Città palestinesi “accerchiate” dalle politiche discriminatorie di Israele

Human Rights Watch afferma che per decenni il governo israeliano ha imposto all’interno di Israele prassi discriminatorie riguardo alla terra.

12 maggio 2020 – Al Jazeera

Un nuovo rapporto di Human Rights Watch (HRW) afferma che ai palestinesi con cittadinanza israeliana è stato negato l’accesso alla terra per l’edilizia abitativa al fine di adeguarsi all’ “aumento naturale della popolazione”, riflettendo la politica israeliana di confinamento delle comunità palestinesi persino al di là dei territori occupati.

Martedì l’associazione per i diritti umani con sede negli USA ha detto che la politica del governo israeliano favorisce i cittadini ebrei, in quanto decenni di confisca di terreni e di politiche discriminatorie hanno rinchiuso i cittadini palestinesi in centri urbani e villaggi densamente popolati che hanno uno spazio molto ridotto per espandersi.

Ha anche sostenuto che il governo israeliano “favorisce la crescita e l’espansione” delle vicine comunità prevalentemente ebraiche, molte delle quali costruite sulle rovine di villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba del 1948, quella che i palestinesi chiamano la catastrofe che si abbatté su di loro nella guerra che portò alla fondazione di Israele, quando centinaia di migliaia di loro vennero cacciate con la forza dalle proprie case.

La politica israeliana da entrambi i lati della Linea Verde [cioè sia in Israele che nella Cisgiordania occupata, ndtr.] rinchiude i palestinesi in centri abitati densamente popolati, mentre aumenta il più possibile la terra a disposizione delle comunità ebraiche,” afferma Eric Goldstein, direttore esecutivo ad interim per il Medio Oriente di HRW.

Queste pratiche sono ben note quando si tratta della Cisgiordania occupata, ma le autorità israeliane stanno imponendo pratiche discriminatorie riguardo alla terra anche all’interno di Israele.”

Secondo il rapporto, nonostante il fatto che i cittadini palestinesi di Israele costituiscano il 21% della popolazione del Paese, nel 2017 le associazioni per i diritti umani israeliane e palestinesi stimavano che in Israele meno del 3% di tutta la terra ricadesse sotto la giurisdizione delle amministrazioni locali palestinesi.

Il governo israeliano controlla direttamente il 93% della terra del Paese, compresa Gerusalemme est occupata. Secondo HRW un ente governativo, l’“Israel Land Authority” [Autorità Israeliana per la terra] (ILA), gestisce e decide la destinazione di questi terreni statali.

Circa metà dei membri dell’ILA fa parte del Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico] (JNF), il cui compito esplicito è di “sviluppare e concedere in affitto terra agli ebrei e non a qualunque altro segmento della popolazione,” nota HRW.

Oltretutto molte piccole cittadine ebraiche hanno commissioni per l’ ammissione, che di fatto impediscono ai palestinesi di andarci a vivere. Queste commissioni sono in genere legalmente autorizzate e hanno il potere di vendere e comprare terra dello Stato e definire i requisiti per ottenervi la residenza.

Questo avviene anche nei villaggi beduini palestinesi del Negev, la maggior parte dei quali non sono riconosciuti. Nel Negev le autorità israeliane mettono in atto sistematicamente degli ordini di demolizione in base al fatto che questi villaggi non hanno permessi di costruzione, che secondo gli abitanti sono impossibili da ottenere.

Parole sulla carta”

Dal 1948 Israele ha autorizzato lo sviluppo di più di 900 centri abitati ebraici, rispetto a solo un pugno di cittadine e villaggi per i palestinesi con cittadinanza israeliana. Ha anche approvato la costruzione di strade e di altre infrastrutture attorno alle comunità palestinesi, impedendone ulteriormente l’espansione.

Omar Shakir, direttore di HRW per Israele e la Palestina, afferma che è “palese” che le cittadine e i villaggi palestinesi siano stati “messi in trappola”.

Nel corso di molti anni le politiche di pianificazione e la confisca di terreni da parte di Israele li hanno rinchiusi in una serie di centri densamente abitati, mentre alle comunità ebraiche è stato consentito di crescere,” dice Shakir ad Al Jazeera.

Il Centro Arabo di Pianificazione Alternativa, con sede in Israele, stima che in Israele, esclusa Gerusalemme, sono a rischio di demolizione dalle 60.000 alle 70.000 case.

Shakir afferma che, mentre negli ultimi anni il governo israeliano ha riconosciuto che si tratta di un “problema serio”, non è stata presa alcuna iniziativa concreta per mettere in atto piani e proposte che possano contribuire ad alleviarlo.

Shakir aggiunge che quello di cui c’è bisogno sono investimenti significativi in quelle comunità e destinare loro terre statali.

Il rapporto nota che politiche simili sono state utilizzate anche per limitare la crescita delle comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata, dove non si sono ridotte le demolizioni di case, le confische di terreni e l’espansione delle colonie ebraiche illegali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele deve scarcerare i minori palestinesi, afferma l’ONU

Tamara Nassar

12 maggio 2020 – Electronic Intifada

Dirigenti delle Nazioni Unite chiedono a Israele di scarcerare immediatamente tutti i minori palestinesi.

Persino in piena pandemia da nuovo coronavirus Israele ha imprigionato altri minori palestinesi.

A fine marzo erano rinchiusi nelle carceri israeliane circa 194 minori palestinesi. Attualmente sono più di 180.

Questo numero è superiore alla media mensile di minori detenuti nel 2019,” hanno affermato funzionari dell’ONU.

La gran maggioranza di questi minori non è stata incriminata per alcun reato, ma viene trattenuta in carcerazione preventiva.”

A causa della pandemia i processi a cui Israele assoggetta i palestinesi, compresi i minori, negli illegittimi tribunali militari sono stati sospesi.

La dichiarazione è firmata dal coordinatore umanitario dell’ONU Jamie McGoldrick, dalla rappresentante speciale dell’UNICEF in Palestina Geneviève Boutin e da James Heenan, capo dell’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

A rendere ancor più critica la situazione, Israele ha vietato quasi tutte le visite ai detenuti. Ciò significa che i minori non possono vedere i propri familiari o i propri avvocati, aggravando la loro sofferenza psicologica e negando loro consulenza legale.

I minori detenuti sono soggetti ad un rischio maggiore di contrarre il COVID-19, in quanto il distanziamento fisico e le altre misure di prevenzione sono spesso assenti o difficili da attuare”, hanno detto i funzionari dell’ONU.

Il modo migliore per garantire i diritti dei minori detenuti in presenza di una pericolosa pandemia, in qualunque Paese, è scarcerarli e stabilire una moratoria su nuovi ingressi in strutture detentive.”

Sostegno da una deputata

Israele detiene il discutibile primato di essere l’unico Paese al mondo che sottopone sistematicamente i minori – e solo quelli palestinesi – a tribunali militari.

Negli ultimi anni parlamentari USA hanno presentato una proposta di legge allo scopo di limitare tali abusi.

La deputata Betty McCollum ha proposto il disegno di legge HR 2407, che impedirebbe agli USA di finanziare enti militari israeliani che risultino coinvolti in soprusi verso minori palestinesi.

Sostengo la richiesta dell’UNICEF ad Israele di scarcerare tutti i minori palestinesi presenti nelle sue prigioni militari”, ha dichiarato McCollum lunedì.

La pandemia COVID-19 e i soprusi inflitti a questi minori giustificano il loro immediato rilascio.”

Attualmente la proposta di legge McCollum ha 23 firmatari.

Ignorare le richieste

La richiesta dell’ONU fa eco a quelle avanzate dalle associazioni per i diritti umani fin dall’inizio della pandemia.

Sia ‘Defense for Children International Palestine’ che l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer hanno chiesto ad Israele di scarcerare i minori palestinesi.

Israele ha ignorato queste richieste.

In aprile ha arrestato altri 18 minori.

In base alle statistiche stilate da Addameer, attualmente nelle carceri israeliane si trovano circa 4.700 palestinesi, 400 dei quali sono sottoposti alla cosiddetta detenzione amministrativa – senza imputazione né processo.

Molti dopo l’arresto sono posti da Israele in quarantena obbligatoria.

Alla fine di marzo Israele ha rilasciato un prigioniero palestinese dal carcere militare di Ofer e il giorno seguente è risultato positivo al test del nuovo coronavirus.

È da notare che Nour al-Deen Sarsour era stato nella sezione 14 del carcere, dove era detenuto insieme a decine di altri prigionieri, il che rende probabile che molti siano stati esposti al contagio.

Le forze di occupazione israeliane tengono rinchiusi i minori palestinesi nella vicina sezione 13.

Israele ha inoltre continuato a punire i detenuti palestinesi ponendone alcuni in isolamento e vietando ad altri di parlare con i propri familiari.

Ha ignorato i reiterati avvertimenti da parte di organizzazioni internazionali per i diritti umani secondo cui le autorità devono ridurre in modo significativo l’intera popolazione carceraria per contrastare la pandemia.

Ora più che mai i governi dovrebbero rilasciare tutte le persone detenute senza una sufficiente motivazione giuridica, inclusi i prigionieri politici ed altre persone incarcerate solo per aver espresso opinioni critiche o di dissenso,” ha dichiarato in marzo Michelle Bachelet, attuale alta commissaria dell’ONU per i diritti umani.

In aprile un prigioniero palestinese è morto in un carcere israeliano.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




David Friedman a proposito di “quando i palestinesi diventeranno canadesi”

JONATHAN OFIR 

11 maggio 2020 – Mondoweiss

Due giorni fa sul quotidiano gratuito Israel Hayom [giornale israeliano di estrema destra, ndtr.], finanziato da Sheldon Adelson [miliardario statunitense finanziatore di Trump e delle colonie israeliane, ndtr.], organo della propaganda di Netanyahu noto in ebraico anche come “Bibiton” (“Bibi” per Benjamin, “iton” che significa carta in ebraico) è apparsa un’intervista con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman.

L’intervista è un potente strizzata d’occhio a Israele perché prosegua con l’annessione di un terzo della Cisgiordania, una importante prospettiva aperta dall’“accordo del secolo” di Trump e un progetto alla base del nuovo accordo Netanyahu-Gantz per il governo di unità. L’annessione dovrebbe iniziare il 1° luglio.

“Stiamo dialogando, e tutti concordano che a luglio la gente che sta dalla parte degli israeliani vuole essere pronta il 1° luglio a procedere”, afferma Friedman. “Non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità – il governo di Israele deve dichiararla. E allora saremo pronti a riconoscerla in base a quello. Come ha affermato il segretario di Stato, è in primo luogo una decisione di Israele. Quindi, dovete procedere voi per primi.”

Dobbiamo ricordare che chi parla così è un patrono delle colonie ebraiche. Friedman ha curato una delle maggiori raccolte di fondi per la colonia di Beit El, costruita interamente su proprietà privata palestinese rubata. Come Jared Kushner, che con il patrimonio familiare ha finanziato gli insediamenti dei coloni religiosi più fondamentalisti (come la yeshiva [scuola religiosa, ndtr.] Od Yosef Chai a Yitzhar), il fatto che Friedman qui finga “imparzialità” è assolutamente ridicolo.

Il suo “non siamo noi che stiamo dichiarando la sovranità” è un clamoroso falso, in quanto non spetta comunque agli Stati Uniti farlo, e quindi non è che quella frase esprima in realtà alcun tipo di ripensamento. In pratica sta dicendo “andate avanti e noi vi seguiremo”. La cosa si aggiunge poi ai recenti riconoscimenti statunitensi delle annessioni unilaterali israeliane, prima di Gerusalemme est (con lo spostamento dell’ambasciata) e poi delle alture siriane occupate del Jolan (Golan). È quasi come se Friedman stesse pregando Israele: “Fallo, siamo proprio qui per metterci il timbro d’approvazione”. E Friedman sa che non ha davvero bisogno di pregare molto.

Ma, come per gli accordi di Oslo (anche se Rabin aveva assicurato che sarebbe finita sicuramente con “meno di uno Stato [palestinese]”), qualcuno a destra si preoccupa che questo “accordo del secolo” possa in qualche modo tradursi in una qualche specie di Stato palestinese, fosse anche solo uno Stato-bantustan a tutti gli effetti e scopi pratici.

E qui arriva la potente strizzata d’occhio razzista di Friedman:

“Li capisco, ma [stiamo dicendo] che non dovete convivere con quello Stato palestinese, dovrete convivere con uno Stato palestinese quando i palestinesi diventeranno canadesi. E quando i palestinesi diventeranno canadesi, tutti i vostri problemi saranno scomparsi.

Questo a molti può sembrare un linguaggio mistico – invece è un linguaggio chiaramente codificato per coloro a cui Friedman si rivolge. In pratica sta dicendo “Non preoccupatevi, comunque non succederà mai”, perché i palestinesi non diventeranno mai canadesi.

E le sue espressioni fanno chiaramente eco a quelle di un ex consigliere capo del primo ministro israeliano Ariel Sharon, Dov Weissglas, che nel 2004 cercava di sopire la preoccupazione che l’imminente piano di “disimpegno” da Gaza del 2005 potesse in qualche modo dare come risultato uno Stato palestinese.

Weissglas diceva:

Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.” (sottolineatura mia).

Vale la pena di leggere una sezione più ampia dell’intervista di Weissglas ad Haaretz nel 2004, per scoprire la logica complessiva:

Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace. E congelando quel processo si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, i confini e Gerusalemme. In effetti, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato rimosso a tempo indefinito dalla nostra agenda. E tutto questo con autorevolezza e con il nulla osta. Tutto con la benedizione del presidente e la ratifica di entrambe le aule del Congresso. […] Questo è esattamente ciò che è successo. Infine, il termine “processo di pace” è un insieme di concetti e impegni. Il processo di pace è l’istituzione di uno Stato palestinese con tutti i rischi per la sicurezza che questo comporta. Il processo di pace è l’evacuazione delle colonie, è il ritorno dei rifugiati, è la divisione di Gerusalemme. E tutto questo è stato ora congelato … Ciò su cui sono totalmente d’accordo con gli americani è che una parte degli accordi non sarebbe stata per niente concordata [con i palestinesi, ndtr.], e che non ci saremmo occupati neppure del resto fino a quando i palestinesi non diventeranno finlandesi. Questo è il senso di ciò che abbiamo fatto.

È una logica molto simile a quella di Friedman. Il piano ha lo scopo di congelare le cose. C’è apparentemente anche un congelamento parziale, per un periodo di 4 anni, della costruzione di colonie su metà dell’ “Area C”, poiché questa area è potenzialmente assegnata, secondo il piano Trump, ad una “espansione” delle aree palestinesi A e B. Secondo gli accordi interinali di Oslo, l’area C, che comprende oltre il 60% della Cisgiordania, avrebbe dovuto essere temporaneamente sotto il pieno controllo israeliano per un periodo di cinque anni, durante i quali si sarebbero dovuti iniziare i negoziati sullo status finale. In realtà, Oslo ha permesso a Israele di congelare l’area C e di farne una grande arena di pulizia etnica. L’area A (con i principali centri abitati) era prevista sotto il pieno controllo palestinese e l’area B con un controllo condiviso tramite il coordinamento dell’Autorità Nazionale Palestinese con l’esercito israeliano.

Friedman spiega la diversa logica dell’annessione dell’area C:

“Esistono tre categorie di territorio nell’area C: quella popolata da comunità ebraiche e la sovranità territoriale consente a queste comunità di crescere in maniera significativa. Questa è la maggioranza – diciamo un 97% della popolazione – e in quelle aree non ci sono restrizioni alla crescita. Ad esempio, Ariel diventerà uguale a Tel Aviv (non ci saranno restrizioni). E questa è la prima categoria. Una seconda categoria è rappresentata dalla metà dell’area C riservata ai palestinesi (da destinare a uno Stato palestinese durante i quattro anni concessi), e non vi è prevista alcuna costruzione, né israeliana né palestinese. Poi c’è una terza categoria, e sono le “enclavi” o “bolle”. Questo è un 3%, sono comunità ebraiche lontane. Quindi, ciò che accade a quelle comunità è che Israele dichiara la propria sovranità su di loro, ma non si espandono, possono ingrandirsi ma non possono espandersi. Per quanto riguarda la stragrande maggioranza delle colonie, le regole sarebbero quelle stesse che vigono allinterno della Linea Verde (linea del cessate il fuoco di Israele del 1949). ”

A Friedman viene chiesto “Quando inizia il conto alla rovescia dei quattro anni?” e lui risponde: “Il giorno in cui Israele inizia a far valere la propria sovranità e dichiara il blocco delle costruzioni nelle aree concordate dell’area C.”

Friedman afferma che non ci sono ulteriori termini o condizioni, ma l’intervistatore Ariel Kahana lo sfida: “Qualcun altro ha detto che c’è una nuova condizione dell’impegno israeliano ad accettare la creazione di uno Stato palestinese”.

Friedman dà una risposta di basso profilo, che placa gli espansionisti israeliani, i quali sanno cosa significhi veramente “processo di pace” – in pratica, niente, apparentemente in “buona fede”:

In proposito la condizione è che il primo ministro [israeliano] accetti di negoziare con i palestinesi e li inviti a un incontro, si impegni nelle discussioni, e le mantenga aperte e le persegua in buona fede per quattro anni.”

Kahana offre la prevista propaganda a favore di Netanyahu: “In realtà l’ha già fatto.”

E Friedman prende spunto da questo valzer apologetico israeliano:

E deve continuare così. In questo momento, i palestinesi non sono disposti a venire al tavolo, ma se tra due anni tornano e dicono: “Aspetta, abbiamo fatto un errore e siamo disposti a negoziare”, dovrà essere disposto a sedersi e discutere. Ma solo per un tempo limitato, vogliamo mantenere [valida] questa opzione per quattro anni. Questa è l’idea.”

Ecco, non si pensa che accada davvero. Il tutto è congegnato per porre condizioni che garantiscano che il negoziato non abbia mai luogo, ad esempio l’insistenza dal 2009 di Netanyahu sul fatto che i palestinesi non si limitino a riconoscere Israele (cosa che avevano già fatto con gli accordi del 1993), ma lo riconoscano come Stato ebraico. Questa definizione in sostanza richiede ai palestinesi di rendere onore all’essenza della propria espropriazione, sbattendoci la testa dopo aver già riconosciuto Israele più di quanto Gandhi avesse fatto col Pakistan. Solo allora Netanyahu dirà di essere disposto a parlare “senza precondizioni”.

Questa nella terminologia sionista è la “buona fede”. Allo stesso modo, Friedman sta presentando l’immediata annessione di metà dell’Area C come un fatto compiuto, e qualunque cosa ne verrà ai palestinesi, essi dovrebbero esserne persino felici.

Secondo i suoi criteri è anche generoso:

“Abbiamo gettato le basi di un fondo infrastrutturale che crescerebbe notevolmente se i palestinesi arrivassero al tavolo e vi si impegnassero. Abbiamo identificato i cambiamenti che dovrebbero verificarsi all’interno della società e del governo palestinesi affinché il tutto funzioni – non ignoriamo il fatto che i palestinesi continuano a pagare i terroristi e continuano a incitare alla violenza. E’ molto più in là di dove chiunque altro sia arrivato finora.”

Friedman rilancia il solito argomento dell’hasbara [la propaganda israeliana, ndtr.], secondo cui i palestinesi “pagano i terroristi”, poiché l’Autorità Nazionale Palestinese sostiene le famiglie dei palestinesi incarcerati o uccisi da Israele. Che ci possano essere atti che prendono di mira i civili e quindi rientrino probabilmente nella definizione di “terrorismo” è un fatto, ma la definizione di Israele è molto ampia e considera qualsiasi attacco ai soldati armati come “terrorismo”.

Analogamente, Israele imprigiona regolarmente i palestinesi senza alcun processo legale (“Detenzione Amministrativa”) per periodi di 6 mesi rinnovabili e infligge regolarmente punizioni collettive sotto forma di demolizioni di case, revoca di residenza e permessi di lavoro ai familiari ecc., e dunque l’assistenza economica palestinese deve essere vista anche come un rimedio temporaneo all’essere stati presi di mira. Ma la generalizzazione fatta da Friedman ha lo scopo di etichettare i palestinesi come terroristi e sostenitori del terrorismo.

Ed è improbabile che i terroristi diventino canadesi, no?

Friedman si emoziona per il “cuore biblico di Israele”, non importa che sia in Palestina. E parla della sua creatura, Beit El. Tutta quella terra rubata è come la “Statua della Libertà”:

“E poi Hebron, Shiloh, Beit El, Ariel, intendo dire che questi posti non si discutono (non sono da restituire ai palestinesi). Qualcuno metteva persino in discussione Gush [Etzion, prima colonia israeliana nei territori occupati, ndtr.] e Maaleh Adumim [una delle colonie più grandi, nei pressi di Gerusalemme, ndtr.], forsanche un’ amministrazione democratica può averlo ritenuto possibile, ma nessuno ha mai messo in discussione il cuore biblico di Israele. Era in parte perché non capivamo quanto fosse importante per Israele. È impensabile chiedere a Israele di rinunciarvi. È come chiedere agli Stati Uniti di rinunciare alla Statua della Libertà “.

E questo simbolismo è molto importante, è nel “DNA nazionale” del “popolo ebraico”:

“È una piccola cosa [la Statua della Libertà] ma non l’abbandoneremmo mai, è molto importante per noi. O il memoriale di Lincoln, a nessun costo! Perché è il nostro DNA nazionale. E (lo stesso vale per) il popolo ebraico “.

Mai, a nessun costo! Caspita, che fervore religioso! Ma se i palestinesi vogliono solo Gerusalemme Est come capitale? Oh, dai, siate ragionevoli! È soltanto del popolo ebraico! E se i palestinesi dicono che è “molto importante” per loro, se il diritto internazionale dice che Israele non dovrebbe annetterla? Peggio per loro. E se dicono che non si arrenderanno, ” a nessun costo”? Bene, allora sono solo terroristi fondamentalisti, che insensati!

Friedman sta dicendo a Israele: tieni duro, continua con le pantomime per 4 anni, abbiamo fatto questo per te. I palestinesi non si trasformeranno in canadesi in quattro anni. Faremo questo passo, consolideremo un’altra parte della conquista colonialista della Palestina e poi procederemo a prenderne di più. David Friedman non sta consigliando ai palestinesi di emigrare in Canada – sta dicendo loro di andare all’inferno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’approvazione da parte della corte suprema israeliana dell’accordo Netanyahu-Gantz scredita la democrazia

Richard Silverstein

9 maggio 2020, MiddleEastEye

La sentenza ratifica, per la prima volta nella storia del Paese, che un primo ministro sotto accusa penale può guidare un governo

Questa settimana, la Corte Suprema di Israele ha preso in esame le petizioni delle ONG del buon governo che cercano di squalificare il proposto governo di unità messo insieme dal partito Likud di Benjamin Netanyahu con l’alleanza del partito di opposizione Blu e Bianco [partito di Benny Gantz, ndtr.].

La questione principale era che Netanyahu dovesse essere rifiutato come primo ministro a causa delle tre accuse di corruzione presentate contro di lui dal procuratore generale Avichai Mandelblit. La legge israeliana non si esprime sull’esclusione dalla carica di capo di governo per chi sia stato incriminato.

I giudici si sono trovati in una imbarazzante situazione senza uscita: se avessero deciso a favore dei firmatari, ciò avrebbe inevitabilmente portato a una quarta elezione.

Dopo lo stress delle votazioni per gli elettori israeliani, quasi nessuno voleva questa opzione.

Ma se la Corte avesse approvato l’accordo di coalizione e Netanyahu tornasse a essere primo ministro, questo costituirebbe un precedente allarmante e pericoloso.

Ratificherebbe per la prima volta nella storia israeliana che un primo ministro iscritto nel registro penale possa guidare un governo.

Una tale sentenza non solo legittimerebbe la condotta illegale in un caso particolare, ma costituirebbe un precedente per i futuri leader che violino la legge, che saprebbero di poter mantenere il potere nonostante un comportamento immorale.

Governo ipertrofico

La Corte Suprema ha scelto l’ultima soluzione. Nonostante il discredito per la democrazia che questo comporta, ha approvato l’accordo di coalizione e il nuovo governo presterà giuramento la prossima settimana.

E produrrà un gabinetto ipertrofico con non meno di 52 membri tra ministri e vice ministri, la più ampia coalizione ministeriale nella storia della nazione. C’è qualcosa per tutti.

Il Movimento per la Qualità del Governo in Israele [associazione no-profit, ndtr.] che ha presentato la petizione, ha annunciato che pur avendo perso in tribunale avrebbe portato la lotta nelle piazze, organizzando una grande protesta per chiedere la rimozione di Netanyahu da primo ministro.

Ma sembra che le forze che invocano un’amministrazione etica e trasparente abbiano perso questo round. Il risultato è un sistema politico ancora più screditato e un elettorato più cinico che mai.

È passato un anno dalle prime elezioni di questa serie.

Ogni voto è finito in un vicolo cieco, senza che alcun partito avesse abbastanza voti per formare un governo stabile. Di conseguenza, né il parlamento né i vari ministeri hanno funzionato normalmente. In sostanza, il primo ministro ha governato a forza di decreti esecutivi.

Questo ha causato il caos, poiché la società ha affrontato questioni cruciali che richiedono il consenso nazionale, come la pandemia da Covid-19.

Il Ministro della Sanità che avrebbe dovuto guidare la lotta contro il contagio è stato contagiato lui stesso dopo aver violato le norme del suo stesso ministero e pregato in gruppo.

Verso l’annessione

Si potrebbe pensare che questo nuovo governo porrà fine all’impasse, ma è un’impressione sbagliata.

L’accordo firmato dalle parti specifica che lo scopo principale della coalizione è contrastare il coronavirus.

Tutte le altre questioni, compresi importanti affari esteri e questioni militari, saranno subordinate; l’unica eccezione è la proposta di annessione della Valle del Giordano, che è in fase di accelerazione per l’approvazione.

Questa misura è stata ampiamente condannata da importanti organi internazionali, ad eccezione dell’amministrazione Trump. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che la decisione dipende solo da Israele.

D’altra parte, circa 130 fra attuali ed ex deputati britannici hanno firmato una dichiarazione chiedendo sanzioni contro Israele se procederà con l’annessione.

L’annessione della Valle del Giordano, che comprende quasi un terzo del territorio palestinese, sembra inevitabile da parte di Israele.

Il fatto rafforzerà il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) come una delle forme più forti di resistenza popolare alle politiche espansionistiche coloniali israeliane.

Chiamerà inoltre in campo organismi internazionali come le Nazioni Unite e l’Unione Europea. L’espressione delle usuali inefficaci dichiarazioni di condanna metterà in evidenza l’impotenza di queste istituzioni nell’imbastire una reazione alle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.

Smantellare la soluzione dei due Stati

Uno degli esiti più rilevanti sarà il crollo definitivo della soluzione dei due Stati come possibile piano per risolvere il conflitto.

Perfino Dennis Ross, figura pro-Israele di spicco in quattro amministrazioni presidenziali statunitensi, ha twittato che impedendo l’ingerenza di palestinesi o altri leader arabi, l’annessione lascia sul tavolo solo un’opzione: la soluzione di un singolo Stato.

Questo, ovviamente, sarebbe un amaro risultato per uno dei principali attori filo-israeliani della politica americana in Medio Oriente.

Una volta che avremo rinunciato al miraggio dei due Stati, il prossimo scontro essenziale sarà su che tipo di Stato sarà quella struttura unitaria. Sarà basato sull’apartheid a consacrazione della supremazia ebraica, la visione del Likud, o uno stato democratico per tutti i cittadini?

Il vantaggio di un singolo Stato, anche gestito da un sistema di apartheid, è che il mondo non sarà più ingannato e indotto a credere che esista un’alternativa.

Dovrà decidere se sia accettabile un singolo Stato che offre maggiori diritti agli ebrei e ai palestinesi le briciole del tavolo ebraico.

Alla fine, il mondo arriverà a capire che questo sistema non è più sostenibile dell’apartheid sudafricano.

Sfortunatamente, lo sconsiderato comportamento di Israele non impedirà ai ranghi politici americani di aggrapparsi disperatamente alla soluzione dei due Stati.

Anche se è uno scheletro perfettamente scarnificato, i candidati presidenziali come Joe Biden si aggrappano ad esso come a un salvagente sul Titanic. Il risultato di sposare una tale illusione è che consente a Israele di procedere con tutti i suoi piani espansionistici, riducendo gli Stati Uniti all’impotenza.

Amministrazione instabile

Non preoccupiamoci, tuttavia; il governo israeliano recentemente approvato sarà estremamente debole e instabile.

Secondo l’accordo, nessuno dei due partiti (Likud e Blu e Bianco) può avanzare proposte legislative a meno che l’altro non approvi. Questa è la ricetta per uno stallo continuo.

Inevitabilmente, una parte o l’altra provocherà o sarà provocata sino a minacciare di rovesciare l’accordo. Questo governo è un perfetto esempio di ciò che diceva Yeats: “Il centro non può tenere”.

Se le uniche cose certe nella vita sono la morte e le tasse, in Israele c’è una terza certezza: l’ennesima elezione nei prossimi mesi.

Perché in scena c’è anche un King Kong che rimesterà le cose a piacere: il processo di Netanyahu.

Il cui risultato potrebbe far deragliare completamente il governo, dal momento che la legge israeliana proibisce a un primo ministro condannato di mantenere la carica.

Quindi o il Parlamento dovrà cambiare la legge – il che è improbabile, dato che Likud da solo non ha abbastanza voti per farlo – o Netanyahu potrebbe cadere.

Questo risultato potrebbe mandarlo in prigione, porre fine alla sua carriera e portare a una quarta elezione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein tiene un blog, Tikun Olam, che denuncia gli eccessi dello stato di sicurezza nazionale israeliano. I suoi articoli sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito con un saggio al libro dedicato alla guerra del Libano del 2006, A Time to Speak Out (Verso) e con un altro saggio a Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood (Rowman & Littlefield)

(tradotto dall’inglese da Luciana Galliano)




Il mondo deve fermare le annessioni di Israele e cancellare la sua colonizzazione della Palestina

Ramona Wadi

9 maggio 2020 The Palestine Chronicle

Le critiche del relatore speciale delle Nazioni Unite Michael Lynk nei confronti della incombente annessione da parte di USA-Israele di altri territori palestinesi offrirebbero un buon punto di partenza per un’azione politica collettiva contro Israele se solo la comunità internazionale dimostrasse tale determinazione.

“Il piano consoliderebbe un’apartheid del 21° secolo e avrebbe come conseguenza la fine del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione. Legalmente, moralmente, politicamente, questo è del tutto inaccettabile”, ha dichiarato Lynk.

Il funzionario delle Nazioni Unite ha descritto le ripercussioni dell’annessione come l’apertura di un varco per “una cascata di conseguenze negative sui diritti umani” e ha insistito sul fatto che la comunità internazionale non possa più svolgere un suo ruolo accondiscendente nei confronti delle violazioni israeliane. “L’incombente annessione è una cartina di tornasole politica per la comunità internazionale. – ha avvertito – Questa annessione non sarà annullata con i rimproveri, né l’occupazione che persiste da 53 anni morirà di vecchiaia”.

Questa non è la prima volta che Lynk rivolge verso Israele una critica più severa rispetto ai pacati commenti tipici dei funzionari e delle istituzioni delle Nazioni Unite. In passato, ha caldeggiato sanzioni internazionali contro Israele e ha sostenuto la Corte Penale Internazionale (CPI) nelle sue indagini sui crimini di guerra israeliani contro il popolo palestinese.

Le parole di Lynk attirano l’attenzione sulle falle politiche delle Nazioni Unite e sull’appoggio alle violazioni dei diritti umani commesse dai suoi stati membri. Mentre Israele va verso l’annessione, è improbabile che la comunità internazionale faccia una valutazione critica della propria complicità. I piani di annessione USA-Israele sono fondati su decenni di appoggio internazionale alla colonizzazione sionista.

Dichiararsi contrari all’annessione – uno degli ultimi passi che Israele sta intraprendendo per completare il suo progetto coloniale – non è sufficiente. Anche ridurre il processo di colonizzazione ai “53 anni di occupazione” è incoerente ed è una falsa rappresentazione delle cause della cacciata dei palestinesi.

Gli Stati Uniti potrebbero al momento giocare un ruolo preminente, ma la comunità internazionale ha enfatizzato la relazione USA-Israele per distogliere l’attenzione dal processo storico che ha portato all’attuale evoluzione. Il sostegno della comunità internazionale al progetto di colonizzazione israeliano è una grave violazione che rimane sottovalutata. Ciò che Stati Uniti e Israele hanno ottenuto sotto l’amministrazione Trump è il riflesso di un ciclo continuo di intenzionale silenzio politico a livello globale.

Con l’accensione dei riflettori sulla collusione USA-Israele, la comunità internazionale ha ottenuto una sospensione temporanea della valutazione critica delle sue azioni, in particolare della sua inazione quando sono in ballo i diritti politici del popolo palestinese.

In verità, l’azione della comunità internazionale può essere riassunta nel Piano di partizione del 1947, dopo di che il ricorso a dichiarazioni e condanne divenne il mezzo accettato diplomaticamente per sostenere nelle apparenze i diritti dei palestinesi. Le dichiarazioni di Lynk, sebbene prive di riferimenti diretti alla colonizzazione israeliana, puntano il dito contro una responsabilità internazionale.

Negli ultimi anni il compromesso sui due Stati rimane la prova più palese della responsabilità internazionale nell’impedire la rivendicazione palestinese sulla propria terra e i propri diritti. Proprio come l’annessione è stata dichiarata una violazione del diritto internazionale, anche la diplomazia dei due Stati deve essere ritenuta responsabile del fatto di aver aperto la strada all’annessione.

Ciò richiede un completo ripensamento della politica che le Nazioni Unite hanno sostenuto finora. Non ci può essere un fronte politico unificato contro Israele se non viene abbandonata la politica dei due Stati. Per fermare l’annessione è necessaria una cessazione della colonizzazione israeliana; qualsiasi provvedimento meno severo costituirebbe un’affermazione di tradimento contro il popolo palestinese.

– Ramona Wadi è una redattrice dello staff di Middle East Monitor, dove questo articolo è stato originariamente pubblicato. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I palestinesi promettono di sfidare l’ordine israeliano sulla questione dei pagamenti ai prigionieri

MEE e agenzie

9 maggio 2020 – Middle East Eye

L’ordine militare israeliano sospenderebbe i sussidi destinati a sostenere i prigionieri e le loro famiglie

Venerdì notte i leader palestinesi hanno promesso di sfidare un ordine militare israeliano che potrebbe sospendere i pagamenti straordinari destinati a sostenere i prigionieri, i loro parenti e le famiglie delle persone uccise durante i disordini.

L’ordine, che dovrebbe entrare in vigore sabato, minaccia multe e carcere per chiunque effettui tali pagamenti e nei giorni scorsi ha sollecitato le banche palestinesi a chiudere i conti dei prigionieri e delle loro famiglie. Israele considera il programma [di sussidi] una ricompensa per la violenza e da tempo cerca di eliminarlo.

Il Times of Israel ha riferito che Ramallah [il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ha promesso di proseguire i sussidi a circa 11.000 persone e famiglie, descrivendoli come una forma di welfare sociale e di compensazione per ciò che sostiene essere un iniquo sistema di giustizia militare.

I prigionieri e le loro famiglie sono per lo più considerati eroi da molti palestinesi e la chiusura dei conti bancari ha scatenato una furiosa reazione. Due filiali di una banca, la Cairo Amman Bank, sono state attaccate nella notte; una è stata data alle fiamme e l’altra presa a colpi di fucile.

Ci sono 13 banche attive nelle zone della Cisgiordania governate dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il Times ha riportato che sette di esse sono di proprietà palestinese, cinque sono giordane e una egiziana.

Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi, quattro banche hanno iniziato a chiudere i conti.

In un comunicato visionato dalla agenzia Reuters l’esercito israeliano ha affermato che l’ordine militare gli consente di sequestrare le risorse appartenenti a coloro che commettono un crimine contro la sicurezza.

Ma venerdì notte il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha detto che le banche hanno accettato di riaprire i conti. “Le famiglie dei prigionieri possono attivare i loro conti bancari a partire da domenica,” ha affermato in una dichiarazione. “Respingiamo le minacce israeliane alle banche riguardo fondi destinati ai prigionieri e ai martiri e non ci piegheremo ad esse.”

Samer Bani Odeh, un cinquantunenne rilasciato nel 2011 dopo aver trascorso 16 anni in un carcere israeliano per appartenenza ad un gruppo armato, ha detto alla Reuters che la Cairo Amman Bank gli aveva comunicato la chiusura del suo conto.

Un dirigente della banca di Nablus ci ha incontrati (un gruppo di prigionieri) e ha detto: ci dispiace, ma dobbiamo chiudere i vostri conti. Questo non dipende da noi,” ha detto Odeh.

L’Associazione delle Banche in Palestina ha difeso la chiusura dei conti in quanto finalizzata a proteggere i beni dei prigionieri dal sequestro e le banche dalla punizione israeliana. Ha invitato l’ANP a trovare un altro modo per effettuare i pagamenti.

L’Autorità Nazionale Palestinese dispone di un limitato autogoverno in alcune parti della Cisgiordania, terra occupata da Israele dalla guerra del 1967 ed in cui vivono circa 3 milioni di palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il mio primo lockdown è stato durante la prima Intifada

Majed Abusalama

9 maggio 2020 – Al Jazeera

Vivere un blocco totale in Europa mi ha fatto ricordare la mia infanzia a Gaza durante la rivolta palestinese.

Il 23 marzo la Germania annunciava misure su scala nazionale per prevenire un’ulteriore diffusione del coronavirus. Si consigliava alla gente di stare a casa e venivano proibiti gli assembramenti pubblici; si chiudevano ristoranti e pub. Giorni prima erano state chiuse le scuole e poi palestre, cinema, musei e altri posti pubblici. E così è cominciata la vita in lockdown.

Per molti dei miei amici tedeschi questa era la prima volta che sperimentavano tali restrizioni imposte dal governo. Il blocco a Berlino, dove ora vivo, a me ha riportato alla mente ricordi della prima Intifada.

Ero solo un bambino quando nel dicembre 1987 è cominciata la rivolta nel campo profughi di Jabalia a Gaza, il mio luogo di nascita. Quando finì avevo l’età per andare a scuola. Blocco totale, coprifuoco e una varietà di restrizioni sono tutto quello che ho vissuto per i primi sei anni della mia vita.

L’Intifada era scoppiata dopo l’uccisione di quattro palestinesi da parte di soldati israeliani a un posto di blocco del nostro campo. Quando folle di palestinesi uscirono per protestare contro le morti, i militari israeliani aprirono il fuoco e uccisero un altro palestinese.

Le uccisioni furono solo la miccia: la vera ragione erano decenni di brutale occupazione militare e apartheid che il mio popolo aveva sopportato mentre vedeva la nostra terra colonizzata da occupanti ebrei europei e americani che arrivavano dall’estero.

In tutta la Palestina storica esplose la protesta. A lacrimogeni e pallottole israeliani, i palestinesi risposero con fionde e pietre. L’esercito di occupazione israeliano e i “civili” israeliani “ uccisero 1.500 palestinesi, più di 300 dei quali erano i bambini.

Davanti a una rivolta popolare che la repressione non riusciva a domare, il governo israeliano cominciò a imporre varie modalità di blocchi per cercare di controllare la popolazione palestinese, cosa che diede inizio a una lunga campagna locale di resistenza.

I coprifuoco andavano e venivano. Gli israeliani li imponevano di volta in volta per giorni, settimane o persino mesi. Secondo la studiosa americana Wendy Pearlman, durante il primo anno dell’Intifada l’esercito di occupazione israeliano impose a varie comunità palestinesi dei coprifuoco di ventiquattro ore al giorno per più di 1600 volte.

In quei periodi non potevamo uscire. Qualche volta finivamo il cibo e mia nonna e le zie dovevano rischiare la vita per uscire e cercare di comprare delle provviste.

Il cibo era scarso perché ai contadini non era permesso di andare nei campi. Molti prodotti marcirono perché nessuno li raccoglieva.

Università e scuole chiusero, con un’intera generazione di bambini e ragazzi palestinesi che ritardarono la propria formazione. Non avevamo parchi o giardini pubblici dove giocare. Anche le spiagge erano state “chiuse” dagli israeliani.

Ma le molte restrizioni, la costante persecuzione e le continue uccisioni non riuscirono a spezzare lo spirito dei palestinesi. In tutta la Palestine storica si crearono dei comitati di resistenza popolare che coordinavano varie attività per aiutare la gente. Mio padre, Ismael, era impegnato nell’organizzazione del comitato nel nostro campo.

Le donne coltivavano prodotti in casa e sui tetti e fondarono cooperative agricole che chiamarono ‘orti della vittoria’ per creare un’economia palestinese autonoma e permettere il boicottaggio dei prodotti israeliani. I comitati dei commercianti organizzarono scioperi; quelli sanitari crearono cliniche di emergenza, quelli addetti all’istruzione organizzarono classi clandestine. Tutti contribuirono come potevano per aiutare la loro comunità e nessuno fu lasciato senza sostegno. 

Naturalmente tutto ciò fece arrabbiare gli israeliani. Ricordo chiaramente che quando avevo quattro anni i soldati israeliani fecero irruzione e cominciarono a distruggere le nostre cose. Era la punizione per le attività politiche di mio padre, un evento di cui furono ripetutamente vittime molte famiglie.

Mio padre fu anche spesso interrogato e imprigionato per settimane, talvolta mesi. Una volta, dopo un interrogatorio di un’ora, un comandante israeliano gli chiese se avesse qualcosa da dire. Mio padre rispose che voleva un permesso per andare dalle sue api. Il comandante ridendo disse: “Stai per finire in galera fra poco e pensi alle tue api?” Mio padre rispose che doveva occuparsene sennò sarebbero morte e quelle api davano da mangiare alla sua famiglia. Quella volta mio padre rimase in carcere per una settimana. Le api non sopravvissero.

Incominciammo a dipendere dal salario della mamma che faceva l’infermiera in una clinica UNRWA [Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa specificamente dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ndtr.]. Dovendo andare a lavorare ogni giorno anche durante il coprifuoco aveva un permesso per attraversare i posti di blocco degli israeliani. Curava molti degli adolescenti del nostro campo che venivano picchiati o feriti dai soldati israeliani. Secondo l’ong Save the Children, nei primi due anni tra le 23.600 e 29.900 persone ebbero bisogno di aiuto medico per le ferite riportate.

Nell’estate del 1991, a mia mamma vennero le doglie. Dato che all’epoca nel campo profughi c’erano pochi telefoni, non riuscimmo a chiamare l’ambulanza e comunque non avrebbe potuto entrare durante il coprifuoco. Così fu costretta ad andare a piedi fino alla clinica UNRWA, a un chilometro di distanza. Fece tutta la strada appoggiandosi alla nonna che sventolava un fazzoletto bianco, nella speranza che i soldati israeliani non sparassero.

Non lontano da casa, i soldati puntarono le armi contro di loro e le costrinsero a fermarsi. Cominciarono a fare delle domande a mia mamma sul motivo per cui avevano infranto il coprifuoco anche se era ovvio che stava per partorire e che poteva a malapena reggersi in piedi. “Fu un momento spaventoso,” mi ha poi raccontato. “Stavo cercando di proteggere la mia pancia dalle loro armi mentre si susseguivano le dolorose contrazioni.”

Poi le lasciarono andare e quella sera la mamma diede alla luce la mia sorellina,Shahd. La mattina sfidarono nuovamente il coprifuoco e tornarono a piedi a casa. Noi eravamo tutti felici di rivedere loro e la sorellina.

La vita era estremamente difficile per noi, ma i miei genitori ricordano sempre l’Intifada come un momento di liberazione e spesso dicono: “Non abbiamo rinunciato alla resistenza. Non siamo diventati delle vittime sottomesse.” Anzi, i palestinesi diedero l’esempio di una lotta dal basso raramente vista prima di allora.

Ed eccomi qua oggi, oltre trent’anni dopo, di nuovo a vivere in un lockdown che è però molto diverso. Non ci sono proiettili ricoperti di gomma o veri, o candelotti lacrimogeni a colpire la gente che cammina in strada; non ci sono checkpoint; nessuna repressione violenta come l’avevo vissuta in Palestina.

Anch’io sono in ansia, come i miei amici tedeschi, per la situazione qui, ma quasi tutto il tempo la mia mente va a Gaza.

La mia famiglia vive ancora nel campo profughi di Jabalia, densamente popolato, dove il distanziamento fisico è impossibile. Nel nostro campo vivono più di 113.000 persone su una superficie di poco più di mezzo chilometro quadro.

A Gaza già diciassette persone sono risultate positive. Le autorità locali e le organizzazioni internazionali hanno già avvertito della possibilità di una catastrofe imminente.

Sento la preoccupazione dei miei genitori, specialmente di mia mamma che continua a lavorare per la clinica dell’UNRWA. Lei corre un grosso rischio ogni volta che va al lavoro, dove ogni giorno assiste decine di persone. Il sistema sanitario a Gaza è stato compromesso per anni dall’assedio soffocante imposto da Israele ed Egitto sulla Striscia e da varie guerre distruttive lanciate dall’esercito israeliano contro il mio popolo. La situazione è estremamente delicata e una grande epidemia di coronavirus causerebbe un disastro.

A differenza della Germania, dove il governo sta già allentando le misure e parlando di un ritorno alla “normalità” in futuro, a Gaza la mia gente si sta preparando per il peggio. La morte e le sofferenze che questa epidemia potrebbe infliggere ai palestinesi sarebbero un altro episodio della lunga lista di crimini di guerra che gli israeliani hanno commesso contro di noi e peserà notevolmente sulla coscienza della comunità internazionale che ci ha abbandonati.

In questi giorni continuo a chiedermi se il mondo ci ha dimenticati, accettando le nostre condizioni di vita disumane, o se questa volta farà qualcosa e riterrà Israele responsabile.

Le opinioni espresse in quest’articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera. 

Majed Abusalama è un pluripremiato giornalista palestinese, studioso, attivista e difensore dei diritti umani.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




100 anni di vergogna: l’annessione della Palestina è iniziata a Sanremo

Ramzy Baroud

6 MAGGIO 2020 – Mondoweiss

Cento anni fa, i rappresentanti di poche grandi potenze si incontrarono a Sanremo, una tranquilla cittadina italiana sulla riviera ligure. Insieme, segnarono il destino dei vasti territori sottratti all’Impero ottomano in seguito alla sua sconfitta nella prima guerra mondiale.

Fu il 25 aprile 1920 che la Risoluzione della Conferenza di Sanremo venne approvata dal Consiglio Supremo degli Alleati dopo la prima guerra mondiale. Furono istituiti dei protettorati occidentali in Palestina, Siria e “Mesopotamia” – Iraq. Gli ultimi due furono teoricamente stabiliti in vista di una provvisoria autonomia, mentre la Palestina fu concessa al movimento sionista perché vi realizzasse una patria per gli ebrei.

Si legge nella risoluzione: “Il Protettorato sarà responsabile dell’attuazione della dichiarazione (Balfour), redatta originariamente l’8 novembre 1917 dal governo britannico e condivisa dalle altre potenze alleate, a favore dell’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebreo”.

La risoluzione assegnava un maggiore riconoscimento internazionale alla decisione unilaterale della Gran Bretagna, di tre anni prima, di concedere la Palestina alla federazione sionista allo scopo di stabilirvi una patria ebraica, in cambio del sostegno sionista alla Gran Bretagna durante la Grande Guerra.

E, come nella Dichiarazione Balfour britannica, fu fatta sbrigativa menzione degli sfortunati abitanti della Palestina, la cui storica patria veniva ingiustamente confiscata e consegnata ai coloni.

L’istituzione di quello Stato ebraico, sulla base della risoluzione di Sanremo, faceva riferimento ad un vago “accordo” secondo cui “nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebraiche in Palestina”.

L’aggiunta di cui sopra fu semplicemente un misero tentativo di apparire politicamente equilibrati, mentre in realtà non venne mai messo in atto alcuno strumento di applicazione per garantire che l’ “accordo” fosse mai rispettato o messo in pratica.

In effetti, si potrebbe sostenere che il lungo coinvolgimento dell’Occidente nella questione israelo-palestinese abbia seguito lo stesso schema della risoluzione di Sanremo: per cui al movimento sionista (e quindi a Israele) vengono salvaguardati i suoi obiettivi politici, soggetti a condizioni inapplicabili che non vengono mai rispettate o messe in pratica.

Si noti come la stragrande maggioranza delle risoluzioni delle Nazioni Unite relative ai diritti dei palestinesi sia stata storicamente approvata dall’Assemblea generale, non dal Consiglio di Sicurezza, dove gli Stati Uniti sono una delle cinque grandi potenze che esercitano il diritto di veto, sempre pronti ad affossare qualsiasi tentativo di far rispettare il diritto internazionale.

È questa dicotomia storica che ha portato all’attuale situazione di stallo politico.

Le leadership palestinesi, una dopo l’altra, fallirono nel cambiare l’opprimente paradigma. Decenni prima dell’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, numerose delegazioni, comprese quelle che rivendicavano la rappresentanza del popolo palestinese, percorsero l’Europa, facendo appello a un governo e all’altro, patrocinando la causa palestinese e chiedendo giustizia.

Cosa è cambiato da allora?

Il 20 febbraio, l’amministrazione Donald Trump ha pubblicato la propria versione della Dichiarazione Balfour, definita “Accordo del Secolo”.

L’iniziativa americana che, ancora una volta, ha infranto il diritto internazionale, apre la strada per ulteriori annessioni coloniali israeliane della Palestina occupata. Minaccia sfacciatamente i palestinesi che, nel caso non collaborino, saranno severamente puniti. In realtà lo sono già stati, nel momento in cui Washington ha tagliato tutti i finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e alle istituzioni internazionali che forniscono aiuti primari ai palestinesi.

Come nella Conferenza di Sanremo, nella Dichiarazione Balfour e in numerosi altri documenti, a Israele è stato chiesto, sempre in modo educato ma senza alcuna formale imposizione di tali richieste, di concedere ai palestinesi alcuni gesti simbolici di libertà e indipendenza.

Alcuni potrebbero sostenere, e giustamente, che l’Accordo del Secolo e la risoluzione della conferenza di Sanremo non sono identici nel senso che la decisione di Trump è stata unilaterale, mentre Sanremo è stato il risultato del consenso politico tra vari paesi – Gran Bretagna, Francia, Italia e altri.

È vero, ma due punti importanti devono essere presi in considerazione: in primo luogo, anche la Dichiarazione Balfour è stata una decisione unilaterale. Gli alleati del Regno Unito impiegarono tre anni per accettare e condividere la decisione illegale presa da Londra di concedere la Palestina ai sionisti. La domanda ora è: quanto tempo impiegherà l’Europa a sostenere come proprio l’Accordo del Secolo?

In secondo luogo, lo spirito di tutte queste dichiarazioni, promesse, risoluzioni e accordi è lo stesso, per cui le superpotenze decidono in virtù del loro enorme potere di riorganizzare i diritti storici delle nazioni. In qualche modo, il colonialismo del passato non è mai veramente morto.

L’Autorità Nazionale Palestinese, come le precedenti leadership palestinesi, è trattata con la proverbiale carota e bastone. Lo scorso marzo, il genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Jared Kushner, ha detto ai palestinesi che se non fossero tornati ai negoziati (inesistenti) con Israele, gli Stati Uniti avrebbero sostenuto l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele.

Ormai da quasi tre decenni e, certamente, dalla firma degli accordi di Oslo nel settembre 1993, l’ANP ha scelto la carota. Ora che gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare del tutto le regole del gioco, l’Autorità di Mahmoud Abbas sta affrontando la sua più grave minaccia esistenziale: inchinarsi a Kushner o insistere per il ritorno a un paradigma politico morto che è stato costruito, quindi abbandonato, da Washington.

La crisi all’interno della leadership palestinese viene affrontata con assoluta chiarezza da parte di Israele. La nuova coalizione di governo israeliana, composta dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, in precedenza rivali, ha raggiunto un accordo provvisorio sul fatto che l’annessione di vaste aree della Cisgiordania e della Valle del Giordano sia solo una questione di tempo. Stanno semplicemente aspettando il cenno di assenso americano.

È improbabile che debbano aspettare a lungo, poiché il segretario di Stato, Mike Pompeo, il 22 aprile ha affermato che l’annessione dei territori palestinesi è “una decisione israeliana”.

Francamente, ha poca importanza. La Dichiarazione Balfour del 21° secolo è già stata fatta; si tratta solo di trasformarla nella nuova realtà incontestata.

Forse è giunto il momento per la leadership palestinese di capire che strisciare ai piedi di coloro che hanno ereditato la Risoluzione di Sanremo, costruendo e sostenendo la colonizzazione israeliana, non è mai e non è mai stata una risposta.

Forse è il momento per un serio ripensamento.

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro di studi globali e internazionali di Orfalea, UCSB.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Euro-Med: l’acquisto da parte dell’UE di droni israeliani favorisce la violazione dei diritti umani nella Palestina occupata

Palestine Chronicle, WAFA [Agenziadi Stampa Palestinese], Social Media

5 maggio 2020 – Palestine Chronicle

LEuro-Mediterranean Human Rights Monitor [Monitoraggio Euromediterraneo dei Diritti Umani, organizzazione non governativa, ndtr.] (Euro-Med) con sede a Ginevra ha affermato oggi in un comunicato che i contratti per 59 milioni di euro stipulati dall’Unione Europea con industrie belliche israeliane per la fornitura di droni da guerra per la sorveglianza dei richiedenti asilo in mare sono immorali, di dubbia legittimità giuridica e favoriscono le violazioni di diritti umani nella Palestina occupata.

Secondo quanto riportato, i 59 milioni di euro dei recenti contratti dell’UE per i droni sono andati a due industrie belliche israeliane: Elbit Systems e Israel Aerospace Industries, IAI. L’Hermes 900 di Elbit è stato sperimentato sulla popolazione della Striscia di Gaza assediata nella guerra israeliana del 2014 contro Gaza, l’operazione Margine Protettivo.

Euro-Med ha affermato in una nota come questo investimento dimostri che l’UE sta investendo in attrezzature israeliane il cui “pregio” è stato dimostrato nel corso dell’oppressione del popolo palestinese e dell’occupazione del suo territorio. E ha aggiunto che questo acquisto di droni va visto precisamente come supporto e incentivo all’uso sperimentale di tecnologia militare da parte del regime repressivo israeliano.

“È scandaloso che l’UE acquisti droni dai produttori israeliani considerando i modi repressivi e illegali con cui sono stati usati nell’oppressione dei palestinesi, che vivono sotto occupazione da più di cinquant’anni”, ha affermato il prof. Richard Falk [ebreo americano, professore emerito di diritto internazionale a Princeton, ndtr.], presidente del consiglio di amministrazione di Euro-Med.

“È anche inaccettabile e disumano che l’UE utilizzi dei droni, indipendentemente da come se li è procurati, per violare i diritti fondamentali dei migranti che rischiano la vita in mare per cercare asilo in Europa”, ha aggiunto il prof. Falk.

L’UE dovrebbe scoraggiare le violazioni dei diritti umani a danno dei palestinesi astenendosi dall’acquistare materiale bellico israeliano utilizzato nei territori palestinesi occupati, ha affermato Euro-Med.

“Israele, Paese super-esperto nella manipolazione del termine ‘sicurezza’, è sul punto di beneficiare grandemente dai relativi sviluppi. Sta già sfruttando abilmente la mentalità europea ossessionata dalla sicurezza per ampliare il suo spazio nel mercato delle armi”, hanno scritto Ramzy Baroud e Romana Rubeo in un recente articolo.

“Israele è il settimo esportatore di armi al mondo e sta emergendo come leader nell’esportazione globale di droni aerei”, hanno aggiunto Baroud e Rubeo.

“Il marchio israeliano è particolarmente popolare perché la sua tecnologia è ‘sperimentata in combattimento’. In effetti, l’esercito israeliano ha avuto ampie opportunità di testare le sue diverse armi e dispositivi di sicurezza contro i civili palestinesi “.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Un’avvisaglia del COVID-19

Sarah Algherbawi

29 Aprile 2020The Electronic Intifada

 

Con il coronavirus che devasta la terra, noi a Gaza ci siamo fatti forza per affrontare il massimo impatto.

Sovrappopolati, impoveriti e sottoposti a un assedio israeliano che ha falcidiato i nostri servizi sanitari, un’epidemia vera e propria qui sarebbe una catastrofe.

Non è un’iperbole. Di fatto, noi sappiamo già a quale miscela mortale siamo di fronte a Gaza, perché si è quasi verificata solo pochi mesi fa.

Il 7 dicembre (2019) una sciagura ha colpito la famiglia al-Louh a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, quando 30 congiunti hanno contratto il morbillo. Sono stati tutti ricoverati all’ospedale al-Aqsa.

La famiglia estesa al-Louh vive in uno stesso edificio –otto nuclei familiari su tre piani – che ospita circa 50 persone, cosa non rara nel contesto affollato e privo di spazio di Gaza. La prima persona infetta registrata con la malattia è stato un bambino di 4 anni. Ma il virus si è diffuso come un incendio tra i parenti: in tutto sono stati contagiati 17 minori, 8 uomini e 5 donne.

Nell’arco di un mese i membri della famiglia al-Louh – dai bambini agli adulti – hanno contratto il virus. Per la maggior parte ne sono guariti. Karam, di 31 anni, sposato con un figlio, ha perso la sua battaglia. Secondo il suo medico, Reem Abu Arban, Karam soffriva di problemi di salute pregressi che hanno compromesso il suo sistema immunitario.

È stata una tragedia familiare aggravata dal contagio di tutti i membri, vecchi e giovani. Non hanno voluto parlare con i media, ma una di loro, la madre di uno dei bambini contagiati, ha accettato di parlare con The Electronic Intifada in condizioni di anonimato.

In tre giorni la maggior parte della famiglia è stata contagiata. Non sapevamo che fosse morbillo, pensavamo fosse una normale influenza.”

La donna ha detto di essere stata profondamente sconvolta quando il suo unico figlio, che aveva allora 9 anni, ha contratto il virus.

All’inizio i medici ci hanno detto che era molto grave. Ma dopo cinque giorni di terapia ha incominciato a migliorare. Grazie a dio adesso sta bene ed è tornato alla normalità.”

Epidemia improvvisa

Il morbillo è un virus altamente infettivo che comporta gravi complicazioni, a volte letali. L’infezione normalmente si trasmette attraverso contatto diretto o per via aerea e si installa nelle vie respiratorie prima di diffondersi nel corpo.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il morbillo resta una delle principali cause di morte tra i bambini a livello mondiale.

I contagi della famiglia al-Louh fanno parte dei 965 casi sospetti di morbillo e dei 549 casi confermati a Gaza tra giugno 2019 e il 10 febbraio [2020], sempre secondo l’OMS.

Oltre a quello di Karam, l’epidemia ha causato un altro decesso.

Gaza ha avviato un programma di monitoraggio sanitario basato su indicatori nel 1986. Da allora solo nel 2000 vi è stato un caso confermato di morbillo.

Funzionari del Ministero della Sanità hanno detto di aver sospettato che il morbillo fosse stato importato. Secondo l’OMS le vaccinazioni contro il morbillo a Gaza hanno avuto un notevole successo, con il 97% di tasso di copertura tra il 2009 e il 2018.

Majdi Dhuhair, direttore di medicina preventiva al Ministero della Sanità, ha detto di sospettare che l’ultima epidemia sia arrivata dall’estero.

Alcuni Paesi confinanti presentano casi di morbillo a causa di individui che non hanno seguito il programma internazionale di vaccinazione. Pensiamo che il virus sia entrato a Gaza tramite viaggiatori.”

Tuttavia non tutti si vaccinano a Gaza. Questo sembra essere stato il caso della famiglia al-Louh, ha detto Dhuhair.

Diffusione

Nella prima settimana del 2020 il Ministero della Sanità ha lanciato un’altra campagna di vaccinazioni per tutti i bambini tra sei mesi e un anno.

Inoltre, il Ministero ha vaccinato circa 3.000 operatori sanitari in tutta Gaza dopo che 2 medici e 25 infermiere si sono ammalati di morbillo in seguito al contatto diretto coi pazienti.

Tra gli operatori sanitari contagiati vi era una dottoressa incinta di 3 mesi. La donna – che ha mantenuto l’anonimato – ha dovuto restare in isolamento fino alla guarigione. Non si può somministrare il vaccino alle donne in gravidanza.

Anche due ex colleghi mi hanno sorpresa rispondendo ad una richiesta dei social media di contatti con chi era stato contagiato.

Aysar Nasrallah, di 31 anni, e suo fratello Ahmad, di 29, hanno contratto entrambi il morbillo.

Ha iniziato Ahmad, che è andato in ospedale lamentando forti dolori alle ossa. Lì, un’analisi del sangue ha rivelato che aveva il morbillo.

Non sappiamo come Ahmad si sia contagiato”, ha detto Aysar. “E’rimasto a letto 16 giorni e in tutto il corpo gli sono comparse puntini rossi.”

Dopo che Ahmad è guarito, gli stessi sintomi si sono manifestati in suo fratello.

Non sapevo come il morbillo si trasmettesse da una persona all’altra e non pensavo che mi sarei contagiato, dato che faccio sport e seguo una dieta salutare.”

Sul baratro

Mentre l’epidemia di morbillo del 2019 a Gaza è stata probabilmente importata e messa sotto controllo relativamente in fretta, il settore sanitario di Gaza non offre molte speranze nel momento in cui il Covid-19 invade silenziosamente il mondo.

Dopo 13 anni di assedio e di sanzioni devastanti imposti da Israele, la carenza di farmaci, di attrezzature protettive e di letti per isolamento e in terapia intensiva è una realtà cronica a Gaza.

Gli attivisti per i diritti umani e gli esperti di sanità temono da tempo una catastrofe umanitaria se una pandemia scoppiasse a Gaza.

Pochi esperti si sono sorpresi dell’epidemia di morbillo. Tutti hanno paura della pandemia di coronavirus. Munir al-Bursh, capo del dipartimento farmacologico al Ministero della Sanità di Gaza, ha affermato che il totale collasso del settore della sanità di Gaza non fa che rendere “più probabile” la diffusione di ulteriori patologie.

Secondo il Ministero della Sanità locale, la metà di tutti i farmaci indispensabili è semplicemente introvabile a Gaza, e secondo le Nazioni Unite l’altra metà è disponibile per meno di un mese.

I dirigenti accusano Israele perché la potenza occupante ha la responsabilità legale del benessere dei palestinesi di Gaza. Ma non considerano senza colpa l’Egitto e l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, ha detto Ashraf al-Qedra, portavoce del Ministero della Sanità.

Sia Israele che l’Egitto vietano ai palestinesi di Gaza di andare a farsi curare all’estero, ha detto al-Qedra. La rivalità mai risolta tra Hamas e Fatah, la fazione prevalente nell’ANP in Cisgiordania, ha provocato la riduzione dell’assistenza finanziaria dalla Cisgiordania. Al-Bursh ha detto che l’ANP nel 2019 ha speso per Gaza meno del 10% del budget sanitario di 40 milioni di dollari.

Ma anche se a livello ufficiale hanno le mani legate a causa della cronica carenza di risorse e dell’assenza di progressi politici, sia nei confronti dell’ANP che di Israele, c’è chi a Gaza ha imparato qualcosa dall’epidemia di morbillo del 2019.

A Deir al-Balah, la persona della famiglia al-Louh che ha parlato a The Electronic Intifada è felice che suo figlio sia guarito dal morbillo, ma ha ancor più paura del contagioso coronavirus. Si attiene ad un’assoluta cautela.

Quella volta sono andata molto vicina a perdere mio figlio”, ha detto a The Electronic Intifada. “Adesso, con il coronavirus, sono ossessionata dal cercare di proteggerlo, soprattutto perché il settore sanitario di Gaza è così scadente.”

Sarah Algherbawi è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)