aprile.

Un numero crescente di israeliani crede che gli interessi politici e personali di Netanyahu, soprattutto le accuse di frode e corruzione che lo minacciano, siano la principale motivazione per il modo in cui affronta la crisi, mentre altri ministri del suo governo sembrano semplicemente del tutto incompetenti.

Il sentimento prevalente è che i cittadini israeliani siano stati abbandonati da una dirigenza indifferente, più preoccupata di salvare il proprio lavoro o grandi, irrilevanti gesti come l’“accordo di pace” con gli EAU e il Bahrein, venduto dallo stesso Netanyahu per lo più come una miniera d’oro turistica.

L’esercito, che gode ancora di un alto livello di fiducia da parte dell’opinione pubblica, sembra essere il naturale salvatore, tanto più che la crisi sanitaria è stata definita con un chiaro gergo militare. La pandemia è una “guerra”, il coronavirus è un “nemico” e ogni cittadino è mobilitato per combattere un’ardua battaglia che i suoi dirigenti stanno continuando a perdere giorno dopo giorno.

Sono profondamente turbata dal gergo militare che viene imposto a tutti noi riguardo a questo maledetto coronavirus,” ha scritto sulla sua pagina Facebook Rana Abu Fraiha, una premiata regista israelo-palestinese.

Linguaggio bellico

Persino il fallimento nella gestione di questa crisi viene dipinto con tinte guerresche. In un’intervista televisiva il generale in pensione ed ex-capo della direzione dell’intelligence militare dell’esercito Amos Yadlin ha paragonato la pandemia all’esperienza traumatica della guerra arabo-israeliana del 1973.

Anche nel 1973 fu l’arrogante ed egocentrico governo che venne visto come responsabile del disastro, mentre l’esercito israeliano salvò la Nazione. Questa narrazione è in sintonia con gli israeliani, nonostante una grande differenza: al contrario della guerra, una crisi sanitaria è una questione civile. Il pericolo, per quanto riguarda l’intervento dell’esercito, è di annullare questa distinzione.

L’uso del gergo militare nel contesto del Covid-19 e la ridotta mobilitazione dell’esercito non sono una particolarità di Israele. Sta succedendo negli Stati Uniti e anche in altri Paesi colpiti dal coronavirus. Ma in Israele, dove la presenza dell’esercito nella sfera pubblica è una realtà quotidiana, incaricare i soldati della vita di civili ha una lunga storia.

Per oltre 50 anni gli israeliani hanno controllato le vite dei palestinesi sotto occupazione militare. La costruzione del muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania occupata ha persino fatto nascere un nuovo titolo militare, “coordinatore della vita quotidiana”, un ufficiale incaricato di risolvere le difficoltà che affrontano i palestinesi che vivono nei pressi del muro, come l’accesso alle proprie terre. Essere controllati da un “coordinatore della vita quotidiana” in mezzo alla crisi da coronavirus agli israeliani può quindi sembrare assolutamente normale.

Le forze dell’esercito e della sicurezza sono ovunque ed hanno un importante ruolo nella gestione della pandemia.

Solo per citare qualche esempio, il Comando del Fronte Interno ha organizzato alberghi del coronavirus per i malati meno gravi e gestisce case di cura; il servizio segreto ha la licenza di tracciare i telefonini per individuare casi di contagio; il Mossad è stato mobilitato per cercare e procurare apparecchiature mediche; sono stati schierati battaglioni nelle città a maggioranza ultra-ortodossa per aiutare la popolazione.

Parlando con MEE, il professor Yagil Levy, esperto in rapporti civico – militari presso la Open University [università a distanza, ndtr.] del dipartimento di sociologia di Israele, definisce questa situazione unica come la “securizzazione della crisi da coronavirus in Israele.”

Inquadrare l’epidemia come una questione securitaria ha iniziato a svilupparsi quando la gestione della crisi è stata affidata (da Netanyahu) al Consiglio per la Sicurezza Nazionale,” afferma. “Ciò è sensato in un Paese in cui il sistema della sicurezza rimane potente, ed è davvero una tentazione, dato che le IDF sono percepite come competenti e libere da condizionamenti politici.

Tuttavia la legittimazione della securizzazione della salute può facilmente portare alla legittimazione dell’uso di metodi illeciti e alla facile accettazione di violazioni dei diritti civili,” aggiunge Levy. Questo slittamento giunge in un periodo in cui Netanyahu e il suo entourage sono impegnati con successo in un attacco contro tutte le istituzioni della democrazia israeliana.

L’interminabile dibattito parlamentare sul nuovamente rigido blocco totale non ha affatto dedicato tempo a discutere del suo impatto sulla società israeliana. Al contrario, molte ore sono state dedicate a trovare il modo per contrastare le settimanali manifestazioni di massa davanti alla residenza di Netanyahu.

Lockdown o repressione?

Sembra che la vera intenzione del nuovo rigido lockdown non sia interrompere la catena dell’infezione ma piuttosto quella delle manifestazioni.

Ciò è particolarmente problematico in quanto oggi Israele si trova in mezzo ad una crisi istituzionale, in cui le vecchie norme dell’emergenza invocate fin dal 1948 lasciano il posto a uno stile di governo dittatoriale. In questo clima, non c’è una discussione pubblica sugli immediati pericoli nel superare la distinzione tra un appoggio costruttivo dell’esercito e una totale sostituzione da parte dei militari.

Un pubblico dibattito è una missione impossibile in una società profondamente divisa e preoccupata della sopravvivenza individuale. La società israeliana ora sta pagando il prezzo di un decennio di politica interna intenzionalmente divisiva e di erosione di ogni elementare senso di solidarietà.

In assenza di un pubblico dibattito sulla linea che separa la sfera civile da quella militare, l’Institute for National Security Studies [Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, legato all’esercito e diretto da Yadlin, ndtr.] e l’Israeli Democracy Institute [Istituto della Democrazia Israeliana, centro di ricerca indipendente, ndtr.] hanno pubblicato una serie di articoli sotto il titolo “Rapporti tra società ed esercito sotto il coronavirus: indicazioni dalla prima ondata.”

In un documento sotto questo titolo, il politologo Stuart Cohen pone la domanda: “Intervento militare e coronavirus: si tratta davvero di una china pericolosa?”

Cohen si riferisce a una preoccupazione manifestata dal professor Eviatar Matania, fondatore ed ex- capo dell’Israel National Cyber Directorate [Direzione Nazionale Informatica di Israele, che si occupa di difesa informatica e di sviluppo di tecnologie legate alla sicurezza, ndtr.], che ha messo in guardia contro l’affidamento della crisi a un ente essenzialmente non democratico come l’esercito.

Cohen sostiene che le preoccupazioni sono esagerate e che tutte le forze di difesa sono lì per assistere e non per prendere il potere.

La sua opinione deriva dalla prima ondata della pandemia, relativamente ben gestita. In base a queste circostanze, persino quelli che hanno sollevato dubbi hanno sostenuto che affidare la gestione della crisi all’esercito sia stato accettabile solo in circostanze eccezionali e a causa dell’imminente collasso del sistema civile.

Tuttavia, dato che i casi in Israele sono in forte aumento e gli ospedali sotto organico dichiarano lo stato d’emergenza, l’esercito ora si sta preparando a proporsi come l’ultima istituzione a disposizione in questa crisi nazionale.

In assenza di un equilibrio democratico, con dirigenti politici per i quali la democrazia non è altro che un ostacolo, il pericolo è appena dietro l’angolo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele e il “trasferimento silenzioso” dei palestinesi fuori dalla Palestina

Ibrahim Husseini

27 settembre 2020 – Al Jazeera

Conferendo un precario status di residenza a Gerusalemme Est, Israele è riuscito a revocare e successivamente sradicare più di 14.200 palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Mentre un numero sempre maggiore di Paesi arabi normalizza le relazioni con Israele, si procede con una politica di “trasferimento silenzioso” – un intricato sistema che prende di mira i palestinesi nella Gerusalemme est occupata con revoca della residenza, espulsione attraverso la demolizione di case, ostacoli per ottenere licenze edilizie e tasse elevate.

Il ricercatore palestinese Manosur Manasra segnala che Israele ha iniziato questa politica ostile di trasferimento dei palestinesi da Gerusalemme est quasi immediatamente dopo la guerra del 1967 e la successiva occupazione della parte orientale della città.

Questa politica continua ancora oggi, con l’obiettivo di prendere il controllo di Gerusalemme Est.

L’espropriazione di terra per permettere l’insediamento di ebrei è avvenuta sin dal 1968 intorno a Gerusalemme est e nel cuore dei quartieri palestinesi quali i quartieri musulmani e cristiani della città vecchia e oltre, a Sheikh Jarrah, Silwan, Ras al-Amoud e Abu Tur.

Dopo la guerra del giugno 1967, Israele ha applicato la legge israeliana a Gerusalemme Est e ha concesso ai palestinesi uno status di “residente permanente”, che però è in realtà precario. B’tselem, il centro israeliano di informazione sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, descrive questo status come “accordato a cittadini stranieri che desiderano risiedere in Israele” – senonché i palestinesi sono nativi del territorio.

I palestinesi di Gerusalemme est non hanno automaticamente diritto alla cittadinanza israeliana né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rilascia passaporti palestinesi. Di solito possono ottenere documenti di viaggio temporanei giordani e israeliani.

Assegnando ai palestinesi di Gerusalemme est un precario status di residenza, Israele è riuscito dal 1967 a revocare e successivamente sradicare da Gerusalemme est più di 14.200 palestinesi.

Queste misure sono unite ad una aggressiva pratica di demolizione di case. Le demolizioni di case in Cisgiordania non si sono fermate nonostante la pandemia di coronavirus.

Secondo le Nazioni Unite, il numero degli sfrattati è quasi quadruplicato da gennaio ad agosto 2020 e c’è stato un aumento del 55% delle strutture oggetto di demolizione o confisca rispetto all’anno precedente.

Il mese scorso a Gerusalemme Est sono stati demoliti 24 edifici, metà dei quali dagli stessi proprietari a seguito dell’emissione di un ordine di demolizione da parte del comune di Gerusalemme.

Lo status di “residenza permanente” si mantiene fino a che i palestinesi rimangono fisicamente in città. Tuttavia, in alcuni casi, le autorità israeliane decidono di ritirare lo status di residenza ai palestinesi di Gerusalemme est come provvedimento punitivo perché sono dissidenti politici. La persecuzione da parte di Israele degli attivisti palestinesi è tentacolare e non esclude alcuna fazione.

Il caso più recente è quello del 35enne Salah Hammouri, avvocato e attivista. Arye Deri, ministro degli Interni israeliano, afferma che Salah è membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Israele ha messo fuori legge il gruppo e vuole cacciarlo dal Paese.

In alcuni casi, le autorità israeliane annullano per rappresaglia i permessi di soggiorno dei coniugi di attivisti politici. Shadi Mtoor, un membro di Fatah a Gerusalemme Est, sta attualmente combattendo una causa nei tribunali israeliani per mantenere a Gerusalemme Est la residenza di sua moglie, originaria della Cisgiordania.

Nel 2010, Israele ha revocato la residenza a Gerusalemme di quattro alti membri di Hamas – tre dei quali sono stati eletti al parlamento palestinese nel 2006 e uno è stato ministro di gabinetto – perché rappresentano un pericolo per lo Stato. Tre ora vivono a Ramallah e uno è in detenzione amministrativa [cioè senza imputazione, ndtr.]. Il 26 ottobre è prevista un’udienza presso l’Alta Corte israeliana.

In alcuni casi, Israele non rilascia il documento di residenza a bambini il cui padre sia di Gerusalemme e la madre cisgiordana.

Il diritto internazionale condanna esplicitamente il trasferimento forzato di civili.

“In definitiva, la nostra decisione è di rimanere in questa città”, dice Hammouri.

All’inizio di settembre è stato convocato dalla polizia israeliana e informato dell’intenzione del Ministero degli Interni israeliano di revocare la sua residenza a Gerusalemme.

“Mi è stato detto che costituisco un pericolo per lo Stato e che appartengo al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, ha detto Hammouri.

Cittadino francese, Hammouri è nato a Gerusalemme da padre palestinese e madre francese. Nel 2017, la famiglia si è divisa quando Israele ha vietato a sua moglie, Elsa, anche lei di nazionalità francese e all’epoca incinta, di entrare nel Paese. Si disse che fosse a causa di un file segreto in possesso di Israele.

Hammouri si aspetta che, dopo la revoca formale della sua residenza, Israele lo espellerà verso la Francia. Il governo francese, in risposta, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo a Israele di consentire ad Hammouri di continuare a risiedere a Gerusalemme.

E afferma: “Il signor Salah Hammouri deve poter condurre una vita normale a Gerusalemme, dove è nato e dove risiede”.

Il Ministero degli Esteri israeliano sostiene che Hammouri è “un agente operativo di alto livello” di un’organizzazione terroristica e continua a impegnarsi in “attività ostili” contro lo Stato di Israele.

È ora in corso in Francia una campagna di solidarietà che invoca il diritto di Hammouri di mantenere la sua residenza a Gerusalemme, e i diplomatici francesi a Gerusalemme stanno attualmente negoziando con i funzionari israeliani per convincerli a revocare la decisione. Hammouri intende ricorrere in tribunale contro la revoca della sua residenza.

Hammouri ha trascorso in tempi diversi più di otto anni nelle carceri israeliane. Nel 2011, dopo una condanna a sette anni di reclusione, è stato liberato grazie ad un accordo per lo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele (noto come accordo Shalit [dal nome di un soldato israeliano rimasto per 5 anni prigioniero a Gaza e scambiato con più di 1.000 detenuti palestinesi, ndtr.]).

Sahar Francis, direttore della Prisoner Support and Human Rights Association [Associazione per il Sostegno e i Diritti Umani dei Prigionieri, ndtr.] nota come Addameer, ha detto ad Al Jazeera: “Secondo il diritto internazionale la revoca della residenza è illegale “.

Lo Stato di occupazione non ha il diritto di togliere la residenza alle persone, protette ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra. Si chiama trasferimento forzato, e il trasferimento forzato è proibito”, ha detto Francis.

Il FPLP si è inizialmente opposto agli accordi di Oslo del 1993, ma poi è arrivato ad accettare la soluzione dei due Stati. Tuttavia nel 2010 ha invitato l’OLP a porre fine ai negoziati con Israele e ha affermato che è possibile solo la soluzione di uno Stato unico per palestinesi ed ebrei.

“Vedo un orizzonte molto buio”, dice Khaled Abu Arafeh, 59 anni, ex Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese.

“Israele farà fruttare i recenti sviluppi locali e regionali della normalizzazione e il risultato sarà l’espulsione degli abitanti della Cisgiordania e la riformulazione dello status dei palestinesi del 1948”, aggiunge.

Abu Arafeh è stato Ministro per le Questioni di Gerusalemme tra marzo 2006 e marzo 2007 nel governo di Ismail Haniyeh, formato dopo che Hamas ha ottenuto la maggioranza dei seggi alle elezioni parlamentari del 2006.

Due mesi dopo la formazione del governo palestinese, la polizia israeliana ha notificato a tre membri del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) e al ministro del governo Abu Arafeh, tutti di Gerusalemme, che avevano 30 giorni per lasciare il loro incarico o il loro status di residenti sarebbe stato revocato.

La minaccia della polizia israeliana è stata respinta e i quattro sono ricorsi in tribunale per contestare l’ultimatum del ministero dell’Interno.

Il 29 giugno 2006, la polizia israeliana ha condotto un’ampia campagna di arresti che ha preso di mira 45 membri neoeletti del PLC e 10 ministri del governo. I membri del PLC di Gerusalemme Muhammad Abu Teir, Muhammad Totah, Ahmad Atoun e Abu Arafeh erano tra gli arrestati. Israele li ha accusati di appartenere alla lista “Riforma e Cambiamento”, affiliata al movimento islamico Hamas.

Abu Arafeh è stato condannato a 27 mesi di prigione ed è stato rilasciato nel settembre 2008. Abu Teir e Totah sono stati condannati a pene più lunghe e sono stati rilasciati solo a maggio 2010.

Il 1 giugno 2010, la polizia israeliana ha di nuovo convocato i quattro. Questa volta è stato ordinato loro di consegnare i loro documenti di identità di Gerusalemme e gli è stato concesso un mese per lasciare Israele.

Proprio quando il termine stava per scadere, la polizia israeliana ha arrestato Abu Teir.

Abu Arafeh, Atoun e Totah, presentendo un imminente arresto, si sono rifugiati nell’edificio del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. La loro permanenza è durata 19 mesi, e vivevano in una tenda all’interno dei locali. La polizia israeliana ha infine preso d’assalto l’edificio e arrestato i tre uomini.

Sono stati accusati di appartenere a un “gruppo terroristico” e di ricoprire ruoli importanti nel movimento di Hamas, nonché di istigazione contro lo Stato di Israele. Sono stati condannati a due anni di carcere. Dopo il loro rilascio, si sono stabiliti a Ramallah.

“Lontano da al-Quds [Gerusalemme per i musulmani, ndtr.], mi sento tagliato fuori, assolutamente un estraneo”, ha lamentato Abu Arafeh.

La famiglia di Abu Arafeh continua a risiedere a Gerusalemme est. “Vivo a Ramallah e loro vivono ad al-Quds”, ha detto Abu Arafeh ad Al Jazeera. “Mi vengono a trovare ogni fine settimana e poi tornano a casa.”

Atoun è attualmente in detenzione amministrativa, la sua quarta dal 2014.

Nel 2018, l’Alta Corte israeliana ha stabilito che la decisione del Ministero degli Interni di revocare lo status di residente era illegale in quanto non c’erano leggi a sostegno. Tuttavia, ha dato al ministro degli Interni sei mesi per presentare una legge alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. La Knesset ha approvato una legge che consente la revoca della residenza a individui ritenuti non fedeli allo Stato di Israele.

Fino ad oggi i quattro palestinesi non hanno documenti d’identità che permettano loro di attraversare i posti di blocco israeliani all’interno della Cisgiordania. L’unico documento che hanno potuto ottenere è stata la patente di guida dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma solo dopo l’approvazione da parte dell’esercito israeliano.

Poiché non hanno documenti d’identità, raramente si avventurano fuori Ramallah per paura di essere fermati e arrestati a un posto di blocco israeliano.

I quattro si sono appellati alle leggi dell’Alta Corte e hanno chiesto a Israele di fornire loro una residenza alternativa che consenta loro di vivere legalmente in Cisgiordania. Per il 26 ottobre è prevista un’udienza in tribunale, ma Abu Arafeh non si aspetta una sentenza.

Non ci aspettiamo una decisione; l’autorità di occupazione sta usando il tempo contro di noi”, ha detto.

Una donna palestinese ventiquattrenne, che ha chiesto di essere identificata come JA, è nata nella città di Betlemme in Cisgiordania. Suo padre è di Gerusalemme Est e possiede un documento di identità di Gerusalemme. Ma sua madre è di Betlemme e possiede una carta d’identità rilasciata dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Il Ministero degli Interni israeliano ha respinto tutte le domande di rilascio di una carta d’identità a JA perché è nata in Cisgiordania. Peraltro, l’ANP non le ha rilasciato una carta d’identità perché suo padre ha un documento d’identità di Gerusalemme.

Quindi attualmente JA non ha alcun documento. Questa situazione le ha causato infiniti problemi nell’iscrizione a scuola, nella ricerca di un impiego, nell’apertura di un conto in banca e in altre necessità ordinarie. Non ha mai viaggiato.

JA sta ora intentando una causa contro il Ministero degli Interni israeliano nel tentativo di ottenere una residenza legale.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi non sono numeri: sul futuro della narrazione palestinese

Ramzy Baroud

23 settembre – The Palestine Chronicle

La Palestina non potrà mai essere compresa attraverso i numeri, perché essi sono disumanizzanti, impersonali e, quando necessario, possono anche essere un espediente per significare integralmente qualcos’altro. I numeri non sono adatti a raccontare la storia della condizione umana, né dovrebbero mai essere usati per sostituire le emozioni.

Di sicuro le storie della vita, della morte, e di tutto quello che vi intercorre, non possono essere veramente e completamente apprezzate attraverso carte, cifre e numeri. Questi ultimi, pur se utili a molti scopi, sono un mero assemblamento numerico di dati. L’angoscia, la gioia, le aspirazioni, la resistenza, il coraggio, la perdita, la lotta collettiva, eccetera, comunque, si possono esprimere genuinamente solo attraverso le persone che hanno vissuto queste esperienze.

I numeri, per esempio, ci dicono che più di 2.200 palestinesi sono stati uccisi durante la guerra israeliana contro la Striscia di Gaza tra l’8 luglio e il 27 agosto 2014, e che oltre 500 di loro erano minori. Più di 17.000 case sono state distrutte e migliaia di altri edifici, compresi ospedali, scuole e fabbriche sono stati anch’essi distrutti o gravemente danneggiati nel corso dei bombardamenti israeliani.

Tutto questo è vero, il genere di verità che è sintetizzata in un’accurata infografica, d’ogni tanto aggiornata nel caso che, inevitabilmente, alcuni dei feriti gravi abbiano alla fine perso la vita.

Ma un singolo documento, o un migliaio, non potrà mai descrivere in modo veritiero il reale terrore provato da un milione di bambini che hanno temuto per la propria vita durante quei terribili giorni; o trasportarci in una stanza da letto dove una famiglia di dieci membri si stringe nel buio, invocando la grazia di dio quando la terra trema, i muri crollano e i vetri si infrangono tutto intorno; o trasmettere l’angoscia di una madre che tiene in braccio il corpo senza vita di suo figlio.

E’ facile – e giustificabile – accusare i media di disumanizzare i palestinesi o, a volte, di ignorarli del tutto. Tuttavia, se vanno attribuite delle colpe, allora anche altri, compresi quelli che si ritengono “filopalestinesi”, devono riconsiderare la propria posizione. Siamo tutti, in una certa misura, collettivamente colpevoli di vedere i palestinesi come semplici vittime, sventurati, passivi, persone intellettualmente deboli e sfortunate, senza speranza di essere ‘salvate’.

Quando i numeri monopolizzano i riflettori nella narrazione di un popolo, fanno un danno maggiore di una semplice riduzione della complessità degli esseri umani a dati: cancellano anche la vita. Riguardo alla Palestina, raramente i palestinesi vengono trattati da eguali: continuano ad essere i ricettori di assistenza, aspettative politiche e indicazioni non richieste su che cosa dire e come resistere. Spesso alimentano contese politiche tra fazioni o governi, ma raramente prendono l’iniziativa e plasmano il proprio discorso politico.

La narrazione politica palestinese per anni ha oscillato tra una, costruita intorno al soggetto della vittimizzazione – che spesso è corroborata dai numeri dei morti e dei feriti – ed un’altra riguardante la fantomatica unità tra Fatah e Hamas. La prima emerge ogni qual volta Israele decide di bombardare Gaza con qualunque pretesto utile al momento, la seconda è stata una risposta alle accuse occidentali secondo cui i vertici politici palestinesi sono troppo divisi per costituire un potenziale “partner di pace” per il primo ministro di destra israeliano, Benjamin Netanyahu. Molti in tutto il mondo riescono a comprendere – o a riferirsi ai – i palestinesi solo attraverso la loro vittimizzazione o affiliazione a fazioni – che di per sé comportano ulteriori significati attinenti al ‘terrorismo’ o al ‘radicalismo’, tra le altre cose.

Tuttavia la realtà è spesso diversa dai discorsi riduzionisti dei media e della politica. I palestinesi non sono solo numeri. Non sono nemmeno spettatori di una partita politica che continua a marginalizzarli. Poco dopo la guerra del 2014 un gruppo di giovani palestinesi, con sostenitori in tutto il mondo, hanno lanciato un’importante iniziativa rivolta ad affrancare la narrazione palestinese, almeno a Gaza, dai confini dei numeri e di altre interpretazioni riduttive.

Non siamo numeri’ è stata lanciata all’inizio del 2015. La pagina del gruppo ‘Su di noi’ recita: “i numeri non riportano…le quotidiane lotte e vittorie personali, le lacrime e le risa, le aspirazioni che sono talmente universali che, se non fosse per il contesto, entrerebbero immediatamente in risonanza potenzialmente con tutti.”

Recentemente ho parlato con diversi membri del gruppo, compreso il Direttore del Progetto Gaza, Issam Adwan. E’ certamente stato emozionante ascoltare giovani palestinesi preparati e molto determinati parlare un linguaggio che trascende tutti i discorsi stereotipati sulla Palestina. Non erano né vittime né faziosi ed erano decisamente stufi del bisogno patologico di soddisfare le richieste e le aspettative occidentali.

Abbiamo dei talenti – siamo scrittori, romanzieri, poeti ed abbiamo un potenziale molto grande di cui il mondo conosce poco”, mi ha detto Adwan.

Khalid Dader, uno dei circa 60 scrittori e blogger dell’organizzazione a Gaza, contesta la definizione secondo cui loro sono ‘narratori di storie’. “Noi non raccontiamo storie, piuttosto le storie ci raccontano…le storie ci creano”, mi ha detto. Per Dader, non si tratta di numeri o parole, ma di vite vissute e di lasciti che spesso rimangono inespressi.

Somaia Abu Nada vuole che il mondo conosca suo zio, perché “era una persona che aveva una famiglia e persone che lo amavano.” E’ stato ucciso nella guerra israeliana contro Gaza del 2008 e la sua morte ha colpito profondamente la sua famiglia e la sua comunità. In quella guerra furono uccise più di 1.300 persone. Ognuna di loro era lo zio, la zia, il figlio, la figlia, il marito o la moglie di qualcuno. Nessuna di loro era solo un numero.

“ ‘Non siamo numeri’ mi ha fatto capire quanto necessarie siano le nostre voci”, mi ha detto Mohammed Rafik. Questa affermazione non può essere considerata eccessiva. Tanti parlano a nome dei palestinesi, ma raramente sono i palestinesi a parlare di sé. “Questi sono tempi di paura senza precedenti, in cui la nostra terra appare spezzata e triste”, dice Rafik, “ma non perdiamo mai il nostro senso della comunità”.

Adwan ci ricorda la famosa citazione di Arundhati Roy: “Non esiste una cosa come ‘l’assenza di voce’. Ci sono solo quelli costretti deliberatamente al silenzio, o quelli preferibilmente inascoltati.”

E’ stato piacevole parlare con dei palestinesi che stanno compiendo il decisivo passo di dichiarare di non essere numeri, perché è soltanto attraverso questa consapevolezza e determinazione che i giovani palestinesi possono sfidare tutti noi ed affermare la propria identità collettiva come popolo.

Certamente i palestinesi hanno una voce, una voce forte e in risonanza l’una con l’altra.

Ramzy Baroud è giornalista e redattore capo di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri. L’ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle prigioni israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Il dott. Baroud è ricercatore associato non residente al Centro per l’Islam e Affari Globali (CIGA), dell’università Zaim di Istambul.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Ridefinire l’antisemitismo su Facebook

Neve Gordon

22 settembre 2020 – Al-Jazeera

Se Facebook adottasse la definizione di antisemitismo dell’ IHRA, ciò sarebbe dannoso per la libertà di parola.

Con i suoi 2,7 miliardi di utenti Facebook è la rete sociale più estesa e probabilmente più influente del mondo. Pertanto, non sorprende che le organizzazioni sioniste di destra labbiano identificata come una piattaforma chiave per promuovere i loro progetti.

Diversi anni fa, ad esempio, il Ministero israeliano degli Affari strategici insieme agli studenti dell’IDC, un’università israeliana di Herzliya, ha contribuito a creare ACT.IL, una “comunità online che si impegna nel promuovere un’influenza positiva sull’opinione pubblica internazionale nei confronti dello Stato di Israele tramite le piattaforme dei social media”. ACT.IL ha creato un esercito di troll [agenti provocatori o che condizionano l’opinione pubblica attraverso le reti sociali, ndtr.] e poi ha sviluppato un’applicazione per rendere il loro lavoro più efficace coordinando l’insieme delle segnalazioni dei commenti critici nei confronti di Israele postati su Facebook.

Ben presto, è diventato chiaro che nessun esercito di troll può far fronte al monitoraggio dell’enorme quantità di contenuti su Facebook. Questo è il motivo per cui le organizzazioni sioniste di destra hanno recentemente iniziato a fare pressioni su Facebook affinché includa le critiche a Israele come parte della propria definizione di incitamento all’odio. In altre parole, il loro obiettivo è costringere Facebook ad alterare gli algoritmi che utilizza per rilevare l’incitamento all’odio in modo che gli algoritmi della società rimuovano automaticamente qualsiasi critica a Israele dalla piattaforma. Si sono resi conto che gli algoritmi sono più efficienti dei troll.

La campagna

La scorsa estate, lavorando a stretto contatto con il governo israeliano, il gruppo di pressione pro-Israele StopAntisemitism.org ha lanciato la nuova campagna dopo aver ricevuto finanziamenti dal filantropo di destra Adam Milstein [investitore immobiliare e lobbista israeliano-americano, ndtr.].

A luglio Orit Farkash-Hacohen, ministro israeliano degli Affari Strategici, ha pubblicato un editoriale su Newsweek [noto settimanale USA, ndtr.] in cui esorta le società di social media a sradicare il “virus” antisemita adottando pienamente la definizione corrente di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti al fine promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.]

Poche settimane dopo, il 7 agosto, 120 organizzazioni che rappresentano il gotha dei gruppi sionisti di destra hanno inviato una lettera al Consiglio di amministrazione di Facebook, invitandolo ad adottare pienamente la definizione dell’IHRA come “pietra angolare della politica di Facebook contro l’incitamento all’odio riguardo l’antisemitismo”.

Questa definizione, che è stata approvata o adottata in una qualche veste ufficiale da più di 30 Paesi, include 11 esempi di antisemitismo, molti dei quali implicano la critica di Israele. Questa è solo l’ultima manifestazione concreta di come ogni critica al governo israeliano e alla sua politica assuma ora lo stigma di essere antisemita.

Qui cè certo un pizzico di ironia. Storicamente, la lotta contro l’antisemitismo ha cercato di promuovere la parità di diritti e l’emancipazione degli ebrei. Tuttavia nella definizione dell’IHRA coloro che si pronunciano contro la sottomissione dei palestinesi sono definiti antisemiti.

Così, invece di favorire la lotta contro chi ambisce a opprimere, dominare e sterminare gli ebrei, questa nuova definizione di antisemitismo persegue coloro che desiderano prendere parte alla lotta per la liberazione dal dominio coloniale. In questo modo – come ha osservato Judith Butler [filosofa statunitense esperta in filosofia etica e politica, ndtr.] – “la passione per la giustizia [viene] ribattezzata antisemitismo”.

Tuttavia, le persone che stanno dietro questa campagna non sono interessate né all’ironia né alla giustizia, e certamente non alla giustizia nei riguardi dei palestinesi. Come ha sottolineato Lara Friedman, presidentessa della Foundation for Middle East Peace [organizzazione no profit americana che promuove una giusta soluzione al conflitto israelo-palestinese, ndtr.], che ha scritto per Jewish Currents [rivista trimestrale ebraica progressista e secolare e sito di notizie della sinistra ebraica, ndtr.] un articolo sulla campagna nei confronti di Facebook, la loro lettera al Consiglio di amministrazione [di Facebook] “rappresenta l’ultimo fronte nella battaglia per utilizzare la definizione dell’IHRA per escludere ufficialmente le critiche a Israele dal novero dei pareri accettabili”.

Facebook risponde

Monika Bickert, vicepresidente di Facebook in materia di contenuti, ha inviato una lettera ai firmatari, osservando che la società “attinge allo spirito – e al testo – dell’IHRA” e che, secondo la politica di Facebook, “l’essere ebreo e israeliano sono considerate caratteristiche che implicano un particolare riguardo’”.

Sheryl Sandberg, direttore generale di Facebook, ha persino scritto una nota personale a Milstein, che ha finanziato la campagna. Lo ha assicurato che la definizione dell’IHRA è stata “preziosa, sia per indirizzare il nostro approccio, sia come punto di avvio di schiette discussioni relative alla politica [di Facebook] con organizzazioni come la sua”.

Tuttavia la società sembra essere ancora riluttante ad adottare le parti della definizione che si riferiscono a Israele, e non è una coincidenza che nelle risposte di Facebook essa menzioni solo l’incitamento all’odio nei confronti degli ebrei.

Friedman, della Foundation for Middle East Peace, cita Peter Stern, alto funzionario di Facebook, che tre mesi prima del lancio della campagna ha affermato: “Noi non consentiamo alla gente di fare certi tipi di dichiarazioni di odio contro le persone. Se l’attenzione si concentra su un Paese, un’istituzione, una filosofia, allora consentiamo alle persone di esprimersi più liberamente, perché pensiamo che sia una parte importante del dialogo politico … e che ci sia una componente legittima importante in questo. Quindi permettiamo alle persone di criticare lo Stato di Israele, così come gli Stati Uniti e altri Paesi “.

La battaglia continua

Non sorprende che la nuova politica di Facebook sull’incitamento all’odio non abbia soddisfatto la lobby filo-israeliana, e nella lettera del 7 agosto parte della collera era rivolta contro Stern in quanto vi si sosteneva che egli avesse “ammesso che Facebook non abbraccia la piena adozione della definizione frutto del lavoro dell’IHRA in quanto questa sostiene che le moderne manifestazioni di antisemitismo riguardino Israele”.

In un tweet in risposta alla lettera di Sandberg, Milstein ha chiarito che la campagna continuerà: “Non vediamo l’ora di lavorare con @Facebook per garantire che #antisemitismo venga sradicato dalla piattaforma e che la definizione di antisemitismo dell’#IHRA sia pienamente adottata dalla vostra organizzazione.”

Dall’altro lato dello spettro politico, un gruppo di studiosi (me compreso) specializzati in antisemitismo, storia ebraica e dell’Olocausto e sul conflitto israelo-palestinese ha scritto a Facebook sui pericoli dell’adozione della definizione dell’IHRA.

Esortando Mark Zuckerberg a “combattere tutte le forme di incitamento all’odio su Facebook”, lo abbiamo invitato ad astenersi dall’ “adottare e applicare una definizione politicizzata di antisemitismo, che è stata utilizzata come arma per minare la libertà di parola, al fine di proteggere il governo israeliano e mettere a tacere le voci palestinesi e dei loro sostenitori”.

Se Facebook alla fine cedesse e includesse nei suoi algoritmi la definizione testuale dell’IHRA, la libertà di parola su Israele/Palestina, che è già sotto un’enorme pressione, riceverà un colpo letale. Spetta agli utenti di Facebook esprimere la loro preoccupazione notificando a Zuckerberg e Sandberg che essi abbandoneranno la piattaforma nel momento in cui il gigante dei media decidesse di adottare la definizione dell’IHRA. In definitiva siamo noi, gli utenti, ad avere in mano il potere.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon

Neve Gordon è borsista del Marie Curie [le azioni Marie Skłodowska-Curie sono una serie di importanti borse di ricerca create dall’Unione europea per sostenere la ricerca in Europa, ndtr.] e professore di diritto internazionale presso la Queen Mary University di Londra.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Intifada palestinese: come Israele orchestrò una sanguinosa conquista

Ali Adam

20 settembre 2020 – Al Jazeera

Nel ventesimo anniversario della Seconda Intifada i palestinesi ricordano come Israele cercò di consolidare la sua occupazione.

Gaza City – La Seconda Intifada, comunemente definita dai palestinesi l’Intifada di Al-Aqsa, iniziò dopo che il 28 settembre del 2000 l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon scatenò la rivolta quando fece irruzione con più di 1.000 poliziotti e soldati pesantemente armati nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata.

L’iniziativa scatenò sdegno unanime tra i palestinesi che avevano appena celebrato l’anniversario del massacro del 1982 a Sabra e Shatila [due campi profughi a Beirut in cui i falangisti libanesi, con l’appoggio dell’esercito israeliano occupante, commisero una terribile strage, ndtr.] per il quale Sharon [allora ministro della Difesa israeliano, ndtr.] era stato considerato responsabile per non aver bloccato lo spargimento di sangue, a seguito dell’invasione israeliana del Libano.

Ma già prima della controversa iniziativa di Sharon la frustrazione e la rabbia erano aumentati anno dopo anno tra i palestinesi sullo sfondo del rifiuto dei successivi governi israeliani di rispettare gli accordi di Oslo e porre fine all’occupazione.

Diana Buttu, analista residente a Ramallah ed ex- consigliera dei negoziatori palestinesi a Oslo, dice ad Al Jazeera: “Tutti, compresi gli americani, avevano avvertito gli israeliani che i palestinesi stavano raggiungendo un punto critico, e che fosse necessario acquietare la situazione. Invece alimentarono ancor di più il fuoco.

La visita di Sharon fu la scintilla che accese l’Intifada, ma le sue basi erano state poste negli anni precedenti.”

Secondo gli accordi di Oslo entro il 4 maggio 1999 avrebbe dovuto nascere una Palestina indipendente, nota Buttu, aggiungendo che dall’inizio dei negoziati nel 1993 fino all’inizio dell’Intifada “quello che vedemmo fu una rapida espansione delle colonie israeliane.”

“Di fatto vedemmo che solo nel breve periodo dal 1993 all’anno 2000 il numero dei coloni raddoppiò da 200.000 a 400.000. Si vedeva che quello che stava succedendo sul terreno era progettato per garantire che non ci sarebbe stato uno Stato palestinese indipendente,” afferma.

Soluzioni israeliane”

Le tensioni e la frustrazione crebbero anche dopo il fallimento dei colloqui di pace di Camp David che si tennero nel luglio 2000, quando l’allora leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak non trovarono un accordo di pace a causa delle divergenze sullo status di Gerusalemme, la contiguità territoriale [del futuro Stato palestinese, ndtr.] e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat, il Palestinian Center for Policy Research and Strategic Studies [Centro Palestinese per la Ricerca Politica e gli Studi Strategici, Ong palestinese indipendente, ndtr.] aggiunge: “La principale ragione che stava dietro l’Intifada fu che i dirigenti israeliani volevano punire Arafat e i palestinesi per obbligarli ad accettare le soluzioni israeliane, in sostanza lo status quo dell’occupazione. Intendevano obbligare la coscienza palestinese ad accettare quello che voleva Israele.

Attraverso l’Intifada i palestinesi volevano migliorare le condizioni del dopo Oslo, che avevano raggiunto un punto bassissimo nel summit di Camp David, quando ad Arafat venne chiesto di lasciar perdere Gerusalemme e la questione dei rifugiati.”

Wasel Abu Yusuf, un importante politico palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) afferma: “Dopo il summit di Camp David, in cui Israele cercò di privare i palestinesi della loro capitale Gerusalemme est, del diritto al ritorno per i palestinesi, così come della contiguità territoriale, il panorama politico si era chiuso in faccia ai palestinesi.

“Con la visita di Sharon Israele voleva provocare i palestinesi perché reagissero con la violenza. Gli israeliani pensarono che, assestando un duro colpo militare ai palestinesi, essi avrebbero ridotto le richieste politiche nei negoziati all’indomani del summit di Camp David.”

Come Israele esacerbò la violenza nella Seconda Intifada

I primi giorni della rivolta vennero caratterizzati da grandi manifestazioni non violente che includevano la disobbedienza civile e qualche lancio di pietre. Iniziò a Gerusalemme e rapidamente si diffuse alla Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est.

Le autorità israeliane reagirono alle manifestazioni con un uso eccessivo della forza che incluse proiettili ricoperti di gomma e pallottole vere. Subito dopo seguirono incursioni militari con il coinvolgimento di elicotteri e carrarmati in zone palestinesi densamente popolate.

Come rivelò Amos Malka, allora direttore dell’intelligence militare israeliana, si stima che durante i primi 5 giorni della Seconda Intifada i soldati israeliani abbiano sparato circa 1.3 milioni colpi di arma da fuoco. Ciò avvenne nonostante il fatto che nelle prime settimane la violenza dei palestinesi fosse minima.

“La violenza israeliana dimostrò che gli israeliani non erano interessati a una rapida fine del conflitto,” dice Abu Yusuf. “Il fatto che Israele abbia sparato più di un milione di proiettili, provocato molte vittime tra i palestinesi e violato i luoghi santi musulmani, tutto ciò dimostra che Israele voleva militarizzare l’Intifada. L’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano intendeva trascinare i palestinesi in uno scontro militare.”

Buttu afferma che i leader israeliani volevano distogliere l’attenzione dalla costruzione delle colonie. “Fu una copertura per tutto quello che avevano voluto fare fino ad allora.”

Nei primi cinque giorni dell’Intifada vennero uccisi 47 palestinesi e altri 1.885 vennero feriti. Amnesty International scoprì che la maggioranza delle vittime palestinesi era composta da spettatori e che l’80% degli uccisi nel primo mese non rappresentava una minaccia letale per le forze israeliane. Durante quello stesso periodo vennero uccisi dai palestinesi cinque israeliani.

Gli analisti hanno a lungo sostenuto che l’uso eccessivo della forza sia stata la ragione per cui la fase della resistenza popolare palestinese nella Seconda Intifada terminò rapidamente e venne rimpiazzata dalla rivolta armata.

“Il livello dell’aggressione israeliana e delle perdite da parte palestinese non consentiva di conservare il carattere non violento dell’Intifada palestinese,” sostiene al-Masri.

Vittime di massa

Parlando della Seconda Intifada, gli israeliani citerebbero gli attentati suicidi palestinesi, ma alcuni osservatori affermano che fu solo dopo più di un mese che i palestinesi subivano mortali attacchi militari che alcuni fecero ricorso alla violenza suicida.

Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, nel corso della Seconda Intifada vennero uccisi almeno 4.973 palestinesi. Tra essi ci furono 1.262 minorenni, 274 donne e 32 operatori sanitari.

Secondo Defence for Children International, un’organizzazione indipendente con sede in Svizzera che si dedica alla promozione e alla protezione dei diritti dell’infanzia, più di 10.000 minori rimasero feriti nel corso dei cinque anni dell’Intifada.

Oltre ai morti e ai feriti, l’esercito israeliano demolì più di 5.000 case palestinesi e ne danneggiò in modo irreparabile altre 6.500, secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani.

In generale la Seconda Intifada adottò una resistenza non violenta, ignorata dai principali mezzi di comunicazione, mentre i palestinesi si organizzavano e protestavano in modo non violento contro la campagna militare, le colonie israeliane, le demolizioni di case palestinesi, così come contro la barriera di separazione.

“La stragrande maggioranza della Seconda Intifada fu non violenta. Ciò non venne metodicamente ignorato perché non rientrava nella narrazione tramessa ai media occidentali,” afferma Buttu.

“Ricordo di aver partecipato a molte di quelle manifestazioni a cui gli israeliani risposero con molta violenza. Venni colpita da un proiettile ricoperto di gomma alla gamba destra.”

Durante gli anni dell’Intifada i palestinesi fecero tentativi di porre fine alla violenza, ma gli israeliani rifiutarono questa disponibilità.

Nel febbraio 2003 fonti israeliane rivelarono una proposta presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese a Israele. Si impegnava a porre totalmente fine agli attacchi contro Israele in cambio di un graduale ritiro dell’occupazione israeliana alle posizioni precedenti all’Intifada.

Nel 2002, quando Arafat appoggiò l’iniziativa di pace araba lanciata dall’Arabia Saudita, i leader palestinesi rinnovarono i tentativi di porre fine allo scontro militare. Israele, da parte sua, ignorò la proposta e continuò le sue operazioni militari.

Come Israele continui a utilizzare la Seconda Intifada come pretesto

Buttu nota che in seguito Israele ha utilizzato la rivolta per accampare pretese basate sulla necessità di “sicurezza”.

“Iniziarono a fare pesanti richieste per prendersi tutta la valle del Giordano, tutta Gerusalemme, mantenendovi le colonie. In seguito si sono trasformate nella costruzione del muro, nei posti di controllo e nelle basi dell’esercito all’interno della terra palestinese.

“È per questo che il piano di Trump è così com’è oggi. Il piano di Trump si conforma a tutte le richieste che Israele ha posto in seguito alla Seconda Intifada, che Israele ha cercato e voluto.”

Abu Yusuf, politico palestinese, afferma che 20 anni dopo l’inizio della Seconda Intifada Israele rifiuta ancora diritti ai palestinesi in qualunque forma.

“Continua ad espandere le colonie, demolisce case palestinesi e mette in pratica la sua annessione di fatto dei territori palestinesi con l’appoggio dell’amministrazione Trump,” afferma Abu Yussuf.

“Esattamente come 20 anni fa il popolo palestinese, nonostante tutto, è ancora impegnato a resistere contro l’occupazione e per i propri diritti in base alle leggi internazionali, e lo rimarrà finché otterrà la libertà in uno Stato palestinese sovrano e indipendente con Gerusalemme est come capitale e la soluzione del dramma dei rifugiati in base alla risoluzione 194 dell’ONU.

Anni dopo gli attacchi israeliani contro i palestinesi durante la Seconda Intifada, Israele ancora “commette ogni sorta di crimini”, dice al-Masri. “Il silenzio da parte della comunità internazionale è ciò che ancora incoraggia Israele a commettere crimini e flagranti violazioni dei diritti umani.”

Abu Yusuf afferma che le recenti sfide, come il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, l’annessione israeliana e la normalizzazione tra Israele ed alcune Nazioni Arabe, mirano tutte “a obbligare i palestinesi ad accettare di vivere in cantoni e bantustan [territori destinati alla popolazione nera nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.].”

“Ma come hanno fatto negli anni dell’Intifada e in quelli prima di Oslo, i palestinesi rifiutano di accettare qualcosa meno della fine dell’occupazione e continueranno a farlo ora e in futuro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Pace senza giustizia: perché la sinistra in Israele sostiene gli accordi di Netanyahu coi Paesi del Golfo

Orly Noy,

23 settembre 2020 – Middle East Eye

Senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, la sinistra sionista plaude ai pericolosi accordi conclusi dal governo più di destra che Israele abbia mai avuto

Se ci fosse stato bisogno di un’ulteriore prova dell’intrinseca incapacità della sinistra sionista di Israele di analizzare correttamente le circostanze politiche e rispondere di conseguenza, l’abbiamo avuta quando i leader di questo fronte si sono affrettati a concedere la loro benedizione agli “accordi di pace” tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e successivamente con il Bahrain.

Tamar Zandberg, leader del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndtr.], ha dichiarato di “plaudire alla decisione di rinunciare all’annessione e di passare invece a un accordo con un importante Paese arabo”. Peace Now [movimento israeliano non-governativo pacifista, ndtr.] ha dichiarato che “l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti è un grande passo nella giusta direzione”.

Nitzan Horowitz, presidente del partito Meretz, ha affermato che “l’instaurazione di relazioni con gli Emirati Arabi Uniti dimostra che la revoca dell’annessione e [il perseguimento] di una soluzione a due Stati è la via per la normalizzazione regionale”.

Il New Israel Fund [organizzazione statunitense no profit per la giustizia e uguaglianza in Israele, ndtr.] lo ha descritto come un importante sviluppo. Anche Gideon Levy, il giornalista di solito più critico e attento, ha plaudito all’iniziativa: “Qualsiasi tentativo da parte di Israele di essere accettato con mezzi non violenti nel contesto regionale in cui è entrato con passo pesante circa un secolo fa è uno sviluppo positivo”.

Un triste scherzo

Indaffarata a concedere le sue benedizioni, la sinistra ebraica israeliana è stata del tutto cieca alla reazione ovunque profondamente critica dei palestinesi all’accordo. Che avrebbe dovuto essere in sé un campanello di allarme.

Ma a prescindere dalla ferma opposizione palestinese, la natura problematica della posizione della sinistra israeliana sarebbe stata evidente, se qualcuno si fosse preso la briga di chiedersi in cosa consistessero veramente quegli accordi, cosa spingesse il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a firmarli, a favore di chi fossero stati progettati e quale fosse il loro obiettivo.

Normalizzazione: che scherzo triste.

Basta guardare agli accordi di pace che Israele ha firmato con l’Egitto e la Giordania per capire esattamente quanto Israele sia oggi “normalizzato” agli occhi dei cittadini di quei Paesi. Non solo non si sono mai visti turisti egiziani o giordani per le strade di Israele, gli accordi non sono serviti a mitigare il modo in cui gli egiziani e i giordani vedono Israele – come un brutale occupante.

Non appena i nuovi accordi sono stati resi pubblici, il popolo del Bahrein stava già protestando con rabbia contro qualsiasi normalizzazione con Israele. Mentre gli accordi di Israele con l’Egitto e la Giordania hanno portato almeno a un’era senza guerre con due dei vicini e hanno risolto controversie di confine di vecchia data, l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein non servono nemmeno a qualcosa di simile. Quale conflitto risolvono esattamente questi accordi?

Quand’è che abbiamo paventato una guerra con gli Emirati Arabi Uniti? Quale nostro confine è ora più sicuro? Israele non ha confini con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein.

Eludere la questione palestinese

È triste e scoraggiante che la sinistra ebraica in Israele si sia affrettata a sposare un accordo il cui obiettivo principale, oltre all’apertura di un altro mercato per l’industria delle armi israeliana, è di eludere la questione palestinese e ottenere la legittimità regionale pur continuando a perpetrare l’occupazione, le violenze e la spoliazione del popolo palestinese.

L’argomento della sinistra secondo cui un accordo con Emirati Arabi Uniti e Bahrein “ha tolto dal tavolo l’opzione dell’annessione” è infantile in modo imbarazzante. Sin dall’inizio l’annessione è stata una minaccia architettata per fornire a Israele proprio questo spazio di manovra.

Bisognerebbe essere davvero ingenui per pensare che le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein possano eliminare dal programma l’annessione. Dopotutto, Netanyahu e il suo governo di estrema destra esistono da oltre un decennio. Se davvero avessero voluto l’annessione, l’avrebbero realizzata molto tempo fa.

Ma poiché l’annessione de facto si rafforza quotidianamente senza comportare alcun costo reale per Israele né a livello locale né internazionale, Netanyahu non ha alcun interesse a scatenare l’opinione pubblica mondiale attraverso un’annessione de jure.

Al contrario con quella vuota minaccia miete capitale politico, mentre la deplorevole stoltezza della sinistra alimenta la sua corsa.

Contrariamente a quanto sostiene la sinistra, non solo questi accordi non fanno nulla per risolvere il conflitto con i palestinesi, peggio, ribadiscono il vecchio slogan della destra: puoi ottenere la pace per la pace, non è necessario pagare per la pace restituendo la terra.

L’etica della “pace”

Come spiegare allora il sostegno della sinistra ebraica israeliana a un accordo così irrealistico e dannoso?

Ha molto a che fare con l’etica della “pace” abbracciata tanto orgogliosamente dalla sinistra israeliana come fronte israeliano della pace. Penso non sia un caso che la sinistra sionista abbia scelto come emblema la “pace”, piuttosto che l’idea di giustizia.

Questo è in realtà da sempre uno dei maggiori inganni nel ruolo di quella che è conosciuta come la sinistra sionista: convertire la richiesta di giustizia in vaghi sogni di pace. Non che la pace non sia un valore importante; anzi. I Paesi, come le persone, dovrebbero certamente aspirare alla pace. Ma quando la pace diventa una via per aggirare la giustizia, non solo la giustizia viene fatta a pezzi, di fatto non si raggiunge nemmeno la pace.

La ragione per cui la sinistra sionista in Israele preferisce parlare più di pace e meno di giustizia ha a che fare con il carattere del sionismo. Il sionismo può offrire vuoti accordi di pace ma non può offrire alcun tipo di giustizia, perché per sua natura aspira a preservare ed estendere la superiorità ebraica e i privilegi che ne derivano.

Così, questa sinistra immaginaria a Oslo è stata in grado di imporre ai palestinesi un “accordo di pace” progettato per perpetuare l’inferiorità palestinese nei confronti di Israele (e nemmeno il poco che Oslo ha promesso ai palestinesi è stato reso effettivo da Israele) – ma Israele si è attentamente astenuto da qualsiasi accenno alla giustizia storica per non aprire il vaso di Pandora dell’ingiustizia intrinseca che è stata la Nakba.

Oggi, senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, una sinistra che sta gradualmente scomparendo plaude agli accordi manipolatori e pericolosi conclusi dal primo ministro del governo più a destra che Israele abbia mai avuto.

Le opinioni espresse in questo articolo sono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica della redazione di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)