Sei morti nel corso di un attacco israeliano contro un campo profughi nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

27 dicembre 2023 – Al Jazeera

Le ambulanze sarebbero state bloccate dall’esercito israeliano dopo l’attacco contro il campo profughi di Nur Shams, vicino a Tulkarem.

Almeno sei palestinesi sono stati uccisi da un drone israeliano durante un raid contro un campo profughi nel nord della Cisgiordania occupata mentre le forze israeliane hanno esteso le loro operazioni sul territorio.

La Mezzaluna Rossa palestinese (PRCS) e funzionari sanitari hanno riferito che mercoledì notte un drone ha colpito un gruppo di palestinesi nel campo profughi di Nur Shams, vicino a Tulkarem.

Secondo il Ministero palestinese della Salute sei corpi sono stati portati in un ospedale locale, oltre a varie persone ferite nel corso dell’attacco.

Secondo quello che ha riferito Imran Khan di Al Jazeera nel suo reportage di mercoledì da Nur Shams, le sei vittime sarebbero giovani fra i 16 e i 29 anni che stavano assistendo al raid.

Il drone è sceso dall’alto, chiaramente gli uomini non hanno avuto scampo. È stato un attacco mortale intenzionale,” ha detto.

L’incursione è stata il “secondo più massiccio raid” sul campo profughi in 24 ore, ha precisato Alan Fisher di Al Jazeera, che si trova nella Gerusalemme Est occupata ha riferito dei continui scontri a Tulkarem e Nur Shams durati fino alle 7 di mercoledì mattina.

Ci hanno avvertiti che c’erano cecchini sul tetto, che gli israeliani erano entrati a Nur Shams per cercare di arrestare persone che dicevano essere ‘ricercate’.”

La seconda notte consecutiva di raid contro il campo hanno fatto preoccupare la gente ancora di più per quello che sarebbe potuto succedere più tardi quella sera, ha aggiunto Fisher.

Ambulanze ‘bloccate’

opo l’attacco a Nur Shams, la PRCS ha detto che l’esercito israeliano ha impedito alle ambulanze di trasportare i morti e i feriti.

La gente ha cercato di aiutare [le vittime], ma per almeno un’ora e mezza gli israeliani non hanno permesso l’accesso alle ambulanze,” ha detto Khan di Al Jazeera. “Alla fine hanno dovuto prelevare i corpi e portarli giù dove stavano le ambulanze. Ovviamente a quel punto era troppo tardi. Erano morti.”

Al Jazeera ha parlato con fonti presso l’ospedale locale, secondo cui un soldato israeliano è entrato in un’ambulanza e ha pugnalato al collo un uomo ora ricoverato in un’unità di terapia intensiva.

L’esercito israeliano ha anche condotto raid notturni contro le città di Betlemme, Jenin, Hebron e Tubas. Secondo quanto riferito dalla palestinese agenzia di stampa Wafa, tre persone sono state ferite nel campo profughi di Dheisheh a Betlemme.

Stando a quanto dichiarato dalla Commissione degli Affari dei detenuti ed ex-detenuti e del Club dei Prigionieri palestinesi, almeno 12 persone sono state incarcerate dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata in raid notturni.

La violenza in Cisgiordania è esplosa con l’inizio della guerra israeliana contro la Striscia di Gaza il 7 ottobre. In questo periodo durante i raid oltre 300 persone sono state uccise e 4.700 palestinesi sono stati arrestati.

Nella Striscia di Gaza almeno 20.915 persone sono state uccise e 54.918 ferite nel corso degli attacchi israeliani dal 7 ottobre. Il bilancio aggiornato delle vittime dell’incursione di Hamas in Israele è di 1.139.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che il suo esercito non diminuirà l’intensità dei combattimenti, anzi “espanderà le operazioni a sud di Gaza”, mentre Herzi Halevi, il capo di stato maggiore israeliano, ha precisato che la guerra a Gaza continuerà per “molti mesi”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Trasferimento forzato, ‘imperativo morale’ e disprezzo coloniale

Ramona Wadi

26 dicembre 2023 Middle East Monitor

Due editoriali usciti il giorno di Natale, uno del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu pubblicato sul Wall Street Journal e l’altro di Joel Roskin, geologo e geografo all’Università Bar-Ilan, apparso sul Jerusalem Post, puntano entrambi verso la pulizia etnica dei palestinesi di Gaza. Solo che la retorica di Netanyahu, non i suoi ordini, lo fa in modo leggermente meno indelicato, per compiacere l’Occidente della cui approvazione ha bisogno per distruggere completamente Gaza.

Netanyahu elenca tre prerequisiti per la “pace” e non cita gli ostaggi israeliani che restano a Gaza sotto la minaccia di essere uccisi dai bombardamenti dell’IDF. “Hamas deve essere distrutto, Gaza deve essere demilitarizzata e la società palestinese deve essere deradicalizzata.” Naturalmente Netanyahu ha bisogno della complicità internazionale e insiste che la comunità internazionale “dovrebbe incolpare Hamas per le massicce perdite civili della guerra in corso”. No, non deve. Israele sta bombardando Gaza con il pretesto di eliminare Hamas per effettuare una campagna di pulizia etnica totale contro il popolo palestinese.

Tuttavia la comunità internazionale non ha fatto altro che mercanteggiare sulle pause umanitarie e gli aiuti umanitari. Nel frattempo, a porte chiuse, il piano di Netanyahu per i palestinesi di Gaza è la “migrazione volontaria” – l’eufemismo di Israele per il trasferimento forzato, vietato dal diritto internazionale, che la comunità internazionale ha normalizzato a favore di Israele nel corso della Nakba del 1948.

Queste notizie non sorprendono, dato che il ministero israeliana dell’Intelligence ritiene che il trasferimento forzato sia l’opzione preferita, e che lo scorso novembre il parlamentare del Likud Danny Danon ha promosso la violazione del diritto internazionale a “imperativo morale” per i Paesi occidentali. Se l’Occidente probabilmente non solleverà che poche obiezioni o nessuna ai piani israeliani di trasferimento forzato, non esiste alcun imperativo morale nell’assecondare la pulizia etnica. Il problema è che la comunità internazionale non ha l’imperativo morale per fermare permanentemente la violenza coloniale israeliana perché la sua complicità è a mala pena distinguibile dalle attuali azioni di Israele.

L’editoriale di Roskin gronda odio, arroganza e ricatto, e ignora completamente la realtà politica di Gaza, incluso il rifiuto della comunità internazionale di accettare i risultati elettorali del 2006 e di avviare un dialogo con Hamas. L’Egitto, scrive Roskin, sarebbe “accolto dalla comunità internazionale quale salvatore della disperata situazione dei gazawi” se accettasse di essere complice dei piani israeliani di pulizia etnica. Roskin considera la Penisola del Sinai il luogo ideale per il “reinsediamento” dei palestinesi cacciati da Gaza dalla campagna di bombardamenti israeliani. Chiamare i trasferimenti forzati “sinceri programmi di reinserimento”, afferma Roskin, “L’obliterazione di Hamas in corso, che terrorizza i funzionari dell’Autorità Palestinese e molti abitanti di Gaza, potrebbe spianare la strada comparsa della soluzione del Sinai prospettata, se presentata in modo accorto e discreto che sia conforme alla mentalità mediorientale.”

Tutte queste parole ostili non rivelano altro che disprezzo coloniale per la popolazione indigena palestinese. I palestinesi non sarebbero forse abbastanza maturi da formare il proprio percorso politico se avessero la possibilità di farlo, invece di diventare rifugiati perpetui secondo il paradigma umanitario, tutto a beneficio di Israele? Se i palestinesi di Gaza non possono ritornare alle proprie terre e sono trasferiti a forza con la completa benedizione della comunità internazionale, Gaza potrebbe essere persa, ma non si vedrà la fine della lotta anticolonialista palestinese.

Un popolo che ricorda non può perdersi, non se sa che il colonialismo è reversibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Il 7 ottobre un generale israeliano ha ucciso suoi concittadini per poi mentire al riguardo

Ali Abunimah e David Sheen

24 dicembre 2023 – The Electronic Intifada

Dei video e resoconti di testimoni recentemente pubblicati da media israeliani rivelano nuovi dettagli su come il 7 ottobre l’esercito israeliano abbia ucciso i propri civili nel Kibbutz Beeri.

La settimana scorsa il Canale 12 israeliano ha diffuso dei filmati inediti di un carro armato israeliano che spara contro un’abitazione civile all’interno dellinsediamento coloniale, a poche miglia a est di Gaza.

Le nuove prove mostrano che il comandante israeliano presente sul posto, il generale di brigata Barak Hiram, ha mentito a una famosa giornalista israeliana su ciò che è accaduto nel kibbutz quel giorno dopo il lancio da parte dei combattenti della resistenza palestinese di un assalto su larga scala contro basi militari e insediamenti coloniali israeliani oltre il confine di Gaza.

Si tratta di un tentativo di insabbiamento da parte di un alto ufficiale militare con la complicità dei media.

Ma lungi dallessere ritenuto in alcun modo responsabile, Hiram sta per assumere il suo nuovo ruolo di comandante della Divisione Gaza, la brigata dellesercito israeliano sconfitta il 7 ottobre dalle forze palestinesi.

Hiram abita nell’insediamento di Tekoa, costruito in violazione del diritto internazionale vicino alla città di Betlemme nella Cisgiordania occupata.

Il 26 ottobre in unintervista con Ilana Dayan, conduttrice del prestigioso programma investigativo Uvda del canale israeliano Channel 12, Hiram ha fornito un falso resoconto dei tentativi di salvare i civili a Beeri.

Ha anche propagandato false atrocità, sostenendo che i combattenti palestinesi, all’interno del kibbutz, avessero immobilizzato e giustiziato a sangue freddo 10 civili, otto dei quali minorenni.

Questo tipo di storie raccapriccianti – amplificate dai leader israeliani e inoltrate direttamente alla Casa Bianca e ai media mondiali – hanno avuto un ruolo diretto nel provocare il sostegno dei governi e dell’opinione pubblica occidentali alla risposta genocida da parte di Israele.

Lintervista di Hiram da parte di Dayan è stata trasmessa più di 10 giorni dopo che Yasmin Porat aveva fornito la propria testimonianza alla radio di Stato israeliana – un resoconto molto diverso da quello di Hiram e molto meno lusinghiero per le forze israeliane.

Porat era tra i 15 civili trattenuti dai combattenti palestinesi nella casa colpita da un carro armato come si osserva nel nuovo video, la casa di Pessi Cohen, residente nel kibbutz Be’eri, anch’egli rimasto lì ucciso.

Nella sua intervista del 15 ottobre alla radio israeliana, diventata virale dopo la traduzione di The Electronic Intifada, Porat ha descritto come lei e il suo compagno Tal Katz si trovassero al rave Supernova quando la mattina presto di sabato 7 ottobre è iniziato il lancio di razzi da Gaza.

La coppia è salita in macchina ed è fuggita a Be’eri dove ha bussato alla porta di Adi e Hadas Dagan, abitanti del kibbutz.

Sono rimasti nascosti insieme ai Dagan finché i combattenti palestinesi non li hanno trovati e portati in un’altra casa vicina dove altri civili erano tenuti prigionieri da diverse decine di combattenti di Hamas.

I primi rapporti affermavano erroneamente che questi eventi avevano avuto luogo nella sala da pranzo del kibbutz.

Secondo Porat, in casa di Pessi Cohen i combattenti palestinesi hanno trattato umanamente” una decina di civili israeliani e li hanno rassicurati sul fatto che non avrebbero subito ulteriori danni.

I palestinesi hanno fornito loro acqua e li hanno lasciati uscire sul prato per difendersi dal caldo.

Secondo Porat i combattenti volevano che i militari israeliani, che pensavano fossero già ammassati nella zona, garantissero loro un passaggio sicuro per un ritorno a Gaza, dove avrebbero poi rilasciato i civili al confine.

Le richieste dei combattenti sono state comunicate a Porat tramite Suhayb al-Razim, un autista palestinese di minibus della Gerusalemme Est occupata, anch’egli catturato e costretto a fungere da interprete in ebraico.

Al-Razim era stato catturato all’inizio della giornata mentre trasportava i partecipanti israeliani alla festa da e verso il rave Supernova.

Su richiesta dei combattenti palestinesi Porat ha chiamato la polizia israeliana per far sì che i militanti negoziassero una via d’uscita.

Dopo numerose telefonate con la polizia gli ostaggi e i loro rapitori hanno aspettato l’arrivo delle forze israeliane. Porat ha affermato che quando finalmente i soldati sono arrivati a ridosso della casa di Pessi Cohen hanno iniziato a sparare senza preavviso.

Uccisi dai loro

Eravamo fuori e allimprovviso c’è stata una raffica di proiettili contro di noi da parte dellunità [israeliana] YAMAM. Abbiamo iniziato tutti a correre per trovare un riparo”, ha detto Porat a Canale 12.

Nello scontro a fuoco che ne è seguito un comandante palestinese, in seguito identificato come Hasan Hamduna, ha trattato la propria resa con le forze israeliane. Gli hanno detto di spogliarsi e di uscire con Porat.

Appena fuori Porat ha chiesto agli israeliani di smettere di sparare, cosa che hanno fatto. Poi ha visto diversi abitanti del kibbutz stesi a terra – persone che, con una sola eccezione, sarebbero risultate morte.

Alla domanda se possano essere state le forze israeliane ad ucciderli, Porat ha risposto: senza dubbio”.

Hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi. Perché c’è stato un fuoco incrociato molto, molto pesante”, ha detto Porat. Sono stato liberata verso le 17:30. I combattimenti sarebbero finiti alle 20:30. Dopo un folle fuoco incrociato due proiettili di carro armato sono stati sparati contro la casa”.

Tra le persone uccise dai proiettili del carro armato c’erano Adi Dagan e il compagno di Porat, Tal Katz.

Hadas Dagan è rimasta ferita ma è sopravvissut, l’unica israeliana oltre a Porat a uscire viva dalla battaglia.

In un’altra intervista del mese scorso Porat ha rivelato che, secondo Hadas Dagan, il bombardamento del carro armato avrebbe ucciso anche Liel Hatsroni, una ragazza di 12 anni che i fautori della propaganda israeliana sostenevano fosse stata assassinata dai palestinesi.

Allinizio di questo mese, Hadas Dagan ha rilasciato la sua prima intervista, confermando i punti salienti del racconto di Porat.

Fa parte di un servizio di mezz’ora di Channel 12 andato in onda il 9 dicembre che presenta insieme a Porat anche i familiari di altri prigionieri israeliani uccisi nello stesso incidente.

È ovvio che questo episodio solleva un dilemma morale molto pesante. Non voglio che qualcuno utilizzi il complicato dilemma morale presente nella storia per puntare un dito accusatorio contro lesercito”, dice Dagan nel rivelare la causa immediata della morte di suo marito. “Per me è molto chiaro che io e Adi siamo stati feriti dalle schegge del proiettile del carro armato perché è successo proprio in quel momento.”

Descrive l’orribile esperienza vissuta nell’osservare suo marito sanguinare su di lei da una ferita nel collo lunga diversi centimetri, fino al momento in cui ha smesso di muoversi.

Sono arrabbiata, sono molto arrabbiata. Sono arrabbiata per il fatto che siamo stati abbandonati, che siamo stati traditi, che siamo stati soli, soli, soli, per così tante ore”, dice. “Adi, finire la sua vita in quel modo, massacrato.”

“All’improvviso ho visto un carro armato”

Un video girato quasi al livello del suolo mostra un carro armato che attraversa il kibbutz il 7 ottobre, mentre le riprese aeree da un elicottero israeliano mostrano un carro armato che spara un proiettile contro la casa di Pessi Cohen alle 17:33. I combattenti israeliani presenti lo hanno descritto come un colpo di avvertimento.

Il carro armato ha poi subito danni, forse a causa di un razzo RPG, sparato dall’interno della casa dai combattenti di Hamas: “Successivamente il carro armato è stato danneggiato e ne è arrivato un altro che ha completato la missione”, ha riferito Channel 12.

Nel rapporto del 9 dicembre Hadas Dagan conferma il resoconto di Yasmin Porat sui prolungati negoziati con i combattenti palestinesi prima che le forze israeliane arrivassero e iniziassero a sparare.

Canale 12 ha riprodotto l’audio delle telefonate fatte da Porat in cui lei, i gemelli israeliani dodicenni Liel e Yanai Hatsroni e il comandante palestinese Hasan Hamduna, parlano con i servizi di emergenza.

Hamduna dice all’ufficiale israeliano che vuole che l’esercito garantisca loro il passaggio verso Gaza, sostenendo che i palestinesi tengono prigionieri circa 50 israeliani.

Come ha spiegato Porat, Hamduna stava deliberatamente esagerando il numero dei prigionieri israeliani, evidentemente nel tentativo di indurre la polizia e l’esercito a trattare la situazione con maggiore urgenza.

C’è un video girato dopo che Hamduna si era arreso uscendo insieme a Porat in cui, sotto custodia israeliana, nudo, bendato e ammanettato, invita anche i suoi compagni ad arrendersi, dicendo loro attraverso un megafono che gli israeliani li avrebbero trattati umanamente e avrebbero curato le loro eventuali ferite.

Mentre era in corso questo tentativo di ripresa delle trattative è scoppiato uno scambio a fuoco ininterrotto, ha dichiarato Porat il 6 dicembre alla televisione di Stato israeliana Kan.

Alla fine è arrivato un secondo carro armato israeliano, probabilmente sotto la guida del comandante del battaglione corazzato, il tenente colonnello Salman Habaka, ucciso qualche settimana dopo a Gaza.

Io stesso sono arrivato a Beeri e ho fatto rapporto al generale di brigata Barak Hiram”, ha detto Habaka in un video prodotto dallesercito israeliano nei giorni successivi alla battaglia di Beeri.

“La prima cosa che mi ha ordinato: sparare un proiettile contro la casa.”

Quando un canale di un social media israeliano gli ha chiesto di raccontare come “è riuscito a salvare una famiglia”, Habaka non ha fornito alcuna informazione.

Ha detto invece che la sua missione era localizzare e annientare i terroristi”, e se fossero stati trovati in casa avremmo annientato i terroristi prima di inviare la fanteria per portare fuori le persone”.

Larrivo di tali armamenti ha immediatamente suscitato i timori di Yasmin Porat.

Allimprovviso ho visto un carro armato”, ha detto a Kan. Ricordo, ho detto a uno degli agenti di polizia: Ma cosa? Vuoi sparare con un proiettile da carro armato? Fuori ci sono degli ostaggi”.

“E lui mi ha risposto: ‘No, è solo per consentire alle unità di entrare in casa, stanno abbattendo i muri'”, ha aggiunto Porat.

Ma quelle non erano le uniche armi pesanti usate dalle forze israeliane a Beeri.

I principali media di tutto il mondo hanno trasmesso filmati sulle conseguenze del disastro nel kibbutz, dove intere file di case sono state ridotte in macerie.

Ma nessuno si è posto lovvia domanda: come hanno potuto i combattenti di Hamas armati solo di fucili dassalto AK-47 e qualche RPG aver causato danni così ingenti?

La risposta, ovviamente, è che non lo hanno fatto da soli. La televisione di Stato israeliana ha riferito che nel loro contrattacco per riconquistare Beeri le forze israeliane hanno utilizzato oltre ai carri armati anche elicotteri da combattimento.

Allinizio di questo mese due veterani della squadra di soccorso tattico d’élite dellesercito israeliano, lUnità 669, nel ruolo di soccorritori volontari, hanno raccontato a Kan ciò a cui hanno assistito a Beeri il 7 ottobre.

La situazione era questa: te ne stai seduto in un kibbutz nello Stato di Israele dove nei fine settimana portiamo i bambini ad andare in bicicletta. Ogni secondo un missile ti cade addosso. Ogni minuto”, dice Erez Tidhar, uno dei volontari. “All’improvviso vedi un missile lanciato da un elicottero che spara sul kibbutz.”

Un elicottero dellesercito israeliano spara contro un kibbutz israeliano”, aggiunge Tidhar costernato, e poi vedi un carro armato che avanza lungo le strade del kibbutz, spara con il cannone e spara un proiettile contro una casa. Queste sono cose che non puoi comprendere del tutto.”

Tidhar, nello specifico, è il capo della direzione nazionale della cyber sicurezza informatica di Israele.

Si sapeva già che il 7 ottobre gli elicotteri Apache israeliani di costruzione americana erano stati schierati in gran numero in tutta la regione e che avevano lanciato enormi quantità di devastanti missili Hellfire e proiettili di cannone esplosivi uccidendo sia palestinesi che civili israeliani.

Questa feroce potenza di fuoco ha incenerito a morte centinaia di persone in modo così devastante che le autorità israeliane non hanno potuto dire per settimane se si trattasse di combattenti palestinesi o civili israeliani.

La confusione ha portato Israele il 10 novembre a ridurre il proprio bilancio delle vittime a 1.200, attraverso lalto portavoce del governo israeliano Mark Regev che ha ammesso che 200 dei morti originariamente contati come israeliani erano in realtà combattenti palestinesi.

Autorizzazione a sparare”

Ma non è così che Barak Hiram, il generale di brigata presente sul posto, ha descritto gli eventi di Beeri.

Hiram ha descritto sé stesso nell’entrare eroicamente in una situazione caotica, assumendo il comando, combattendo coraggiosamente i terroristi e salvando ostaggi civili.

Ha anche raccontato storie di atrocità rivelatesi bugie grazie ai resoconti delle due sopravvissute, Yasmin Porat e Hadas Dagan.

Sabato mattina, quando abbiamo capito che era in corso uninvasione nellarea intorno a Gaza, molti soldati ed ex soldati provenienti da tutto Israele si sono uniti per sconfiggere i terroristi e salvare le famiglie israeliane nelle loro case”, ha detto Hiram l’11 ottobre al canale israeliano i24News.

Due settimane dopo, nella sua intervista del 26 ottobre con Ilana Dayan di Channel 12, ha ampliato la sua versione.

A un certo punto è arrivato anche Nissim Hazan, comandante di brigata nella mia divisione”, spiega Hiram.

Come Hiram, anche Hazan risiede in una colonia nella Cisgiordania occupata.

“È arrivato come comandante carrista su un unico carro armato che è riuscito a riparare dopo che aveva subito dei danni, ed è stato il nostro primo carro armato ad entrare nell’insediamento”, dice Hiram.

“E gli ho dato l’autorizzazione a sparare con mortai contro gli edifici solo per bloccare i terroristi”, aggiunge Hiram.

Parlando della situazione degli ostaggi, Hiram dice che mentre un commando israeliano noto come YAMAM stava ripulendo” uno dei quartieri, uno dei cittadini è riuscito a fuggire da una casa”.

Questa frase sembra riferirsi alluscita negoziata di Porat dalla casa Cohen insieme al combattente palestinese Hasan Hamduna.

“E ciò porta ad una situazione o sensazione secondo cui i terroristi barricati lì all’interno dell’isolato [di case] avrebbero potuto essere pronti a discutere o qualcosa del genere”, ricorda Hiram.

Secondo Hiram sarebbe arrivata sulla scena una squadra speciale di negoziatori che avrebbe cercato di comunicare con i combattenti all’interno.

Le distorsioni e le bugie di Hiram

Fino a questo punto il racconto di Hiram coincide più o meno con quello di Porat ma poi, con la complicità di Ilana Dayan, si trasforma in una spirale di distorsioni e di vere e proprie invenzioni.

Hanno risposto?” Dayan chiede riguardo agli sforzi di negoziazione. “Ci hanno risposto con un razzo RPG”, replica Hiram.

“A questo punto ho autorizzato il comandante della forza YAMAM a irrompere all’interno e cercare di salvare i cittadini intrappolati in quegli edifici”, afferma Hiram.

“Quindi la forza YAMAM ha ingaggiato una battaglia davvero eroica facendo irruzione all’interno”, impreziosisce Dayan. “C’era qualche speranza che ci fossero ancora degli ostaggi da salvare?”

“Credo che in quell’isolato ci fossero circa 20 abitanti e che le forze YAMAM siano riuscite a salvarne circa quattro”, afferma Hiram.

Tutti gli altri sono stati assassinati”, continua Dayan.

“Tutti gli altri sono stati assassinati a sangue freddo”, risponde Hiram. “E lì abbiamo trovato otto bambini legati insieme e fucilati e una coppia, marito e moglie, legati insieme e fucilati.”

Menzogne mortali ascoltate a Washington

Il racconto di Hiram costituisce probabilmente la fonte delle affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu giunte subito dopo direttamente al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, secondo cui Hanno preso decine di bambini, li hanno legati, bruciati e giustiziati”.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha confutato le affermazioni, riferendo allinizio di questo mese che non ci sono prove che bambini di diverse famiglie siano stati assassinati insieme”.

Ciò vale anche per le famiglie tenute in ostaggio nell’abitazione di Pessi Cohen, come confermano gli unici prigionieri scampati alla morte.

Hadas Dagan non ha mai affermato che gli ostaggi fossero stati legati e Yasmin Porat ha precisato in un’intervista del 12 ottobre a Channel 12 che il suo compagno Tal Katz, ucciso anche lui dal bombardamento decisivo del carro armato, era l’unico nel loro gruppo di 15 ostaggi che i combattenti di Hamas avevano ammanettato.

Dagan non ha mai affermato che vi siano state esecuzioni e Porat ha insistito sul fatto che ciò non è avvenuto.

Nella stessa intervista del 12 ottobre Porat ha affermato che, sebbene tutti i combattenti palestinesi fossero ben provvisti di armi, non li ha mai visti sparare ai prigionieri o minacciarli.

Non ci hanno maltrattato. Ci hanno trattato in modo molto umano”, ha detto Porat tre giorni dopo nella sua ormai famosa intervista radiofonica con Kan.

«Con questo intendo dire che ci sorvegliavano. Di tanto in tanto ci davano qualcosa da bere. Quando vedevano che eravamo nervosi ci calmavano”, ha aggiunto. “È stato molto terrificante, ma nessuno ci ha trattato con violenza. Fortunatamente non mi è successo niente di simile a quello che ho sentito dai media”.

Inoltre, né Porat né Dagan hanno mai riferito, né è emerso alcun video, di commando israeliani che avessero fatto irruzione nella casa nel tentativo di salvare i prigionieri.

E contrariamente alla descrizione fatta da Hiram si sono svolte delle trattative, come ha descritto Porat.

Alcuni giorni dopo la messa in onda da parte di Channel 12 dell’intervista con Hiram Channel 13 ha trasmesso le registrazioni delle chiamate ai servizi di emergenza in cui i combattenti palestinesi cercavano di negoziare un passaggio sicuro per il loro ritorno a Gaza.

Anche un resoconto degli eventi di Beeri pubblicato sul New York Times il 22 dicembre descrive Hiram come un uomo che aveva fretta di usare la forza, nonostante altri ufficiali pensassero che i negoziati avrebbero potuto produrre risultati migliori.

“Mentre si avvicinava il crepuscolo il comandante dello SWAT [commando] e il generale Hiram hanno iniziato a discutere”, riferisce il Times. Il comandante della SWAT pensava che altri rapitori avrebbero potuto arrendersi. Il generale voleva che la situazione fosse risolta prima della notte.

“Qualche minuto dopo, secondo il generale e altri testimoni, i militanti avrebbero lanciato una granata con un lanciarazzi”, afferma il giornale.

Le trattative sono finite”, avrebbe detto Hiram al comandante del carro armato, secondo il Times. Irrompete anche a costo di vittime civili”.

Invece di salvare quattro persone come riferito a Ilana Dayan, ordinando di sparare proiettili contro la casa, Hiram ha fatto sì che tutti sul campo di battaglia tranne Hadas Dagan fossero uccisi e che almeno altri tre – Liel Hatsroni, la sua zia e tutrice Ayala Hatsroni e Suhayb al-Razim – fossero quasi completamente inceneriti sul posto.

I parenti chiedono un’inchiesta

I parenti delle persone uccise a Beeri, tenendo conto delle bugie di Hiram, si pongono domande su ciò che è accaduto ai loro cari.

Raccogliamo frammenti di informazioni, nessuno ci parla in modo chiaro”, dice Naama Ben Ami, la cui madre Hava è stata uccisa a Beeri. “Non sappiamo davvero cosa sia successo qui.”

Ben Ami e altri parenti sono stati intervistati tra le rovine di Beeri nel corso dello stesso servizio di Channel 12 del 9 dicembre in cui Hadas Dagan ha parlato per la prima volta.

“Penso che qui ci siano molte questioni inquietanti sulla gestione delle operazioni”, dice Omri Shifroni, nipote di Ayala Hatsroni e cugino dei gemelli dodicenni da lei allevati, Liel e Yanai Hatsroni, tutti morti nel massacro di Be’eri.

“Come sono arrivati ​​qui? Quando hanno aperto il fuoco, chi ha sparato? Non so chi li abbia uccisi”, dice Shifroni.

Poi fa un riferimento esplicito alle affermazioni di Hiram fatte nellintervista con Dayan.

“Non ne aveva idea!” Shifroni dice del generale di brigata. Anche quando ha parlato, e questo è successo due settimane dopo [gli eventi del 7 ottobre], non aveva idea di cosa fosse successo qui. Nessun indizio, perché non era la verità.

“Questo è qualcosa su cui devono indagare”, dice Sharon Cohen, la nuora di Pessi Cohen. “Devono farlo.”

Stavano parlando specificamente dei loro stessi parenti, ma ciò che è accaduto al kibbutz Beeri non è stata l’unica circostanza in cui Israele ha ucciso la propria gente, sia per sconsiderata incompetenza sia intenzionalmente.

La verità trapela

Finora la verità ha cominciato a trapelare solo un po’ alla volta.

A novembre una fonte della polizia israeliana ha ammesso che elicotteri militari hanno sparato contro i civili al rave Supernova – la festa musicale nel deserto vicino a Beeri a cui avevano partecipato Yasmin Porat e il suo compagno.

Nof Erez, un colonnello dellaeronautica israeliana, è arrivato addirittura a definire la risposta israeliana al 7 ottobre un Annibale di massa” – unapplicazione su larga scala della dottrina militare israeliana che consente luccisione deliberata della sua stessa gente piuttosto che consentire che vengano fatti prigionieri.

Nello stesso mese Israele ha rivelato che centinaia di corpi bruciati in modo irriconoscibile, ritenuti appartenenti ai suoi stessi civili, erano in realtà di combattenti di Hamas: una chiara ammissione di fuoco indiscriminato su vasta scala.

Allinizio di questo mese lesercito israeliano ha ammesso un’“immensa” quantità di cosiddetti incidenti di fuoco amico verificatisi il 7 ottobre, ma ha affermato che non sarebbe moralmente sano” indagare su di essi, come ha riportato il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth.

Israele ha inoltre dovuto affrontare un enorme imbarazzo internazionale e rabbia in patria dopo che il suo esercito ha ammesso di aver ucciso tre prigionieri israeliani che erano riusciti a scappare dai loro sequestratori a Gaza.

Il mostro” palestinese

Mentre luccisione il 7 ottobre di civili israeliani – uomini e donne, giovani e anziani – da parte dei combattenti palestinesi è stata ampiamente riportata, quella di civili israeliani da parte delle forze israeliane, avvenuta nello stesso giorno, è stata insabbiata dallo Stato israeliano.

Nel frattempo, i media israeliani e i loro simpatizzanti allestero diffondono con grande enfasi affermazioni non verificate e bugie per distrarre o giustificare il genocidio di Gaza.

Tra queste le famigerate bugie sui bambini ebrei giustiziati e appesi a un filo per il bucato, decapitati e persino cotti in un forno.

Ma in un Israele più entusiasta che mai di annientare i palestinesi, sono poche le voci che chiedono una reale assunzione di responsabilità su ciò che è accaduto il 7 ottobre e dopo.

Si prenda Ilana Dayan per esempio.

Nella veste di una delle più importanti reporter “investigative” israeliane, ha cercato di scagionare Barak Hiram dalla responsabilità del bombardamento del carro armato che ha ucciso a Be’eri dei cittadini israeliani affermando: “Per quanto le notizie riportano un incidente con degli ostaggi a Be’eri, purtroppo in realtà non cerano ostaggi”.

Ecco come ha spiegato cosa sarebbe successo quel giorno in una recente puntata del podcast Unholy, condotto da Yonit Levy di Channel 12 e Jonathan Freedland di The Guardian: “C’è un mostro che è cresciuto dall’altra parte della recinzione, dall’altra parte del confine.”

Per quanto molto spigliata nel riferire esagerazioni e invenzioni Dayan non ha espresso alcun interesse per ciò che Israele fa da oltre 75 anni ai palestinesi in tutto il Paese, e soprattutto a Gaza, tanto da averli indotti a lanciare un attacco armato su vasta scala contro Israele.

Quando le è stato chiesto se gli israeliani un giorno avrebbero dovuto fare i conti con lorribile portata di morte, sofferenza e devastazione che il loro esercito sta infliggendo ai civili a Gaza, Dayan ha risposto indignata.

È possibile capire che una nazione con il cuore spezzato è troppo distrutta per avere un minimo di empatia per laltro, per il nemico?” ha chiesto Dayan. Cosa si aspettava Hamas quando ha lanciato questa atrocità brutale, sadica, terribile, mostruosa? Cosa si aspettavano?”

E alla domanda se agli israeliani dovesse essere mostrata questa realtà, Dayan ha risposto: Non siamo giornalisti stranieri, siamo giornalisti israeliani. Non è il momento per noi di fare valutazioni su entrambe le parti”.

Ciò potrebbe spiegare perché Dayan abbia voluto aiutare Barak Hiram e assecondare il suo fantasioso racconto della battaglia di Beeri, seppellendo la verità su come Israele abbia ucciso lì i suoi stessi cittadini.

Tuttavia, ciò non spiega perché i media, le organizzazioni e i governi internazionali, comprese le Nazioni Unite, continuino ad accettare le bugie di Israele e non abbiano richiesto indagini credibili e indipendenti su ciò che è realmente accaduto il 7 ottobre.

Il prezzo di questa complicità lo sta pagando il popolo di Gaza.

Ali Abunimah è il direttore esecutivo di The Electronic Intifada.

David Sheen è lautore di Kahanism and American Politics: The Democratic Partys Decades-Long Courtship of Racist Fanatics [Kahanismo e politica americana: il corteggiamento decennale dei fanatici razzisti da parte del Partito Democratico, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I soccorritori di Gaza tormentati per coloro che non hanno potuto salvare

Ruwaida Kamal Amer

19 dicembre 2023 – +972 Magazine

Le squadre della protezione civile lavorano 24 ore su 24 con risorse ridottissime per aiutare i palestinesi intrappolati sotto le macerie. Troppo spesso è una battaglia persa.

Non riesco a dormire nemmeno per un minuto. Sono continuamente ossessionato dalle voci e dalle grida delle persone sotto le macerie che ci pregano di tirarle fuori.”

Ecco come Ibrahim Musa, un ventisettenne del campo profughi di Al-Bureij nel centro della Striscia di Gaza, descrive la sua vita dopo l’inizio del bombardamento di Israele. Non solo lotta per sopravvivere giorno dopo giorno come tutti nell’enclave assediata, ma Musa è anche uno degli oltre 14.000 addetti al soccorso inclusi nelle squadre di difesa civile di Gaza, che dopo ogni attacco aereo israeliano guidano i tentativi di salvare le vite di chi è rimasto intrappolato sotto le macerie.

Musa, pur avendo lavorato nella protezione civile di Gaza per cinque anni – anche durante le tante aggressioni israeliane alla Striscia, come in periodi di relativa “calma” in cui il lavoro consiste nel soccorrere le persone in casi di emergenza più comuni – non ha mai assistito a qualcosa di simile a ciò che sta accadendo adesso. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza dall’inizio della guerra si contano più di 8.000 persone disperse, di cui la gran maggioranza si pensa sia sepolta sotto le macerie. Molti di loro sono probabilmente morti nonostante tutti gli sforzi degli operatori della difesa civile come Musa, che non sono in grado di competere con il livello di distruzione che si è abbattuto su Gaza nelle ultime settimane.

Non abbiamo le attrezzature per rimuovere le macerie,” spiega Musa. “Se si tratta di un edificio di parecchi piani non c’è molto che possiamo fare. Ci vogliono molte ore e molti tentativi per ottenere qualche progresso.”

Arrivati sulla scena della distruzione dopo un attacco aereo israeliano, gli operatori della protezione civile devono cercare velocemente di capire con che cosa hanno a che fare. “Normalmente non sappiamo chi è intrappolato di sotto o quante persone stiamo cercando, perciò chiamiamo tra le macerie chiedendo se qualcuno è vivo e può dirci quante persone vivevano in questa casa.”, dice Musa. “Gridiamo finché qualcuno ci sente. A volte c’è una risposta immediata, ma spesso sentiamo solo dei gemiti che cerchiamo di seguire per salvare quelle persone.”

Una situazione che i soccorritori di Gaza affrontano regolarmente è dover cercare di calmare i bambini che sono intrappolati sotto le rovine della loro casa. “I bambini chiamano da sotto le macerie chiedendo dei membri della loro famiglia”, continua Musa. “A volte mentiamo e diciamo che stanno tutti bene in modo che non rimangano scioccati. Altre volte chiamano per dirci che un membro della famiglia che viveva vicino a loro è diventato un martire.”

Musa spesso ha l’impressione che lui e i suoi colleghi stiano combattendo una battaglia persa. “Non si tratta di una o due case bombardate, ma di interi complessi residenziali”, spiega. “L’intera area è completamente distrutta e diventa un unico cumulo di macerie. Dobbiamo scavare con le mani per tirar fuori le persone ferite ancora vive. Cerchiamo di stare attenti perché il peso delle macerie sui loro corpi potrebbe far sì che noi gli facciamo del male, persino fargli perdere degli arti nel tentativo di salvarli.”

La mia giornata è iniziata il 7 ottobre e non è ancora finita’

Ahmed Abu Khudair di Deir al-Balah, nel centro di Gaza, è un altro membro della protezione civile. Come Musa descrive questa guerra come “più aggressiva e violenta” di tutti i precedenti attacchi di Israele contro la Striscia; di fatto ritiene che l’esercito israeliano stia cercando attivamente di infliggere il maggior danno possibile alla popolazione civile di Gaza.

Gli stessi operatori della protezione civile non sono immuni dagli attacchi israeliani: almeno 32 di loro sono stati uccisi dall’inizio della guerra, compresi sette membri della squadra di Abu Khudair. Lui pensa che non sia stato per sbaglio.

Le forze di occupazione prendono di mira deliberatamente le squadre di difesa civile e delle ambulanze”, dice Abu Khudair. “Io sono stato ferito mentre lavoravo in una casa che era stata bombardata nel sud di Gaza. Abbiamo recuperato i corpi di tre martiri e salvato parecchi feriti, ma poi la casa è stata nuovamente bombardata. Quando sono salito sul tetto di una delle case vicine per cercare le persone siamo stati esposti ad altri due missili.”

Musa concorda con l’affermazione di Abu Khudair: “A Gaza chiunque è un bersaglio”.

Nonostante lavorino regolarmente 24 ore di seguito, gli operatori della protezione civile devono accettare il fatto che non sono in grado di salvare tutte le persone sepolte dalle macerie. “Non ci sono attrezzature”, dice Abu Khudair, spiegando che mancano i bulldozer per rimuovere grandi blocchi di cemento e anche dispositivi elettronici che possano individuare la posizione delle vittime. “Lavoriamo solo con la nostra forza fisica.”

Una situazione particolarmente devastante che è rimasta impressa nella memoria di Abu Khudair è stata in seguito ad un bombardamento notturno vicino ad un distributore di benzina nella cittadina di Al-Qarara, nel sud di Gaza. “Sono arrivato sul posto e in un primo momento non ho potuto trovare alcuna vittima”, ricorda. “Poi ho sentito dei lamenti e mi sono diretto verso quei suoni. Ho scavato tra le macerie e ho trovato due gambe incastrate, che ho liberato – appartenevano a una ragazza di 12 anni di nome Aisha.” La ragazzina gli ha detto che otto membri della sua famiglia erano intrappolati sotto le macerie, oltre ad altre famiglie, compresi 9 bambini molto piccoli.

Nonostante tutti i tentativi possibili di Abu Khudair e dei suoi colleghi, semplicemente non avevano i mezzi per salvarli. Descrive questo come “uno dei momenti più duri che ho vissuto – lasciare un luogo sapendo che ci sono persone vive sotto le macerie, ma non puoi fare niente per loro e alcuni moriranno di sicuro.

Oltre a cercare di salvare ogni giorno persone che non conoscono, i soccorritori hanno anche le proprie famiglie di cui preoccuparsi. Musa è stato lontano dalla sua casa e dalla sua famiglia lavorando 24 ore su 24 fin dal primo giorno di guerra, vivendo insieme ai suoi colleghi nell’ospedale Martiri di Al-Aqsa.

Nei periodi di guerra chi di noi sta nelle squadre di soccorso non sa mai quando le nostre giornate inizieranno o finiranno”, spiega. “Quanto a me, la mia giornata è iniziata il 7 ottobre e non è ancora finita.”

Essere lontano dalla propria famiglia significa che Musa non sa come stanno i suoi famigliari e riceve solo degli aggiornamenti per telefono. “Alcuni giorni trovano rifugio in una delle scuole a causa del pesante bombardamento del nostro quartiere nel campo [profughi] di Al-Bureij, altri giorni ritornano a casa”, dice. “Manco ai miei figli quanto loro mancano a me.”

Musa ha incontrato sua moglie e i suoi due figli solo una volta in più di due mesi – in seguito ad un attacco aereo vicino alla loro casa. “Mi hanno detto che c’era stato un bombardamento di una casa nel campo”, ricorda Musa. “Ero molto preoccupato per la mia famiglia. Con il veicolo della difesa civile siamo arrivati sempre più vicino alla strada in cui si trova la nostra casa, finché mi sono trovato alla porta del nostro edificio.”

Il bombardamento, prosegue Musa, aveva preso di mira la casa di suo zio, che è nello stesso edificio della sua famiglia. “Ho sentito tutti gridare e piangere. Mi sono messo a cercare mio zio e i suoi figli e chiunque si trovasse nella casa. Ho saputo che mio fratello di 19 anni, Abdul Rahman, era da loro, ma non ne ho trovato traccia. Il suo corpo era stato fatto a pezzi e mia sorella lo ha riconosciuto solo dai pantaloni che indossava; glieli aveva portati in regalo dall’Egitto solo pochi giorni prima della guerra.”

Poi ho visto mia moglie e i miei bambini, per pochi minuti,” prosegue Musa. “Erano salvi, ma terrorizzati.”

Nonostante gli orrori che affrontano, Musa e Abu Khudair trovano un senso profondo nel loro lavoro. “Sentiamo che questi sono nostri figli, nostri fratelli, nostri familiari che stiamo salvando”, spiega Musa. “Proviamo un senso di vittoria quando riusciamo a tirar fuori dalle macerie qualcuno in sicurezza. Ma quando sentiamo le grida di aiuto dei bambini sotto le macerie, nessuno di noi può trattenere le lacrime.”

Ê il nostro lavoro”, dice Abu Khudair. “Anche se Israele non rispetta il diritto internazionale, la legge è dalla nostra parte e siamo protetti dalla volontà di Dio.”

Ruwaida Kamal Amer è una giornalista indipendente corrispondente da Khan Younis.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




ESCLUSIVA: LA CENSURA MILITARE ISRAELIANA VIETA DI RIFERIRE SU QUESTI OTTO ARGOMENTI

Ken Klippenstein, Daniel Boguslaw

23 dicembre 2023, The Intercept

Un insolito ordine in lingua inglese sulla guerra di Gaza rompe la segretezza e l’informalità con cui normalmente funziona la censura dell’Esercito israeliano.

Armi usate dalle forze di difesa israeliane, fughe di notizie dal gabinetto di sicurezza, storie di persone tenute in ostaggio da Hamas… sono alcuni degli otto argomenti di cui, secondo un documento ottenuto da The Intercept, in Israele ai media è vietato parlare.

Il documento, un ordine di censura indirizzato ai media dall’esercito israeliano come parte della guerra contro Hamas, non era stato segnalato in precedenza. Il promemoria, scritto in inglese, è stata una mossa insolita per la censura dell’IDF che fa parte dell’esercito israeliano da più di settant’anni.

“Non ho mai visto istruzioni come queste inviate dalla censura, a parte avvisi generali che invitavano i media a conformarsi, e anche allora erano inviati solo a determinate persone”, ha detto Michael Omer-Man, ex redattore capo della rivista israeliana +972 Magazine e oggi direttore della ricerca su Israele-Palestina presso Democracy in the Arab World Now, o DAWN, un gruppo di pressione statunitense.

Intitolato “Direttiva del Capo Israeliano della censura ai media per l’Operazione ‘Spade di Ferro’”, l’ordine non è datato ma il suo riferimento all’Operazione Spade di Ferro – il nome dell’attuale operazione militare israeliana a Gaza – chiarisce che è stato emesso qualche tempo dopo l’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre. L’ordine è firmato dal capo censore delle forze di difesa israeliane, Generale di Brigata Kobi Mandelblit. (Il censore militare israeliano non ha risposto a una richiesta di commento sul promemoria.)

Il documento è stato fornito a The Intercept da una fonte che ne ha avuto una copia dall’esercito israeliano. Un documento identico appare sul sito web del governo israeliano.

“Alla luce dell’attuale situazione di sicurezza e dell’intensa copertura mediatica, desideriamo incoraggiarvi a sottoporre alla censura tutto il materiale riguardante le attività delle Forze di difesa israeliane (IDF) e delle forze di sicurezza israeliane prima che sia reso pubblico”, dice l’ordine. “Si prega di informare il proprio staff sul contenuto di questa lettera, con particolare attenzione alla redazione e ai giornalisti sul campo.”

L’ordine elenca otto argomenti di cui è vietato ai media riferire senza previa approvazione da parte della censura militare israeliana. Alcuni degli argomenti toccano questioni politiche scottanti in Israele e a livello internazionale, come rivelazioni potenzialmente imbarazzanti sulle armi usate da Israele o catturate da Hamas, discussioni sulle riunioni del gabinetto di sicurezza e sugli ostaggi israeliani a Gaza – una questione per la cui cattiva gestione il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato ampiamente criticato.

La nota vieta inoltre di riferire su dettagli di operazioni militari, intelligence israeliana, attacchi missilistici che abbiano colpito luoghi sensibili in Israele, attacchi informatici e visite di alti ufficiali militari sul campo di battaglia.

Le preoccupazioni circa una politicizzazione della censura militare non sono meramente ipotetiche. Il mese scorso, secondo quanto riferito, il censore israeliano si è lamentato del fatto che Netanyahu gli stesse facendo pressione affinché reprimesse alcuni media senza una ragione legittima. Netanyahu ha negato l’accusa.

Autocensura e segretezza

La Censura Militare Israeliana è un’unità situata all’interno della Direzione dell’Intelligence Militare dell’IDF. L’unità è comandata dal capo censore, un ufficiale militare nominato dal Ministro della Difesa.

Guy Lurie, ricercatore presso l’Israel Democracy Institute con sede a Gerusalemme, ha detto a The Intercept che da quando è iniziata la guerra di Israele contro Hamas più di 6.500 nuovi articoli sono stati completamente o parzialmente censurati dal governo israeliano.

Per contestualizzare la cifra, Lurie ha affermato che si tratta di circa quattro volte in più rispetto a prima della guerra, citando un articolo del quotidiano israeliano Shakuf sulle richieste di libertà di informazione. Il numero di contributi sottoposti alla censura, tuttavia, è significativamente più alto in questo momento di intenso conflitto, e Lurie ha osservato che le notizie sono sottoposte a un normale livello di censura considerando il totale dei contributi.

Il numero effettivo di nuovi articoli sottoposti a censura, tuttavia, non potrà mai essere quantificato. A causa di un sistema di strette relazioni e di una certa consapevolezza su cosa aspettarsi, i giornalisti israeliani finiscono per autocensurarsi.

“Le persone si autocensurano, non provano nemmeno a riferire le storie che sanno che non passeranno”, ha detto Omer-Man. “E questo è dimostrato proprio adesso da quanto poco i comuni israeliani sappiano dalla stampa ciò che sta accadendo a Gaza ai palestinesi”.

Sono questi modi di censura non ufficiale che danno potere alla censura in Israele, dicono gli esperti.

Nel 2022 un rapporto del Dipartimento di Stato sui diritti umani in Israele e nei territori palestinesi occupati ha affrontato la censura militare, selezionando due giornali in lingua araba nella Gerusalemme est occupata. Pur sottolineando che il censore dell’IDF non controllava gli articoli, il Dipartimento di Stato ha affermato: “I redattori e i giornalisti di quelle pubblicazioni, tuttavia, hanno riferito di essersi autocensurati per paura di ritorsioni da parte delle autorità israeliane”.

Un tempo la censura aveva un Comitato Editoriale composto da tre membri: uno della stampa, uno dell’esercito e un membro eletto pubblicamente che fungeva da presidente. Sebbene il Comitato Editoriale non esista più ufficialmente, un organismo simile, anche se informale, mantiene ancora una certa influenza.

Anche se la legge che istituisce la censura gli conferisce ampi poteri, il censore è rispettato in Israele perché è politicamente indipendente ed agisce con moderazione, soprattutto in confronto a altri paesi della regione.

“Se vedi la legge che governa la censura, è davvero draconiana in termini di autorità formali di cui dispone il censore”, ha detto Lurie a The Intercept. “Ma è mitigata da quell’accordo informale”.

Quasi tutto avviene in segreto: le discussioni del Comitato sono confidenziali, così come la maggior parte dei comunicati tra i media e la censura.

Alla domanda sul perché i procedimenti siano così segreti e perché anche le testate giornalistiche non ne parlino apertamente, un giornalista occidentale con sede in Israele e Palestina, che ha chiesto l’anonimato per evitare ritorsioni, ha dato una valutazione schietta: “Perché è imbarazzante”.

La stampa straniera e la censura

Il fatto che la nota di direttive per l’attuale guerra israeliana a Gaza sia in inglese suggerisce che sia destinato ai media occidentali. I giornalisti stranieri che lavorano in Israele devono ottenere il permesso del governo, inclusa una dichiarazione che rispetteranno la censura.

“Per ottenere un visto come giornalista devi ottenere l’approvazione del GPO (Ufficio stampa del governo) e quindi devi firmare un documento in cui dichiari che rispetterai la censura”, ha detto Omer-Man. “Questo è di per sé probabilmente contrario alle linee guida etiche di molti giornali.”

Nondimeno molti giornalisti firmano il documento. Mentre l’Associated Press, ad esempio, non ha risposto alla domanda di The Intercept sulla sua collaborazione con la censura militare, il News Wire in passato ha parlato della questione, ammettendo anche di attenersi alla direttiva.

“L’Associated Press ha accettato, come altre organizzazioni, di rispettare le regole della censura, che è una condizione per ricevere il permesso di operare come organizzazione di informazione in Israele”, ha scritto l’agenzia in un articolo del 2006. “Ci si aspetta che i giornalisti si censurino e non riportino alcun materiale proibito.”

Alla domanda se rispettasse le linee guida della censura militare israeliana e se la sua ottemperanza fosse cambiata dall’inizio della guerra, Azhar AlFadl Miranda, direttore delle comunicazioni del Washington Post, ha dichiarato a The Intercept in una e-mail: “Non possiamo condividere informazioni”, aggiungendo che “non discutiamo pubblicamente le nostre decisioni editoriali”.

Il New York Times ha dichiarato a The Intercept: “Il New York Times riporta in modo indipendente l’intero spettro di questo complicato conflitto. Non sottoponiamo le nostre corrispondenze alla censura militare israeliana”. (Reuters non ha risposto alle domande di The Intercept.)

La stampa estera che collabora con la censura è soggetta allo stesso sistema: molti articoli non passano attraverso la censura, ma alcuni argomenti prevedono che gli articoli vengano sottoposti.

“Sanno che devono trasmettere alla censura gli articoli su determinati argomenti che vogliono pubblicare “, ha detto Lurie. “Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Una delle cose che rende insolito l’ordine di censura scritto in lingua inglese, tuttavia, è il riferimento esplicito alla guerra con Hamas. “Non l’ho mai visto per una guerra specifica”, ha detto Lurie.

“Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Un argomento noto come sensibile in Israele è l’arsenale nucleare segreto del paese. Nel 2004, il giornalista della BBC Simon Wilson aveva intervistato Mordechai Vanunu, un informatore sul programma nucleare che era appena stato rilasciato dal carcere. La censura israeliana richiese copie dell’intervista, ma Wilson non accettò.

A Wilson è stato quindi impedito il rientro e il governo israeliano ha richiesto delle scuse. Inizialmente, la BBC si rifiutò di fornirne, ma alla fine il colosso mondiale dell’informazione cedette.

“[Wilson] Conferma che dopo l’intervista a Vanunu è stato contattato dalla censura e gli è stato chiesto di consegnare loro le cassette. Non lo ha fatto. Si rammarica delle difficoltà che ciò ha causato”, ha affermato la BBC nelle scuse. “Si impegna a rispettare le norme in futuro e comprende che qualsiasi ulteriore violazione comporterà la revoca del suo visto.”

Le scuse, come gran parte del lavoro della censura, sarebbero dovute rimanere segrete secondo un articolo del Guardian del 2005, ma la BBC le pubblicò accidentalmente sul suo sito web prima di rimuoverle rapidamente.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’ONU chiede un’indagine in seguito alle accuse mosse all’esercito israeliano di aver ucciso palestinesi disarmati

Redazione di Al Jazeera

21 dicembre 2023 – Al Jazeera

L’ufficio per i diritti umani dell’ONU invoca un’indagine per ‘possibili crimini di guerra’ a fronte della notizia che l’esercito israeliano avrebbe ‘giustiziato’ 11 uomini palestinesi a Gaza.

L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha chiesto un’indagine indipendente sulle accuse secondo cui l’esercito israeliano avrebbe “sommariamente giustiziato” almeno 11 uomini palestinesi in quello che ha definito “un possibile crimine di guerra”.

Le autorità israeliane devono immediatamente avviare un’indagine indipendente, accurata ed efficace su queste affermazioni e, se fossero comprovate, i responsabili devono essere consegnati alla giustizia e si devono implementare misure per evitare che tali serie violazioni si ripetano,” ha dichiarato mercoledì l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR).

Al Jazeera ha parlato con vari testimoni del raid di martedì durante il quale i soldati israeliani avrebbero circondato e fatto irruzione in un edificio residenziale, andando da un piano all’altro, separando gli uomini dalle donne e dai bambini per poi uccidere 11 degli uomini davanti alle loro famiglie. I sopravvissuti hanno detto che gli uomini avevano dai 20 ai 30 anni.

Hanno visto che eravamo uomini con le loro mogli e bambini. Mio cognato ha tentato di parlare per spiegare che in casa eravamo tutti civili, ma l’hanno ammazzato,” ha detto uno dei sopravvissuti ad Al Jazeera descrivendo l’attacco contro le famiglie rifugiatesi nell’edificio al-Adwa nel quartiere Remal a Gaza City.

I soldati “fatto irruzione in ogni casa, hanno ucciso gli uomini e trattenuto le donne e i bambini. Non sappiamo dove si trovino ora. Hanno fatto la stessa cosa ad ogni piano. Tutte le donne sono state portate in una stanza. Quando sono arrivati da noi al sesto piano hanno cominciato a uccidere tutti gli uomini,” ha detto una donna, aggiungendo che hanno sparato a suo suocero e al figlio che sono morti all’istante.

I sopravvissuti hanno detto che i soldati israeliani hanno anche aggredito le donne e i bambini dopo averli ammassati in una stanza dell’edificio noto come Annan.

Quando tutte le donne erano in una stanza ci hanno sparato contro tre bombe da mortaio e poi hanno continuato a mitragliarci,” ci ha riferito una donna ferita.

Io sono stata colpita con una pallottola alla mano, mia figlia alla testa, la mia figlia più piccola è stata uccisa e mio figlio è stato accecato. Mio marito è stato giustiziato a sangue freddo. Tutte le mie altre figlie hanno subito gravi ferite, ossa fratturate, le carni lacerate. Siamo stati tutti colpiti da pallottole o schegge,” ha aggiunto.

L’analista Tamer Qarmout, assistente universitario presso l’Istituto di Studi Universitari a Doha, ha accolto favorevolmente la richiesta di indagini dell’ONU per “le uccisioni illegali”, precisando ad Al Jazeera che la questione fondamentale è come saranno condotte.

A nessuno degli organismi che potrebbero indagare sui presunti crimini israeliani contro i palestinesi è permesso al momento di entrare nella Striscia di Gaza, ha fatto notare Qarmout.

Altri testimoni hanno riferito che gli uomini sono stati costretti a svestirsi prima di essere uccisi e un uomo ha detto che “neppure i ragazzini sono stati risparmiati. Sono stati tutti colpiti a bastonate. Hanno le ossa fratturate e sono ricoverati in ospedale.”

Non ci sono stati commenti dell’esercito israeliano in merito all’aggressione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il caso di al-Shifa: indagine sull’attacco al più grande ospedale di Gaza

Louisa Loveluck, Evan Hill, Jonathan Baran, Jarrett Ley, Ellen Nakashima

21 dicembre 2023, Washington Post

Un’analisi del Washington Post su immagini open source e satellitari fa luce sulle affermazioni delle forze di difesa israeliane dell’uso da parte di Hamas dell’ospedale al-Shifa a Gaza City.

GERUSALEMME – Settimane prima che Israele inviasse truppe nell’ospedale al-Shifa, il suo portavoce iniziò a montare un caso.

Le affermazioni erano straordinariamente specifiche: che cinque edifici ospedalieri sarebbero stati direttamente implicati nelle attività di Hamas; che gli edifici si troverebbero sopra i tunnel sotterranei utilizzati dai militanti per dirigere attacchi missilistici e comandare i combattenti e che ai tunnel fosse possibile accedere dall’interno dei reparti ospedalieri. Le affermazioni sarebbero supportate da “prove concrete”, ha affermato il portavoce delle forze di difesa israeliane Daniel Hagari esponendo il caso in un briefing del 27 ottobre.

Dopo aver preso d’assalto il complesso il 15 novembre, l’IDF ha pubblicato una serie di fotografie e video che, secondo loro, ne dimostrerebbero la tesi centrale.

I terroristi venivano qui a dirigere le loro operazioni”, ha detto Hagari in un video pubblicato il 22 novembre, accompagnando gli spettatori attraverso un tunnel sotterraneo, illuminando stanze buie e vuote sotto al-Shifa.

Secondo l’analisi del Washington Post di immagini open source, satellitari e di tutti i materiali dell’IDF rilasciati pubblicamente, le prove presentate dal governo israeliano non riescono a dimostrare che Hamas utilizzasse l’ospedale come centro di comando e controllo. La cosa solleva interrogativi critici, dicono gli esperti legali e umanitari, sul fatto se i danni ai civili causati dalle operazioni militari israeliane contro l’ospedale – l’accerchiamento, l’assedio e infine il raid nella struttura e nel tunnel sottostante – fossero proporzionati alla minaccia stimata.

L’analisi del Post dimostra che:

Le stanze collegate alla rete di tunnel scoperte dalle truppe dell’IDF non offrono prove dirette di un uso militare da parte di Hamas.

Nessuno dei cinque edifici ospedalieri indicati da Hagari sembra essere collegato alla rete di tunnel.

Non ci sono prove che sia possibile accedere ai tunnel dall’interno dei reparti ospedalieri.

Ore prima che le truppe dell’IDF entrassero nel complesso, l’amministrazione Biden aveva desecretato le valutazioni dell’intelligence statunitense che supportavano le affermazioni di Israele. All’indomani del raid, i funzionari israeliani e statunitensi sono rimasti fedeli alle loro dichiarazioni iniziali.

“Abbiamo totale fiducia nell’intelligence… che Hamas lo stesse usando come nodo di comando e controllo”, ha detto la settimana scorsa al Post un alto funzionario dell’amministrazione statunitense, parlando a condizione di restare anonimo per discutere risultati sensibili. “Hamas aveva tenuto gli ostaggi nel complesso dell’ospedale fino a poco prima che Israele entrasse”.

Il governo degli Stati Uniti non ha reso pubblico il materiale desecretato e il funzionario non ha voluto condividere i dati su cui si basava questa valutazione.

“L’IDF ha pubblicato prove ampie e inconfutabili che indicano l’uso strumentale del complesso ospedaliero di Shifa da parte di Hamas per scopi terroristici e attività terroristiche clandestine”, ha detto al Post un portavoce dell’IDF.

Quando è stato chiesto se fossero disponibili ulteriori prove su al-Shifa, il portavoce ha detto: “Non possiamo fornire ulteriori informazioni”. Il 24 novembre l’esercito israeliano ha annunciato in un comunicato di aver distrutto il tunnel nell’area dell’ospedale; subito dopo le truppe si sono ritirate.

All’inizio ero convinto che [al-Shifa] fosse il luogo in cui si svolgevano le operazioni”, ha detto al Post un membro senior del Congresso americano, parlando a condizione di restare anonimo a causa della delicatezza della questione. Ma ora, ha detto, “Penso ci debba essere un nuovo livello di chiarimenti. A questo punto vorremmo avere più prove”.

Il fatto che un alleato degli Stati Uniti abbia preso di mira un complesso che ospita centinaia di pazienti malati e morenti e migliaia di sfollati non ha precedenti negli ultimi decenni. L’avanzata su al-Shifa ha causato il collasso delle operazioni dell’ospedale. Mentre le truppe israeliane si avvicinavano e i combattimenti si intensificavano finiva il carburante, i rifornimenti non potevano entrare e le ambulanze non riuscivano a raccogliere le vittime dalle strade.

Citando il personale ospedaliero, le Nazioni Unite hanno riferito che, prima che le truppe entrassero nel complesso, i medici avevano scavato una fossa comune per circa 180 persone. L’obitorio aveva cessato di funzionare da tempo. Diversi giorni dopo, quando i medici dell’OMS arrivarono per evacuare le persone ancora all’interno, dissero che il luogo della guarigione era diventato una “zona di morte”. Almeno 40 pazienti – tra cui quattro bambini prematuri – erano morti nei giorni precedenti il raid e per le sue conseguenze, hanno detto le Nazioni Unite.

Nelle settimane successive altri ospedali di Gaza sono stati attaccati in modo simile a quanto accaduto ad al-Shifa, facendone non solo un momento spartiacque nel conflitto, ma un fondamentale case study del rispetto di Israele della legislazione di guerra.

Status protetto

Il complesso medico di al-Shifa era l’ospedale più avanzato e meglio attrezzato di Gaza. Dopo che Israele ha lanciato la sua devastante campagna di attacchi aerei in rappresaglia per il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, al-Shifa è diventato il cuore pulsante del vacillante sistema sanitario dell’enclave, nonché un luogo di rifugio per decine di migliaia di sfollati di Gaza che temevano sarebbero stati uccisi nelle loro case.

Le strutture mediche godono di una protezione speciale – anche in tempo di guerra – perdendo il loro status solo “se vengono utilizzate al di fuori della loro funzione medica per commettere atti dannosi per il nemico”, ha affermato Adil Haque, professore di diritto alla Rutgers University.

Senza una conoscenza completa dei dati dell’intelligence israeliana e dei suoi piani di battaglia, la legalità delle operazioni militari israeliane contro al-Shifa rimane una questione aperta.

Ma nel suo briefing del 27 ottobre, Hagari ha fornito un quadro chiaro di ciò che pensava le forze israeliane avrebbero trovato, mostrando un video animato di ciò che presumibilmente si trovava sotto la struttura. Nel film militanti mascherati pattugliavano un livello collegato a un labirinto di stanze più sotterranee con computer portatili e zone notte.

“La legge riguarda ciò che l’aggressore avesse in mente nel momento in cui ha pianificato ed eseguito la missione rispetto sia al danno collaterale che si aspettava di causare sia al vantaggio militare che prevedeva di ottenere”, ha affermato Michael Schmitt, professore emerito presso il Naval War College degli Stati Uniti.

L’IDF non ha voluto commentare il vantaggio militare cercato o ottenuto.

Qual era l’urgenza? La cosa non è ancora stata dimostrata”, ha affermato Yousuf Syed Khan, avvocato senior presso Global Rights Compliance, lo studio legale che ha redatto i documenti delle Nazioni Unite sulla guerra d’assedio.

Anche se il tunnel sotterraneo scoperto dalle forze israeliane dopo il raid indicasse una possibile presenza di militanti sotto l’ospedale in un qualche momento, non prova che un nodo di comando operasse lì durante la guerra.

Stiamo avendo una comprensione più dettagliata e tridimensionale dell’ospedale al-Shifa e dei tunnel sottostanti”, ha affermato Brian Finucane, ex consulente legale del Dipartimento di Stato e ora consulente senior presso Crisis Group [ONG indipendente impegnata a prevenire e risolvere i conflitti, ndt.]

Ciò che manca davvero qui è una conoscenza affidabile e sicura della quarta dimensione, che è il tempo. Quando sono stati utilizzati in un determinato modo i vari elementi dell’ospedale? E i tunnel sotto il complesso ospedaliero?

La conferenza stampa del 27 ottobre ha provocato soprassalti di paura nell’ospedale, e il personale l’ha vista come il pretesto per un’azione militare. Poche ore dopo le reti di comunicazione dell’enclave si sono interrotte. “Dopodiché, sono iniziati i bombardamenti sugli edifici circostanti al-Shifa”, ricorda Ghassan Abu Sitta, un chirurgo anglopalestinese che lavorava all’ospedale quella notte. “Il bombardamento era molto vicino e l’edificio tremava violentemente.”

All’inizio di novembre migliaia di civili terrorizzati erano rimasti intrappolati all’interno dell’area dell’ospedale mentre l’operazione militare israeliana isolava di fatto il complesso dal mondo esterno.

Almeno due bambini prematuri sono morti l’11 novembre quando l’ospedale è rimasto senza elettricità per alimentare le incubatrici, ha detto il personale.

Diverse decine di altri pazienti in terapia intensiva sono morte nei giorni successivi, hanno riferito i medici. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha detto che non ha più potuto inviare ambulanze per assistere o evacuare i feriti.

Nelle prime ore del 15 novembre l’IDF ha dichiarato che stava effettuando una “operazione precisa e mirata” contro Hamas in un’area specifica del complesso e che aveva ucciso un certo numero di militanti all’esterno del complesso “prima di entrare. “

Nella tarda mattinata i medici all’interno della struttura e i funzionari del Ministero della Sanità di Gaza hanno affermato che le forze israeliane ne avevano preso il completo controllo. Le truppe erano andate di stanza in stanza interrogando il personale e i pazienti e chiedendo ad alcuni di riunirsi nel cortile, non lontano dalla fossa comune dove i morti venivano sepolti senza nessuna cerimonia.

Il Post ha analizzato le immagini satellitari e le fotografie sui social media per mappare i danni all’ospedale e localizzare la fossa comune, appena dentro i cancelli orientali del complesso ospedaliero.

“Si è trattato di un’operazione militare molto precisa e mirata che Israele ha condotto con molti sforzi per ridurre le vittime civili”, ha detto l’alto funzionario dell’amministrazione americana.

Quando il 18 novembre sono arrivati gli operatori umanitari dell’OMS, medici e pazienti hanno implorato la squadra di fornire un passaggio sicuro, ha riferito l’organizzazione.

Nel pronto soccorso diverse decine di bambini prematuri piangevano, come hanno mostrato i video e detto i medici. Altri due erano morti prima dell’arrivo dei mezzi per l’evacuazione dell’OMS.

Emergono le prove

Durante l’occupazione di al-Shifa da parte dell’IDF, durata più di una settimana, l’IDF ha pubblicato numerose serie di foto e video che mostravano presunte prove dell’attività militare di Hamas all’interno e sotto l’ospedale.

Meno di 24 ore dopo che le forze israeliane erano entrate nel complesso, l’IDF ha diffuso un filmato che mostrava il portavoce Jonathan Conricus mentre attraversava l’unità di radiologia. Dietro una macchina per la risonanza magnetica indica quella che lui chiama una “pesca miracolosa” contenente un fucile tipo kalashnikov e un caricatore di munizioni.

Le foto rilasciate dai militari più tardi lo stesso giorno mostravano l’intero bottino di armi recuperate in ospedale: circa 12 fucili tipo kalashnikov oltre a caricatori di munizioni e diverse granate e giubbotti antiproiettile.

Il Post non è stato in grado di verificare in modo indipendente a chi appartenessero le armi o come fossero finite all’interno dell’unità di radiologia.

Nei giorni successivi sarebbero emerse prove più ampie che sembravano indicare l’attività dei militanti sotto la struttura. Il 16 novembre i militari israeliani hanno diffuso immagini che mostrano l’ingresso di un tunnel nell’angolo nord-est del complesso ospedaliero, vicino all’edificio della chirurgia specialistica.

Le immagini satellitari indicavano che le truppe israeliane avevano trovato l’ingresso all’interno di un piccolo edificio che avevano demolito.

In seguito i militari hanno pubblicato video delle loro truppe e di Hagari mentre esploravano la rete di tunnel collegata al pozzo d’ingresso. Il filmato mostrava un lungo tunnel che si estendeva a est dal pozzo e correva a sud sotto l’unità di chirurgia specialistica; un’altra sezione si dirigeva a nord, lontano dal complesso dell’ospedale. Dai video non è stato possibile determinare la distanza o la direzione finale della sezione nord del tunnel.

È bloccato e sigillato; sanno che saremmo venuti qui da più di un mese e l’hanno sigillato”, ha detto Hagari in un video.

Il Post ha mappato il percorso del tunnel geolocalizzando i siti scavati all’interno di al-Shifa e analizzando i video fotogramma per fotogramma per determinare la direzionalità e la lunghezza della rete. Il Post ha poi sovrapposto i percorsi dei tunnel sulla mappa originale rilasciata dall’IDF il 27 ottobre, che secondo loro mostrava l’intera estensione dell’infrastruttura di comando e controllo di Hamas.

Nessuno dei cinque edifici evidenziati dall’IDF sembra collegarsi ai tunnel, e non è stata prodotta alcuna prova che dimostri che si potesse accedere ai tunnel dall’interno dei reparti dell’ospedale, come aveva affermato Hagari.

Il Post ha analizzato le prove visive dell’IDF che mappano il tunnel sotto al-Shifa e le ha confrontate con le affermazioni iniziali dei militari.

In una sezione sotto l’edificio dell’ambulatorio sono collegati al tunnel due piccoli bagni, un lavandino e due stanze vuote. Hagari ha detto che le stanze e il tunnel ricevevano elettricità, acqua e aria condizionata da al-Shifa. Una stanza, ha detto Hagari, era una “sala operativa”, e l’ha detto dando il cablaggio elettrico come prova.

Le stanze spoglie, piastrellate di bianco, non mostravano alcuna prova immediata di utilizzo, per comando e controllo o altro. Non ci sono segni di abitazione recente come rifiuti, contenitori per cibo, vestiti o altri oggetti personali.

Questa stanza è stata evacuata e tutta l’attrezzatura è stata evacuata. Immagino che sia stato evacuato quando hanno saputo o capito che saremmo entrati nell’ospedale di Shifa”, ha detto Hagari nel video.

Non ha spiegato quando si pensa che i militanti avessero operato nel tunnel o quando sarebbe avvenuta la loro presunta partenza. L’IDF non ha risposto alle richieste di chiarimenti.

“Se alla fine non trovi quello che avevi detto che avresti trovato è legittimo essere scettici sul fatto che la tua valutazione del valore militare dell’operazione fosse fondata o meno”, ha detto Geoffrey Corn, professore di diritto alla Texas Tech University ed ex consigliere senior per la legislazione di guerra dell’esercito degli Stati Uniti. “Non è certamente decisivo. La domanda finale è se, date le circostanze, la valutazione del vantaggio militare fosse ragionevole”.

In una dichiarazione del 18 novembre Hamas ha descritto le affermazioni sul suo utilizzo di al-Shifa come parte di una “campagna di palesi bugie”. I funzionari non hanno risposto a una richiesta di commenti sul presunto utilizzo dei tunnel da parte del gruppo.

Il giorno successivo l’IDF ha pubblicato un’ulteriore prova: il filmato di una telecamera di sicurezza che mostrava militanti armati condurre attraverso l’ospedale due ostaggi dei circa 240 catturati durante l’assalto al sud di Israele il 7 ottobre. Uno sembrava ferito ed è su una barella. Non è chiaro se gli ostaggi siano stati portati in ospedale per cure mediche o per altri scopi.

La presa di ostaggi è un crimine secondo il diritto internazionale. Ma “l’uso improprio dell’ospedale cinque settimane prima dell’operazione dell’IDF non chiarisce la legalità dell’operazione dell’IDF”, ha detto Haque.

Gli ospedali come obiettivi

Mentre la polvere si depositava su al-Shifa, gli esperti mettevano in guardia sul precedente che aveva creato.

Penso che ci sia il rischio che ciò che Israele ha cercato di fare qui sia scusare in anticipo le future operazioni contro gli ospedali. Non si dovrebbe presumere che gli ospedali possano in genere essere presi di mira in base a ciò che Israele ha ipotizzato riguardo a Shifa”, ha affermato Finucane.

Al momento dell’operazione militare del 15 novembre quasi la metà delle principali strutture mediche nel nord di Gaza era stata presa di mira o danneggiata nei combattimenti, secondo un’analisi che il Post ha fatto dei dati di Insecurity Insight, un gruppo di ricerca senza scopo di lucro.

Nel mese seguente una serie di altri ospedali hanno chiuso o ridotto le operazioni al punto di essere a malapena funzionanti, mentre gli attacchi aerei continuano e le vittime aumentano.

Il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato domenica di essere “sconvolto dall’effettiva distruzione” dell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, che ha causato la morte di almeno otto pazienti e messo fuori servizio la struttura.

Martedì, dopo aver arrestato il direttore dell’ospedale Ahmed al-Kahlot, Israele ha diffuso un video di interrogatorio in cui Kahlot ammetteva di essere un membro di Hamas e affermava che l’ospedale era sotto il controllo delle Brigate Izzedine al-Qassam, il braccio armato del gruppo. In risposta, il Ministero della Sanità di Gaza ha affermato che la dichiarazione è stata fatta “sotto la forza dell’oppressione, della tortura e dell’intimidazione” per “giustificare i successivi crimini [di Israele], soprattutto contro il sistema sanitario”.

L’ospedale Al-Awda, tra gli ultimi ospedali funzionanti nel nord, è stato assediato dalle truppe israeliane all’inizio di questo mese mentre i medici continuavano a curare i loro pazienti e carburante e cibo scarseggiavano, come hanno detto medici e Medici Senza Frontiere (MSF).

Cerchiamo di essere chiari: Al-Awda è un ospedale funzionante con personale medico e molti pazienti in condizioni vulnerabili”, ha affermato in una nota il capo missione di MSF, Renzo Fricke.

Martedì MSF ha affermato che le forze israeliane avevano preso il controllo della struttura. Uomini e ragazzi sopra i 16 anni, compresi i medici, sono stati portati fuori e spogliati, legati e interrogati. C’erano ancora dozzine di pazienti nei reparti, ha aggiunto l’organizzazione, ma le scorte di anestetici e ossigeno erano finite.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La Sinistra israeliana oggi

Jon Wiener

14 dicembre 2023 – The Nation

Alcune domande a David Myers sul movimento per la pace in Israele

David Myers è professore emerito e Kahn Professor di storia ebraica presso l’UCLA (University of California – Los Angeles), dove ricopre il ruolo di direttore del Luskin Center for History and Policy e dell’Initiative to Study Hate [Centro Luskin per la Storia e la Politica e dell’Iniziativa per lo Studio dell’Odio]. Ha scritto per la pagina degli opinionisti del Los Angeles Times, The Forward e The Atlantic. Questa intervista è stata sintetizzata e rivista.

Jon Wiener: Il governo Netanyahu non ha alcun piano per ciò che accadrà dopo la guerra a Gaza. Sappiamo che abbiamo bisogno di una vera soluzione politica a quella che Edward Said chiamava “la questione palestinese”.

David Myers: I paradigmi esistenti sembrano essere due Stati o un unico Stato, entrambi ampiamente screditati. Questo è un momento in cui dobbiamo spingere verso una maggiore immaginazione politica nel pensare a ciò che esiste tra due e uno.

JW: Quali gruppi in Israele ora guidano questo tipo di pensiero? Storicamente, Peace Now è stato il grande gruppo in Israele – e negli Stati Uniti – che ha sostenuto uno Stato palestinese. Raccontaci del panorama della sinistra in questo momento.

DM: Nellattuale contesto, ci sono un paio di categorie di gruppi che stanno svolgendo un lavoro essenziale. La prima categoria sono i gruppi che riuniscono arabi ed ebrei, a cominciare dal movimento che opera un grande lavoro organizzativo: Standing Together [Stare Insieme]. È un gruppo di palestinesi israeliani ed ebrei israeliani impegnato nell’organizzazione di base in nome degli ideali di giustizia e uguaglianza per tutti. Si è dimostrato estremamente efficace, in questo senso, nella lotta contro la violenza contro le donne e nel chiedere la cessazione delle ostilità tra ebrei e arabi nelle città miste israeliane nel maggio 2021. Anche nell’’attuale contesto di enorme tensione, Standing Together ha avuto successo: è stato in prima linea per cercare di tenere insieme le diverse comunità di Israele.

JW: E oltre a Standing Together?

DM: Poi c’è il Parents Circle [Circolo dei Genitori], che riunisce i parenti delle vittime di violenza, sia palestinesi che ebrei. E Combatants for Peace [Combattenti per la Pace]: riuniscono ex combattenti delle due parti che riconoscono l’’inutilità di continuare l’’attuale schema di ciclica violenza. Le storie raccontate da questi ex combattenti sono straordinariamente avvincenti. Loro, insieme a Parents Circle, costituiscono il mondo che è stato ricreato in modo così brillante dall’autore irlandese-americano Colum McCann nel suo libro Apeirogon, [la storia vera dell’inaspettata amicizia fra due padri, un palestinese e un israeliano, che hanno rispettivamente perso le loro figlie a causa della violenza e che trasformano il loro dolore in attivismo per la pace, tradotto in italiano da Feltrinelli, ndt] che consiglio a tutti.

JW: E chi sta svolgendo un lavoro significativo su questioni a lungo termine?

DM: Mitvim è un think tank che immagina una politica estera diversa per Israele, una politica che non ignora o trascura il problema palestinese ma lo pone al centro della sua visione. E un altro gruppo davvero importante che penso sia diventato ancora più significativo negli ultimi mesi si chiama A Land for All [Una Terra per Tutti]. È un gruppo che si impegna esattamente nel tipo di immaginazione politica di cui abbiamo bisogno che propone una confederazione. È un’organizzazione che crede nel principio dei due Stati con alcune modifiche, come una frontiera aperta che consenta ai cittadini israeliani, in maggioranza ebrei, di vivere in uno Stato palestinese e ai cittadini palestinesi di uno Stato palestinese di vivere nello Stato di Israele. Ci sono molte questioni e dettagli ancora da capire, ma questo è il tipo di immaginazione e di nuovo modo di pensare di cui penso abbiamo bisogno, nella misura in cui fa crollare l’apparente dicotomia tra un ideale di separazione assoluta, che molti desiderano e tuttavia è impossibile e non è particolarmente favorevole alla crescita economica, e il principio dell’’integrazione sotto forma di un unico Stato di tutti i cittadini, che dopo il 7 ottobre sembra essere destinato al fallimento per la maggior parte degli israeliani. La bellezza di A Land for All è che in un certo senso fa crollare la distinzione tra separazione e integrazione in un formato noto, due Stati , ma la modifica in modo significativo.

Sia che sosteniamo questa particolare idea o qualche sua modifica, dobbiamo evitare quella che sarà la campana a morto per il futuro, ovvero la stasi, nessun cambiamento all’orizzonte.

JW: Sei stato un leader del New Israel Fund. Dove si inseriscono i suoi sostenitori in questa costellazione?

DM: Il New Israel Fund [Nuovo Fondo Israele] ha sostenuto finanziariamente quasi tutte le ONG sul lato progressista del panorama della società civile israeliana, ed è un sostenitore di molte delle organizzazioni di cui abbiamo parlato qui. Il NIF c’è stato, c’’è e continuerà ad esserci.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Vergogna a Israele che sfrutta l’Olocausto per giustificare il genocidio

Sig Giordano 

18 dicembre 2023, Mondoweiss

La storia dei miei nonni sopravvissuti all’Olocausto mi ha insegnato cos’è un genocidio, ed è così che posso condannare ciò che Israele sta facendo a Gaza in questo momento. Come osa Israele sfruttare la sofferenza della mia famiglia per cercare di giustificare il suo genocidio a Gaza?

Se i miei nonni fossero ancora vivi, in questo ottobre si sarebbe celebrato l’ottantesimo anniversario del loro incontro. Nel 1943 i miei nonni, Isidor e Marianne, si incontrarono a Theresienstadt, un campo di concentramento nella Cecoslovacchia occupata dai nazisti. Ero molto legato a mio nonno Isi, che sopravvisse alla nonna. Tra le sue cose mi affidò la stella “ebraica” di stoffa gialla con sopra la parola “Jude” che gli avevano fatto indossare nel campo.

Durante un incontro alle Nazioni Unite (ONU) il 31 ottobre, Gilad Erdan, ambasciatore israeliano all’ONU, ha indossato una stella ebraica simile a quella di mio nonno. Rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato che indossava la stella per denunciare il silenzio del Consiglio riguardo all’attacco del 7 ottobre contro Israele. Erdan ha paragonato questo silenzio al silenzio che permise che si verificasse l’Olocausto. In risposta Dani Dayan, il direttore dello Yad Vashem, il museo israeliano memoriale dell’Olocausto, ha subito denunciato quell’uso improprio della stella, sostenendo che Erdan stava “disonorando le vittime dell’Olocausto, così come lo Stato di Israele”.

Dayan aveva assolutamente ragione nel richiamare l’attenzione su quanto fosse offensivo che Erdan indossasse la stella gialla. Le ragioni di Dayan, tuttavia, sono completamente sbagliate. Per sostenere il suo argomento, Dayan ha sostenuto che la stella gialla simboleggia la debolezza del popolo ebraico durante l’Olocausto, ribadendo una narrazione storica inquietante e falsa.

I sionisti hanno a lungo cercato di raffigurare le vittime dell’Olocausto come deboli per sostenere la fondazione e poi il mantenimento dello Stato di Israele. Questa mossa iniziò anche prima dell’Olocausto, quando alcuni sionisti si allinearono con la scienza razziale eugenetica dell’epoca sostenendo che gli ebrei dovevano purificare la propria razza e creare una propria razza forte. Arthur Ruppin, eminente scienziato sociale e capo dell’ufficio palestinese dell’Organizzazione sionista mondiale all’inizio del XX secolo, promosse l’insediamento in Palestina come risposta ai pericolosi risultati della “mescolanza razziale” degli ebrei europei. Non era il solo, poiché molti intellettuali ebrei sostenevano che la formazione dello Stato sionista avrebbe consentito agli ebrei di “rigenerare i propri corpi” degenerati nelle condizioni di assimilazione nell’Europa occidentale e di oppressione in quella orientale.

Una volta fondato Israele, le vittime dell’Olocausto furono regolarmente trattate come deboli e come esempi all’opposto di ciò che rappresentava lo Stato sionista, il che portò al pessimo trattamento per i sopravvissuti che divennero cittadini israeliani. Come Dayan stesso ha ribadito, l’Olocausto rappresenterebbe un monito sul contrapporre la debolezza degli ebrei nella diaspora alla forza degli ebrei nello Stato di Israele.

Nonostante la distanza delle loro opinioni, leader israeliani come Erdan e Dayan fanno regolarmente uso dell’Olocausto per difendere la violenza di Stato contro i palestinesi. A differenza di Erdan e Dayan, conoscere il genocidio contro i miei antenati mi ha permesso di capire che ciò che sta accadendo oggi in Palestina è un genocidio. Sapere che si sta perpetrando un genocidio è doloroso di per sé. Sapere che un genocidio viene compiuto presumibilmente a mio nome (in quanto ebreo) è estremamente doloroso. Ma sapere che un genocidio viene giustificato con l’appropriazione della sofferenza della mia famiglia mi fa infuriare. Sono furioso. Come osa lo Stato di Israele insultare la storia della mia famiglia?

Gli orrori che la mia famiglia ha dovuto sopportare sono inimmaginabili per la maggior parte delle persone. Mia nonna e mio nonno, adolescenti quando si incontrarono al campo, sono gli unici membri sopravvissuti delle loro famiglie. Mio nonno faceva parte della resistenza nel campo, e nascondeva le persone che erano sulle liste per essere deportate ad Auschwitz. Mio nonno ha letteralmente salvato la vita a mia nonna. Questa non è una storia di debolezza. Tuttavia, è una storia dalla quale ho imparato molte lezioni sulle condizioni che consentono il genocidio.

Ricordo che avevo 8 o 9 anni e sedevo al tavolo di cucina a fare colazione mentre mia madre cucinava. La radio era accesa come ogni mattina e trasmetteva le notizie di 1010 WINS [radio privata di New York, ndt.]: “Dacci 22 minuti, ti daremo il mondo”. Nei titoli un gruppo di resistenza rivendicava la responsabilità di un attentato da qualche parte fuori dagli Stati Uniti. Ho chiesto a mia madre: “Cos’è un gruppo di resistenza?” Lei mi ha spiegato l’idea di resistenza parlando dell’Olocausto e della lotta di suo padre per reagire.

Anche se non tutte le persone che affermano di resistere sono automaticamente nel giusto, quando sono cresciuto mi sono reso conto che il modo in cui si vede la resistenza in una determinata situazione dipende dal proprio punto di vista. Ciò può sembrare ovvio, ma nei media occidentali, nella politica e nei contesti educativi vediamo regolarmente un’associazione tra gruppi di resistenza e terrorismo che crea un lato giusto e uno sbagliato dati per scontati.

Nei giorni successivi all’11 settembre 2001, come cittadino americano che vive negli Stati Uniti mi sono ricordato che quando mi opponevo all’idea di invadere l’Afghanistan ero “con noi” o “contro di noi”. Il nazionalismo forzato mi ha ricordato gli studi sull’Olocausto che avevo intrapreso durante il college. La creazione della mentalità “Noi contro loro” per proteggere la Germania era stata una parte fondamentale nel coinvolgere ampi segmenti di tedeschi non ebrei nella lotta contro il popolo ebraico.

La resistenza si muove contro coloro che detengono il potere. Inoltre essere oppressi, per definizione, significa essere dalla parte dei perdenti in una dinamica di potere. Allora, com’è possibile che Israele, un paese con uno degli eserciti più potenti del mondo, sostenuto dalla più potente potenza militare ed economica del mondo, gli Stati Uniti, abbia cercato di dipingersi come il campione di un popolo oppresso che deve lottare contro i movimenti di resistenza palestinesi?

Jonathan Greenblatt, direttore dell’Anti-Defamation League (ADL) [organizzazione non governativa ebraica internazionale con sede a New York in difesa dei diritti civili e contro l’antisemitismo, ndt.] ha pubblicato un articolo sulla rivista Time dopo l’attacco del 7 ottobre sostenendo che non c’è modo di interpretare l’attacco di Hamas se non come “odio” e “intolleranza tossica nella sua forma più pura”. E se invece di rendere eccezionale l’esperienza ebraica in modo che l’Olocausto diventi un esempio di migliaia di anni di odio per gli ebrei prestassimo attenzione alle reali lezioni che possiamo imparare dagli orrori dell’Olocausto? La lezione di cui abbiamo bisogno non è che gli ebrei sono sempre stati e sempre saranno odiati. La lezione dell’Olocausto è che coloro che detenevano il potere economico e politico usarono il nazionalismo e l’idea a giustificazione del genocidio che i tipi di persone cosidette inferiori costituissero una minaccia per lo Stato-nazione.

Molti ebrei e non ebrei resistettero per quanto poterono. Il problema non era una resistenza debole, il problema era la forza delle narrazioni nazionaliste ed eugenetiche.

La buona notizia è che milioni di persone e di ebrei stanno prendendo posizioni critiche della situazione e opponendosi ai messaggi che ci vengono porti dai più potenti leader israeliani e statunitensi. Siamo solidali con i palestinesi che lottano per il loro diritto all’esistenza e all’autodeterminazione. Vediamo cambiamenti nei sondaggi d’opinione pubblica, e il numero di azioni guidate e sostenute dagli ebrei contro l’attuale genocidio è più grande che mai. Molti parlano apertamente e dicono ad alta voce che “Mai più” significa “Mai più per nessuno”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: la fame utilizzata come arma di guerra a Gaza

Rapporto HRW

18 dicembre 2023 – Human Rights Watch

Ci sono prove che ai civili è deliberatamente negato l’accesso a cibo e acqua.

  • Nella Striscia di Gaza il governo israeliano sta utilizzando la fame dei civili come metodo di guerra, il che costituisce un crimine di guerra.

  • Governanti israeliani hanno fatto dichiarazioni pubbliche, che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, in cui hanno manifestato la loro intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante.

  • Il governo israeliano dovrebbe smettere di attaccare beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile, togliere il blocco della Striscia di Gaza e riattivare [le forniture di] elettricità e acqua.

(Gerusalemme) – Oggi Human Rights Watch ha affermato che nella Striscia di Gaza occupata il governo israeliano sta affamando i civili come metodo di guerra. Le forze israeliane stanno deliberatamente bloccando l’erogazione di acqua, cibo e carburante impedendo nel contempo deliberatamente l’assistenza umanitaria, distruggendo chiaramente zone coltivate e privando la popolazione civile di beni indispensabili alla sopravvivenza.

Da quando combattenti di Hamas hanno attaccato Israele il 7 ottobre 2023 importanti dirigenti israeliani, tra cui il ministro della Difesa Yoav Gallant, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben.Gvir e quello dell’Energia Israel Katz, hanno fatto dichiarazioni pubbliche che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, manifestando l’intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante. Altri politici israeliani hanno pubblicamente affermato che l’aiuto umanitario a Gaza sarebbe stato condizionato o al rilascio degli ostaggi illegalmente detenuti da Hamas o alla distruzione di Hamas.

Per oltre due mesi Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo ed acqua, una politica incoraggiata o appoggiata da governanti israeliani di alto livello e che riflette l’intenzione di affamare i civili come metodo di guerra,” ha affermato Omar Shakir, direttore per Israele e la Palestina di Human Rights Watch. “I leader mondiali dovrebbero esprimersi contro questo abominevole crimine di guerra, che ha effetti devastanti sulla popolazione di Gaza.”

Human Rights Watch ha intervistato 11 profughi palestinesi di Gaza tra il 24 novembre e il 4 dicembre. Essi hanno descritto le loro gravissime difficoltà per garantirsi le necessità fondamentali. “Non abbiamo cibo, elettricità, internet, assolutamente niente,” ha detto un uomo che ha lasciato il nord di Gaza. “Non sappiamo come siamo riusciti a sopravvivere.”

Nel sud di Gaza gli intervistati hanno descritto la scarsità di acqua potabile, la mancanza di cibo che ha portato a negozi vuoti, lunghe code e prezzi esorbitanti. “Sei alla costante ricerca delle cose necessarie per sopravvivere,” ha detto il padre di due figli. Il 6 dicembre il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU (WFP) ha informato che 9 su 10 nuclei familiari nel nord di Gaza e 2 su 3 nella parte meridionale di Gaza avevano passato almeno un giorno e una notte di seguito senza cibo.

Il diritto umanitario internazionale e la legislazione di guerra vietano di affamare i civili come metodo di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente civili “privandoli di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l’impedimento intenzionale ai soccorsi” è un crimine di guerra. L’intenzione criminale non richiede l’ammissione da parte dell’aggressore, ma può anche essere dedotta dal complesso delle circostanze della campagna militare.

Inoltre il continuo blocco israeliano di Gaza, così come i più di 16 anni di assedio, rappresentano una punizione collettiva della popolazione civile, un crimine di guerra. In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, come potenza occupante a Gaza Israele ha il dovere di garantire che la popolazione civile disponga di cibo e medicinali.

Il 17 novembre il WFP ha avvertito dell’“immediata possibilità” di carestia, evidenziando che l’approvvigionamento di cibo ed acqua era in pratica inesistente. Il 3 dicembre ha informato di un “grave rischio di carestia”, segnalando che il sistema alimentare di Gaza era sull’orlo del collasso. E il 6 dicembre ha dichiarato che il 48% dei nuclei famigliari nel nord di Gaza e il 38% delle persone sfollate nel sud aveva registrato “gravissimi livelli di carenza di cibo”.

Il 3 novembre il Consiglio Norvegese per i Rifugiati ha annunciato che Gaza era alle prese con “catastrofiche carenze di acqua, sanità e igiene.” Strutture per la sanificazione e desalinizzazione hanno chiuso le attività a metà ottobre a causa della mancanza di carburante ed elettricità, e secondo l’Autorità Palestinese per le Acque da allora sono rimaste inattive. Secondo l’ONU anche prima del 7 ottobre Gaza non aveva praticamente acqua potabile.

Prima dell’attuale conflitto si stimava che 1.2 milioni dei 2.2 milioni di abitanti di Gaza stessero affrontando una grave insicurezza alimentare, e oltre l’80% dipendeva dall’aiuto umanitario.

Israele mantiene un controllo complessivo su Gaza, anche sul movimento di persone e beni, sulle acque, sullo spazio aereo e sulle infrastrutture del territorio da cui Gaza dipende, così come sull’anagrafe. Ciò lascia la popolazione di Gaza, che Israele ha sottoposto per 16 anni a un blocco illegale, praticamente del tutto dipendente da Israele per l’accesso al carburante, all’elettricità, alle medicine, al cibo e a altre risorse essenziali.

Dopo l’imposizione di un “blocco totale” a Gaza il 9 ottobre, le autorità israeliane il 15 ottobre hanno ripristinato l’approvvigionamento idrico a zone del sud di Gaza e, il 21 ottobre hanno consentito l’arrivo di un ridotto aiuto umanitario attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 18 ottobre ha detto che Israele non avrebbe consentito assistenza sanitaria “in forma di cibo e medicinali” a Gaza attraverso i suoi valichi “finché i nostri ostaggi non saranno riconsegnati.”

Il governo ha continuato a bloccare l’ingresso di carburante fino al 15 novembre, nonostante avvertimenti riguardo alle gravi conseguenze di ciò, che hanno portato alla chiusura di forni per il pane, ospedali, stazioni di pompaggio delle acque reflue, impianti di desalinizzazione e pozzi. Queste strutture, che sono state rese inutilizzabili, sono indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile. Benché in seguito sia stato consentito l’ingresso di limitate quantità di carburante, il 4 dicembre la Coordinatrice Umanitaria per i Territori Palestinesi Occupati dell’ONU Lynn Hastings le ha definite “assolutamente insufficienti”. Il 6 dicembre il gabinetto di guerra di Israele ha approvato un “minimo” incremento nelle forniture di carburante al sud di Gaza.

Il primo dicembre, immediatamente dopo il cessate il fuoco di sette giorni, l’esercito israeliano ha ripreso i bombardamenti contro Gaza ed ha esteso la sua offensiva di terra, affermando che le sue operazioni militari nel sud avrebbero comportato “altrettanta forza” che nel nord. Mentre politici degli Stati Uniti hanno affermato di aver sollecitato Israele a consentire l’ingresso a Gaza di carburante e aiuto umanitario allo stesso livello di quanto visto durante il cessate il fuoco, il Coordinatore delle Attività Governative del Ministero dell’Interno [israeliano] nei territori il primo dicembre ha affermato di aver bloccato ogni ingresso di aiuti. Il 2 dicembre la consegna di aiuti limitati è ripresa, ma sempre a livelli molto insufficienti, secondo l’ufficio per il coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU (OCHA).

Insieme al devastante blocco, gli estesi bombardamenti dell’esercito israeliano sulla Striscia hanno comportato vasti danni o distruzioni di beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile.

Il 16 novembre esperti dell’ONU hanno affermato che i gravi danni “minacciano di rendere impossibile la continuazione della vita dei palestinesi a Gaza”. Significativamente, come ha evidenziato l’OCHA, il bombardamento da parte delle forze israeliane il 15 novembre dell’ultimo mulino per cereali in funzione a Gaza ha fatto sì che nel prossimo futuro a Gaza non sarà reperibile la farina prodotta in loco. Inoltre l’ufficio dell’ONU per i Servizi di Progettazione (UNOPS) ha affermato che la distruzione della rete viaria ha reso ancora più difficile alle organizzazioni umanitarie distribuire aiuti a quanti ne hanno bisogno.

Forni per la panificazione e mulini, l’agricoltura e le strutture idriche e di depurazione sono stati distrutti, “ ha detto il 23 novembre alla Associated Press Scott Paul, un importante consigliere per le politiche umanitarie di Oxfam America.

Le azioni militari israeliane a Gaza hanno avuto un effetto devastante anche sul settore agricolo. Secondo Oxfam i massicci bombardamenti, accompagnati dalla carenza di combustibile e acqua, insieme all’espulsione di oltre 1.6 milioni di persone verso il sud di Gaza, hanno reso praticamente impossibili le attività agricole. In un rapporto del 28 novembre l’OCHA ha affermato che nel nord il bestiame sta morendo di fame a causa della mancanza di foraggio e acqua, e che i campi sono sempre più abbandonati e danneggiati per la mancanza di carburante per pompare acqua per l’irrigazione. I problemi esistenti, come la scarsità di acqua e l’accesso ridotto alla coltivazione della terra nei pressi della barriera di confine, hanno aggravato le difficoltà che gli agricoltori locali, molti dei quali sono stati sfollati, dovevano già affrontare. Il 28 novembre l’Ufficio Centrale di Statistica palestinese ha affermato che Gaza sta soffrendo una perdita nella produzione agricola di almeno 1.6 milioni di dollari al giorno.

Il 28 novembre il Settore della Sicurezza Alimentare Palestinese, guidato dal WFP e dalla FAO, hanno informato che oltre un terzo dei terreni agricoli nel nord [di Gaza] è stato danneggiato dalle ostilità. Immagini satellitari esaminate da Human Rights Watch indicano che dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana il 27 ottobre terreni agricoli, compresi orti, serre e coltivazioni nel nord di Gaza sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane.

Il governo israeliano dovrebbe smettere immediatamente di affamare i civili come metodo di guerra, afferma Human Rights Watch. Dovrebbe attenersi al divieto di attacchi contro beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile e togliere il blocco della Striscia di Gaza. Il governo dovrebbe ripristinare l’accesso all’acqua e all’elettricità e consentire l’ingresso di cibo, medicinali e carburante disperatamente necessari a Gaza, anche attraverso il valico di Kerem Shalom.

I governi coinvolti dovrebbero chiedere a Israele di porre fine a queste violazioni. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Canada, la Germania e altri Paesi dovrebbero anche sospendere l’assistenza militare e la vendita di armamenti a Israele finché le sue forze continueranno a commettere impunemente gravi e massicce violazioni che rappresentano crimini di guerra contro i civili.

Con l’uso crudele della mancanza di cibo come arma di guerra il governo israeliano sta aggravando la punizione collettiva dei civili palestinesi e il blocco degli aiuti umanitari,” ha affermato Shakir. “La crescente catastrofe umanitaria a Gaza richiede una risposta urgente e concreta da parte della comunità internazionale.”

Il contesto

Gli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre hanno ucciso almeno 1.200 israeliani e cittadini di altri Paesi, e più di 200 persone sono state prese in ostaggio, azioni che rappresentano crimini di guerra. Il bombardamento e l’offensiva di terra di Israele che ne sono derivati hanno provocato, secondo le autorità di Gaza, più di 18.700 palestinesi uccisi, tra cui più di 7.700 minorenni.

L’OCHA ha informato che al 10 dicembre il bombardamento della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha distrutto più di metà delle infrastrutture civili, comprese più di 50.000 unità abitative, come affermato dal ministero dei Lavori Pubblici e dell’Edilizia a Gaza, così come ospedali, scuole, moschee, panetterie, reti idriche, fognarie ed elettriche. Secondo l’OCHA nella Striscia di Gaza solo il 4 e 5 novembre sette strutture idriche, tra cui serbatoi d’acqua a Gaza City, nel campo profughi di Jabalia e a Rafah, sono state direttamente colpite ed hanno subito gravissimi danni.

I ripetuti e palesemente illegali attacchi dell’esercito israeliano contro strutture, personale e trasporti sanitari hanno ulteriormente distrutto il settore medico-sanitario di Gaza, colpendo quindi la possibilità per la popolazione di accedere a cure salvavita, compresa la prevenzione di malattie, deperimento e morte legati alla malnutrizione, esacerbando le terribili conseguenze della mancanza di cibo. “Se non riusciamo a rimettere in piedi questo sistema sanitario vedremo più persone morire di malattie che per i bombardamenti,” ha affermato il 28 novembre Margareth Harris, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Conseguenze sul piano umanitario

Il 13 ottobre le autorità israeliane hanno emanato un ordine impossibile da rispettare di evacuazione dal nord di Gaza entro 24 ore a più di un milione di persone. Da allora, e mentre le condizioni nel nord peggioravano, centinaia di migliaia di persone sono state sfollate nei governatorati di Rafah e Khan Younis nel sud, dove è diventato sempre più difficile garantire i mezzi di sopravvivenza. In base alle leggi umanitarie internazionali l’evacuazione deve essere attuata in condizioni che garantiscano che gli sfollati abbiano accesso senza impedimenti all’aiuto umanitario, compresi cibo e lavoro sufficienti. In caso contrario ciò rappresenta un’espulsione forzata.

Le conseguenze umanitarie delle azioni militari di Israele a Gaza sono state molto gravi. Durante le prime otto settimane di ostilità il nord di Gaza è stato il centro dell’intensa offensiva di terra e aria dell’esercito israeliano. Salvo che durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre, durante il quale convogli dell’ONU hanno portato ridotte quantità di farina e gallette ad alto contenuto energetico, l’arrivo degli aiuti al nord è stato in gran parte interrotto. Secondo l’OCHA tra il 7 novembre e almeno fino al 15 novembre nessuna dei forni per il pane del nord era in funzione a causa della mancanza di carburante, acqua, farina di frumento e per danni strutturali.

Secondo il WFP a Gaza c’è un grave rischio di carenza di cibo e di carestia. Funzionari dell’ONU hanno affermato che 1.9 milioni di persone, oltre l’85% della popolazione di Gaza, sono sfollati interni, aggiungendo che in una zona meridionale sempre più ridotta nella Striscia di Gaza le condizioni potrebbe diventare “persino più infernali”.

Il 5 dicembre il capo dei servizi umanitari dell’ONU Martin Griffiths ha affermato che la campagna dell’esercito israeliano nel sud di Gaza ha portato a condizioni “apocalittiche”, rendendo impossibili significativi interventi umanitari.

Il 6 dicembre l’unico impianto di desalinizzazione nel nord di Gaza ha smesso di funzionare e l’acquedotto che fornisce acqua al nord da Israele è rimasto chiuso, accentuando i rischi di disidratazione e di malattie trasmesse dall’acqua derivanti dal consumo di acqua da sorgenti non sicure. Il 14 dicembre gli ospedali sono stati particolarmente colpiti, con solo un ospedale su 24 nel nord di Gaza in funzione e in grado di accettare nuovi pazienti, anche se fornendo servizi limitati.

Dall’11 ottobre in tutta Gaza la crisi umanitaria si è aggravata con una persistente interruzione della corrente elettrica, così come con una serie di blocchi delle comunicazioni che ha impedito alle persone l’accesso ad affidabili informazioni sulla sicurezza, sui servizi medici d’urgenza e ha ostacolato gravemente le operazioni umanitarie. Il 18 novembre l’OCHA ha affermato che l’interruzione delle telecomunicazioni tra il 16 e il 18 novembre, il quarto dal 7 ottobre, “ha portato a un quasi totale blocco della già problematica distribuzione di assistenza umanitaria, compresa l’assistenza salvavita a persone ferite o intrappolate sotto le macerie in conseguenza degli attacchi aerei e degli scontri”. Il 14 dicembre c’è stato un’altra interruzione delle telecomunicazioni. “

Immagini satellitari visionate da Huma Rights Watch indicano che fin dall’inizio dell’offensiva di terra dell’esercito israeliano il 27 ottobre orti, serre e terreni coltivati sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane, aggravando le preoccupazioni per la gravissima insicurezza alimentare e la perdita di mezzi di sussistenza. Immagini satellitari indicano che la distruzione di terreni agricoli è continuata nel nord di Gaza durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre e terminato il 1 dicembre, quando l’esercito israeliano aveva il controllo diretto della zona.

Mentre durante il cessate il fuoco di 7 giorni terminato il primo dicembre per la prima volta dal 7 ottobre il governo israeliano ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza di un continuo e leggermente maggiore afflusso di aiuti umanitari, compreso gas da cucina, aveva in precedenza deliberatamente impedito l’ingresso di generi di soccorso nelle quantità necessarie per oltre un mese, imponendo un assedio che ha colpito tutta la popolazione civile. Ciò ha contribuito a una situazione umanitaria catastrofica con conseguenze di vasta portata, con oltre l’80% della popolazione sfollata internamente, molta della quale ospitata in condizioni di sovraffollamento, malsane e insalubri nei rifugi dell’ONU nel sud. Gli aiuti che sono entrati durante il cessate il fuoco “sono stati a malapena percepiti rispetto alle enormi necessità di 1.7 milioni di sfollati,” ha detto il 27 novembre il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric.

Durante il cessate il fuoco sono entrati a Gaza circa 200 camion al giorno, comprese quattro cisterne che trasportavano 130.000 litri di carburante e quattro di gas da cucina. In confronto prima del conflitto entrava a Gaza ogni giorno una media di 500 camion di cibo e prodotti e 600.000 litri di carburante al giorno, necessari solo per far funzionare gli impianti per l’acqua e la desalinizzazione. Come sono ripresi i bombardamenti e le forze israeliane sono avanzate verso sud, l’accesso agli aiuti è stato di nuovo seriamente ostacolato. Il 5 dicembre per il terzo giorno consecutivo l’OCHA ha informato che a Gaza solo il governatorato di Rafah aveva ricevuto una ridotta distribuzione di aiuti. Ha affermato che nel vicino governatorato di Khan Younis la distribuzione di aiuti è stata largamente interrotta a causa dell’intensità degli scontri.

Testimonianze di civili a Gaza

Human Rights Watch ha parlato con 11 civili sfollati dal nord di Gaza verso la presunta sicurezza nel sud a causa dei pesanti bombardamenti, del timore di imminenti attacchi aerei o perché Israele ha ordinato loro di andarsene. Molti affermano di essersi spostati varie volte prima di arrivare a sud, mentre lungo il loro viaggio hanno lottato per trovare un rifugio adeguato e sicuro. Nel sud hanno trovato rifugi sovraffollati, mercati vuoti, prezzi alle stelle e lunghe file per ridotte quantità di pane e acqua potabile. Per proteggere la loro identità in tutte le interviste Human Rights Watch utilizza pseudonimi.

Devo camminare per tre chilometri per avere 4 litri (di acqua)” dice il trentenne Marwan, scappato il 9 novembre a sud con la moglie incinta e due figli. “E non c’è cibo. Se lo trovassimo, sarebbe in scatola. Nessuno di noi sta mangiando bene.”

Quello che abbiamo è tutto troppo poco,” dice Hana, 36 anni, scappata dalla sua casa nel nord a Khan Younis, nel sud con suo padre, la moglie di lui e suo fratello l’11 ottobre. Dice che nel sud non sempre hanno accesso ad acqua potabile e sono obbligati a bere acqua non potabile e salata.

Lavarsi è diventato un lusso, afferma, a causa della mancanza di mezzi per scaldare l’acqua, per cui devono andare a cercare della legna. Nelle situazioni disperate, dice, finiscono persino col bruciare vecchi vestiti per cucinare. Il processo di preparazione del pane presenta delle difficoltà a causa della scarsità di ingredienti che non possono permettersi. “Facciamo del pane cattivo perché non abbiamo tutti gli ingredienti e non possiamo comprarli,” afferma.

Majed, 34 anni, scappato a sud con la moglie e quattro figli sopravvissuti verso il 10 di novembre dice che, mentre la situazione nel sud è disastrosa, è incomparabile con quello che lui e la sua famiglia hanno dovuto sopportare nel nord. Sono stati in una zona nei pressi dell’ospedale al-Shifa a Gaza City per oltre un mese dopo che il 13 ottobre la loro casa era stata bombardata uccidendo il figlio di sei anni di Majed:

In quei 33 giorni non abbiamo mangiato pane perché non c’era farina,” afferma. “Non c’era acqua, a volte compravamo acqua per 10 (dollari) a tazza. Non sempre era potabile. A volte (l’acqua che abbiamo bevuto) era del bagno e altre del mare. I mercati della zona erano vuoti. Non c’era neppure cibo in scatola.”

Taher, 32 anni, scappato con la sua famiglia l’11 novembre, descrive condizioni simili a Gaza City nelle prime settimane di novembre: “La città era priva di ogni cosa, di cibo e acqua,” dice. “Se trovavi cibo in scatola i prezzi erano altissimi. Abbiamo deciso di mangiare solo una volta al giorno per sopravvivere. Abbiamo finito i soldi. Abbiamo deciso di avere solo l’indispensabile, di avere meno di tutto.”

Standard internazionali e le prove di azioni deliberate

Affamare i civili come metodo di guerra è vietato in base all’articolo 54 (1) del Primo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo I) e dell’articolo 14 del Secondo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo II). Benché Israele non abbia aderito ai protocolli I e II, il divieto viene riconosciuto come riflesso del diritto umanitario consuetudinario internazionale sia in conflitti internazionali che non internazionali. Le parti di un conflitto non devono “provocare deliberatamente (una carestia)” o provocare deliberatamente “il fatto che la popolazione soffra la fame, in particolare privandola delle fonti o dei rifornimenti di cibo.”

Alle parti in guerra è vietato anche attaccare i beni indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile, come cibo e medicinali, zone agricole e impianti dell’acqua potabile. Sono obbligate a fornire assistenza umanitaria rapida e senza restrizioni a tutti i civili in stato di necessità e a non bloccare deliberatamente gli aiuti umanitari o limitare la libertà di movimento del personale dell’assistenza umanitaria. In ognuna delle precedenti quattro guerre a Gaza dal 2008 Israele ha garantito il flusso di acqua potabile ed elettricità a Gaza ed ha aperto i valichi israeliani per la distribuzione di aiuti umanitari.

Le prove dell’intenzione di utilizzare deliberatamente la mancanza di cibo come metodo di guerra possono essere rintracciate nelle affermazioni pubbliche di politici coinvolti nelle operazioni militari. Ci si può aspettare che i seguenti politici israeliani di alto livello possano aver giocato un ruolo significativo nel definire le politiche rispetto a consentire o bloccare il cibo e altri beni di prima necessità per la popolazione civile.

Il 9 ottobre il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto: “Stiamo imponendo un assedio totale contro (Gaza). Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante, tutto chiuso. Stiamo combattendo contro animali umani e dobbiamo agire di conseguenza.”

Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir il 17 ottobre ha detto in un tweet: “Finché Hamas non rilascerà gli ostaggi, l’unica cosa che dovrebbe entrare a Gaza sono centinaia di tonnellate di esplosivo dal cielo, neppure un grammo di aiuto umanitario.”

Il ministro dell’Energia Israel Katz, che ha raccontato di aver ordinato il taglio di elettricità e acqua, ha detto l’11 ottobre:

Per anni abbiamo fornito a Gaza elettricità, acqua e carburante. Invece di ringraziarci, hanno inviato migliaia di animali umani a massacrare, uccidere, violentare e rapire bambini, donne e anziani. Per questo abbiamo deciso di interrompere la fornitura di acqua, elettricità e carburante e ora l’impianto di produzione di energia locale è crollato e a Gaza non c’è elettricità. Continueremo a mantenere un rigido assedio finché Israele e il mondo non saranno liberati della minaccia di Hamas. Ciò che è stato non ci sarà più.”

Il 12 ottobre Katz ha detto:

Aiuti umanitari a Gaza? Neppure un interruttore verrà acceso, non verrà aperta neppure una valvola, neppure un camion di carburante entrerà finché gli ostaggi israeliani non torneranno a casa. Umanità contro umanità. Che nessuno ci dia lezioni di moralità.”

Il 16 ottobre ha detto:

Ho appoggiato l’accordo tra il primo ministro Netanyahu e il presidente Biden per la fornitura di acqua al sud della Striscia di Gaza perché è in linea anche con gli interessi israeliani. Sono totalmente contrario a togliere il blocco e a lasciar entrare a Gaza prodotti per ragioni umanitarie. Il nostro impegno è verso le famiglie degli assassinati e gli ostaggi rapiti, non verso gli assassini di Hamas e la gente che li ha aiutati.”

Il 4 novembre il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che “per nessuna ragione” deve entrare carburante a Gaza. Poi, come riportato dal Jerusalem Post, ha definito la decisione del gabinetto di guerra israeliano di consentire l’ingresso nella Striscia di una piccola quantità di carburante “un grave errore” e ha affermato: “Si ponga termine immediatamente a questo scandalo e si impedisca che carburante entri nella Striscia”.

In un video postato in rete il 4 novembre il colonnello Yogev Bar-Shesht, vice capo dell’Amministrazione Civile [ente militare che governa i territori occupati, ndt.] ha affermato in un’intervista da Gaza: “Chiunque torni qui, se ritornerà in seguito, troverà terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente. Non hanno futuro.”

Il 24 novembre, in un’intervista televisiva con la CNN, Mark Regev, consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha affermato che Israele ha privato Gaza di carburante dal 7 ottobre per rafforzare la posizione di Israele quando si tratterà di negoziare con Hamas il rilascio degli ostaggi. “Se lo avessimo fatto (consentire l’ingresso di carburante) … non avremmo mai avuto la restituzione dei nostri ostaggi,” ha detto.

Il 1 dicembre il coordinatore delle attività di governo nei territori del ministero dell’Interno, generale Ghassan Alian, ha affermato che l’ingresso di carburante e aiuti a Gaza era stato interrotto dopo che Hamas aveva violato le condizioni dell’accordo di cessate il fuoco. Il suo ufficio ha confermato la sua dichiarazione in risposta a una domanda del Times of Israel sostenendo: “”Dopo che l’organizzazione terroristica Hamas ha violato l’accordo e in più ha sparato contro Israele, l’ingresso di aiuti umanitari è stato bloccato nel modo previsto dall’accordo.”

Fin dal 7 ottobre altre fonti ufficiali hanno chiesto di limitare l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, affermando che ciò è utile agli obiettivi dell’esercito israeliano.

Il primo ministro Netanyahu il 5 dicembre ha risposto a una domanda riguardo al fatto che Israele potrebbe perdere un’arma di pressione contro Hamas se consentisse l’ingresso di maggiori aiuti umanitari a Gaza affermando: “Gli sforzi bellici sono sostenuti da quelli umanitari… ciò perché seguiamo le leggi di guerra in quanto sappiamo che, se ci fosse un collasso – epidemie, pandemie e infezioni dovute alla falda freatica – ciò porrebbe fine alla guerra.”

Il ministro della Difesa Gallant ha affermato: “Ci viene chiesto di consentire il minimo dal punto di vista umanitario perché la pressione militare possa continuare.”

Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, ha detto il 17 novembre a una conferenza stampa: “Se c’è un’epidemia, i combattimenti finiranno. Se ci sono una crisi umanitaria e una protesta internazionale, in quelle condizioni non riusciremo a continuare a combattere.”

Il 18 ottobre l’ufficio del primo ministro ha annunciato che Israele non avrebbe impedito agli aiuti umanitari di entrare a Gaza dall’Egitto in seguito a pressioni degli USA e di altri alleati internazionali:

Alla luce della richiesta del presidente Biden Israele non ostacolerà soccorsi umanitari dall’Egitto finché si tratterà solo di cibo, acqua e medicinali per la popolazione civile del sud della Striscia di Gaza.”

Distruzione della produzione agricola e impatto sulla produzione di cibo

Durante le operazioni di terra nel nord di Gaza a quanto sembra le forze israeliane hanno distrutto la produzione agricola accentuando la carenza di cibo con effetti a lungo termine. Ciò ha incluso la distruzione di coltivazioni, campi e serre.

L’esercito israeliano ha affermato di condurre operazioni militari nella zona di Beit Hanoun, e anche in una zona agricola imprecisata a Beit Hanoun, per scoprire tunnel e altri obiettivi militari.

Campi e frutteti a nord di Beit Hanoun, per esempio, sono stati i primi ad essere danneggiati durante le ostilità in seguito alle operazioni di terra israeliane alla fine di ottobre. Bulldozer hanno scavato nuove strade, aprendo la via per veicoli militari israeliani.

Da metà novembre, dopo che le forze israeliane hanno preso il controllo della stessa area nel nordest di Gaza, immagini satellitari mostrano che frutteti, campi e serre sono stati sistematicamente distrutti, lasciando sabbia e polvere. L’8 dicembre Human Rights Watch ha chiesto un commento all’esercito israeliano, ma non ha ricevuto risposta.

Gli agricoltori della zona avevano piantato coltivazioni come alberi di agrumi, patate, pitaya [frutti originari dell’America centro-meridionale, ndt.] e fichi d’india, contribuendo al sostentamento dei palestinesi di Gaza. Altre coltivazioni includono pomodori, cavoli e fragole. Alcuni appezzamenti sono stati distrutti in un giorno. Gli alberi di agrumi, come i cactus della pitaya, richiedono anni di cure per maturare prima di dare frutti.

Immagini satellitari ad alta definizione mostrano che sono stati usati bulldozer per distruggere campi e piantagioni. Si vedono camion e montagne di terra sui limiti dei precedenti appezzamenti.

Che si tratti di distruzioni deliberate, di danni dovuti alle ostilità o all’impossibilità di irrigare o lavorare la terra, nel nord di Gaza i terreni agricoli sono stati drasticamente ridotti fin dall’inizio delle operazioni di terra israeliane.

Anche nel sud di Gaza aziende agricole e contadini sono stati colpiti. Action Against Hunger [ong francese che lotta contro la fame nel mondo, ndt.] ha scoperto che delle 113 aziende agricole del sud di Gaza interpellate tra il 19 e il 31 ottobre il 60% ha affermato che le proprie attività o coltivazioni sono state danneggiate, il 42% di non avere accesso all’acqua per irrigare i campi e il 43% di non essere in grado di raccogliere i prodotti.

Rettifica

18/12/2023: Questo comunicato stampa è stato aggiornato per riportare la data di ottobre in cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che Israele non avrebbe consentito assistenza umanitaria a Gaza “nella forma di cibo e medicinali” attraverso i suoi valichi “finché gli ostaggi (israeliani) non saranno restituiti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)