L’epidemia di coronavirus al tempo dell’apartheid

Osama Tanous

24 Marzo 2020 – Al Jazeera

Mentre il mondo invoca solidarietà, i palestinesi non se ne aspettano alcuna dai loro occupanti

Mentre il numero di infezioni e decessi per COVID-19 si moltiplica di giorno in giorno, ci sono sempre più appelli in tutto il mondo affinché le persone dimostrino solidarietà e e si prendano cura gli uni degli altri. Ma per il governo israeliano non esiste solidarietà.

Appena sono state rilevate le prime infezioni da coronavirus, le autorità israeliane hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di alleggerire l’apartheid e far sì che i palestinesi siano in grado di affrontare l’epidemia in condizioni più umane.

La repressione è continuata, con le forze di occupazione israeliane che hanno usato l’epidemia come scusa per aumentare la presenza della polizia, che continua a fare irruzioni in alcune comunità come il quartiere Issawiya a Gerusalemme est, a demolire case come nel villaggio di Kafr Qasim, e a distruggere i raccolti delle comunità beduine nel deserto del Naqab.

Nonostante quattro prigionieri palestinesi risultino positivi al COVID-19, il governo israeliano ha finora rifiutato di accogliere gli appelli e liberare i 5.000 palestinesi (inclusi 180 minori) che attualmente detiene nelle carceri. Non c’è segno nemmeno che possa essere prima o poi revocato il blocco della Striscia di Gaza, che ha decimato i servizi pubblici.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta anche cercando di escludere il partito Lista Unita, per lo più palestinese, dalla formazione del governo di unità nazionale di contrasto all’epidemia, definendo i suoi membri “sostenitori del terrore”.

E intanto le autorità israeliane si sono affrettate a descrivere i palestinesi come portatori del virus, minaccia per la salute pubblica.

All’inizio di marzo, quando il Ministero della Sanità palestinese ha annunciato la conferma dei primi sette casi di coronavirus (causa della malattia COVID-19) nel territorio palestinese occupato, il Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha rapidamente chiuso la città di Betlemme, dove si registravano tutti i casi.

Ovviamente la preoccupazione non era per la salute e la sicurezza dei palestinesi in città, ma piuttosto la paura che infettassero gli israeliani. Il vicino insediamento di Efrat – dove erano state confermate altre infezioni, ovviamente – non era stato al momento bloccato.

Poco dopo, il Ministero della Sanità ha rilasciato una dichiarazione in cui consigliava agli israeliani di non entrare nei territori palestinesi occupati.

La scorsa settimana, Netanyahu ha chiesto alla “popolazione di lingua araba” di seguire le istruzioni del Ministero della Sanità, sostenendo che esiste un problema di disobbedienza fra i palestinesi. Nessuna preoccupazione è stata espressa in merito ad alcuni membri della popolazione ebraica di Israele, che si è recisamente rifiutata di chiudere scuole e attività religiose.

Questo atteggiamento nei confronti dei palestinesi non è certo nuovo. Gli scritti dei primi coloni sionisti europei sono pieni di pregiudizi razzisti sull’igiene e sulle condizioni di vita degli arabi; la minaccia di malattie provenienti dalla popolazione palestinese è stata una iniziale giustificazione dell’apartheid.

Oltre alla secolare repressione e discriminazione, durante l’epidemia di COVID-19 i palestinesi dovranno affrontare un’altra conseguenza dell’occupazione e dell’apartheid: un sistema sanitario distrutto.

Le origini del malfunzionamento risalgono all’era del mandato, quando gli inglesi scoraggiarono la nascita di un settore sanitario gestito dai palestinesi. La popolazione palestinese (principalmente nelle zone urbane) era servita dai numerosi ospedali istituiti dai colonialisti britannici Nel frattempo, i coloni ebrei furono autorizzati a istituire un proprio sistema sanitario, finanziato generosamente dall’estero e gestito autonomamente rispetto al mandato.

Durante la Seconda Guerra Mondiale alcuni missionari se ne andarono e chiusero le loro cliniche e, dopo il 1948, gli inglesi si ritirarono, lasciando dietro di sé un’infrastruttura sanitaria mal funzionante. Nel 1949, l’Egitto annetteva Gaza e l’anno successivo la Giordania fece lo stesso con la Cisgiordania. Nel corso dei successivi 17 anni, Il Cairo e Amman hanno provveduto alla popolazione palestinese che viveva sotto il loro dominio, ma in realtà non hanno mai istituito un sistema sanitario efficiente.

L’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Rifugiati Palestinesi in Medio Oriente, ha dovuto aumentare i propri servizi, fornendo assistenza sanitaria di base, mentre i palestinesi hanno iniziato a costruire una rete di strutture sanitarie filantropiche.

Dopo la guerra del 1967 e l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, Israele in quanto potenza occupante è divenuto legalmente responsabile dell’assistenza sanitaria dei palestinesi, ma non sorprende che non abbia fatto nulla per incoraggiare lo sviluppo di un forte settore sanitario. Per chiarire: nel 1975, il budget stanziato per l’assistenza sanitaria in Cisgiordania era inferiore a quello annuale di un ospedale israeliano.

Nel 1994 è stata creata l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha assunto la responsabilità dei servizi. Inutile dire che l’eterna occupazione e il fatto che il bilancio dell’Autorità dipenda da donatori stranieri e dai capricci del governo israeliano, nonché dalla corruzione dei funzionari dell’ANP, non ha permesso al settore sanitario palestinese di migliorare.

Come risultato, se doveste entrare oggi in un ospedale palestinese in Cisgiordania, rimarreste colpiti dal sovraffollamento dei pazienti, dalla carenza di materiali, dalle attrezzature inadeguate e da infrastrutture e condizioni igieniche scadenti. I medici che ci lavorano hanno ripetutamente protestato contro le misere condizioni di lavoro nei loro ospedali, recentemente nel febbraio di quest’anno, ma senza esito.

Con solo 1,23 posti letto ogni 1.000 persone, 2.550 medici che ci lavorano, meno di 20 specialisti in terapia intensiva e meno di 120 ventilatori in tutti gli ospedali pubblici, la Cisgiordania occupata si trova di fronte al disastro della sanità pubblica se le autorità non contengono la diffusione di COVID-19.

La situazione in Cisgiordania può sembrare desolante, ma quella nella Striscia di Gaza è semplicemente catastrofica. Le Nazioni Unite hanno annunciato che la Striscia sarebbe stata invivibile nel 2020. Siamo nel 2020 e gli abitanti della Striscia di Gaza – oltre alle disumane condizioni di vita – stanno ora affrontando anche l’epidemia di COVID-19, dopo che il 21 marzo sono stati confermati i primi casi.

Il blocco di Gaza imposto da Israele, Egitto e ANP ha portato il sistema sanitario sull’orlo del collasso, aggravato da ripetuti attacchi che hanno distrutto le strutture sanitarie e dal lento processo di ricostruzione che ha fatto seguito alle ripetute offensive militari su larga scala dell’esercito israeliano.

La popolazione di Gaza sta già affrontando condizioni terribili: la disoccupazione è al 44 % (61 % per i giovani); l’80 % della popolazione dipende da una qualche forma di assistenza straniera; il 97 % dell’acqua non è potabile; e il 10 % dei bambini ha un arresto nella crescita dovuto alla malnutrizione.

Le prestazioni sanitarie sono in costante calo. Secondo la ONG Assistenza Sanitaria per i Palestinesi, dal 2000 “c’è stato un calo del numero di letti ospedalieri (da 1,8 a 1,58), di medici (da 1,68 a 1,42) e infermieri (da 2,09 a 1,98) ogni 1.000 persone, con conseguente sovraffollamento e riduzione della qualità dei servizi”. Il divieto di Israele all’importazione di tecnologia per il possibile “duplice uso” ha limitato l’acquisto di attrezzature quali scanner a raggi X e radioscopi sanitari.

Le continue interruzioni di corrente minacciano la vita di migliaia di pazienti affidati alle attrezzature mediche, compresi i bambini nelle incubatrici. Gli ospedali mancano di circa il 40% delle medicine essenziali, e ci sono quantità insufficienti di materiale sanitario di base come siringhe e garze. La decisione nel 2018 dell’amministrazione Trump di interrompere i finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha diminuito le capacità dell’ente di fornire assistenza sanitaria e permettere ai medici di eseguire interventi chirurgici complessi a Gaza.

I limiti del sistema sanitario di Gaza sono stati messi a dura prova nel 2018 durante la Grande Marcia del Ritorno, quando i soldati israeliani hanno sparato in modo indiscriminato sui palestinesi disarmati che protestavano vicino alla recinzione che separa la Striscia dal territorio israeliano. In quei giorni gli ospedali sono stati sopraffatti da feriti e morti e per mesi hanno lottato per fornire cure adeguate alle migliaia di persone ferite da proiettili veri, molte delle quali sono rimaste disabili a vita.

La Striscia di Gaza è una delle aree più densamente popolate del mondo, e soffre anche di gravi problemi alle infrastrutture idriche e igieniche. È chiaro che fermare la diffusione di COVID-19 sarà quasi impossibile. È anche chiaro che la popolazione, già logorata dalla malnutrizione, da un alto tasso di disabilità (a causa di tutti gli attacchi israeliani) e dal disagio psicologico dovuto alla guerra e alle difficoltà sarà molto più vulnerabile al virus: molti moriranno e il sistema sanitario probabilmente crollerà.

Quindi, ora che la Cisgiordania e Gaza affrontano potenziali catastrofi sanitarie nel mezzo di un’epidemia di COVID-19, la domanda è: che cosa farà Israele? Darà accesso al suo sistema sanitario ai palestinesi?

Un recente video diventato virale sui social media palestinesi può darci la risposta. Si vede un bracciante palestinese lottare per non soffocare sul ciglio di una strada ad un checkpoint israeliano vicino al villaggio di Beit Sira. Il suo datore di lavoro israeliano aveva allertato la polizia israeliana dopo averlo visto gravemente malato e sospettando che avesse il virus. É stato preso e scaricato al checkpoint.

Decenni di dominio coloniale, occupazione militare e ripetuti assalti letali hanno insegnato ai palestinesi a non aspettarsi alcuna “solidarietà” dal governo israeliano dell’apartheid. In questo, come nelle crisi precedenti, riusciranno a superarla con la loro proverbiale sumud (perseveranza).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Osama Tanous è un pediatra di Haifa [in Israele, ndtr.] e sta conseguendo un master in Sanità Pubblica

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




«I palestinesi non hanno mai perso l’occasione di perdere un’occasione»?

Alain Gresh

16 marzo 2020 ORIENT XXI

La citazione è vecchia, ma è stata modificata per favorire una propaganda che addossa ai palestinesi la colpa del fallimento della pace durante questi ultimi decenni. Si era appena dopo la guerra dell’ottobre 1973 e per la prima volta si tenne una conferenza a Ginevra che coinvolse Israele, la Giordania e l’Egitto. Il Cairo, che aveva proposto di invitare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che stava per essere ammessa alle Nazioni Unite come osservatore, si vide opporre un veto israeliano.

Fu in seguito al fallimento di questa conferenza che Abba Eban, allora rappresentante di Israele alle Nazioni Unite, pronunciò questa frase destinata ad essere infinite volte ripetuta e rivolta contro i palestinesi: “Gli arabi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione”, accusa ripresa in occasione del rifiuto dei palestinesi del piano di Trump, che avalla l’annessione da parte di Israele di un terzo della Cisgiordania e di Gerusalemme e la creazione di uno “Stato” palestinese senza alcuna sovranità.

Questa narrazione corrisponde alla realtà? Nel 1982 la Lega Araba riunì i suoi vertici a Fèz: per la prima volta il mondo arabo adottò collettivamente un progetto di pace globale che avrebbe visto riconosciuto il diritto di “tutti gli Stati della regione a vivere in pace”, in cambio della creazione di uno Stato palestinese. Iniziativa storica accettata dall’OLP, respinta da Israele al momento stesso in cui l’insieme del mondo arabo si dichiarava pronto a riconoscerlo.

In seguito alla guerra condotta contro l’Iraq (dopo l’invasione del Kuwait da parte di questo Paese), il 30 ottobre 1991 il presidente George H. Bush presentò un piano di pace e convocò, insieme all’agonizzante URSS, una conferenza a Madrid. Il Primo Ministro israeliano non volle parteciparvi: per una volta Washington torse il braccio a Israele e lo costrinse, sotto minaccia di sanzioni economiche, ad andarci. Ma il veto israeliano contro la presenza dell’OLP fu mantenuto.

Negoziare finalmente con l’OLP

Alla fine Israele negoziò segretamente con l’OLP e nel settembre 1993 firmò insieme ad essa gli Accordi di Oslo. Il loro carattere iniquo saltava agli occhi: l’OLP riconosceva ufficialmente Israele, il quale in cambio si limitava a riconoscere….l’OLP. Tuttavia i palestinesi fecero la scommessa della pace. Speravano che l’autonomia che veniva loro concessa avrebbe portato alla creazione di uno Stato.

Ma l’applicazione degli accordi si procrastinava, mentre la costruzione delle colonie accelerava. Nel settembre 1995, intervenendo al parlamento israeliano, il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin precisò le rivendicazioni del suo Paese:

  • annessione di Gerusalemme e di molte colonie, cioè circa il 15% del territorio della Cisgiordania;
  • creazione del confine di sicurezza di Israele sul fiume Giordano

Un’altra volta, Israele perdeva un’occasione di pace!

Come noto, l’impasse degli accordi di Oslo portò alla seconda Intifada nel contesto di una rinnovata violenza. Per uscirne, il 27 e 28 marzo 2002 si tenne a Beirut un vertice della Lega Araba. Esso propose, con l’avallo dell’OLP, di considerare che il conflitto con Israele fosse terminato e di stabilire delle “normali relazioni con Israele” a tre condizioni:

  • il ritiro totale di Israele dai territori occupati nel 1967;
  • la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale;
  • una soluzione giusta” del problema dei rifugiati.

Nuovo rifiuto israeliano.

La situazione nei territori [palestinesi] occupati si deteriorò, con una repressione israeliana senza precedenti e sanguinosi attentati palestinesi. Fu in questo contesto che il 30 aprile 2003 il Quartetto – composto da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – adottò una “road map”. Non era un nuovo piano di pace, bensì un quadro che fissava dei parametri e un calendario per favorire i negoziati e la loro applicazione. L’OLP accettò, Israele anche, ma con così tante condizioni da svuotare la proposta di ogni senso.

Dal mese seguente il Primo Ministro Ariel Sharon pretese come requisito per i negoziati la rinuncia da parte dei palestinesi al loro “diritto al ritorno”. Il 2 febbraio 2004 annunciò la sua decisione di smantellare le colonie a Gaza e ritirarsi da quel territorio. Progresso della pace? Egli rifiutò di discutere del ritiro con l’Autorità Nazionale Palestinese – che viveva sotto blocco militare a Ramallah. I suoi consiglieri spiegarono che l’obbiettivo era di allentare la pressione internazionale per colonizzare meglio la Cisgiordania.

Chi è, alla fine, che non ha perso occasione di perdere un’occasione?

Alain Gresh

Esperto di Medio Oriente, è autore di diversi libri, tra cui ‘De quoi la Palestine est-elle le nom?” (Che cosa è ciò che si chiama Palestina?)

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I palestinesi di fronte a due nemici: l’occupazione e la pandemia

Tamara Nassar

26 marzo 2020 – Electronic Intifada

Nonostante la pandemia globale, nulla è cambiato riguardo all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Il numero di casi confermati di COVID-19, la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus, è salito a quasi 2.700 in Israele, a circa 80 nella Cisgiordania occupata e a nove nella Striscia di Gaza assediata.

Finora la malattia ha causato la morte di otto israeliani e di una donna palestinese nella Cisgiordania occupata.

Mentre il coronavirus infetta sempre più persone, i palestinesi affrontano contemporaneamente un nemico più vecchio: l’occupazione militare israeliana.

Gaza, sotto assedio e con un’alta densità di popolazione, è particolarmente esposta al rischio di una diffusa epidemia.

“Israele non potrà scaricare su qualcun altro le sue colpe se questo scenario da incubo dovesse divenire una situazione che ha determinato senza fare alcuno sforzo per evitarla”, ha ammonito questa settimana l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem .

Distanziamento fisico, permanenza a casa e cura dell’igiene sono precauzioni che i palestinesi si sforzano di adottare mentre Israele continua a demolire strutture, a condurre raid notturni, ad arrestare arbitrariamente bambini e ad angariare regolarmente i civili.

Confiscate le strutture per un ospedale da campo

Giovedì mattina le forze israeliane hanno demolito e confiscato strutture destinate a un ospedale da campo e ad alloggi di emergenza a Ibziq, un villaggio nella valle del Giordano settentrionale nella Cisgiordania occupata.

Ciò è stato fatto con la supervisione dell’Amministrazione Civile, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana.

Le forze israeliane hanno confiscato tende, un generatore e materiali da costruzione.

“Chiudere un’attività di primo soccorso per la comunità durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei regolari abusi inflitti a queste comunità”, ha affermato questa settimana l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo il capo del consiglio del villaggio Abdul Majid Khdeirat, ciò è stato fatto con il pretesto che la costruzione si trovava in una zona militare interdetta.

Israele dichiara abitualmente le terre della Cisgiordania aree di tiro o zone militari e successivamente confisca il territorio a favore delle colonie israeliane illegali.

Le forze israeliane hanno anche demolito le case di tre famiglie palestinesi nel villaggio di al-Duyuk, vicino a Gerico.

Un bulldozer militare israeliano ha distrutto le case di Muayad Abu Obaida, Thaer al-Sharif e Yasir Alayan, perché sarebbero state costruite senza [quei] permessi che Israele non concede quasi mai ai palestinesi. Ciò non lascia loro altra scelta che costruire le case senza il permesso dell’occupante.

Tutti e tre gli agricoltori risiedono a Gerusalemme.

Decine di migliaia in condizioni di isolamento

Nel frattempo Israele sta valutando di isolare diversi quartieri della Gerusalemme est occupata, tagliando fuori decine di migliaia di palestinesi dal resto della città.

Quasi il 70% delle 100.000 persone del campo profughi di Shuafat ha un documento di residenza israeliano che consente loro di entrare a Gerusalemme.

“In caso di blocco questi abitanti saranno completamente isolati rispetto alla loro città, a cui si rivolgono per tutti i servizi di base, e ciò probabilmente porterà panico e disordini diffusi”, avverte Ir Amim, un’organizzazione israeliana impegnata per l’uguaglianza a Gerusalemme.

“Tale misura sarebbe un ulteriore passo avanti nella realizzazione dei piani israeliani di lunga data volti a ridisegnare i confini municipali di Gerusalemme, per separare formalmente quei quartieri da Gerusalemme”.

Israele userebbe il coronavirus come pretesto per tagliar fuori quei quartieri dal resto di Gerusalemme, nonostante in quei quartieri il numero di casi confermati sia considerevolmente più basso rispetto a Israele.

La popolazione più vulnerabile al mondo”

Le organizzazioni per i diritti umani mettono in guardia a proposito di un incombente disastro nel caso di una diffusa epidemia di COVID-19 a Gaza. Spesso definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo, l’enclave costiera è sotto assedio israeliano dal 2007. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo di Gaza e, insieme all’Egitto, i suoi confini terrestri.

Gaza è ancora sconvolta per le tre pesanti offensive militari israeliane [a partire] dal 2008.

Gli abitanti di Gaza [sono] tra le persone più vulnerabili del mondo alla pandemia globale di COVID-19”, ha dichiarato il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq.

La crisi idrica e sanitaria causata dal prolungato blocco israeliano di Gaza mina “la capacità dei palestinesi di prevenire e mitigare adeguatamente gli effetti dell’epidemia di COVID-19”, ha aggiunto al-Haq.

Meno del 4% dell’acqua del territorio è adatto al consumo umano.

I moderni sistemi sanitari in Paesi come l’Italia e la Spagna stanno collassando sotto la pressione della pandemia.

Un’epidemia del nuovo coronavirus a Gaza, dove le infrastrutture sanitarie sono già sull’orlo del collasso, condurrebbe a “un disastro umanitario, interamente costruito da Israele”, ha affermato B’Tselem.

Israele abitualmente ritarda o nega a molti palestinesi i permessi per ricevere trattamenti sanitari fuori Gaza, concedendoli solo a una piccola parte delle persone che necessitano di cure mediche.”

“Ora non ci sarà più neanche questa minima possibilità”, ha detto B’Tselem.

La dott.ssa Mona El-Farra, responsabile sanitaria della Mezzaluna Rossa palestinese a Gaza, ha dichiarato a The Electronic Intifada che mancano letti, equipaggiamento protettivo e kit per i test.

“Non abbiamo abbastanza kit, finora abbiamo solo circa 200 kit per la diagnosi. Al momento abbiamo 2.500 persone in quarantena. Tutti hanno bisogno di essere testati.”

Il Qatar ha promesso 150 milioni di dollari [136 milioni di euro, ndtr.] nei prossimi sei mesi per aiutare gli sforzi delle Nazioni Unite contro il coronavirus a Gaza.

Sebbene questo possa aiutare a breve termine, solleva anche Israele dalle sue responsabilità di potenza occupante.

Nessun accesso ai servizi di emergenza

Adalah, un’organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, afferma che i beduini palestinesi della regione meridionale del Naqab non hanno accesso ai servizi medici di emergenza.

Il Ministero della Salute israeliano impedisce a coloro che soffrono di febbre e sintomi respiratori di lasciare la propria casa. Se la loro salute peggiora, l’MDA, il servizio di ambulanza [corrispettivo israeliano della Croce Rossa, ndtr.], può prescrivere una visita domiciliare o l’invio in ospedale.

Tuttavia quei villaggi non hanno accesso alla MDA.

Domenica l’associazione ha inviato una lettera alle autorità israeliane chiedendo di fornire quei servizi ai 70.000 cittadini palestinesi di Israele che vivono in villaggi non riconosciuti.

“Per anni Israele ha mantenuto una politica di abbandono e discriminazione quando si trattava di fornire i normali servizi sanitari, così come servizi medici di emergenza, ai beduini con cittadinanza israeliana,” ha detto Adalah.

“In presenza della crisi coronavirus questa politica statale comporta ora un pericolo immediato per gli abitanti del posto e per il pubblico in generale.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Netanyahu per sempre! Gantz abbandona la sua opposizione

Philip Weiss  

26 marzo 2020 – Mondoweiss

Questa mattina c’è una notizia straordinaria da Israele. Lo stallo politico del Paese durato un anno sembra essere stato superato. Il leader dell’opposizione politica a Netanyahu dell’ultimo anno, Benny Gantz, si è piegato ed ha unito le forze con Netanyahu per fare un governo che lo avrà ancora come primo ministro.

Secondo le notizie, Gantz sta rompendo la sua alleanza “Blu e Bianco” di tre fazioni di centro-destra e aggiungendo 15 seggi al blocco di 58 o 59 seggi di Netanyahu per creare una maggioranza forte.

“Benjamin Netanyahu sarà primo ministro…Benny Gantz sarà ministro degli Esteri,” afferma Ellie Hochenberg di i24 News [rete televisiva privata israeliana filogovernativa, ndtr.]. Sostiene che Netanyahu, a differenza di Gantz, è rimasto leale alla sua base e ai suoi alleati politici di destra.

Netanyahu è già il primo ministro di Israele più a lungo in carica, con quattro mandati e 14 anni, di cui 11 di fila dal 2009. È stato salvato dal suo ex- capo di stato maggiore dell’esercito – il generale Gantz ha colpito Gaza nel 2014 [operazione “Margine protettivo”, ndtr.] uccidendo più di 500 minorenni.

Netanyahu sembra essere stato salvato da due fattori: la crisi del coronavirus si sta aggravando in Israele e rendendo gli israeliani poco disposti a sostituirlo, nonostante il fatto che sia accusato di corruzione e debba essere processato, e il palese razzismo.

Solo una settimana fa, più o meno, sembrava che Gantz stesse per cacciare Netanyahu. Ma poi il razzismo ha bloccato ogni speranza di farlo. [La coalizione] “Blu e Bianco” (33 seggi), insieme al partito di destra di Avigdor Lieberman (7 seggi), i resti della sinistra israeliana (7 seggi) e la Lista Unita palestinese (15 seggi), si era impegnata a formare una maggioranza e a mettere al tappeto Netanyahu. I palestinesi non avrebbero fatto parte del governo che ne sarebbe sorto, però è così che funziona uno Stato ebraico.

Poi sono iniziate le defezioni: tre parlamentari della destra ebraica si sono rifiutati di lavorare con i loro colleghi palestinesi persino temporaneamente. Gantz è passato da 62 a 59. Ancora una volta lui e Netanyahu erano praticamente in un vicolo cieco e ci sono stati colloqui per una quarta tornata elettorale, dopo le tre nell’ultimo anno (dall’aprile 2019 al 2 marzo 2020).

Il nuovo governo non è ufficiale: quello che è ufficiale è che Benny Gantz sta per diventare presidente della Knesset, sostituendo l’alleato di Netanyahu Yuli Edelstein e riaprendo il parlamento, che era stato chiuso. “La mossa dovrebbe essere temporanea finché verrà formato un governo di unità nazionale,” scrive Lahav Harkov sul Jerusalem Post [giornale israeliano in inglese, ndtr.].

L’iniziativa di Gantz tradisce molti dei suoi alleati. Il leader politico palestinese Ahmad Tibi ha detto che i parlamentari palestinesi voteranno contro Gantz.

Un altro dirigente palestinese, Ayman Odeh, ha scritto acidamente (traduzione di google dall’ebraico): “Non perdono mai un’occasione per perdere un’occasione,” una battuta sulla falsariga di quella di Abba Eban, secondo il quale gli arabi non perdono mai simili opportunità.

La sinistra ebraica è stata totalmente screditata da questi avvenimenti. Ha giocato una parte nel portare in auge ed elogiare Gantz. Uno di loro ha rifiutato di votare per Gantz se i palestinesi avessero fatto parte della coalizione.

Tibi ha scritto alla CNN che la Lista Unita è la vera opposizione al governo di destra israeliano. Ma Harkov afferma che ci sarà una lotta politica per il ruolo di opposizione tra la Lista Unita e i resti dell’alleanza “Blu e Bianco” – i circa 18 seggi dei partiti di destra di Moshe Ya’alon e di Yair Lapid. Raviv Drucker [noto giornalista investigativo israeliano ostile a Netanyahu, ndtr.] sostiene che il partito di destra di Moshe Ya’alon guiderà l’opposizione. Alcuni osservatori dicono che Gantz sarà giocato dal mago della politica, Netanyahu.

“Con 15 seggi Benny Gantz è completamente nelle mani di Netanyahu. Non sarebbe sorprendente se le promesse di Netanyahu iniziassero a svanire ora che ha ottenuto il suo principale obiettivo – è riuscito a smantellare ‘Blu e Bianco’,” ritiene Raviv Drucker. Chemi Shalev di Haaretz ha la stessa opinione (traduzione di google): “Se fossi Bibi, un minuto dopo che Gantz ha prestato giuramento (come presidente del parlamento), romperei l’accordo per l’unità. [Netanyahu] ha schiacciato l’opposizione senza pagare un centesimo.”

Shalev paragona Gantz a un vice-cancelliere tedesco di breve durata, Franz von Papen, che consentì ad Hitler di arrivare alla cancelleria nel 1933. Chi ha detto che le metafore sul nazismo sono illegittime riguardo a Israele? Ancora Shalev (traduttore google): “Inconcepibile…Come se il coronavirus non fosse abbastanza, Gantz è arrivato e l’ha fatta sulla testa di metà dei civili. C’è di che essere sollevati?”

Shalev dice anche che “gli unici voti sicuri contro Netanyahu saranno quelli di Lieberman e della Lista Unita.” Un altro segno che nell’epoca di Netanyahu la sinistra ebraica è ridotta a brandelli, mentre la Lista Unita è l’unica a cui la sinistra in Israele si può rivolgere. E nella crisi sta assurgendo al ruolo di guida.

Arabi ed ebrei lottano insieme contro il coronavirus, ma gli ebrei non vogliono i palestinesi in politica, scrive Odeh: “Garantisco che, che siate arabi o ebrei, che abbiate votato per noi o meno, che vi abbiano fatti uscire dall’URSS, ridotto lo stipendio o licenziato, avete un punto di riferimento nella Knesset. Siamo qui per voi.”

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss e fondatore del sito nel 2005-06.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Trattenendo il respiro a Betlemme mentre la primavera ci passa accanto

Yumna Patel  

24 marzo 2020 – Mondoweiss

È difficile resistere al richiamo della primavera palestinese, che mi attrae alla finestra con raggi di sole, una fresca brezza e gli uccelli che cinguettano.

La fine di marzo e l’inizio di aprile sono spesso visti come la stagione più bella in Palestina.

Sui mandorli fioriscono i pallidi fiori rosa e le foglie verde scuro dei fichi iniziano a svettare dopo un inverno particolarmente freddo.

È un periodo in cui la maggior parte dei palestinesi di Betlemme si radunerebbe con la famiglia e gli amici e si dirigerebbe sulla cima delle colline di Beit Jala, i ventosi sentieri della valle al- Makhrour e gli antichi terrazzamenti di Battir.

Ma quest’anno gli abitanti della piccola città di Betlemme rimpiangono il passaggio della primavera in quarantena, mentre il blocco totale della città entra nella sua quarta settimana.

Il piccolo assaggio della primavera che possono ritrovare dovrà essere assaporato da dentro le loro case, da un balcone o, se sono fortunati, in un giardino di famiglia.

Il numero di casi di coronavirus in Palestina ha raggiunto i 60 – 58 nella Cisgiordania occupata e 2 nella Striscia di Gaza.

La grande maggioranza dei casi, circa 40, rimane a Betlemme, l’epicentro dell’epidemia in Palestina.

La scorsa settimana abbiamo ricevuto qualche buona notizia molto attesa, quando il ministero della Salute ha annunciato che 17 dei primi pazienti di COVID-19 di Betlemme sono convalescenti.

In seguito ci è stato detto che uno dei 17 a quanto pare ha avuto una ricaduta ed è risultato positivo al virus dopo essere stato dimesso. Un piccolo incidente di percorso. La cosa importante è stata che pare che siamo riusciti con successo ad “appiattire la curva” [dei contagi].

È stato sorprendente vedere una società così profondamente caratterizzata da legami comunitari e da interazioni sociali, praticare così bene il concetto di distanziamento sociale.

A Betlemme per lo più la gente ha seguito gli ordini del governo di stare a casa, uscendo solo per ragioni indispensabili, come andare dal dottore o comprare alimenti.

Le attività economiche sono rimaste chiuse, la polizia ha incrementato i posti di blocco attorno alla città ed è stato imposto e, per quanto ne sappiamo, rispettato il coprifuoco dalle 7 del mattino alle 7 di sera.

Mentre le moschee e le chiese una volta affollate sono vuote, il richiamo musulmano alla preghiera risuona ancora in città – solo che ora con una piccola modifica. Invece di chiamare la gente a radunarsi nella moschea per pregare, ai fedeli viene detto di starsene a casa.

Ogni due o tre giorni lavoratori della difesa civile o delle amministrazioni locali vengono a disinfettare diversi quartieri in tutta la città e il ministero della Salute fornisce alla gente dati significativi sulla diffusione del virus.

A Betlemme si spera che le rigide misure di contenimento che sono state attuate quando tre settimane fa il primo test è risultato positivo faranno in modo che la città possa essere liberata del virus prima del resto del Paese.

Questa speranza tuttavia non annulla il vero timore che circonda il fatto che il virus si stia diffondendo in altri luoghi della Cisgiordania: finora Hebron, Ramallah, Nablus e Tulkarem.

Saranno in grado le autorità di questi altri governatorati, alcuni dei quali sono grandi il doppio o il triplo di Betlemme, di mettere in atto le stesse misure di contenimento che hanno preso quelle di Betlemme?

I cittadini palestinesi che stavano vivendo e studiando all’estero stanno lentamente ritornando nel Paese, suscitando timori che in questo modo il virus si possa diffondere.

Martedì il governo ha annunciato che una donna palestinese che recentemente era tornata dagli USA è risultata positiva al test per il virus ed è stata messa in quarantena a Ramallah.

Sette studenti palestinesi che stavano studiando in Italia in coordinamento tra l’Autorità Nazionale Palestinese e il governo israeliano sono stati portati in Israele e sarebbero immediatamente stati messi in quarantena e testati per il virus.

E mentre la percezione generale dell’ANP durante questo periodo è prevalentemente positiva, l’efficienza della sua organizzazione recentemente è stata messa in dubbio dopo un video scioccante diffuso sulle reti sociali che ha mostrato un lavoratore palestinese gettato dalle forze israeliane dall’altra parte di un posto di blocco in Cisgiordania, dopo che l’uomo ha iniziato a manifestare sintomi del virus.

L’ANP ha promesso ai lavoratori e alle loro famiglie che da parte dei loro datori di lavoro [israeliani] gli sarebbero state fornite sistemazioni adeguate per il mese o due in cui saranno obbligati a rimanere in Israele, nel caso scelgano di andarvi a lavorare la scorsa settimana.

Ha anche promesso alla cittadinanza in generale che il ritorno di tutti i lavoratori sarà fatto in stretto coordinamento con il governo israeliano e che chiunque sarà immediatamente messo in quarantena al suo ritorno.

Ma se Israele continua a scaricare al di là del confine i lavoratori ogni volta che sono malati, senza avvertire in precedenza i funzionari dell’ANP, come potrebbe il governo gestire la situazione?

Per molti palestinesi la decisione del governo di consentire ai lavoratori di andare in Israele, dove i casi sono oltre i 1.000, è stato un grave errore e nelle prossime settimane potrebbe dimostrarsi una spina nel fianco dell’ANP, sia riguardo gli sforzi di contenimento e nei termini della salvaguardia dell’ordine pubblico.

In fin dei conti i palestinesi sono tutti consapevoli del fatto che il loro sistema sanitario non può affrontare neppure la più piccola epidemia, soprattutto a Gaza, dove ci sono solo 62 ventilatori in tutto il territorio, che ospita più di 2 milioni di abitanti.

Mentre stiamo per entrare nella quarta settimana di quarantena, le persone stanno trattenendo il respiro per vedere se, in qualche modo, riescono a evitare il disastro che sta dilagando in tutto il resto del mondo.

Yumna Patel è la corrispondente di Mondoweiss dalla Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Israele il Likud sta usando il coronavirus per orchestrare un colpo di stato

Richard Silverstein

23 marzo 2020Middle East Eye

Incombe la prospettiva di un governo di unità nazionale guidato da Netanyahu: come ci siamo arrivati?

Il Likud, il partito al governo in Israele, non ha vinto le ultime elezioni, ma, sfruttando le peggiori tattiche disponibili, continua a stare aggrappato al potere. Ora sembra proprio che riuscirà a rimanerci. 

Il blocco di centro-destra, dominato dall’alleanza Blu e Bianco, ha superato la soglia dei 60 seggi per formare un governo e il 15 marzo il presidente Reuven Rivlin ha conferito l’incarico a Benny Gantz, il leader del partito. 

Facciamo un salto in avanti al 20 marzo quando Gantz ha detto, per la prima volta, che lui sarebbe stato disponibile a partecipare a un governo di unità nazionale sotto il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. 

Misure drastiche

Ciò costituisce un notevole cambiamento della situazione. Il processo per corruzione di Netanyahu avrebbe dovuto iniziare la scorsa settimana, ma il suo Ministro della Giustizia ha decretato la chiusura di tutti i tribunali, apparentemente a causa della pandemia dovuta al Covid 19. Così facendo ha posticipato il processo almeno fino a maggio. 

Ma ciò ha solo rimosso uno degli aspetti della difficile situazione in cui si trova Netanyahu. Per rimuovere l’ostacolo politico e far sì che il Likud resti al potere, doveva mettere il bastone fra le ruote dell’ingranaggio legislativo. La prima cosa da fare per formare un nuovo governo è nominare un nuovo presidente della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. 

Quello attuale, Yuli Edelstein del Likud, ha strategicamente ordinato la chiusura della Knesset. Nessuna commissione può riunirsi. Non si può condurre alcuna attività, inclusa quella di formare un nuovo governo e sostituirlo. Edelstein ancora una volta ha preso a pretesto la pandemia per giustificare la sua decisione.

Durante un incontro di vari leader di partito, il consulente legale della Knesset ha detto che il parlamento ha ricevuto “un colpo mortale ”, aggiungendo: “Questa è una situazione diversa da tutte le altre Nazioni democratiche del mondo occidentale che soffrono a causa del coronavirus non meno di noi. Quando noi rifiutiamo di formare queste istituzioni (le commissioni della Knesset), noi diciamo al mondo che siamo una democrazia paralizzata.”

Ma c’è in gioco qualcosa di più che impedire a Blu e Bianco di formare un nuovo governo. Se lo facesse, non solo caccerebbe dal potere il Likud, ma guiderebbe anche delle iniziative legislative per impedire a Netanyahu di ridiventare primo ministro, contribuendo alla sua disperazione e a quella della sua banda del Likud.

Un’occasione d’oro per i dittatori

Le emergenze globali, come la pandemia da coronavirus, offrono delle ottime occasioni ai dittatori e aspiranti tali. Loro diventano indispensabili, responsabili, leader a cui i cittadini possono rivolgersi nell’ora del bisogno.

Yuval Noah Harari, autore di best-seller e storico, ha definito queste manovre “la prima dittatura da coronavirus”.

Perché sennò avrebbe scavalcato i tribunali e la Knesset incaricando i servizi di sicurezza israeliani di rivelare dati privati di cittadini israeliani sospettati di avere il virus? In nome della sicurezza pubblica? Se la malattia è criminalizzata, le vittime saranno riluttanti a farsi avanti e ad ammettere di essere malate. Ciò nasconderà ulteriormente la malattia: tutti sospetteranno di tutti.

Netanyahu ha ordinato alle autorità di monitorare le abitazioni dei malati di coronavirus. A loro sarà proibito di lasciare le proprie case e in teoria saranno punibili se lo faranno. I dati di geolocalizzazione identificheranno anche chi è stato a meno di due metri di distanza da questi individui per 10 minuti o più e ordinerà loro con un messaggino di mettersi in quarantena. Presumibilmente, il passaggio successivo potrebbe essere una visita della polizia. 

Haaretz ha riferito di una minacciosa direttiva segreta del ministero della Salute ai membri della Knesset, che li incoraggia a imporre “un blocco totale delle libertà personali”. Quando la commissione si è tirata indietro davanti alla proposta del ministero di concedere immediatamente questi poteri, Netanyahu ha autonomamente emanato questa sua direttiva, scavalcando l’assemblea legislativa.

In seguito a un appello presentato dai gruppi per i diritti civili, giovedì la Corte Suprema di Israele ha decretato che non potranno essere approvate drastiche misure di sorveglianza senza il controllo del parlamento, dando al governo un lasso di tempo di cinque giorni per farlo.

Cittadini sotto sorveglianza 

Lo Shin Bet, l’agenzia di intelligence interna israeliana, ha un enorme database della popolazione israeliana, non ha bisogno di un mandato per ottenere queste informazioni e le può usare come meglio crede. 

Secondo un reportage del New York Times, il servizio di sicurezza “ha raccolto, in modo riservato, ma regolarmente, i metadati dei cellulari, a cominciare almeno dal 2002”, senza rivelare i dettagli di come tali dati siano protetti.

La Legge sulle Telecomunicazioni, emendata nel 1995, dà ampi poteri al primo ministro di ordinare agli operatori di permettere l’accesso alle loro strutture e ai loro database, e l’Articolo 11 della Legge dell’Agenzia di Intelligence israeliana, promulgata nel 2002, permette al primo ministro di determinare che tipo di informazioni titolari di contratti telefonici possano essere richiesti dallo Shin Bet, riferisce il NYT.

Sin dal 2002, ha detto un ex alto funzionario del Ministero della Giustizia, i primi ministri hanno richiesto alle compagnie di cellulari di trasferire all’agenzia un’ampia gamma di metadati sui loro clienti.” fa notare il quotidiano. 

Il funzionario si è rifiutato di dire quali categorie di dati fossero forniti o negati, ma i metadati includono l’identità di ogni abbonato, chi chiama o riceve ogni chiamata, i pagamenti eseguiti dal conto così come le informazioni sulla geolocalizzazione raccolte quando i telefoni agganciano i ripetitori.”

Negli USA, Edward Snowden aveva causato una crisi della sicurezza nazionale [denunciando il fatto che la CIA controlla illegalmente i dati di milioni di americani, ndtr.]. In Israele le autorità hanno avuto potere e controllo ancora maggiori su tali dati per decenni, quasi senza alcuna supervisione e senza che qualcuno si opponesse.

Ma allora perché il Likud non fa un vero e proprio colpo di stato, invece di farne uno “soft”? Né i militari né i servizi di intelligence appoggerebbero un colpo di stato per mantenere al potere Netanyahu. In generale si oppongono all’avventurismo militare dei leader del Likud, non perché siano progressisti o particolarmente umani, ma perché hanno una certa deferenza per le tradizioni politiche.

Inoltre riconoscono che il Likud è corrotto e consegnare in eterno il Paese a questo partito ne significherebbe la rovina.

Nel frattempo, Blue e Bianco ha presentato appello alla Corte Suprema contro la decisione di Edelstein di chiudere il parlamento. Il governo non è ancora riuscito a bloccare totalmente il potere giudiziario. Sebbene si speri che la Corte riesca a non farsi ingannare da tali trucchetti e ristabilisca la legalità, non c’è alcuna garanzia, dato che molti giudici sono stati nominati dal Likud.

Questo è un Paese in cui questi sono valori solo apparenti o non esistono del tutto. Se fa un mezzo passo avanti, come quando Blu e Bianco si era dichiarato d’accordo a formare un governo con il supporto della Lista Unita palestinese, può altrettanto facilmente fare due passi indietro, e ora che abbiamo la prospettiva di un governo di unità con a capo Netanyahu, è esattamente quello che è avvenuto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale del Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato a denunciare gli eccessi dello stato della sicurezza nazionale israeliano. I suoi articoli appaiono su Haaretz, Forward, sul Seattle Times e sul Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi sulla Guerra del Libano del 2006 A Time to Speak Out [Il momento di denunciare], edizioni Verso e con un altro saggio nel volume collettaneo Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità], edito da Rowman & Littlefield.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Paura e ansia mentre Gaza sotto assedio conferma i primi 2 casi di coronavirus

Farah Najjar e Maram Humaid

22 marzo 2020 – Al Jazeera

Le autorità dell’enclave costiera hanno chiuso ristoranti e caffè, mentre sono state sospese anche le preghiere del venerdì.

Funzionari palestinesi hanno annunciato i primi due casi di COVID-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus, nella Striscia di Gaza assediata.

Il vice ministro della Sanità Youssef Abulreesh ha dichiarato sabato scorso che i due pazienti palestinesi sono tornati dal Pakistan attraverso il varco di Rafah tra Gaza e il vicino Egitto.

Durante una conferenza stampa Abulreesh ha detto che la coppia mostrava i sintomi della malattia, che comprendono tosse secca e febbre alta.

Ha aggiunto che al loro arrivo i due sono stati messi in quarantena e che ora si trovano in un ospedale da campo nella città di confine di Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Abulreesh ha esortato i quasi due milioni di residenti di Gaza a prendere misure precauzionali e a mettere in atto il distanziamento sociale rimanendo a casa, nel tentativo di arrestare la potenziale diffusione del virus.

Le autorità di Gaza, che è governata dall’organizzazione di Hamas, hanno deciso di chiudere i ristoranti, i caffè e le sale di ricevimento dell’enclave. Anche le preghiere del venerdì nelle moschee sono state sospese fino a nuovo avviso.

Nel frattempo il Coordinamento delle attività governative nei territori (COGAT), un’unità militare israeliana responsabile per le questioni civili nei territori occupati, ha annunciato che domenica, tutti i punti di accesso verso Israele da Gaza e dalla Cisgiordania occupata sono stati chiusi.

“I commercianti, i lavoratori e gli altri titolari di permesso non potranno entrare attraverso i valichi fino a nuovo avviso”, ha detto il COGAT sulla sua pagina Twitter, aggiungendo che alcune eccezioni possono applicarsi a infermieri e operatori sanitari, nonché in caso di situazioni sanitarie eccezionali.

I palestinesi sostengono che i permessi di accesso sono difficili da ottenere, anche per coloro che hanno un motivo sanitario o umanitario, poiché ogni domanda è accompagnata da un lungo processo burocratico, di solito con il pretesto del nulla osta da parte della sicurezza.

‘Abbiamo molta paura’

Il 15 marzo le autorità di Gaza hanno introdotto misure per collocare gli abitanti in arrivo nei centri di quarantena.

Ad oggi, secondo un rapporto pubblicato sabato dal ministero della salute dell’Autorità Nazionale Palestinese, ci sono 20 strutture apposite nel sud di Gaza, tra cui scuole, hotel e strutture mediche, che ospitano più di 1.200 persone.

I centri per la quarantena si trovano a Rafah, Deir al-Balah e nella città meridionale di Khan Younis. Secondo il rapporto, almeno altri 2.000 rimpatriati si sono auto-isolati nelle proprie case, prima che venissero implementate, la scorsa settimana, le procedure di quarantena obbligatoria.

Um Mohammed Khalil è tra coloro che sono stati messi in quarantena a Rafah.

La 49 enne, tornata da una breve visita in Egitto la scorsa settimana, era tra le 50 persone trasportate in autobus in una scuola con “bassi standard di igiene”, dove le camere singole condivise da sette persone.

Khalil racconta ad Al Jazeera che la notizia dei primi due casi positivi ha suscitato paura e ansia tra coloro che si trovano in quarantena nella scuola.

“Avevamo paura che tra noi ci fossero persone affette dal contagio”, afferma, “motivo per cui, soprattutto, abbiamo chiesto un miglioramento delle condizioni di quarantena”.

” Da questa mattina le nostre famiglie sono in contatto con noi e anche loro sono seriamente preoccupate. Gaza ha subito molte guerre e crisi, ma come può sostenere questa pandemia?” dice. “Abbiamo molta paura”.

Gaza sotto assedio

Il sistema sanitario di Gaza è in rovina e i suoi abitanti, martoriati dalla guerra, sono particolarmente vulnerabili poiché hanno vissuto sotto un assedio israelo-egiziano per quasi 13 anni.

Il blocco aereo, terrestre e marittimo ha limitato l’ingresso di risorse essenziali come attrezzature sanitarie, medicinali e materiali da costruzione.

Dal 2007 Gaza ha subito tre attacchi israeliani che hanno provocato la distruzione di infrastrutture civili, tra cui strutture sanitarie e una centrale elettrica.

Le case, gli uffici e gli ospedali di Gaza ricevono una media di 4-6 ore di elettricità al giorno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha avvertito che il sistema sanitario di Gaza non sarebbe in grado di affrontare un’epidemia, dato che gli ospedali della Striscia sono sovraffollati e con risorse insufficienti.

Ayman al-Halabi, un medico dei laboratori gestiti dal ministero della Salute di Gaza, fa parte di un team di medici responsabili dei test sui campioni in arrivo.

“La routine di due settimane fa”, dice al-Halabi ad Al Jazeera, “consisteva nella raccolta dei campioni dai rimpatriati al confine di Rafah, sottoposti a un test basato sulla reazione a catena della polimerasi (PCR), il test di scelta utilizzato per diagnosticare COVID-19”.

Al Halabi aggiunge che attualmente vengono sottoposte al test altre centinaia di campioni di persone che potrebbero essere venute a contatto con i primi due pazienti.

Riferendosi alle limitate risorse di Gaza, al-Halabi dichiara: “Affrontare questa pandemia sarà estremamente impegnativo.

Se stanno avendo difficoltà i Paesi più grandi e potenti, in che modo Gaza dovrebbe farcela?”

‘La fine del mondo’

Secondo i dati raccolti dalla Johns Hopkins University, negli Stati Uniti, a livello mondiale sono risultate positive alla malattia altamente infettiva oltre 300.000 persone. Più di 13.000 persone sono morte a causa del virus, mentre circa 92.000 sono guarite.

Con l’incombente minaccia di un focolaio, molti sostengono che il virus potrebbe essere l’ultima goccia per gli esausti abitanti di Gaza.

Amira al-Dremly sapeva che sarebbe stata solo una questione di tempo prima che il virus raggiungesse Gaza.

Ma la notizia che sabato due persone sono risultate positive è stato percepita come “la fine del mondo”, afferma al-Dremly ad Al Jazeera.

“La più grande paura”, sostiene la 34enne “è che le risorse disponibili a Gaza non bastino ad opporre una resistenza temporanea [nei confronti della diffusione del virus]”.

“Ho molta paura per i miei figli. Sto prendendo misure per educarli sulla sterilizzazione e li ho ammoniti a non uscire di casa”, dice questa madre di quattro figli.

“Ma gli effetti psicologici sono pesanti, la mia famiglia e tutti intorno a me sono molto disorientati da questa notizia”, aggiunge.

Gaza, una delle aree più densamente popolate del mondo, ospita alcuni dei più grandi campi profughi palestinesi e al-Dremly fa notare che il distanziamento sociale è qualcosa che è “più facile a dirsi che a farsi”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Messaggio da Betlemme: un barlume di speranza dopo due settimane di blocco

Yumna Patel –

20 marzo 2020 https://mondoweiss.net/

Questo è il primo di una serie bisettimanale di articoli che saranno inviati dalla nostra corrispondente palestinese Yumna Patel che vive a Betlemme, epicentro dell’epidemia di coronavirus in Palestina. Mentre la crisi continua ad acuirsi, Yumna ci dà un quadro della vita quotidiana in città, delle emozioni della gente, dei pensieri e delle paure delle persone.

Le ultime due settimane sono state una girandola di emozioni per il popolo di Betlemme. Sono passati 15 giorni da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza e la città è stata messa sotto chiave, dopo la conferma di quattro casi di coronavirus.

Da allora, il numero di persone in strada è costantemente diminuito, il numero di casi confermati ha continuato a salire, sebbene più lentamente rispetto al rapido peggioramento dall’altra parte del muro.

Inutile dire che le persone hanno paura. Non esiste una sola conversazione in cui “corona virus” non sia menzionato nei primi cinque secondi.

Ma, nonostante il blocco e le maggiori restrizioni ai movimenti in tutta la città, c’era un’aria di ottimismo. Nella maggior parte, le persone erano contente del grado di successo con cui l’ANP sembrava affrontare la situazione.

Con chiunque parlassi, sosteneva con orgoglio che la Palestina era il “secondo miglior Paese” dopo la Cina nell’affrontare e rispondere rapidamente al coronavirus. Dopo numerose ricerche su Google, devo ancora trovare conferma di questo.

Che fosse corretta o no, l’opinione espressa da questa voce ha chiaramente avuto un effetto positivo sulle persone.

Dopotutto, nel corso di due settimane abbiamo ancora meno di 50 casi confermati, rispetto ai 500 di Israele.

La maggior parte dei negozi è rimasta chiusa, ad eccezione dei mercati di generi alimentari, e le persone sono rimaste nelle loro case. Pur appartenendo ad una cultura profondamente radicata nei legami di socializzazione e di comunità, le persone hanno messo in pratica il “distanziamento sociale” relativamente bene.

Nonostante nella maggior parte della città – che vive di turismo e del lavoro in Israele – non si lavori, le persone hanno eseguito gli ordini del governo con poche resistenze.

Ma appena è sembrato che potessimo uscire da questo pasticcio prima di quanto ipotizzato, mercoledì sera è invece parso che le cose peggiorassero.

Betlemme e le città vicine, Beit Sahour e Beit Jala, sono state messe in totale isolamento. Ad eccezione di giornalisti, funzionari della sanità e della sicurezza e speciali casi umanitari, a nessuno sarebbe stato permesso di lasciare la propria casa. Chiunque fosse stato sorpreso a violare il blocco sarebbe stato passibile di una multa.

Chiunque fosse stato trovato a violare un autoisolamento o un ordine di quarantena, sarebbe stato multato fino a 1.000 dinari giordani [1.312 €].

Le misure più rigide sono arrivate quando si è scoperto che le persone sospette di avere il virus avevano ignorato l’ordine di quarantena e negli ultimi giorni si erano mosse in giro per la città.

Dopo la notizia del blocco, la città è arrivata al massimo affollamento da settimane, tutti ci siamo precipitati nei negozi per fare scorta di cibo e provviste, non sapendo quando saremmo stati in grado di farlo di nuovo.

Nel campo profughi in cui vivo, i volontari dei centri locali distribuivano sacchi di prodotti e altri generi di prima necessità alle famiglie con situazioni finanziarie particolarmente difficili.

Nonostante il panico, le scene sono state molto più civili di quelle che vedevamo negli Stati Uniti. Gli scaffali erano ben forniti, anche di carta igienica, e nessuno sembrava fare incetta. Le persone stavano comprando ciò di cui avevano bisogno.

Quando i vicini si incontravano, reprimevano la tentazione di stringersi la mano e scambiarsi il tradizionale bacio sulla guancia, optando invece per un sorriso e una mano sul cuore.

Mentre le persone riempivano i loro carrelli di cose essenziali come farina, olio, sale e vari prodotti per l’igiene, c’era un senso di frustrazione tra gli acquirenti: a causa della trascuratezza di alcune persone, l’intera città soffriva più di quanto non avessimo già sofferto.

Nei supermercati si sentivano chiacchiere sull'”egoismo” delle persone che violavano la quarantena e voci su quanto tempo sarebbe durato il nuovo blocco.

Ora più che mai le persone sembravano davvero capire e preoccuparsene quanto le loro azioni potessero influenzare la vita di chi li circonda.

Tutti quelli che conosco, me compresa, siamo rimasti incollati ai notiziari a tutte le ore del giorno e della notte. Non è facile cancellare il turbamento e l’ansia che ne derivano.

Vedere i sistemi sanitari di alcuni dei Paesi più ricchi del mondo sull’orlo del collasso rende ancora più difficile liberarsi del pensiero di cosa accadrebbe se l’epidemia si acuisse in un luogo come la Palestina.

Di certo ospedali già poco attrezzati e scarsamente finanziati non sarebbero in grado di sostenere nemmeno una parte di ciò che stanno affrontando Paesi come l’Italia. Se questo sforzo iniziale di contenimento fallisse, potrebbe portare al disastro per il sistema sanitario, l’economia e il popolo palestinesi.

Ma proprio quando i sentimenti di paura e frustrazione sembravano sopraffarci, venerdì abbiamo ricevuto qualche buona notizia.

Diciassette fra i primi pazienti infettati dal COVID-19, che erano stati messi in quarantena presso l’Angel Hotel di Beit Jala e il Paradise Hotel di Betlemme, sono ufficialmente in fase di recupero, riducendo il numero dei casi confermati a 31.

Video di pazienti sorridenti che agitano le mani mentre lasciano l’hotel sono stati fatti circolare sui social media, facendoci sorridere e restituendo un senso di speranza in città.

Sarà una lunga strada da percorrere, ma potremmo farcela.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Coronavirus: i lavoratori palestinesi affrontano una difficile scelta tra garanzie di sussistenza e isolamento

Akram Al-Waara da Betlemme, nella Cisgiordania occupata

18 marzo 2020 – Middle East Eye

Per migliaia di palestinesi che lavorano in Israele le restrizioni legate alla pandemia hanno comportato la rinuncia al reddito necessario o il rischio di restare separati per mesi dalle loro famiglie

Quando nella città di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, è stato confermato il primo caso del nuovo coronavirus o COVID-19, un improvviso sentimento di panico ha travolto la piccola città.

Mentre scuole, università e aziende iniziavano a chiudere, migliaia di cittadini si sono rifugiati nelle loro case in previsione di quello che sarebbe successo dopo.

Ma quando i confini della città sono stati chiusi e i vicini posti di controllo con Israele hanno iniziato ad rimanere bloccati, ha cominciato a manifestarsi un nuovo senso di ansia, questa volta per le migliaia dei cittadini lavoratori che operano all’interno di Israele.

“Lo stato di emergenza è stato annunciato giovedì (5 marzo) e alla conclusione del fine settimana tutto era cambiato”, ha riferito a Middle East Eye Kareem A., un operaio edile di 51 anni di Betlemme.

La diffusione del coronavirus sia in Israele che in Cisgiordania ha avuto un profondo impatto sulla forza lavoro palestinese all’interno di Israele – con le ultime restrizioni che costringono i lavoratori palestinesi a scegliere tra mesi di separazione dalle loro famiglie – o il crollo economico.

Nuove restrizioni

Kareem ha saputo che Israele aveva chiuso il posto di controllo 300, il principale punto di ingresso dell’intera Cisgiordania meridionale in Israele per migliaia di lavoratori palestinesi.

“Ho deciso di provare a passare comunque”, dice, “sperando che avrebbero fatto delle eccezioni per i lavoratori”. Ma Kareem e centinaia di suoi colleghi sono stati fermati e rimandati a casa.

“Abbiamo sperato che fosse solo una cosa temporanea, fino a quando non avessero trovato un modo per far entrare i lavoratori di Betlemme”, afferma, “ma sembra che sarà un problema molto più duraturo”.

Mentre i lavoratori di Betlemme dal 5 marzo sono rimasti bloccati a casa, decine di migliaia di lavoratori palestinesi degli altri distretti della Cisgiordania hanno attraversato la Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndtr.] in modo relativamente incontrollato.

Il primo caso di coronavirus al di fuori di Betlemme è stato confermato la scorsa settimana nel distretto settentrionale di Tulkarem. Il paziente era un manovale che lavorava in Israele.

Mentre il virus continuava a diffondersi in Israele e in Cisgiordania, sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno iniziato a porre sempre maggiori restrizioni agli spostamenti all’interno e tra i territori.

Martedì il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett, che ha preso la decisione iniziale di chiudere i posti di blocco intorno a Betlemme, ha annunciato una serie di restrizioni ancora più pesanti nei riguardi dei lavoratori palestinesi provenienti da altre parti della Cisgiordania.

Bennett ha limitato l’ingresso ai lavoratori che ha classificato come impegnati in settori “essenziali”, come l’edilizia, l’assistenza sanitaria e l’agricoltura. Tutti gli altri, nell’immediato futuro, dovrebbero rimanere a casa.

Con una mossa sconvolgente Bennett ha annunciato che qualsiasi lavoratore che avesse deciso di continuare a lavorare in Israele sarebbe stato costretto a rimanere lì e non avrebbe potuto tornare a casa per almeno uno o due mesi.

Ai lavoratori palestinesi sono stati concessi tre giorni per prendere una decisione: andare al lavoro e restare separati dalle loro famiglie a tempo indeterminato o rimanere a casa, impossibilitati a guadagnarsi da vivere. Indipendentemente da ciò che avessero deciso, dopo tre giorni i confini sarebbero stati chiusi da entrambe le parti.

Non è apparso chiaro se le stesse eccezioni sarebbero state estese ai lavoratori di Betlemme, dal momento che i posti di controllo tra Israele e la città rimangono chiusi.

La notizia è stata uno shock sia per i funzionari israeliani che la considerano una grave “minaccia alla sicurezza”, sia per i palestinesi, i cui permessi di lavoro di solito non consentono loro di rimanere in Israele durante la notte.

“Ho deciso di correre il rischio e venire a stare qui perché non ho davvero altra scelta”, dice a MEE Wael A, un lavoratore di Betlemme.

Wael ha attraversato illegalmente [il confine con] Israele da Betlemme la scorsa settimana, insieme a un amico e ad alcuni altri lavoratori.

“Non sapevamo quanto sarebbe durata la quarantena a Betlemme”, sostiene, “e dovevamo dar da mangiare alle nostre famiglie” aggiungendo che i lavoratori, in genere quelli senza permesso, spesso rimangono illegalmente in Israele durante la notte per evitare il rischio di passare quotidianamente attraverso i punti di controllo.

In quel momento Wael non poteva immaginare che Israele avrebbe permesso ai lavoratori di rimanere per un lungo periodo di tempo nel Paese con un alloggio adeguato fornito a spese del datore di lavoro.

Wael e il suo amico hanno dormito nel cantiere dove lavorano, ma sperano di poter legalizzare “in modo retroattivo” il loro soggiorno e trovare una sistemazione adeguata.

Tuttavia afferma di temere che se le autorità israeliane leggessero “Betlemme” sulle loro carte d’identità, verrebbero rimandati a casa.

“Devo pagare la casa, l’auto e ho tre bambini da nutrire”, dice. “Non posso permettermi di rimanere bloccato a Betlemme in questo momento.”

“Israele ha bisogno di noi”

I rischi [insiti nel] consentire ai palestinesi di lavorare in Israele e quindi tornare a casa possono sembrare agli osservatori esterni troppo elevati nel corso di una pandemia.

Ma per i palestinesi la decisione non è affatto sorprendente.

“Israele non può sopravvivere a questa [pandemia] senza i lavoratori palestinesi”, afferma Kareem a MEE. “La loro economia è troppo dipendente da noi per non consentire ai lavoratori di entrare”.

Si stima che 120.000 palestinesi, con e senza permesso, lavorino in Israele, costituendo una forza lavoro consistente e a basso costo principalmente nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura.

“Mentre gli israeliani stanno nelle loro case, “prosegue Kareem”, ci stanno mettendo al lavoro in modo che il sistema non crolli”.

Kareem afferma di ritenere che Israele rischierebbe “senza alcun dubbio” la salute della forza lavoro palestinese “in nome della salvaguardia della sua economia”.

“Stanno permettendo ai palestinesi di mettere a repentaglio le proprie vite mentre dicono agli israeliani di rimanere a casa e di stare al sicuro”.

Un disastro economico e nessuna rete di salvataggio

Per gli operai ancora bloccati a Betlemme il futuro sembra ogni giorno più incerto.

“Ogni giorno senza lavoro è un altro che ci avvicina al disastro economico”, sostiene Kareem a MEE dalla sua casa in un campo profughi locale.

Kareem, sposato e padre di quattro figli, è l’unico a mantenere la sua famiglia di sei persone. In un mese buono Kareem guadagna circa 250 shekel (61 euro) al giorno, il 20%  dei quali va ai pasti quotidiani e al trasporto per e dal suo [posto di] lavoro alla periferia di Tel Aviv.

Ma, osserva, “i mesi appena trascorsi sono stati segnati da festività ebraiche e dal maltempo, quindi non abbiamo avuto molto lavoro nei cantieri”.

“Quindi non è come possedere dei risparmi su cui poter contare per arrivare alla fine del mese”, dice. “Niente lavoro significa niente soldi.” Come conseguenza della sua impossibilità di recarsi al lavoro, Kareem riferisce di aver ricevuto dal suo datore di lavoro israeliano dei messaggi che minacciavano di assegnare il suo lavoro a qualcun altro, revocandogli, quindi, il permesso.

“Vogliono continuare a fare soldi e non possono farlo con i lavoratori di Betlemme”, ha detto, aggiungendo che un certo numero di datori di lavoro ha licenziato i lavoratori di Betlemme e li ha sostituiti con lavoratori palestinesi di altre parti della Cisgiordania.

Egli teme che, se un numero sufficiente di lavoratori facesse la scelta di andare in Israele e restarci per i prossimi due mesi, il suo lavoro sarebbe ancora di più a rischio.

“Li ho pregati di non levare il mio nome dall’elenco dei dipendenti, ma non so cosa faranno.”

Preoccupazioni per la salute

Anche con un rischio così elevato per i lavoratori e le loro famiglie, la preoccupazione principale per la maggior parte dei palestinesi rimane la loro salute personale e quella della loro comunità.

Prima dell’annuncio di martedì scorso da parte di Bennett molti in Cisgiordania avevano paura del rischio che i lavoratori potessero portare il virus da Israele, che ha un tasso significativamente più alto di infezioni da coronavirus rispetto al territorio palestinese.

“Come lavoratore, è stato spaventoso sapere che stavamo andando in Israele”, ha detto Wael a MEE. “Ovviamente nessuno vuole ammalarsi e quindi rischiare di portare [l’infezione] alle proprie famiglie e alla propria comunità”.

Ma sarebbe un rischio che Wael dice di essere costretto a correre.

“Né il nostro governo né il governo israeliano proteggono i nostri diritti di lavoratori in Israele”, afferma. “Preferirei ammalarmi piuttosto che lasciare che la mia famiglia muoia di fame o che la banca ci perseguiti.”

Con le nuove misure annunciate martedì, tuttavia, gli esperti locali della salute sperano che la pressione economica sui lavoratori palestinesi possa essere parzialmente alleviata mantenendo rigide linee guida sulla salute pubblica.

“Siamo scettici sul fatto che gli operai si debbano recare in Israele per lavorare, perché questo aumenta le possibilità che portino qui il virus e lo diffondano”, sostiene a MEE il dott. Imad Shahadeh, capo della divisione di Betlemme del Ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ma,  afferma, consentire ai lavoratori di rimanere all’interno di Israele in alloggi appositi riduce alcuni di questi rischi.

“Prevenire la diffusione del virus”, dice Shahadeh, “è una buona misura”, aggiungendo di sperare che i lavoratori siano al sicuro dal virus, “attraverso la riduzione al minimo dei loro rapporti con israeliani e con non lavoratori”.

Shahadeh aggiunge che l’Autorità Nazionale Palestinese starebbe già pianificando di attuare una serie di misure in occasione del ritorno dei lavoratori dopo uno o due mesi, tra cui controlli sanitari ai posti di blocco e ai punti di ingresso e l’imposizione di un’auto-quarantena obbligatoria per 14 giorni dopo il rientro in Cisgiordania.

Per Kareem, le misure adottate dai governi israeliano e palestinese non sarebbero ancora sufficienti e non coprirebbero i rischi.

“Permettere ai lavoratori di dormire in Israele sta mettendo a rischio la salute di tutti i lavoratori”, dice, affermando che qualcuno “inevitabilmente” prenderà il virus, che “non fa distinzione tra palestinesi e israeliani”.

“Anche se tutti saranno sottoposti a screening e messi in quarantena, metteranno comunque a rischio la comunità al loro arrivo”, sostiene. “E se si ammaleranno in Israele, ci possiamo davvero fidare che il governo israeliano dia la priorità delle cure ai lavoratori palestinesi?”

Nonostante non sia d’accordo con le iniziative dei governi, Kareem afferma di non giudicare alcun lavoratore per le sue decisioni.

“So come si sentono. Hanno un disperato bisogno di prendersi cura delle loro famiglie “, dice. “Quindi, se stanno sacrificando la loro salute per salvare le loro famiglie, li capisco.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Col diffondersi del contagio da coronavirus, i richiedenti asilo in Israele sono sull’orlo della catastrofe

Oren Ziv

18 marzo 2020 – +972

Le politiche di Israele hanno impoverito la comunità dei richiedenti asilo, che vivono in appartamenti angusti, non hanno copertura sanitaria, esposti ad un maggiore pericolo.

Secondo i membri della loro comunità e gli attivisti, i richiedenti asilo in Israele sono “sull’orlo della catastrofe”, mentre nel Paese il numero di contagi del nuovo coronavirus continua a salire.

Nelle attuali circostanze straordinarie i richiedenti asilo si trovano in condizioni di grande difficoltà, per i licenziamenti, l’impossibilità di ricevere assistenza dallo Stato, la mancanza di informazioni e le miserevoli condizioni abitative. La chiusura di aziende e istituzioni che impiegano regolarmente i richiedenti asilo sta preoccupando molte famiglie che si vedono già gettate in mezzo alla strada senza nulla da mangiare.

Oggi vivono in Israele circa 35.000 richiedenti asilo, la maggior parte dei quali provenienti dall’Eritrea, e anche da una piccola comunità sudanese. Per anni, Israele ha rifiutato di esaminare le loro richieste di asilo, lasciandoli in un limbo legale. Nell’ultimo decennio, solo 13 eritrei e un cittadino sudanese sono stati riconosciuti come rifugiati dal governo israeliano.

La loro precaria situazione giuridica ha serie implicazioni rispetto alla capacità dei richiedenti asilo di affrontare l’epidemia. Mentre gli israeliani licenziati o costretti a chiedere congedo che si trovino in difficoltà finanziarie possono ricevere il sussidio di disoccupazione, i richiedenti asilo non possono beneficiare di protezioni. Senza l’assistenza offerta dallo Stato e senza una comunità, una famiglia o dei risparmi, saranno i primi ad affrontare i mortali contraccolpi del virus.

“Al governo non importa di noi, nessuno ci ha detto nulla”, afferma Cabrom Tuwalda, un richiedente asilo dall’Eritrea. “Bibi [Netanyahu] ha detto che siamo stati i migliori al mondo nell’affrontare la pandemia, ma qui ci sono 40.000 persone e nessuno gli parla”.

Il danno per i richiedenti asilo è disastroso e potrebbe portare a una catastrofe umanitaria se lo Stato non agisce insieme a noi”, afferma Tali Ehrenthal, direttore esecutivo di ASSAF, una ONG che fornisce aiuti a rifugiati e richiedenti asilo in Israele. “Stiamo assistendo a un’ondata di licenziamenti, le persone non hanno diritti sociali né diritto alla disoccupazione. Non hanno modo di pagare l’affitto e possono essere sbattuti in strada.

Nessuna rete di sicurezza

Le restrizioni imposte dal governo israeliano hanno portato a licenziamenti in settori come pulizie, ristoranti e bar, che spesso impiegano i richiedenti asilo. È difficile sapere quanti di essi abbiano perso il lavoro almeno temporaneamente, ma le stime più caute indicano che il numero si aggira intorno al 50% degli adulti. La “rete di sicurezza” promessa domenica ai lavoratori israeliani dal Ministro delle Finanze Moshe Kahlon è un sogno inarrivabile per i richiedenti asilo.

“Se non trovano una soluzione per la gente entro una settimana, non avremo nulla da mangiare”, afferma Dejan Mangesha, 25enne richiedente asilo dall’Eritrea che lavora come traduttore e nell’istruzione. Mangesha afferma che oltre ai licenziamenti, molti non escono di casa a cercare lavoro perché non c’è nessuno a prendersi cura dei loro figli ora che scuole e asili nido sono chiusi. “Le persone della comunità sono sottoposte a forti pressioni”, afferma. “La maggior parte di loro lavora in ristoranti, hotel e pulizie. È tutto chiuso. Le persone semplicemente non lavorano, tranne quelli che lavorano nelle cucine dei ristoranti che fanno consegne a domicilio. Le persone vengono messe in congedo non retribuito e non si sa quando torneranno al lavoro.”

Mentre molti israeliani possono chiedere un prestito alla banca o assistenza alle proprie famiglie, i richiedenti asilo non hanno alcuna possibilità. “Non abbiamo una famiglia allargata qui per aiutarci”, afferma Mangesha. “Le persone vivono del loro lavoro quotidiano e non hanno risparmi.” Mangesha stesso ha perso uno dei suoi lavori, come tutor nel doposcuola. “La verità è che sono sotto pressione”, ammette. “Ho perso parte del mio sostentamento, non si sa cosa succederà nei prossimi due mesi e se sarò in grado di pagare l’affitto”.

“Il coronavirus non fa distinzioni tra israeliani e rifugiati”, afferma Tuwalda. “Mentre gli israeliani sono indaffarati a comprare del cibo, i richiedenti asilo stanno perdendo il lavoro e si preoccupano di non avere di che pagare l’affitto. Le persone con bambini vivono a stento un mese dopo l’altro. Preferisco non immaginare cosa succederà dopo un mese o due senza lavoro.

Tuwalda, che lavora in un ristorante a Tel Aviv, è stata a casa per cinque giorni. “Comprendo il disagio che affligge il mio datore di lavoro, non ha clienti da due settimane e ha iniziato a sbarazzarsi dei lavoratori anche prima della decisione del primo ministro (di fermare la vita in Israele). La maggior parte dei richiedenti asilo lavora come lavapiatti, cuochi o bidelli nei centri commerciali e nelle scuole. Questi posti sono stati chiusi.”

È come essere in una piccola cella”

Fischla è un richiedente asilo di 43 anni proveniente dall’Eritrea e recentemente è stato licenziato dal suo lavoro in una sala da cerimonie a Tel Aviv. “Ci hanno detto che non c’era lavoro fino a quando il governo non avesse deciso diversamente”, dice. “Anche durante un mese normale per noi è difficile, appena ci danno lo stipendio paghiamo cibo, elettricità, affitto e tasse. Ora abbiamo le stesse spese ma nessun reddito.”

La moglie di Fischla, insegnante di scuola materna, non ha più lavorato da quando il governo ha chiuso le scuole. È preoccupata di non riuscire a pagare l’affitto il mese prossimo. “Posso resistere un’altra settimana o due, ma la situazione è davvero dura”, dice. “Cosa faremo dopo?” Fischla dice che lui e la sua famiglia si sono chiusi in casa e telefonano agli amici per avere aggiornamenti. “Siamo tutti nella stessa situazione, è come essere in una piccola prigione.”

Kav LaOved, un’organizzazione non profit per i diritti dei lavoratori che assiste i richiedenti asilo, segnala un aumento delle chiamate. “Abbiamo ricevuto richieste di aiuto da parte di lavoratori del settore alberghiero, ristoranti, imprese di costruzioni e pulizie, la maggior parte dei quali sono stati messi in ferie non retribuite e alcuni subito licenziati”, dice Noa Kaufman, coordinatore per i rifugiati di Kav LaOved. “Alcuni datori di lavoro, con buone intenzioni, hanno indirizzato i loro lavoratori verso i servizi per l’impiego o gli hanno spiegato come ottenere l’indennità di disoccupazione, ma abbiamo dovuto dirgli (ai richiedenti asilo) che non hanno diritto a nessun sussidio”.

Eden Tesfamariam, una richiedente asilo che lavora nella gestione della community di ASSAF, afferma che sono specialmente le madri single a non poter uscire per trovare lavoro. “Non c’è nessuno che possa aiutarle con i figli, né lo farà il governo”, afferma. Teme che la maggior parte di loro non riesca a pagare l’affitto e finisca senza tetto.

Salari confiscati

La cosiddetta “legge sui depositi” di Israele, approvata nel 2017, impone ai datori di lavoro di versare su un conto di garanzia il 20% dei salari dei dipendenti richiedenti asilo, che dev’essere rimesso nel caso in cui la persona lasci il Paese. Domenica Kav LaOved e altre organizzazioni hanno inviato una richiesta urgente a diversi ministri del governo affinché quei fondi siano resi disponibili e restituiti ai richiedenti asilo dai cui salari erano stati detratti.

“Le persone hanno depositato un quinto della loro busta paga tutti i mesi negli ultimi tre anni, perciò non hanno riserve in caso di emergenza”, afferma Kaufman. “Vogliamo che possano prelevare quel denaro.” Kav LaOved ha inoltre inviato al Ministro delle Finanze Moshe Kahlon la richiesta di ampliare la “rete di sicurezza” che ha promesso ai lavoratori in modo che includa i richiedenti asilo.

L’Alta Corte sta ancora esaminando una petizione del 2017 presentata da una coalizione di rifugiati e organizzazioni per i diritti degli immigrati proprio contro la legge sui depositi. La petizione esprimeva il timore che la legge potesse peggiorare la situazione economica dei richiedenti asilo, che già non avevano alcuna assistenza sociale su cui contare.

“Devono ridarci i soldi presi dai nostri stipendi”, afferma Tesfamariam.

L’impatto della crisi coronavirus va oltre la sfera economica. I richiedenti asilo non sono coperti dalle leggi assicurative statali, anche se alcuni lo sono dal loro posto di lavoro tramite assicurazioni private, e i datori di lavoro sono ufficialmente tenuti a continuare a pagare l’assicurazione per tutti coloro che sono stati messi in congedo non retribuito.

“La paura è che i licenziamenti porteranno a una sospensione dell’assicurazione medica privata pagata dai datori di lavoro”, afferma Zoe Gutzeit, responsabile di una clinica gratuita a Jaffa gestita da Medici per i Diritti Umani di Israele. “Ciò significa togliere l’accesso ai servizi medici.” E aggiunge che i diritti che hanno maturato durante la loro precedente occupazione non verranno mantenuti anche se troveranno un nuovo lavoro quando che la crisi sarà finita. Cosicché, sottolinea Gutzeit, potrebbero non essere coperti per alcune malattie croniche o per gravi problemi di salute fino a quando non abbiano lavorato di nuovo per un po’ di tempo.

“I richiedenti asilo hanno paura di contrarre la malattia e la consapevolezza di non avere copertura medica li mette ancora più sotto pressione”, afferma Sigal Rozen del numero verde per rifugiati e migranti.

Al di là dell’assicurazione medica, i richiedenti asilo affermano che l’autoisolamento è per loro pressoché impossibile. Quasi nessuno ha una stanza per sé e molte famiglie vivono insieme in angusti appartamenti di una o due camere.

“L’isolamento non aiuta quando ci sono tre persone in un appartamento trilocale illegalmente diviso”, afferma Mangesha. “Ci dicono di non uscire di casa, ma non ci sono condizioni normali in cui le persone possano stare.”

“Qui sta per avvenire una catastrofe “

Un ulteriore problema è la mancanza di informazioni. Fino a domenica, il ministero della Sanità non aveva pubblicato alcuna guida in tigrino, la lingua parlata dai richiedenti asilo eritrei. Poi domenica è stato pubblicato un singolo messaggio vocale online. Attivisti e organizzazioni per i richiedenti asilo hanno autonomamente tradotto e distribuito informazioni nel tentativo di combattere voci e notizie false.

“Abbiamo cercato di gestirci da soli, creando gruppi su Facebook per cercare di raggiungere coloro che hanno propositi suicidi”, afferma Tuwalda. “Non c’è stato alcun annuncio ufficiale sul coronavirus. Capisco anche che (il governo) è in una posizione difficile, ma qui ci sarà una catastrofe. Il flusso di informazioni è stato brutalmente interrotto. “

Mangesha cita un messaggio ricevuto con WhatsApp riguardo al dispiegamento di militari nelle strade di Israele, alla chiusura del Paese e al divieto per le persone di uscire di casa. “La gente era isterica”, dice.

Mentre alla fine della scorsa settimana molti israeliani sono andati a fare scorta di cibo, i richiedenti asilo non possono concedersi un simile lusso, dice Tesfamariam. “Le persone non hanno più di qualche centinaio di shekel da spendere in cibo, che per una famiglia è a malapena sufficiente per una settimana”, osserva.

Molti richiedenti asilo sottolineano poi che la tracciatura dei contatti avuti dai contagiati da COVID-19, pubblicata sui media in lingua ebraica, non è tradotta in tigrino. “Le persone non sanno come proteggersi e lo Stato non si preoccupa di informarle”, afferma Ehrenthal. “Nessuno fa le traduzioni e le persone non sanno se stanno mettendo in pericolo se stessi e coloro che li circondano.”

ASSAF, che durante i periodi normali assiste le persone più vulnerabili tra la popolazione dei richiedenti asilo – sopravvissuti a torture, vittime della tratta, madri single, ecc. – continua a fornire assistenza nel rispetto delle istruzioni del Ministero della Sanità. Nonostante la mobilitazione di milioni di shekel, il Ministero del Welfare non assiste i richiedenti asilo a rischio. “Dovrebbero fornire servizi di assistenza sociale e supporto psicosociale alla comunità”, afferma Ehrenthal.

Tutti quelli con cui ho parlato sottolineano che il coronavirus presenta la più grave minaccia che la comunità dei richiedenti asilo abbia mai affrontato e che la situazione continuerà a peggiorare nei prossimi giorni e settimane a seguito della politica israeliana di non riconoscergli lo status di rifugiati, che darebbe loro accesso ad alloggi sicuri, reddito stabile, istruzione e servizi medici.

Molti sostengono che la vita dopo il coronavirus non sarà più la stessa. I richiedenti asilo sostengono di sperare che Israele capirà che deve riconoscere i loro diritti. “La comunità scenderà in piazza se non avrà più nulla da mangiare e questo avrà delle conseguenze sugli israeliani”, afferma Tuwalda.

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills e membro della redazione di Local Call. Dal 2003, ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)