Paradosso nell’era del corona virus: il muro israeliano “protetto” dai palestinesi!

Suha Arraf

16 aprile 2020 +972 Magazine

Palestina Cultura è Libertà

È una storia che persino uno sceneggiatore avrebbe difficoltà a inventare: temendo che i palestinesi che lavorano all’interno della Linea Verde possano portare il nuovo coronavirus in Cisgiordania, i palestinesi stanno segnalando le rotture della barriera di separazione che divide Israele dai territori occupati. I membri dei Comitati popolari, che negli ultimi due decenni hanno promosso manifestazioni non violente contro il muro di cemento e le recinzioni metalliche che compongono la barriera, stanno cercando di ripararne i buchi.

Funzionari palestinesi affermano che il governo israeliano non riesce a mantenere adeguatamente la barriera, permettendo così ai lavoratori palestinesi di entrare liberamente Israele attraverso varchi aperti nella recinzione metallica e nei canali di drenaggio, e di tornare senza alcun tipo di controllo medico. Secondo i media israeliani, quasi i due terzi di tutti i casi confermati di COVID-19 nei Territori Occupati possono essere fatti risalire ai lavoratori palestinesi di ritorno da Israele.
Con una strana giravolta, alcuni hanno persino iniziato a vedere la barriera come una misura protettiva, sostenendo che ha contribuito a prevenire la più ampia diffusione di COVID-19 in Cisgiordania e ha permesso all’Autorità Palestinese di tenere sotto controllo il numero di casi .

Rafaa Rawajbeh, il governatore di Qalqilya nella Cisgiordania settentrionale, accusa Israele di aver intenzionalmente cercato di diffondere il coronavirus nei territori occupati. “È una cospirazione deliberata da parte di Israele”, afferma. “Perché adesso, per la prima volta, stanno aprendo cancelli e canali di drenaggio senza schierare soldati? È un chiaro tentativo di danneggiare noi e i nostri sforzi [per fermare la diffusione] in modo che ci sia un focolaio di malattia.

Rawajbeh non è l’unico a fare questa affermazione, che Israele ha negato con forza, definendolo “incitamento razzista”. Un funzionario della difesa israeliano ha minacciato di ridurre la libertà di movimento per il personale di sicurezza palestinese se la “campagna di incitamento” dovesse continuare – gli stessi ufficiali palestinesi che hanno stazionato ai posti di blocco in Cisgiordania per settimane per cercare di prevenire un’ulteriore diffusione della malattia. In altre parole, se l’Autorità Palestinese non smette di accusare Israele di consentire la diffusione del virus, Israele interverrà sulla capacità dell’AP di combattere quel virus.

Il governatore di Jenin Akram Rajoub rifiuta l’ affermazione di una cospirazione israeliana volta a peggiorare l’epidemia di coronavirus. “Se il virus si diffonde nei territori occupati”, dice, “anche Israele ne risentirà”.
Tuttavia, ritiene che Israele “voglia mettere in imbarazzo” l’AP. “Non possono tollerare l’idea che siamo riusciti a far acquisire credito all’Autorità palestinese”, afferma Rajoub. “Vogliono che sembriamo deboli di fronte alla nostra gente, perché incapaci di adempiere ai nostri obblighi”.

Oltre a indebolire l’AP, che finora ha avuto un relativo successo nel prevenire la diffusione del virus (al momento in cui scrivo, ci sono 308 casi confermati di COVID-19 e due decessi in aree controllate dall’AP, rispetto a 11.868 casi e 117 morti in Israele), Rajoub ritiene che l’altro obiettivo principale di Israele sia quello di risparmiare danni alla propria economia. Questo, dice, è il motivo per cui il governo sta prendendo “ogni misura possibile” per garantire che i lavoratori palestinesi siano in grado di raggiungere il loro posto di lavoro all’interno della Linea Verde.

Rajoub afferma di aver visto personalmente soldati israeliani in piedi pigramente mentre i lavoratori palestinesi entravano in Israele attraverso le rotture nel recinto di separazione. Questa settimana, dice che ha visitato Anin, un villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale, insieme a membri del Comitato di emergenza, istituito per servire i villaggi e le comunità lungo la barriera. Lì, gli è stato detto da un membro del Coordinamento Palestinese e del Quartier Generale di collegamento che le Autorità israeliane hanno avvertito che avrebbero sparato a chiunque si fosse avvicinato alla recinzione. Eppure ha visto tre palestinesi attraversare la barriera pienamente visibili a una jeep dell’esercito israeliano, mentre i soldati osservavano senza reagire.

“Vogliono che i lavoratori si infiltrino in Israele e stanno impedendo al Comitato di Emergenza e ai funzionari della sicurezza palestinese di raggiungere [la barriera] per fermarli”, afferma Rajoub.
La recinzione metallica nell’area di Jenin in Cisgiordania è “piena di brecce”, continua Rajoub. “Questo stava già accadendo prima del corona [virus], ma non ci preoccupavamo delle violazioni perché era nel nostro interesse che i lavoratori entrassero in Israele. Ma dal momento in cui è scoppiato il coronavirus, fa paura” aggiunge.

Israele sapeva esattamente dove era stata aperta la barriera anche prima della crisi del coronavirus, secondo Rajoub. Tuttavia, funzionari israeliani gli hanno detto che non hanno il budget per riparare il danno o forze di sicurezza sufficienti per proteggere la barriera. “Potrebbero fare qualcosa, ma non vogliono”, dice.

L’AP ha inviato le sue forze a Jenin e attraverso la Cisgiordania per impedire ai lavoratori palestinesi di avvicinarsi alla barriera per entrare in Israele, in coordinamento con i volontari del Comitato di emergenza. Le forze dell’AP hanno anche istituito posti di blocco all’interno della Cisgiordania per far rispettare le istruzioni del Ministero della Sanità palestinese e anche per monitorare il movimento dei lavoratori. Il primo ministro Mohammed Shtayyeh, conoscendo la sensibilità dei palestinesi nei confronti dei checkpoint, ha proposto di chiamarli “Love Checkpoint” o “Compassion Checkpoint”.

Il governatore di Qalqilya Rawajbeh dipinge un quadro simile a Rajoub. “Nella sola area di Qalqilya, ci sono più di 50 aperture in 54 chilometri [di recinzione]”, afferma. Analogamente a quanto testimoniato da Rajoub, Rawajbeh descrive come i canali di drenaggio di solito sigillati da griglie di ferro – messi in atto per impedire ai palestinesi di attraversare la Linea Verde – siano stati aperti giovedì scorso dai soldati israeliani, che hanno poi lasciato i canali incustoditi.

“I lavoratori sono passati [in Israele] attraverso questi canali e non c’erano soldati israeliani dall’altra parte”, dice Rawajbeh. Una troupe televisiva palestinese che filmava in quel sito giovedì ha usato uno di questi canali per andare in Israele; nel loro filmato, il reporter è visto in piedi sul lato israeliano della recinzione, senza nessun altro in giro.
“La loro scusa è che pioveva, motivo per cui hanno aperto le griglie”, dice. “Ma pioveva ben poco, mentono. “

Secondo Rawajbeh, le precedenti richieste dei palestinesi di aprire i canali al fine di prevenire le inondazioni, erano state accolte solo dopo colloqui formali e coordinamento con l’amministrazione civile, il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ma anche allora, la griglia è stata aperta per 2-3 ore al massimo, sotto la costante sorveglianza dei soldati israeliani dall’altra parte.
Giovedì, dice Rawajbeh, Israele ha ritardato la richiesta dei palestinesi di chiudere la griglia, il che significa che i lavoratori palestinesi sono stati in grado di attraversare liberamente dentro e fuori Israele, senza alcun tipo di controllo medico o di sicurezza al loro ritorno. Domenica, tuttavia, le griglie sono state chiuse nuovamente.

Riad Abu Hamdeh, 55 anni, residente nel villaggio di Hableh a sud di Qalqilya e direttore di una società per la sicurezza, si è offerto volontario durante la notte, con i Comitati popolari, per cercare di impedire ai lavoratori palestinesi di entrare in Israele. “Mi prendo cura del mio villaggio e della mia gente”, dice. “I paesi grandi e potenti stanno crollando a causa del coronavirus; l’Autorità [palestinese] ha poche risorse e Dio vieta che il virus si diffonda qui. “

Ci sono quattro brecce nel recinto attorno al suo villaggio e il cancello è aperto, dice Abu Hamdeh. I volontari lavorano in tre turni vicino alla recinzione, pattugliandone la lunghezza a una distanza di 50 metri da ogni breccia. Se si avvicinano, dice, i soldati apriranno il fuoco contro di loro.

“Non appena vediamo i lavoratori, proviamo a convincerli a tornare a casa”, spiega Abu Hamdeh. “Alcuni di loro si convincono; altri iniziano a discutere con noi, dicendo che non andranno in Israele solo se pagheremo loro il salario.
“Ci coordiniamo pienamente con le forze di sicurezza palestinesi”, continua. “Quando un lavoratore entra da Israele, arriva un’ambulanza e [l’equipaggio] effettua un controllo. Se cerca di andare in Israele, lo portano a casa. Durante il mio turno, siamo riusciti a rimandare indietro circa 20 lavoratori che stavano cercando di entrare in Israele. “

Abu Hamdeh afferma di aver visto come i soldati hanno aperto le cosiddette “porte agricole” nella recinzione. Queste porte consentono agli agricoltori palestinesi di raggiungere rapidamente la loro terra che è stata lasciata sul lato “israeliano” del muro, dopo l’ esame dei loro permessi di ingresso.
“Ho visto con i miei occhi come i soldati aprono le porte e se ne tengono alla larga”, dice. “Una volta abbiamo persino chiuso il cancello noi stessi. I soldati ci hanno visto e ci hanno urlato di tornare indietro. Non abbiamo le chiavi del cancello o alcun modo per chiuderlo, quindi lo chiudiamo con un filo di ferro, una corda o qualsiasi cosa abbiamo a disposizione. “

Poi Abu Hamdeh racconta di aver visto i soldati israeliani guardare mentre i lavoratori palestinesi attraversavano. “Hanno posto loro una domanda e non li hanno controllati”, afferma. “Questo è un nuovo fenomeno. Solo ai tempi del coronavirus. Prima del coronavirus chi avrebbe osato avvicinarsi alla recinzione? Gli avrebbero immediatamente sparato. “
“Prima del coronavirus, c’erano sempre due tre jeep militari che pattugliavano il recinto”, continua. “Oggi ce n’è solo una.”

Ma al di là dello strano comportamento dei soldati e del fatto che i palestinesi sono ora diventati i protettori della barriera, rimane la questione dell’Autorità Palestinese. “Onestamente si può dire che l’AP ha affrontato la crisi del coronavirus meglio degli israeliani”, afferma Rajoub, governatore di Jenin. Con le mani legate e con scarse risorse, l’AP ha fatto un lavoro migliore di Israele, che si considera una superpotenza in materia di scienza e medicina e l’unica democrazia in Medio Oriente, dice. “Abbiamo imbarazzato Israele. Abbiamo ottenuto risultati che Israele non ha ottenuto. Questo è ciò che ha causato la tensione e i problemi “.

Non si tratta affatto di gelosia, dice il sindaco. “Il loro interesse è politico. Il loro obiettivo è presentarci come deboli, sottomessi e sotto il controllo israeliano, il nostro custode. Stanno cercando di dirci: “Siamo i vostri benefattori, siamo quelli istruiti, siamo quelli con i mezzi e le capacità e voi non siete niente”.

Dato che la reputazione dell’AP sembra migliorare tra i palestinesi della Cisgiordania, afferma Rajoub, Israele è più determinato a indebolirla. “La crisi del coronavirus ha notevolmente rafforzato la posizione dell’Autorità tra il popolo palestinese”, afferma. “Questa è la prima volta da Oslo che io, in quanto membro del governo, sento che il popolo palestinese sta lodando le forze di sicurezza e il governo palestinese. [Israele] vuole indebolire l’AP e minare il morale e la fiducia del popolo palestinese nella sua leadership politica e di sicurezza “.

In risposta alle accuse secondo cui ha aperto i canali di drenaggio, il Coordinamento delle attività governative nei territori (COGAT), che sovrintende alla politica israeliana in Cisgiordania, ha espresso rammarico per il fatto che “mentre lo Stato di Israele sta aiutando l’Autorità palestinese a gestire meglio la lotta globale contro lo scoppio del coronavirus, il governatore di Qalqilya sceglie di parlare contro Israele. “

COGAT ha inoltre affermato che, in previsione della pioggia, le autorità hanno aperto i canali di drenaggio nell’area di Qalqilya per prevenire inondazioni “per il benessere dei palestinesi che vivono nell’area”. L’affermazione secondo cui i canali erano stati aperti per l’ingresso dei lavoratori senza controlli, è “falsa e sganciata dalla realtà”, ha aggiunto, questo tipo di procedura è comune durante il tempo piovoso e nota alle autorità palestinesi.

COGAT non ha risposto alla richiesta di riparare le aperture nella recinzione.
Per quanto riguarda le accuse secondo cui l’esercito israeliano non controlla i canali aperti e le aperture nella recinzione, consentendo così ai lavoratori di passare, il portavoce dell’IDF ha dichiarato che “contrariamente alle accuse, l’impegno difensivo continua come al solito”.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call.

Traduzione di Alessandra Mecozzi




La battaglia persa di Israele: il sostegno per la Palestina nelle università

Hatem Baziam

21 Aprile 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Palestine Legal [organizzazione indipendente impegnata nella difesa dei diritti dei palestinesi negli Stati Uniti, ndtr.] ha recentemente pubblicato un rapporto in cui rileva che la maggior parte delle azioni repressive nei confronti delle attività di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti è rivolta contro studenti e docenti. Nel dettaglio, tali episodi si sono verificati nei campus universitari per l’89% nel 2014 e per il 74% nel 2019. Mentre queste statistiche mettono in luce l’attuale battaglia che i sostenitori dei diritti dei palestinesi stanno affrontando nelle università, è anche fondamentale delineare lo sviluppo del sostegno per la Palestina nei campus universitari statunitensi. Tracciare quest’arco di 20-30 anni di storia consente una migliore comprensione non solo di come siamo arrivati a questo punto, ma anche dell’attuale crescente fenomeno delle campagne contro studenti e facoltà – e di come contrastarlo.

Questa testimonianza prevede innanzitutto un esame storico sul movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti e su come da esso si sia sviluppato il sostegno nei confronti dei palestinesi nei campus universitari, citando come esempio particolare Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina, ndtr.]. Analizzerà quindi la risposta di Israele e dei suoi sostenitori a questo fenomeno. L’ articolo, in definitiva, offre delle indicazioni su come il contesto universitario, nonostante gli attacchi, possa continuare a costituire e persino amplificare un clima che promuova la ricerca critica e il pensiero sulla Palestina, che a sua volta favorisca la lotta per i diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nascita del movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti

Il movimento per i diritti dei palestinesi negli Stati Uniti è cresciuto contemporaneamente ad altre battaglie globali, in particolare quelle contro il regime di apartheid sudafricano, contro l’intervento americano in America Centrale e contro l’attacco americano all’Iraq nella prima guerra del Golfo. Negli anni ’80 furono simultaneamente avviate campagne politiche interne, in particolare contro i tagli dell’amministrazione Reagan all’educazione, alla sanità e all’ambiente, così come contro la sua discutibile guerra alla droga, con il supporto del Comprehensive Crime Control Act del 1984 [la prima revisione complessiva del Codice Penale negli Stati Uniti dai primi anni del xx secolo, ndtr.], che ampliò il complesso industriale carcerario e promosse la criminalizzazione di massa di neri e ispanici. L’attivismo interno ha anche combattuto la riorganizzazione economica che, col pretesto di una riforma del welfare, ha rimosso la rete di protezione sociale e ha gettato nella povertà milioni di persone.

I movimenti progressisti sono nati da queste campagne che hanno collocato la Palestina in un ruolo più centrale rispetto a prima. L’attivismo palestinese e gli attivisti palestinesi hanno affrontato i cambiamenti nelle priorità nazionali e hanno sostenuto la lotta anti-apartheid, la campagna che ha combattuto l’espansionismo americano in America Centrale e il movimento contro la guerra in Iraq.

All’estremo opposto le organizzazioni filo-israeliane si sono collocate dalla parte sbagliata della storia: si sono opposte alle sanzioni contro il Sudafrica e hanno cercato di sostenere le vendite di armi israeliane al regime dell’apartheid. Allo stesso modo, hanno sostenuto Israele nel momento in cui offriva consigli e aiuti agli squadroni della morte centroamericani sponsorizzati dallo Stato. E in occasione dell’intervento americano in Medio Oriente, anche Israele e i suoi alleati hanno sostenuto gli sforzi bellici degli Stati Uniti, ritenendoli utili alla sicurezza di Israele.

Le mobilitazioni politiche progressiste e le lotte interne hanno reso la Palestina un tema centrale su cui organizzarsi. Solo 30 anni fa la sinistra politica degli Stati Uniti, nelle sue mobilitazioni per la pace, la giustizia e l’occupazione, dibatteva regolarmente sul consentire o meno la presenza di una bandiera palestinese, per non parlare di un oratore, su un palco. Oggi non si può tenere una mobilitazione politica su qualsiasi argomento, locale o globale, senza che la Palestina ne faccia parte, se non come principale soggetto, almeno come uno dei temi. Coloro che vorrebbero sostenere o parlare a favore di Israele, al contrario, hanno difficoltà ad ottenere spazio in queste tribune perché si sono completamente schierati dalla parte del complesso industriale militare di destra e dei suoi interventi perniciosi.

L’attacco israeliano del 2012 contro la Striscia di Gaza ha determinato un cambiamento decisivo nelle opinioni su Israele, sia dal basso che tra gli analisti politici. Entrambi i gruppi sono consapevoli che Israele infrange il diritto internazionale e che non dimostra nessun limite nel suo abuso dei diritti umani palestinesi. Inoltre, mentre un punto di vista filo-israeliano dominava inizialmente i media popolari, con il costante ritornello degli opinionisti secondo cui Israele ha “il diritto di difendersi”, gli spazi meno controllati dei social media e di Internet hanno ospitato una diversa narrazione che favorisce un settore più critico dello schieramento politico, tanto che i media popolari hanno effettivamente iniziato a cambiare.

Il sostegno per la Palestina nelle università

Insieme, e in parte grazie, al lavoro instancabile degli attivisti progressisti, gli sviluppi descritti sopra hanno consentito il rafforzamento del sostegno per la Palestina nei campus universitari. In effetti, una visione di solidarietà con la lotta dei palestinesi è diventata, nelle università, la posizione dominante. Un esempio di questo cambiamento è la fondazione e la proliferazione del gruppo Students for Justice in Palestine (SJP).

SJP venne fondata presso l’Università di Berkeley in California nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo. Prima della guerra negli Stati Uniti arrivava un numero considerevole di palestinesi per studiare, ma tale numero si ridusse quando lo scontro militare lasciò il passo agli anni del regime di sanzioni. Dato che Yasser Arafat aveva sostenuto Saddam Hussein durante la guerra, i palestinesi del Kuwait e del resto dei Paesi del Golfo vennero licenziati o costretti ad andarsene, con il risultato che molti di quei palestinesi che erano stati in grado di permettersi un’istruzione americana per i loro figli non ne ebbero più la possibilità. Senza studenti palestinesi nelle università statunitensi, scemarono i tentativi di organizzarsi a favore dei diritti dei palestinesi.

Allo stesso modo, questo fenomeno si verificò subito dopo gli Accordi di Oslo, che ridussero l’attivismo palestinese collegato al più ampio movimento transnazionale palestinese, poiché attraverso Oslo l’OLP accettò di limitare il proprio impegno internazionale contro Israele. Di conseguenza, gli attivisti palestinesi nei campus universitari non avevano più una base di supporto con un fondamento storico. Nel contesto dell’attivismo nelle università, l’OLP ebbe, sin dal suo esordio, un braccio universitario e giovanile forte, che si concretizzò nell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi (GUPS), con sezioni in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. In seguito alla trasformazione dell’OLP in Autorità Nazionale Palestinese, il ruolo, le capacità istituzionali e l’importanza del GUPS si ridussero.

Un modo alternativo di impegnarsi era quello di organizzarsi a favore della liberazione dei palestinesi come principio, accogliendo tutti gli studenti che desideravano lavorare per la giustizia in Palestina. Questa è stata la genesi di SJP, che ora ha più di 200 sezioni negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Molti di quegli studenti che si sono impegnati nel sostegno delle lotte di liberazione e dell’antirazzismo in Sud Africa, America Centrale e negli Stati Uniti hanno aderito a SJP perché hanno visto le connessioni tra le battaglie.

Allo stesso tempo, il numero di ebrei americani che non considerano più Israele la parte centrale della propria identità e che si identificano come antisionisti è in aumento. Un numero significativo è ora membro di SJP. Questi giovani non possono impegnarsi nella ribellione al complesso industriale carcerario, al militarismo, al razzismo e al discorso anti-immigrazione senza vedere nella Palestina una rappresentazione paradigmatica di ciò che sanno istintivamente che è sbagliato: l’apartheid israeliano.

In gran parte a causa del lavoro di SJP e di altri gruppi nelle università degli Stati Uniti e del mondo, Israele non ha più una causa da difendere dal punto di vista intellettuale e accademico. Questa evoluzione politica venti – trentennale deve essere presa in considerazione quando si ricerca il motivo per cui Israele stia ora agendo in modo disordinato nel cercare di ricostruire un sostegno, quando la diga delle menzogne e dell’opacità è già crollata.

La risposta disperata di Israele 

La perdita della posizione di Israele nel campo dell’istruzione superiore e tra l’intellighenzia americana ha spinto il Ministero degli Affari Strategici israeliano (IMSA) e i sostenitori di Israele a tentare freneticamente di invertire questa situazione. Vi è quindi una percentuale enorme di attacchi ai campus universitari. Tuttavia, l’unico strumento che i sostenitori di Israele e l’IMSA hanno per cercare di recuperare posizioni all’interno delle università è il rozzo potere della diffamazione. Pertanto progetti come Canary Mission [sito web che raccoglie dossier su attivisti, professori e organizzazioni studentesche che considera anti-israeliane e ne minaccia l’invio ai potenziali datori di lavoro, ndtr.] e il Lawfare Project [ong americana che professa un impegno contro l’antisemitismo attraverso il finanziamento di azioni legali, ndtr.] si rivolgono a studenti e docenti affermando che il sostegno per la Palestina e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) sono antisemiti.

Queste forze stanno contemporaneamente cercando di mobilitare gli organi legislativi statali e il Congresso perché vengano approvate delle leggi che proteggano Israele dal diritto alla libertà di parola quando si tratti della Palestina. Questo è un errore strategico, perché l’attenzione su un bavaglio preventivo sposta il dibattito su uno dei principali emendamenti [della costituzione USA, ndtr.] e diritti costituzionali, che finora rimane un diritto generalmente ben protetto nel contesto americano.

L’ uso della forza bruta da parte del governo israeliano dimostra la sua paura. In effetti, una dimostrazione di effettivo potere consiste nella possibilità di esercitare moderazione e di astenersi dall’uso della forza grazie alla paura del suo esercizio da parte delle persone. In questo senso Israele tenta disperatamente di ricostituire una barriera contro il calo della sua reputazione anche nella società statunitense nel suo complesso.

La base del Partito Democratico, nonché i suoi militanti, ad esempio, hanno abbandonato Israele come componente centrale del loro programma politico. Si può rintracciare questo fenomeno negli attacchi al presidente Obama da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ndtr.] a partire dal discorso di Obama al Cairo nel 2009 e fino agli attacchi contro il suo accordo con l’Iran, incluso il discorso di Netanyahu del marzo 2015 in una sessione congiunta del Congresso, che ha espresso l’esplicita opposizione del leader del governo israeliano al presidente degli Stati Uniti in carica. Questi attacchi hanno portato molti componenti del Partito Democratico a capire il collegamento degli attacchi mirati contro Obama all’ascesa del Tea Party [fazione di estrema destra del partito Repubblicano, ndtr.] e, in definitiva, di Trump, contribuendo a modificare nettamente la linea tradizionale del partito su Israele.

Anche i tentativi di Israele di usare il potere puro e semplice per mettere a tacere le critiche non sono piaciuti a molti democratici. Non sorprende quindi che Bernie Sanders stia cominciando a riconoscere che opporsi a Israele e mettere da parte l’AIPAC – sottolineando anche come l’AIPAC sia una “tribuna per il fanatismo” – non abbia più le stesse conseguenze negative in gran parte dell’elettorato del partito.

Anche se il decreto di Trump del dicembre 2019 per combattere l’antisemitismo nei campus universitari può apparire disastroso – l’ordine consente di de-finanziare le istituzioni sulla base della definizione di antisemitismo da parte dell’Alleanza Internazionale della Memoria dell’Olocausto [L’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] che include le critiche allo Stato israeliano, facendo sì che il sostegno alla Palestina sia “antisemita” – esso è importante per capire che lo status quo su Israele sia crollato fin dagli Accordi di Oslo. Questo decreto è uno sconsiderato tentativo di arginare quella spirale discendente. Inoltre, quando Trump mette il suo nome su qualcosa, una grande quantità di persone si oppone se non altro perché lo ha fatto lui. 

Naturalmente a breve termine ci saranno degli effetti negativi su studenti e docenti, come tentativi di chiusura degli studi sulla Palestina, molestie online e condanne contro dipartimenti e gruppi di studenti. Recenti attacchi contro il Center for Contemporary Arab Studies [Centro per gli studi Arabi Contemporanei, ndtr.] presso la Georgetown University e il SJP e la Columbia University Apartheid Divest [Columbia University Libera dall’Apartheid, ndtr.] alla Columbia University illustrano queste difficoltà.

Tuttavia, sebbene tali azioni possano avvantaggiare il governo israeliano e Trump nel breve termine, a lungo termine i cambiamenti nella posizione di Israele saranno irreversibili. Non è più possibile ridefinire la posizione di Israele nel contesto universitario e nella società civile in generale come uno Stato non ritenuto un trasgressore dei diritti umani e del diritto internazionale. Chi milita nel campo dell’istruzione superiore può impegnarsi per sostenere questa tendenza attraverso una serie di sforzi.

Promuovere la Palestina all’università

Gli studenti, i docenti e coloro che lavorano nelle istituzioni accademiche devono chiedere che la Palestina sia inclusa e coinvolta alle proprie condizioni. Pertanto, devono insistere su studi che esaminino e contestualizzino la Palestina senza interrogarsi se siano “buoni per Israele” o riguardo la loro relazione con il sionismo.

In questo senso è fondamentale un approccio alla Palestina nel contesto delle lotte internazionaliste per l’emancipazione, rendendola una parte della storia moderna condivisa dell’umanità, piuttosto che un’eccezione. Un corso potrebbe, ad esempio, mettere a confronto i movimenti di liberazione nell’Africa sub-sahariana e in Palestina. Tali studi prenderebbero in considerazione non solo il Sudafrica, ma esaminerebbero anche il collegamento del movimento palestinese con le campagne per l’unità africana e il loro impegno collettivo nei movimenti anti-coloniali e de-coloniali negli anni ’60 e ’70. Un altro corso potrebbe esaminare il rapporto tra Palestina e America Latina, dove esistono solide comunità palestinesi.

Docenti e studenti dovrebbero anche insistere sullo sviluppo delle capacità istituzionali all’interno di diverse università e contesti. Finora, Studi sulla Palestina è disponibile come programma di studio a sé stante solo alla Brown University e alla Columbia University. Gli studenti possono mobilitarsi nelle università per insistere sulla realizzazione di programmi allo stesso modo dei programmi di studi etnici sviluppati istituzionalmente negli anni ’60 e ’70. E’ anche fondamentale la creazione di programmi di studio all’estero in Palestina.

Anche gli accademici che lavorano in Palestina dovrebbero mobilitare risorse finanziarie per sostenere questi programmi. I palestinesi negli Stati Uniti e altrove non hanno prodotto uno sviluppo strategico di importanti finanziatori. Devono mobilitare questi donatori per investire in iniziative che avranno conseguenze positive a lungo termine per la lotta palestinese.

Infine, devono essere rafforzati studi legali che forniscono protezione in ambito accademico. Palestine Legal, fondata nel 2012, offre già un irrinunciabile supporto, ma tale impegno deve essere rafforzato e intensificato.

In breve, gli attacchi agli accademici, agli attivisti del SJP e alla Palestina devono essere compresi in un ambito storico di lunga durata e con una profonda consapevolezza del cammino verso la giustizia in atto nei campus universitari, a livello nazionale e internazionale. Le argomentazioni morali, etiche e intellettuali che si oppongono con successo agli sforzi israeliani ben finanziati e istituzionalmente connessi per la demonizzazione, dovrebbero aiutare a continuare la lotta per la liberazione palestinese e la fine dell’apartheid. Al cospetto di circostanze avverse, il futuro della Palestina si sta realizzando in primo luogo all’interno della Palestina storica, così come nei movimenti di solidarietà e del BDS in tutto il mondo e nei campus universitari. Proprio come l’apartheid in Sudafrica è stato messo nella pattumiera della storia, ci stiamo avvicinando a una libera Palestina.

Hatem Bazian

Consulente politico di Al-Shabaka, Hatem Bazian è professore associato presso i Dipartimenti di Studi Etnici e del Medio Oriente dell’Università di Berkely in California. Ha insegnato alla Boalt Hall School of Law di Berkeley ed è anche professore ospite in Studi Religiosi al Saint Mary’s College of California e tutor presso il Centro di religione, politica e globalizzazione di Berkeley, nonché presidente della Academic Affairs presso lo Zaytuna College of California [università musulmana di Berkeley]. Ha anche fondato il Centro per lo studio e la documentazione sull’islamofobia di Berkeley, un’unità di ricerca dedicata allo studio sistematico dell’ostilità preconcetta contro l’Islam e musulmani. È anche Presidente del Board of American Muslims for Palestine.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Il nuovo governo israeliano è pronto per un’annessione a luglio – e i leader palestinesi giurano di opporvisi

Philip Weiss  

20 Aprile 2020 Mondoweiss

Oggi ci sono grandi novità da Israele. Benny Gantz, l’uomo che per tre elezioni ha cercato di archiviare Netanyahu, si è arreso. Benjamin Netanyahu sarà primo ministro per i prossimi 18 mesi, durante i quali ci sarà il processo per corruzione; dopo di ciò Gantz diventerà primo ministro e l’accordo sulla divisione del potere prevede l’OK a partire da luglio per l’annessione di grandi parti della Cisgiordania occupata.

Barak Ravid dell’israeliana Channel 13 [canale della televisione israeliana, ndtr.] spiega l’accordo sull’annessione. La politica israeliana è semplicemente troppo a destra perché Gantz potesse mantenere la posizione. Questo è il “lascito” di Netanyahu e deve essere implementato mentre Trump è al potere:

L’accordo di coalizione tra Netanyahu e Gantz dice che Netanyahu può portare ‘le intese con l’amministrazione Trump’ sull’annessione di parti della Cisgiordania a una discussione di governo e a un voto o del governo o in parlamento a partire dal 1 luglio … Il desiderio di Netanyahu di annettere la Valle del Giordano e altre parti della Cisgiordania occupata è stato uno dei principali punti critici nei negoziati sul nuovo governo. Gantz ha rinunciato alla sua pretesa di avere potere di veto su qualsiasi decisione di annessione.”

Secondo l’accordo, Netanyahu e Gantz lavoreranno “in pieno accordo con gli Stati Uniti” per quanto riguarda il piano di Trump, incluso il punto di mappare quali parti in Cisgiordania gli Stati Uniti sono pronti a riconoscere come parte di Israele.

Netanyahu considera l’annessione di parti della Cisgiordania la sua principale eredità. Secondo i suoi collaboratori, vuole realizzarla abbastanza presto nel timore che alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti Trump possa perdere e con Joe Biden alla Casa Bianca la mossa sia resa impossibile…

L’accordo ha suscitato grida angosciate da parte dei sionisti liberali, e probabilmente resisterà allopposizione dei principali politici palestinesi della Lista Unita. Aida Touma-Sliman [giornalista e politica arabo-israeliana, ndtr.] scrive:

Il prossimo governo israeliano sarà pericolosamente di destra. Gantz è sceso in campo sperando di sostituire Netanyahu e ha finito per rafforzare la politica razzista e antidemocratica di quest’ultimo. Faremo opposizione a questo governo di annessione – durante la crisi di Covid e dopo.”

I politici palestinesi sono stati i grandi vincitori delle ultime elezioni, e sono rafforzati dalle ultime notizie. Ayman Odeh, responsabile della Lista Unita, scrive su Twitter [in ebraico, traduzione automatica]:

La resa di Gantz è uno schiaffo in faccia ai cittadini recatisi ripetutamente alle urne per estromettere Netanyahu. Gantz non ha avuto abbastanza coraggio per vincere e ha scelto di legalizzare l’annessione, il razzismo e la corruzione.”

Ahmad Tibi, deputato della Lista Unita e medico:

Blu e bianco [il partito di Gantz] ha sventolato la bandiera bianca. Si è arreso a tutti i dettami politici (l’annessione a luglio) e nella sfera civile si è arreso alla legge dello Stato Nazionale, alla legge di Kaminitz [che limita i permessi di costruzione palestinesi] … Vediamo nella lotta contro un governo di 52 ministri e vice ministri una sfida e una missione. Avverto la sconfitta di milioni di cittadini che volevano il cambiamento.”

L’annessione interessa circa il 30 % della Cisgiordania, compresi la valle del Giordano e gli insediamenti ebraici di oltre 620.000 coloni.

Il lobbista israeliano Martin Indyk afferma che Trump si schiererà con l’annessione per soddisfare la destra americana cristiana:

Coronavirus o no … questo è molto chiaro: Trump darà il via libera all’annessione per assicurarsi la base evangelica alle elezioni.”

Indyk esclude la Florida dal gioco di Trump: gli elettori ebrei potrebbero essere cruciali in quello stato altalenante.

L’opinione diffusa è che questo accordo sarà un test per le organizzazioni liberali sioniste negli Stati Uniti, se si opporranno all’annessione ora e coinvolgeranno i politici democratici contro di essa. Si noti che la scorsa settimana tale iniziativa ha portato 11 deputati a scrivere una lettera di opposizione all’annessione. Non esattamente una marea. Ma J Street [gruppo liberale statunitense filoisraeliano per la pace e la democrazia, ndtr.] ha recentemente appoggiato Joe Biden che ha accolto con favore il sostegno; è certo che prenderà posizione contro l’annessione.

Le organizzazioni liberali sioniste dovranno lavorare con i politici palestinesi se mirano a bloccare l’annessione.

Tamara Cofman Wittes, che sostiene Israele, dichiara di sperare che gli eventi in campo non sposteranno nulla verso un governo Biden …

L’approvazione di Trump non mette fine alla questione. Il riconoscimento presidenziale delle rivendicazioni territoriali è una cosa che dipende dalle decisioni dell’esecutivo e può essere immediatamente annullata da una nuova amministrazione.”

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Mancano meno di dieci giorni al Ramadan e le strade della Palestina sono irriconoscibili

Yumna Patel

16 aprile 2020 – Mondoweiss

Ogni anno i palestinesi di Gaza, Israele, Gerusalemme e della Cisgiordania si uniscono a milioni di musulmani di tutto il mondo nel celebrare il sacro mese islamico del Ramadan.

Per i palestinesi, questo periodo è non solo un intenso momento di devozione e preghiera, ma anche il momento per riunirsi con amici e familiari e osservare varie tradizioni.

Ma nel periodo in cui normalmente affollerebbero i mercati per fare la spesa e appenderebbero luminarie festose e altre decorazioni davanti alle loro case, le strade sono vuote e la solita frenesia in vista del Ramadan è stata sostituita da un’atmosfera triste.

Come in gran parte del resto del mondo, i palestinesi sono ancora in lockdown a causa del coronavirus che ha continuato a diffondersi in Israele e nei territori occupati costringendo la gente alla quarantena e al distanziamento sociale.

Dato che il Ramadan si incentra sulle riunioni, nelle moschee per pregare e intorno alla tavola per condividere il cibo con amici e familiari, i palestinesi e tutti i musulmani si trovano a far fronte ad un ennesimo problema a causa della pandemia.

Il sentimento che in questo momento provo io, e con me tutti i palestinesi, è di grande tristezza” dice a Mondoweiss Sheikh Abed al-Majid Amarna, 62anni, il muftì [autorità religiosa, ndtr.] del governatorato di Betlemme.

Quest’anno il Ramadan sarà molto diverso per tutti noi” sostiene Amarna. “Quindi dovremo trovare modi nuovi per adeguarci e celebrarlo comunque.”

I luoghi di preghiera restano chiusi

Quando agli inizi di marzo è iniziato il contagio a Betlemme, decine di moschee e chiese in città sono state chiuse, molte per la prima volta in decenni.

Finora tenere la gente lontana dalle moschee è stato relativamente facile, ma il mese del Ramadan di solito vede grande affluenza di devoti che vanno alle moschee a pregare insieme, dato che il Corano dice che la preghiera collettiva vale di più di quella fatta da soli.

La gente è molto triste per il fatto che il Ramadan stia per arrivare e che le moschee siano ancora chiuse” sostiene Amarna, aggiungendo di aver ricevuto negli ultimi giorni decine di chiamate dai fedeli che volevano sapere se la moschea sarebbe stata aperta durante il mese sacro.

Sono molto dispiaciuto, ma devo dir loro che probabilmente le moschee resteranno chiuse” afferma Amarna, aggiungendo che esse non sono solo luoghi di preghiera, ma anche posti dove la gente va per socializzare e passare del tempo insieme.”

Dall’altra parte del muro, nel territorio occupato di Gerusalemme est, Alaa Daya, 23 anni, studentessa di cinema, che vive nella Città Vecchia, si lamenta del fatto che la moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani che attrae migliaia di fedeli ogni giorno, ma specialmente durante il Ramadan, resterà invece chiusa.

Questa è la prima volta nella mia vita che la vedo chiusa ” dice Daya a Mondoweiss. “Spezza veramente il cuore.”

Questo è il momento dell’anno durante il quale le strade della Città Vecchia sono normalmente affollate di palestinesi provenienti da tutto il Paese e da altri musulmani di tutto il mondo che vengono qui, in questo luogo sacro, a passare il loro Ramadan, ” sostiene. “Ma ora sembra una città spettrale.”

Oltre a perdere le preghiere che attirano decine di migliaia di fedeli, Daya dice che lei e i suoi amici non vedevano l’ora di ritrovarsi insieme nel vasto cortile e negli spazi che circondano la moschea.

Le nostre case nella Città Vecchia sono veramente piccole e attaccate una all’altra, e così noi spesso ci ritroviamo intorno ad Al-Aqsa e passiamo del tempo insieme dopo le preghiere della sera” afferma. “Ma ora, per via del coronavirus, non potremo farlo. È veramente triste.”

Trovare modi nuovi per pregare

Nonostante le difficoltà causate dal lockdown, Sheikh Amarna e altri leader religiosi a Betlemme e in Palestina stanno cercando di adattarsi in modi nuovi per osservare anche quest’anno il Ramadan.

Stiamo facendo del nostro meglio per trovare modi nuovi e creativi per far sì che la gente senta comunque che sta vivendo al meglio questo mese,” dice Amarna a Mondoweiss.

Fra le nuove misure che i leader adotteranno ci sono le lezioni di storia islamica e di spiritualità, tradizionali durante il Ramadan, che verranno trasmesse sui canali televisivi e in streaming sui social.

Abbiamo aperto le nostre linee telefoniche e i canali social alla gente in modo che, se hanno domande durante questo mese o vogliono saperne di più dell’Islam, possono farlo guardando la TV e tramite i loro telefonini invece di andare in moschea.” dice Amarna.

Amarna ha anche incoraggiato i fedeli a recitare a casa e con le loro famiglie le preghiere rituali supplementari di tarawih che i musulmani recitano prima dell’alba e dopo quelle di isha [quinta preghiera giornaliera dei musulmani, ndtr.] solo durante il Ramadan.

Possono riunirsi con le loro famiglie, uno di loro può guidare la preghiera e ciò impartirà loro la stessa benedizione che avrebbero se pregassero in una moschea.” dice Amarna.

Si possono notare le differenze’

Oltre a trovare nuovi modi di devozione, i palestinesi saranno anche costretti ad adattare le loro abitudini culturali e sociali durante il Ramadan.

Waleed Da’na, 53 anni, un panettiere di Betlemme racconta a Mondoweiss che avrebbe potuto dire che quest’anno il Ramadan sarebbe stato diverso perché la gente non faceva o acquistava i qatayef, pancake ripieni di panna o noci speziate, dolci tipici del Ramadan.

Di solito in questo periodo dell’anno, poco prima del Ramadan, si poteva sentire il profumo di qatayef aleggiare per le strade. Ma dato che tutti sono chiusi in casa, abbiamo avuto solo pochissimi clienti.” afferma, aggiungendo che sia musulmani che cristiani aspettano tutto l’anno per godersi questi dolcetti tipici.

Il Ramadan ha qualcosa di speciale nel modo in cui facciamo le cose in Palestina,” dice Da’na.  “Si può veramente notare che quest’anno è diverso.”

Il Ramadan non è solo preghiera e celebrazioni, ma è anche un momento per riunirsi, condividere pasti e storie tutti insieme e riallacciare i rapporti. ” continua. “È veramente un momento speciale affinché le famiglie e i vicini si ritrovino.“

Da’na, Sheikh Amarna e Alaa Daya sperano che le famiglie approfittino del mese stando insieme, cercando di gustarselo per quanto possibile, date le difficili circostanze.

Anche se la gente celebra da sola nelle proprie case, spero che trascorrano un Ramadan felice e benedetto.”

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Nella giornata dei prigionieri palestinesi, la lotta dovrebbe riguardare la richiesta di libertà, non il Covid-19

Ramona Wadi

16 aprile 2020Middle East Monitor

L’annuale commemorazione della Giornata dei Prigionieri Palestinesi potrebbe facilmente trasformarsi in una celebrazione farsa. Quest’anno il 17 aprile sarà segnato da dichiarazioni che chiedono il rilascio dei prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane per motivi umanitari dovuti alla pandemia di coronavirus. Tuttavia vi sarà una scarsa consapevolezza che il principio umanitario, quando collegato a circostanze momentanee, non è una base sufficiente per rivendicare il rispetto dei diritti umani. È la lotta legittima che dovrebbe sostanziare la richiesta di libertà, non il Covid-19.

Nel 2020 Israele ha già incarcerato 1.324 palestinesi; 5.000 persone in totale sono attualmente detenute delle carceri israeliane. A marzo, in coincidenza con lo scoppio del coronavirus nei territori palestinesi occupati, Israele ha incarcerato 357 palestinesi, compresi minori e donne.

Israele ha costruito una falsa narrazione sulla resistenza palestinese per promuovere la propria narrazione sulla sicurezza, di qui l’etichetta di “terroristi palestinesi”. In realtà i palestinesi hanno un legittimo diritto a condurre una lotta anticoloniale con qualunque mezzo a disposizione. Nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi questo deve essere portato all’attenzione del mondo prima di far ricorso al paradigma umanitario, che sfrutta e offende i prigionieri privilegiando la pandemia rispetto alla loro libertà politica, ai loro diritti e alla liberazione della loro terra.

Se i principi umanitari fossero veramente umanitari, la lotta anticoloniale farebbe parte della narrazione internazionale. I prigionieri palestinesi sono stati descritti sulla base di singoli eventi e circostanze, invece che di principi politici e della causa palestinese, forse per accondiscendere alla tendenza della comunità internazionale a pretendere i diritti umani in base ai programmi umanitari. Di qui l’ampia pubblicizzazione data agli scioperi della fame, per esempio, o ad un possibile diffondersi del coronavirus tra i prigionieri palestinesi, che certamente sarebbe catastrofico. Tuttavia questi non sono che aspetti della più ampia narrazione della lotta per la libertà, ed enfatizzare situazioni momentanee piuttosto che la causa che sta alla radice della questione danneggia sia i prigionieri palestinesi che la causa anticoloniale.

Le giornate di commemorazione sono inutili se la celebrazione si limita ad una singola occasione senza un piano per un’azione costante. Quando vi è un contesto diverso dalla lotta dei prigionieri per la liberazione della Palestina, in questo caso la pandemia, è facile rovesciare le priorità in modo tale che essa prenda il sopravvento rispetto ai prigionieri e ai loro diritti. Se i palestinesi fossero sostenuti nella loro lotta anticoloniale dalla comunità internazionale, come dovrebbe essere, il discorso relativo al coronavirus e ai palestinesi sarebbe differente. Inoltre, quando la pandemia finirà, la richiesta di liberazione dei prigionieri politici palestinesi continuerà? Oppure essa scomparirà perché l’attivismo, nonostante tutte le buone intenzioni, ancora una volta si è servito della pandemia per mettere in luce temporaneamente le continue violazioni e negligenze del sistema penitenziario israeliano?

La Giornata dei Prigionieri Palestinesi dovrebbe essere celebrata come momento culminante per evidenziare una coerente strategia per la liberazione. Dopotutto, i prigionieri politici palestinesi hanno abbracciato la lotta anticolonialista in modo permanente. Devono essere rilasciati perché il loro anticolonialismo è una causa legittima e non è una violazione del diritto internazionale. Sostenere che i prigionieri palestinesi devono essere liberati per motivi umanitari durante la pandemia di coronavirus è scorretto, dal momento che è ben noto che i principi umanitari sono soggetti alle interpretazioni politiche della comunità internazionale. Perciò nella Giornata dei Prigionieri Palestinesi 2020 dobbiamo politicizzare i principi umanitari dal punto di vista della memoria collettiva e della narrazione del popolo palestinese, in modo da poter elaborare una strategia coerente che non dipenda da circostanze esterne.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




 Coronavirus: l’accademia del resto del mondo ha un assaggio del blocco totale dei palestinesi

Emile Badarin

16 aprile 2020 – Middle East Eye

La pandemia riflette quello che generazioni di studenti, insegnanti e docenti universitari palestinesi hanno sopportato sotto l’occupazione israeliana.

In tutto il mondo lo scoppio della pandemia da Covid-19 ha ostacolato la formazione degli studenti. Ma ciò non è affatto una novità per gli studenti e accademici palestinesi, la cui vita nel settore della formazione per decenni è stata sistematicamente ostacolata dalle pratiche colonialiste israeliane.

L’allarmante diffusione del coronavirus ha obbligato molte università e scuole a chiudere e adottare l’apprendimento virtuale nel tentativo di contenere la pandemia. Secondo l’UNESCO [l’agenzia ONU per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, ndtr.] ciò ha riguardato più del 90% del corpo studentesco mondiale.

Per la maggioranza degli studenti, insegnanti, docenti e rettori universitari del mondo la chiusura delle istituzioni educative non ha precedenti. Per i loro colleghi palestinesi gli ostacoli alla formazione sono la vita quotidiana.

Chiusure e interruzioni

Per decenni nessuna università o scuola palestinese è sfuggita a chiusure e interruzioni. Come conseguenza di ciò, sotto la dominazione colonialista il diritto all’educazione delle successive generazioni di palestinesi, sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è stato regolarmente violato e danneggiato.

Attraverso le note restrizioni agli spostamenti nei checkpoint militari, il muro dell’apartheid e le colonie, insieme ad arresti arbitrari di studenti e docenti, chiusura di scuole, irruzioni nelle università, demolizioni di classi, il divieto di ingresso ad accademici stranieri e l’assedio contro Gaza, le politiche israeliane hanno sistematicamente ostacolato giornalmente l’accesso dei palestinesi all’istruzione.

Opportunità di imparare e tempo preziosi si perdono nell’attesa ai checkpoint e nell’impossibilità di raggiungere le aule scolastiche, o a causa della mancanza di scambi con studiosi e università dall’estero.

Nelle circostanze anomale del dominio colonialista di insediamento di Israele, sono stati imposti alla Palestina blocchi e coprifuoco militari lunghi e a volte mortali – punizioni collettive che sono illegali in base alla Quarta Convenzione di Ginevra. Il settore educativo palestinese, e soprattutto gli studenti, sono state le vittime principali delle chiusure e dei blocchi.

Stretta coloniale

Dagli anni ’70 il settore educativo palestinese è stato direttamente preso di mira. Nel 1974 il governo militare israeliano ordinò alla principale e più influente università palestinese, la Birzeit, di chiudere e ne esiliò il rettore.

Nel 1981 la Birzeit rimase chiusa da novembre a gennaio e il rettore, l’amministrazione e un certo numero di docenti e studenti messi agli arresti domiciliari o nelle prigioni israeliane.

Le restrizioni ed interruzioni dell’educazione dei palestinesi furono istituzionalizzate attraverso l’imposizione della legge marziale. Nel luglio 1980 le autorità israeliane emanarono l’ordine militare 854, una norma colonialista che intensificò ulteriormente la stretta di Israele sull’educazione superiore palestinese.

Durante la Prima Intifada le università palestinesi vennero obbligate a chiudere per quattro anni di seguito, dal 1988 al 1991. Anche l’educazione scolastica venne notevolmente ridotta. Fu la chiusura più estesa di sempre nel settore formativo.

Durante la Seconda Intifada chiusure, coprifuoco, assedi, restrizioni da parte dell’esercito sugli spostamenti e irruzioni nelle università compromisero gravemente l’educazione superiore palestinese. Università e scuole furono invase, saccheggiate, bombardate e chiuse. I danni furono gravissimi: più di 498 scuole vennero definitivamente chiuse, 1.289 lo furono temporaneamente, alcune trasformate in avamposti militari, e 297 furono bombardate. Tra il 2002 e il 2005 gli studenti palestinesi persero 7.825 giorni di lezioni.

Durante quel periodo gli studenti, insegnanti e docenti palestinesi spesso non poterono raggiungere le proprie università e vennero sottoposti a maltrattamenti, incarcerazioni e al rischio di essere picchiati o aggrediti con lacrimogeni o proiettili veri.

Inoltre dal 2007 l’assedio israelo-egiziano contro Gaza ha inesorabilmente ostacolato il diritto dei palestinesi all’educazione. Università, scuole e altre istituzioni educative vennero distrutte durante gli attacchi israeliani nel 2008-09 e nel 2014. Gaza è tagliata fuori dal mondo, e ciò riduce gli scambi con docenti e università esteri.

Innovazioni educative

Il settore educativo palestinese non ha ceduto alle restrizioni colonialiste, ha continuato a resistere e a perseguire sistemi innovativi per portare avanti la propria missione formativa. Anche senza il lusso dell’apprendimento virtuale, i palestinesi hanno insegnato e imparato in ogni luogo disponibile, trasformando persino le proprie cucine in laboratori con l’equipaggiamento spostato lì dai laboratori delle università.

Per studenti, docenti e settore amministrativo palestinesi l’incertezza è la norma, non l’eccezione. Non sanno nemmeno se saranno in grado di terminare un anno accademico.

Sfortunatamente la crisi del Covid-19 ha universalizzato questa terribile sensazione di incertezza.  Quasi ogni studente, insegnante o amministratore sta sperimentando la penosa insicurezza che i loro colleghi hanno attraversato per molto tempo in Palestina.

Il Covid-19 ha dato a tutti noi un assaggio personale degli effetti deleteri della chiusura e delle restrizioni sulla formazione. Il mondo accademico ora ha un’esperienza di prima mano di quello contro cui generazioni di studenti, insegnanti e docenti palestinesi hanno dovuto lottare sotto il colonialismo d’insediamento israeliano.

Una volta terminata la crisi del Codiv-19, in molte parti del mondo la vita educative tornerà alla normalità. Ma non in Palestina, dove la formazione continuerà a soffrire di restrizioni e interruzioni sistematiche, finché non finirà la dominazione coloniale.

Quando sarà passata – e passerà – l’attuale crisi, il mondo accademico avrà il dovere morale di schierarsi in solidarietà con i colleghi palestinesi ancor più di prima.

Le opinioni espresse in questi articoli solo dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Emile Badarin

Emile Badarin è un assegnista di ricerca post-dottorato della European Neighbourhood Policy Chair [cattedra di Politica Europea di Vicinanza] (ENP), College of Europe [istituto indipendente di studi europei, con sede a Bruges e a Varsavia, ndtr.], Natolin [alla periferia di Varsavia, ndtr.]. Ha conseguito un dottorato in politiche del Medio Oriente. Le sue ricerche riguardano i campi delle relazioni internazionali e della politica estera, con Medio Oriente ed UE come area di studio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Diffondere il virus dell’occupazione: lo sputo come arma nelle mani di Israele coloniale

Ramzy Baroud

14 aprile 2020 – Middle East Monitor

Sputare addosso a qualcuno è un insulto universale. In Israele, tuttavia, sputare sui palestinesi ha una storia completamente diversa.

Ora che sappiamo che il coronavirus mortale può essere trasmesso attraverso goccioline di saliva, i soldati israeliani e i coloni ebrei illegali sono duramente impegnati a sputare addosso al maggior numero di palestinesi, alle loro macchine, maniglie di porte ecc.

Se la cosa ti sembra troppo surreale e ripugnante, allora potrebbe essere che sei meno informato di quanto pensi della particolare natura del colonialismo israeliano.

In tutta onestà, gli israeliani sputano addosso ai palestinesi da molto prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ci tenesse lezioni sulla natura elusiva della malattia COVID-19 e sulla necessità cruciale di esercitare il “distanziamento sociale”.

In effetti, se cerchi su Google la frase “sputi israeliani”, verrai inondato dai molti interessanti risultati della ricerca, come “Giudice di Gerusalemme agli ebrei: non sputate sui cristiani”, “I cristiani di Gerusalemme vogliono che gli ebrei smettano di sputare su di loro”, e il più recente,” I coloni israeliani che sputano sulle auto palestinesi sollevano preoccupazioni per il tentativo di diffondere il coronavirus”.

È interessante notare che nel corso degli anni la maggior parte di questa copertura giornalistica è stata fatta dai media israeliani, mentre riceve scarsa attenzione da parte dei media occidentali.

Si potrebbe facilmente classificare tali atti degradanti come un ulteriore esempio del falso senso di superiorità degli israeliani sui palestinesi. Ma il deliberato tentativo di infettare con coronavirus i palestinesi sotto occupazione è ben più che un oltraggio, anche per un regime di insediamento coloniale.

Due particolari elementi di questa storia richiedono un approfondimento.

In primo luogo, l’atto di sputare sui palestinesi e le loro proprietà, sia da parte dei soldati dell’occupazione che dei coloni, è stato ampiamente segnalato in molte parti della Palestina occupata.

Ciò significa che, nel giro di pochi giorni, la cultura dell’esercito e dei coloni israeliani ha rapidamente adattato il razzismo preesistente sino ad usare un virus mortale come strumento finale per soggiogare e nuocere ai palestinesi, sia fisicamente che simbolicamente.

In secondo luogo, [è notevole] il grado di ignoranza e buffoneria che accompagna questi atti razzisti e umilianti.

Il paradigma di potere che ha governato il rapporto tra Israele colonialista e palestinesi colonizzati ha seguito finora un corso tipico, secondo cui le cattive azioni di Israele rimangono per lo più impunite.

Quegli israeliani razzisti che stanno deliberatamente cercando di infettare i palestinesi con il COVID-19 pensano e si comportano non solo da criminali, ma anche incredibilmente da sciocchi.

Quando i soldati israeliani arrestano o picchiano gli attivisti palestinesi, hanno la stessa probabilità di contrarre il coronavirus quanto di trasmetterlo.

Ma, naturalmente, Israele sta facendo molto di più per complicare, se non bloccare del tutto gli sforzi palestinesi per contenere la diffusione del coronavirus.

Il 23 marzo un lavoratore palestinese, Malek Jayousi, è stato espulso dalle autorità israeliane al checkpoint militare di Beit Sira, vicino a Ramallah, perché sospettato di avere il coronavirus.

Un filmato del povero lavoratore rannicchiato vicino al checkpoint, dopo essere stato “scaricato come spazzatura”, è diventato virale sui social media.

Per scioccante che fosse quell’immagine, si è ripetuta in altre parti della Cisgiordania.

Ovviamente i lavoratori palestinesi non erano stati testati per il virus, ma avevano semplicemente manifestato sintomi para-influenzali, abbastanza da far sì che Israele se ne liberasse come se la loro vita non avesse importanza.

Due settimane dopo, il governatore palestinese della città occupata di Qalqiliya, Rafi ‘Rawajbeh, ha detto ai giornalisti che l’esercito israeliano avrebbe aperto diversi tunnel per le acque reflue a nord della città palestinese, pensando di impiegare di nuovo operai palestinesi in Cisgiordania senza previo coordinamento con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Senza fare i test a quelle centinaia di lavoratori irregolari, l’Autorità Nazionale Palestinese, che già opera con una capacità limitata nell’affrontare la malattia, si troverà nell’impossibilità di contenere la diffusione del virus.

Le denunce palestinesi del deliberato tentativo di Israele di favorire la diffusione del coronavirus in Palestina sono state ulteriormente confermate da Euro-med Monitor [Ong per la difesa dei diritti umani, ndtr.] di Ginevra, che il 31 marzo ha invitato la comunità internazionale a indagare sul “comportamento sospetto” dei soldati israeliani e dei coloni ebrei.

Durante i raid dell’esercito israeliano contro case palestinesi, i soldati “sputano contro macchine parcheggiate, bancomat e serrature di negozi, il che fa sospettare si tratti di tentativi deliberati di diffondere il virus e causare panico nella società palestinese”, ha dichiarato Euro-Med.

L’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra non dice nulla sull’obbligo per i membri della potenza occupante di smettere di sputare sulle comunità occupate e soggiogate; molto probabilmente perché è previsto che un comportamento così sordido sia evidentemente inaccettabile e non richieda uno specifico riferimento testuale.

Tuttavia l’articolo 56, come ha recentemente sottolineato Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, impone a Israele, potenza occupante, di “garantire che siano utilizzati tutti i mezzi preventivi necessari e disponibili per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie.’”

Tuttavia Israele sta drammaticamente venendo meno al suo obbligo giuridico.

Persino il sindaco israeliano di Gerusalemme, Moshe Leon, ha sottolineato la disuguaglianza nella risposta ufficiale israeliana alla diffusione del coronavirus.

Nella sua lettera del 7 aprile al direttore generale del Ministero della Sanità israeliano Moshe Bar Siman Tov, Leon ha messo in guardia contro “la grave carenza di attrezzature mediche negli ospedali (palestinesi) a Gerusalemme est (occupata), in particolare di attrezzature e dispositivi di protezione per condurre i test del coronavirus.

Al di là delle gravi carenze negli ospedali di Gerusalemme est e in Cisgiordania, la situazione nella Striscia di Gaza assediata è semplicemente disastrosa; il Ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato il 9 aprile di aver esaurito tutti i kit per il test del coronavirus, che peraltro non erano mai stati più di poche centinaia.

Ciò significa che i numerosi abitanti di Gaza già in quarantena non saranno rilasciati in un prossimo futuro e che i nuovi casi non verranno individuati e tanto meno guariti.

Nelle ultime settimane abbiamo spesso segnalato questo terrificante scenario prossimo venturo, specialmente perché Israele usa il coronavirus come occasione per isolare ulteriormente i palestinesi e barattare potenziali aiuti umanitari con concessioni politiche.

Senza un intervento immediato e sostenibile da parte della comunità internazionale, la Palestina occupata, e specialmente Gaza impoverita e assediata, potrebbero diventare un focolaio di COVID-19 per gli anni a venire.

Israele non cederà mai senza un intervento internazionale. Se non sarà chiamata a risponderne, neppure un virus mortale cambierà mai le abitudini di una vile occupazione militare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’apartheid al tempo del coronavirus

Yoav Haifawi

13 aprile 2020 – Mondoweiss

Devo dissentire dal dottor Azmi Bishara. Cercando di difendere l’ultima disastrosa risposta degli Stati capitalisti dell’Occidente alla pandemia, egli sostiene su “Arab 48” [app di notizie in arabo, ndtr.] che i governi non dovrebbero essere giudicati in base alla loro condotta durante le emergenze. Trovo che sia proprio il contrario. In molti casi abbiamo visto che in tempi normali un Paese se la può benissimo cavare senza un governo in carica. Ma una gravissima crisi mette brutalmente in evidenza molte cose sulla natura di ogni regime proprio nel momento in cui abbiamo disperatamente bisogno di un buon governo che ci protegga, e tutti ne stiamo prendendo atto.

L’“Economist” [noto settimanale di economia pubblicato a Londra, ndtr.] informa che negli Stati Uniti l’EPP (Equipaggiamento Protettivo Personale), salvavita importato dal governo (attraverso la FEMA [ente federale per la gestione delle emergenze]) è affidato a distributori privati perché ci guadagnino a spese della vita delle équipe mediche in prima linea. Abbiamo visto tutti i Paesi ricchi interrompere l’esportazione di prodotti sanitari essenziali e offrire più degli altri per accaparrarsi qualunque cosa sul mercato. Quando l’Italia era nel momento peggiore della crisi, la Germania ha vietato l’esportazione di forniture mediche, ma quando la Cina ha mandato l’equipaggiamento salvavita necessario i dirigenti dell’UE hanno messo in guardia che la Cina lo stava facendo “per fini propagandistici”.

Leggere le notizie locali sul coronavirus in Israele è una storia ancora diversa. Il regime israeliano di apartheid sta dimostrando di essere assurdamente anormale persino nel più abnorme dei momenti. Qui ci sono alcuni esempi strazianti su com’è l’apartheid ai tempi del coronavirus.

Pronti a morire come Sansone

Ci sono molte notizie su come ogni Stato e ogni istituzione sanitaria oggi stia cercando ogni opportunità per comprare EPP. La Turchia è uno dei principali produttori mondiali e uno dei pochi ancora disposti a venderli, nonostante l’epidemia sia in peggioramento sul fronte interno. Bloomberg [rete televisiva di notizie economiche, ndtr.] ha riferito che la Turchia stava fornendo equipaggiamento di protezione personale a Israele, compresi maschere chirurgiche, camici e guanti sterilizzati.

Giovedì 9 aprile tre aerei israeliani dovevano prelevare le forniture mediche da un aeroporto militare turco. Ma poi pare che la Turchia abbia chiesto che in cambio Israele consentisse il passaggio di pari quantità di aiuti turchi contro il coronavirus ai palestinesi.

Sia secondo “Times of Israel” [quotidiano israeliano in rete, ndtr.] che “Arab 48” pare che venerdì 10 aprile Israele abbia rifiutato di arrendersi al “terrorismo” turco e l’equipaggiamento non è stato fornito. Come disse l’eroico “Sansone”: “Che muoia io con i tutti i palestinesi…”

Poi ieri, 12 aprile, “Haaretz” [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] ha informato in merito a nuovi negoziati tra Israele ed Hamas relativi a uno scambio di prigionieri. Hamas ha affermato di essere pronto ad arrivare a un compromesso rispetto alle sue precedenti condizioni per proteggere prigionieri palestinesi anziani e malati dal pericolo di soccombere al coronavirus in prigione. Ciò che è significativo per il nostro discorso è che, secondo “Haaretz”, i palestinesi intendono che parte dell’accordo sia che Israele fornisca alla Striscia di Gaza, tuttora assediata, un numero non specificato di ventilatori per curare i pazienti di coronavirus. Ciò che è ancora più significativo è che, secondo lo stesso articolo, fonti israeliane hanno negato (a parte ogni dettaglio riportato riguardo al previsto accordo) che potessero essere consegnati ventilatori a Gaza!

Il Mossad ruba EPP?

Molto tempo fa Yeshayahu Leibowitz [eminente intellettuale e religioso israeliano, ndtr.] ammonì che Israele sarebbe diventato uno “Stato dello Shabak” – in riferimento all’onnipotente “servizio della sicurezza generale” (GSS, Shabak [noto anche come Shin Bet, ndtr.]). Un articolo su Maariv [giornale israeliano di centro destra, ndtr.] del 27 luglio 2019 stimava che lo Shabak e il Mossad (il suo gemello, responsabile delle operazioni fuori dai confini nazionali) impieghino ognuno circa 7.000 persone e abbiano un bilancio che supera il miliardo di dollari. Mentre gli investimenti di Israele per la salute sono bassi rispetto ad altri Paesi dell’OCSE, esistono questi due mostri e si è deciso di utilizzarli per lottare contro la pandemia.

Iniziamo con il Mossad. Gli è stato affidato il compito di acquistare equipaggiamento sanitario. Secondo “the Marker” [quotidiano economico in lingua ebraica legato ad Haaretz, ndtr.] avrebbe chiesto una somma di 7 miliardi di shekel [1,8 miliardi di euro], ma per iniziare gliene sono stati dati 2,5 [640 milioni di euro]. Tuttavia non ha competenze professionali in campo medico, né esperienza particolare o infrastrutture tali da operare acquisti su larga scala e gestire procedure di importazione.

Il Mossas si è subito vantato di aver importato 100.000 test virologici da una fonte non specificata, solo per essere redarguito da un funzionario del ministero della Sanità che ha affermato che quelli non erano i test di cui c’era bisogno. Dopo che la critica è stata resa pubblica il funzionario si è affrettato a chiedere scusa, e il Mossad ha promesso di ricontrollare ciò che serve e di continuare la ricerca.

Il 6 aprile “Haaretz” ha riferito che il ministro della “Difesa” di Israele, Naftali Bennett, non ha negato, e di fatto ha implicitamente riconosciuto, che il Mossad ha rubato equipaggiamento medico da altri Paesi. Quando durante un’intervista alla radio militare gli è stato chiesto se il Mossad avesse rubato equipaggiamento sanitario relativo alla pandemia di coronavirus, Bennett ha risposto: “Non risponderò a questa domanda. Stiamo tutti operando in modo aggressivo e astuto.” (È stato riportato in inglese su Middle East Eye).

Non sorprende che il Mossad, specializzato in assassinii, spionaggio e ogni sorta di attività clandestine, faccia ricorso a metodi illegali nel suo nuovo ruolo. Ma ci si potrebbe aspettare che Bennett, che dovrebbe essere un uomo d’affari rispettabile, sia almeno sufficientemente astuto da negarlo. Tuttavia potrebbe avere una buona ragione per far credere all’opinione pubblica israeliana che il Mossad stia rubando per lei. Sulla stampa israeliana alcuni commentatori hanno affermato che dare miliardi di shekel a organismi segreti come il Mossad significa che non c’è alcun controllo su come i soldi vengano spesi. Ora, quando ci fossero delle domande in merito, Bennett potrebbe sussurrare “Shh…” e ammiccare: “Non vuoi mica svelare segreti di Stato.”

Inoltre Israele è abituato ad essere al di sopra delle leggi internazionali per tutti i suoi crimini di guerra, quindi perché dovrebbe temere di rubare equipaggiamento sanitario in giro per il mondo?

Sul ricevitore dello Shabak

Sul fronte interno, allo Shabak è stato assegnato il compito di identificare i percorsi delle persone infettate dal coronavirus e di informare quelli che sono stati in contatto perché si mettano in auto-isolamento. Per la prima volta è diventato di dominio pubblico che lo Shabak può tracciare (ora lo sta facendo in modo ufficiale) l’ubicazione di ogni persona, almeno finché la gente va in giro con il proprio cellulare.

Per i palestinesi, sia in Cisgiordania che all’interno della Linea Verde [cioè in Israele, ndtr.], i continui controlli da parte dello Shabak non sono una novità. Persino ad Haifa, il luogo più pacifico sotto l’apartheid israeliana, qualunque giovane palestinese può essere invitato senza alcuna ragione a “colloqui” indiscreti da parte di ufficiali dello Shabak. Per gli attivisti politici il governatore militare (sì, ci sono governatori militari da entrambi i lati della Linea Verde) può emanare un ordine di detenzione amministrativa in base a “prove” segrete dello Shabak, in modo che al detenuto o al suo avvocato non sia consentito neppure sapere di cosa sia accusato. Funzionari dello Shabak compaiono nei tribunali sotto falso nome e alla difesa non è permesso neppure vederne il volto. Le loro parole in tribunale sono considerate indiscutibili.

Appena lo Shabak ha iniziato a prendere di mira israeliani ebrei, certo senza mandarli in prigione ma solo in auto-isolamento, improvvisamente la stampa si è riempita di articoli sui suoi errori.

Una donna aveva fatto in modo che il marito, tornato dall’estero, stesse in auto-isolamento nella loro casa, mentre lei sarebbe rimasta con i genitori per poter continuare il suo lavoro. Ma dopo essere passata per strada nei pressi della sua casa per salutare il marito che era sul balcone a distanza di sicurezza, è stata messa anche lei in auto-isolamento. Un’altra donna ha preparato una torta per un vicino in isolamento e gliel’ha lasciata vicino alla porta chiusa. Anche lei è caduta nella rete dello Shabak. Altri si sono lamentati di non riuscire a capire perché gli sia stato detto di isolarsi, in quanto non gli è stato detto con chi e quando si sarebbero incontrati.

Persone la cui vita è stata improvvisamente sconvolta senza ragione hanno chiamato il ministero della Sanità e gli è stato risposto che non ne sapevano niente, è competenza dello Shabak. Gli hanno detto che “lo Shabak non sbaglia mai.”

Alcuni hanno tentato di chiamare direttamente lo Shabak ed hanno scoperto che non c’è modo di raggiungere il servizio segreto né di presentare ricorso contro le sue decisioni.

Un caso riportato in dettaglio è quello di un medico che aveva qualche sintomo e gli è stata fatta l’analisi del coronavirus. Il test è risultato negativo (nessun virus), ma a quanto pare è stato inserito un risultato sbagliato nel sistema. Subito tramite un messaggino sul telefono è stato ordinato ai suoi parenti, vicini e colleghi di auto-isolarsi. Persino lui, con rapporti con il sistema sanitario e con il certificato di test negativo in suo possesso, ha avuto molte difficoltà a convincere le autorità a riconsiderare la decisione. Solo dopo che i media hanno messo in evidenza l’assurdità della situazione il ministero della Sanità ha ammesso l’errore.

Ciò farà sì che ogni giudice israeliano ci pensi due volte prima di basarsi sulle “prove” segrete dello Shabak per mandare in galera un palestinese? C’è da dubitarne.

La polizia aggredisce abitanti palestinesi di Giaffa

Per le normali forze di polizia israeliane la dichiarazione del blocco totale del Paese è stata un’ulteriore opportunità per maltrattare i palestinesi. Non posso qui riportare le tante violenze in Cisgiordania, dove aggressioni generalizzate contro i palestinesi da parte di coloni e soldati sono già state riportate qui il 6 aprile. Quello che è meno noto è il grave attacco avvenuto l’1 e il 2 aprile contro i palestinesi di Giaffa, una città araba che è stata annessa a Tel Aviv ed ora è sottoposta a pesanti pressioni per “ebraicizzarla/ gentrizzarla”.

La popolazione araba di Giaffa è per lo più povera e marginalizzata, e i rapporti con la polizia erano tesi anche prima della pandemia. Quando è stato decretato il blocco totale, la polizia di Tel Aviv ha avuto l’opportunità di fare una dimostrazione di forza a Giaffa come non è mai stato fatto in nessun altro quartiere. Ha provocato due giorni di estesi scontri che sono continuati fino a notte inoltrata.

Non ho potuto andare a Giaffa, ma ho parlato per telefono con un attivista del posto ed ho sentito il racconto di prima mano su come tutto è accaduto. Il primo giorno, durante quella che avrebbe dovuto essere la messa in pratica del blocco, la polizia ha iniziato ad arrestare giovani del posto. Per quanto ho sentito, ciò che ha provocato di più gli abitanti è stato il fatto che la stessa polizia non abbia dimostrato alcuna intenzione di seguire le istruzioni contro l’infezione. Si spostavano in gruppi compatti, senza mascherine e colpivano la gente a mani nude. Una donna che ha cercato di proteggere suo figlio è stata gettata a terra, la sua testa ha battuto sull’asfalto ed ha iniziato a sanguinare. Le persone in tutto il quartiere scoppiavano di rabbia, non più disposte a sopportare.

Il secondo pomeriggio alcuni attivisti hanno iniziato una veglia silenziosa contro la violenza della polizia, cercando di mantenere il distanziamento sociale stabilito, rimanendo lontani. Benché l’ordine di chiusura totale consenta specificamente le manifestazioni, la polizia ha chiesto che i dimostranti si disperdessero e subito li ha attaccati. Poi la strada è stata chiusa e gli scontri sono ripresi.

Il terzo giorno è stata la stessa dirigenza locale palestinese che ha fatto di tutto per convincere gli attivisti e la popolazione in generale a rimanere in casa. Il pericolo di infezione era troppo grande, e la violenza della polizia e le proteste contro di essa contineranno probabilmente molto dopo la pandemia.

* * *

L’apartheid ha avvelenato le nostre vite per molti anni. È ancora più pericolosa in questi tempi difficili.

Yoav Haifawi è un attivista antisionista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il cinema israeliano prova, senza riuscirci, a fare i conti con il terrorismo ebraico

Natasha Roth-Rowland

10 aprile 2020 – +972 Magazine

Quattro film recenti esaminano l’ascesa dell’estrema destra in Israele. Ma, nel dare un’immagine di eccezionalità ai loro personaggi, non riescono ad arrivare alle radici della loro ideologia.

Data l’accelerazione in corso negli ultimi anni in Israele del processo di normalizzazione dell’ideologia religiosa di estrema destra, non sorprende che i cineasti guardino alla storia del fanatismo di destra per cercare di capire come la politica israeliana abbia acquisito le sue attuali tendenze. Quattro film sull’argomento sono usciti in altrettanti anni: “Incitement” [Istigazione,ndtr.], che intraprende un viaggio nel mondo interiore di Yigal Amir, l’uomo che ha assassinato il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin; “The Prophet” [il profeta, ndtr.], che descrive la carriera del rabbino Meir Kahane (rabbino e politico ultranazionalista, ndtr.) mentre reca il suo messaggio di violenza della destra ebraica dalle strade di New York alle aule della Knesset (il parlamento ebraico, ndtr.); “The Settlers” [i coloni, ndtr.], che racconta la storia del movimento dei coloni; e “The Jewish Underground”, sull’omonimo gruppo terroristico.

“Incitement”, diretto da Yaron Zilberman, è una scrupolosa riproposizione dell’atmosfera dell’era di Oslo. Si concentra soprattutto sugli ebrei israeliani che si stavano mobilitando in opposizione ai colloqui e, più minacciosamente, a Rabin. La cinepresa si sofferma sulle immagini anti-Rabin nel campus dell’Università Bar-Ilan, nelle piazze e nelle strade: graffiti che istigano contro il primo ministro; manifesti stile “ricercato”, con un bersaglio sulla sua testa, che lo qualificano “L’Assassino”; e cartelli che nel corso di feroci manifestazioni lo mostrano con indosso una kefiah o un’uniforme delle SS.

Vediamo anche Amir partecipare al funerale di Baruch Goldstein, che uccise 29 palestinesi nella Moschea Ibrahimi di Hebron nel febbraio 1994. Lì sente un rabbino discutere della liceità di un mandato di morte religioso contro Rabin, sulla base del fatto che il primo ministro, con la negoziazione di un compromesso territoriale, ha messo in pericolo gli ebrei. Amir già nelle prime sequenze del film ha assistito ad altre argomentazioni simili. Da ciò siamo portati ad assumere che il passo perché proprio lui esegua quella condanna a morte possa essere breve.

Ci sono altri momenti premonitori. All’inizio, la madre di Amir racconta a una donna che egli ha invitato a casa e a cui è sentimentalmente interessato che il suo nome, Yigal, significa “Egli redimerà” e che lei è convinta che riscatterà “la sua gente”. Suo figlio, dice, è destinato alla grandezza, un messaggio che ripete ad Amir quando la sua possibile fidanzata lo rifiuta. In un’altra scena di famiglia, una delle più intense del film, il padre di Amir, avendo scoperto i piani di suo figlio, gli urla: “Ci vorranno generazioni – generazioni! – per guarire una tale ferita.”

“Incitement” affronta anche il contesto originario di Amir in quanto figlio di immigrati yemeniti in Israele. Una serie di tensioni aggrovigliate tra loro è presente nella sua famiglia: il disprezzo di sua madre per l’elitarismo razzista degli israeliani ashkenaziti [i discendenti delle comunità ebraiche di lingua e cultura yiddish stanziatisi nel medioevo nella valle del Reno, ndtr.]; le discussioni tra lei, un’estremista, e suo padre, che è più fiducioso sugli Accordi di Oslo; l’evidente disagio dell’amica ashkenazita di Amir quando arriva e assiste allo svolgersi di una riunione di famiglia, allusione all’emarginazione di Amir nella società israeliana in quanto ebreo Mizrahi [ebrei orientali, provenienti dai paesi del mondo arabo, ndtr.].

Eppure il film si occupa ben poco di queste dinamiche all’interno del mondo religioso-sionista. Qui, i rabbini istigatori contro Rabin sono invariabilmente Ashkenazi. Nel mondo reale, in seguito all’assassinio, alcuni componenti della classe religioso-sionista cercarono di assolversi dalla responsabilità dell’omicidio indicando la discendenza Mizrahi di Amir come prova del suo status di estraneo.

Il fatto che conosciamo la fine della storia non contribuisce minimamente ad alleviare la tensione nel film. Al contrario, il film prelude all’incombente disastro fin dal primo fotogramma. Il montaggio sulle riprese di un cinegiornale d’archivio nel corso della successione degli eventi accresce il senso di premonizione, anche durante gli ultimi momenti del film, quando vediamo i fotogrammi sgranati del vero Amir, riconoscibile con la sua maglietta blu, in attesa dell’auto di Rabin, intervallati da immagini in primo piano di lui che parla amichevolmente con la scorta di sicurezza di Rabin. Loro credono che sia uno di loro.

Come molti altri film israeliani recenti, “Incitement” allude chiaramente al fatto che l’estremismo abbia messo radici ai vertici della politica israeliana, incarnato nella figura di Benjamin Netanyahu e in quella del gruppo di rabbini religioso-sionisti che hanno posto una taglia religiosa sulla testa di Rabin. Zilberman termina con le riprese della presenza di Netanyahu alle rabbiose proteste anti-Rabin prima dell’assassinio, inclusa la sua famigerata comparsa su un balcone che si affaccia sulla Piazza Sion di Gerusalemme, mentre gli israeliani di destra chiedono urlando la morte di Rabin.

Zilberman ha ragione a stabilire questa connessione, ma dato che si tratta di un film sul nazionalismo religioso estremista e considerando il momento politico in cui il suo lavoro viene presentato, esso appare come un’occasione mancata. Il film evita di interrogarsi sui legami più profondi tra le élite religioso sioniste e quelle politiche in Israele. In maniera ancora più lacunosa, il film si ritrae dall’esame del perché Netanyahu abbia avuto tanto successo e perché, pochi mesi dopo aver contribuito ad istigare all’omicidio di Rabin, sia stato eletto a capo del successivo governo israeliano.

Questa omissione si coniuga in parte coll’assenza quasi totale di palestinesi nel film. È vero che “Incitement” è una storia sul mondo etnicamente isolato della destra religiosa israeliana e sulla follia inesplorata in cui è piombato in occasione degli Accordi di Oslo. Ma il film è inteso come una immersione profonda nell’ideologia di quello stesso gruppo, e quanto può essere efficace un simile intento se non riesce a interagire con l’oggetto della paura e dell’odio di quell’ideologia? Rabin è davvero il principale bersaglio dei protagonisti del film, ma solo nella misura in cui Amir e i suoi coetanei credevano che fosse un fantoccio dei palestinesi, e quindi una minaccia mortale per lo stato ebraico.

Con questa lacuna, il film ha forse detto più di quanto intendesse sul momento attuale: “Incitement” è arrivato nei cinema statunitensi a pochi giorni dall’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha rivelato il suo “Accordo del Secolo”, una tabella di marcia verso l’annessione che ha stabilito piani dettagliati per il futuro della Palestina senza consultare nessuno di coloro che dovrebbero viverci. Nel film, come nel piano di Trump, i palestinesi sono presenti assenti.

L’ estrema destra israeliana è ugualmente sotto il microscopio in “The Prophet”, del regista Ilan Rubin Fields. Il documentario del 2019 esplora la carriera del rabbino estremista nato a Brooklyn Meir Kahane, che ha fondato a New York negli anni ’60 la Jewish Defense League [Lega di Difesa Ebraica, ritenuta dal FBI un’organizzazione terrorista per i suoi atti di violenza, ndtr.] e, negli anni ’80, è stato presente nel parlamento israeliano come unico rappresentante del suo partito, Kach. Ripercorre alcuni degli atti più noti di Kahane e della JDL, dall’attentato dinamitardo del 1970 negli uffici dell’Aeroflot a New York, alla proposta di Kach di aprire un “ufficio di emigrazione” nella città palestinese settentrionale di Umm al-Fahm, al fine di tentare di incoraggiare i cittadini palestinesi a lasciare il paese.

Nel corso del film Fields intervista i membri di Otmza Yehudit, il partito kahanista che ha partecipato lo scorso anno al triplo round delle elezioni israeliane, i cui leader sono tutti ex accoliti di Kahane. Baruch Marzel, commentando le proposte di Kahane di espellere i palestinesi dalla totalità della biblica “Terra di Israele”, osserva che il suo mentore “ha sottolineato una contraddizione intrinseca tra lo stato ebraico e la democrazia”. Qualsiasi altra opzione è frutto di fantasia, afferma Marzel: “O è democratico o è ebraico. Non può essere entrambi.” Un simile concetto, ribadisce l’esperto di diritto Moshe Negbi, viene affermato nella dichiarazione delle Nazioni Unite del 1975 secondo la quale il sionismo è razzismo.

Questa discussione, condotta attraverso interviste dirette, piuttosto che attraverso dialoghi, rappresenta uno dei due difetti del film. Sembra guardare direttamente negli occhi le contraddizioni tra avere uno Stato etnico particolaristico e una democrazia, per poi distogliere nuovamente lo sguardo, respingendola come semplicemente un’idea inconcepibile espressa da estremisti.

Questo è un peccato, perché il film di Fields va oltre “Incitement” nel sottolineare come nella società e nella politica israeliane si trovino il razzismo sistemico e lo sciovinismo. Verso la conclusione del film rievoca una serie di attacchi terroristici ebraici – il massacro di Goldstein [nel 1994, nella Moschea di Ibrahimi a Hebron, ndtr.], l’omicidio di Muhammad Abu Khdeir [16 enne palestinese sequestrato e ucciso da cittadini israeliani il 2 luglio 2014, ndtr.], il bombardamento della casa dei Dawabshe a Douma [nel Luglio del 2016, in cui morirono 3 membri della famiglia, tra cui un bambino di 18 mesi, ndtr.] – e poi abilmente passa alla Knesset, mostrando i politici del Likud mentre diffamano i palestinesi, prima di terminare con l’approvazione della legge ebraica sullo Stato – Nazione. I fotogrammi finali del film mostrano scene del Giorno dell’Indipendenza di Israele, una festa di bandiere e fuochi d’artificio.

Il messaggio implicito qui è chiaro: una malattia strutturale ha messo radici nello Stato di Israele. E nel 2020, quando il partito Likud, che ha governato il paese per più di 30 anni, ha ripetutamente offerto supporto a Otzma Yehudit [partito politico israeliano di estrema destra, ndtr.] e si è impegnato a conquistarne gli elettori, l’impostazione di Fields appare realisticamente efficace. Ma il documentario, nel suo sviluppo e nel trascurare la storia pre-Kahane, lascia l’impressione che sia un singolo demagogo a produrre il marciume, piuttosto che esporre e discutere la profonda xenofobia e la paranoia razzista che hanno fatto parte delle caratteristiche dello Stato dal primo giorno.

L’altro grande difetto del documentario è l’incapacità di intervistare neppure una donna o un singolo palestinese. (viene mostrata una donna nella veste di intervistata nel filmato di archivio che Rubin include nel film.) Data la centralità delle questioni della purezza etnica e di genere (e le connessioni tra loro) nell’ideologia kahanista – e nell’ideologia israeliana di estrema destra in generale – questo rappresenta un paio di sorprendenti omissioni. Lascia essenzialmente che la storia sia raccontata solo da quelli che si trovano nel suo pieno centro, che sono quasi esclusivamente uomini ashkenaziti, e cancella le voci di chi si trova ai margini dell’estrema destra e delle sue vittime.

Dei quattro film, “The Jewish Underground” è forse quello che riesce meglio a dimostrare che l’acquiescenza nei confronti dei violenti radicali di destra è una caratteristica, e non un errore, del sistema politico israeliano. Anche questo, tuttavia, inciampa a proposito della parità di genere dei suoi intervistati: nella prima ora non riesce a includere nessuna donna tra i personaggi. È significativo che l’unica comparsa di una donna in questa parte risulta sullo sfondo di un’intervista con uno dei leader del gruppo; è una figura sfocata, con le spalle rivolte verso gli spettatori, in piedi in cucina.

Tuttavia, ciascuno di questi quattro film riesce, in qualche modo, a rendere l’eccezionalità dei suoi personaggi. Si concentrano tutti su gruppi o individui che sono in qualche modo ritenuti al di fuori dell’opinione corrente israeliana, e quindi li presentano come aberrazioni, piuttosto che prodotti della società israeliana. Nonostante, con pregi e difetti, venga riportata la visione violenta e sciovinista del mondo da parte di quegli uomini, questo approccio aderisce al modo in cui questi personaggi vengono rappresentati nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana: come mostri che aspettano dietro le quinte per poi irrompere sulla scena per tentare di rovinare del tutto Israele.

Attraverso la scelta di esempi del calibro di Kahane, Amir e Jewish Underground, senza affrontare

seriamente le radici ideologiche e storiche della loro politica – ponendo l’origine di tutto nel 1967 e non nel 1948 – questi film smettono di essere quella trasparente resa dei conti che si sforzano di rappresentare. In questo senso, riflettono la specifica odierna focalizzazione su Netanyahu come fonte delle tendenze antidemocratiche nella società israeliana, con un collegamento pressoché nullo riguardo ciò che significava la “democrazia” israeliana prima della sua salita al potere.

Va bene osservare Kahane e i suoi seguaci che urlano “fuori gli Arabi;” osservare Miri Regev sul seggio della Knesset dire alla parlamentare Haneen Zoabi del partito Balad : “Torna a Gaza, traditrice;” osservare le proteste dei parlamentari del partito Lista Unita guidata da palestinesi, i quali vengono espulsi dall’aula plenaria della Knesset, mentre i loro colleghi approvano la legge ebraica sullo Stato Nazione. Ma senza riconoscere che lo Stato sta dicendo, in un modo o nell’altro, “fuori gli Arabi!” dal 1948, i cineasti e gli osservatori in generale non riusciranno mai a capire chi siano questi “mostri”, né respingeranno il caos che essi provocano.

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in Storia presso l’Università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli Stati Uniti. Precedentemente ha trascorso diversi anni come scrittrice, editrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è apparso su The Daily Beast, sul London Review of Books Blog, su Haaretz, su The Forward e su Protocols. Scrive sotto il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che fu costretto a cambiare il suo cognome in “Rowland” quando richiese asilo nel Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Come Israele vede il mondo del dopo coronavirus

Redazione di MEE

14 aprile 2020 – Middle East Eye

La diplomazia israeliana prevede un mondo post-coronavirus in crisi, da cui deriveranno delle opportunità come l’esportazione delle tecnologie di sorveglianza

La pandemia da coronavirus comporterà nel futuro maggiori rischi, più instabilità nella regione mediorientale, un cambiamento nelle regole del commercio mondiale…ma offrirà nuove opportunità a Israele. Queste sono, in sintesi, le previsioni del Ministero israeliano degli Affari Esteri, contenute in un documento elaborato da una ventina di esperti e diplomatici nel febbraio 2020, sotto la direzione di Oren Anolik, capo dell’ufficio di programmazione politica del Ministero, e pubblicato dal giornale israeliano Israel Hayom [quotidiano gratuito israeliano di destra, ndtr.].

Anche se il coordinatore di questo lavoro, Oren Anolik, ammette che “le cose cambiano di giorno in giorno” e che “ci sono più domande che risposte”, non di meno da questo documento interno emergono alcune certezze, come per esempio il fatto che “il villaggio globale di libero scambio non sopravviverà alla pandemia.”

Il mondo va verso una crisi economica che ricorderà la grande depressione (degli anni ’30 del Novecento) e il PIL mondiale è già diminuito del 12%. La crisi economica potrebbe comportare una diminuzione della domanda di gas naturale, il che assesterebbe un grave colpo al settore delle esportazioni sul quale Israele faceva affidamento per i prossimi anni”, vi si legge.

Il commercio internazionale cambierà

In futuro i giacimenti di gas naturale sfruttati da Israele sono destinati a diventare parte essenziale della sua economia, spiegava sulle pagine di Middle East Eye il giornalista e blogger israeliano Dimi Reider.

Inoltre, “secondo gli esperti la crisi economica comporterà una concorrenza più agguerrita tra i Paesi, in particolare per i prodotti legati alle cure sanitarie. La domanda mondiale di dotazioni legate alla cura dovrebbe continuare e potrebbe diventare una fonte di tensioni internazionali”.

I diplomatici e gli esperti israeliani prevedono che “la combinazione di queste tensioni e della crisi economica internazionale, insieme ad un’industria aeronautica paralizzata, creerà nuove regole nel commercio internazionale.”

Secondo il documento degli Affari Esteri israeliani, “il commercio internazionale cambierà, le Nazioni alzeranno i ponti levatoi e ricostituiranno le proprie catene di produzione e di approvvigionamento, soprattutto negli ambiti essenziali alla sicurezza nazionale, nonostante i costi che ne deriveranno.” E questo con una massiccia riduzione o un aumento dei costi delle esportazioni di beni vitali come le apparecchiature sanitarie.

In questo contesto Israele dovrà concentrarsi su questo nuovo dato di fatto: la crisi sanitaria è diventata “un catalizzatore dell’espansione della Cina in quanto potenza mondiale.”

Anche se la Cina ha ‘esportato’ il virus, è stata la prima Nazione che si è ripresa, il che le ha dato un vantaggio sugli Stati Uniti. L’aiuto internazionale che la Cina ha fornito ai Paesi colpiti dall’epidemia del coronavirus, unito alla riluttanza degli Stati Uniti ad agire come gendarme del mondo, sta dando una spinta alla Cina”, afferma il rapporto interno.

L’ossessione iraniana

Gli esperti e i diplomatici israeliani consigliano di proseguire la “relazione speciale” con Washington, “una priorità diplomatica”, secondo loro, pur approfittando delle opportunità, soprattutto economiche, legate a Pechino.

Quanto all’area geostrategica più prossima ad Israele, il rapporto avverte che “i vicini pacifici, come la Giordania o l’Egitto”, che versano già in difficoltà economiche, “potrebbero subire una destabilizzazione”.

Un’altra preoccupazione riguarda l’ossessione israeliana: l’Iran. “Il timore è di vedere che l’Iran, dove il coronavirus sta massacrando ciò che resta dell’economia, possa precipitarsi a costruire armi nucleari per mantenere in piedi il regime.”

L’altra paura degli israeliani, riferita nel rapporto, è che “ la crisi mondiale rafforzi i ranghi di organizzazioni terroristiche come lo Stato islamico o al-Qaida.”

Tuttavia in questo quadro apocalittico ci sarebbero “degli aspetti positivi” dal punto di vista israeliano: “Il Ministero prevede un aumento della domanda mondiale di prodotti di alta tecnologia, soprattutto nell’ambito della gestione e della sorveglianza a distanza. Questo potrebbe essere un affare per Israele, che dispone di un settore di alta tecnologia molto sviluppato.”

Anche la versatilità del mercato israeliano e la sua capacità di adattarsi a situazioni nuove sono state citate come vantaggi. L’utilizzo da parte di Israele di mega dati e della tecnologia per combattere l’epidemia di coronavirus senza gravi violazioni delle libertà individuali potrebbe offrire ad Israele una prospettiva allettante”, conclude il quotidiano Israel Hayom.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)