Gli articoli del “NY Times” sull’uccisione di una famiglia a Gaza sono parte della riduzione del danno per l’esercito israeliano

James North

16 novembre 2019 – Mondoweiss

Il taglio dell’odierno articolo del New York Times su come l’aviazione di Israele abbia ucciso civili a Gaza inizia direttamente dal titolo. Nell’edizione in rete recita: “In un attacco che ha ucciso 5 bambini, Israele ha affermato di aver tolto di mezzo un miliziano di Gaza. Ora non è sicuro.”

Trovai per la prima volta “togliere di mezzo” come eufemismo per “ucciso” quando ero inviato nell’Africa meridionale negli anni ’70. Il regime della minoranza bianca in Rhodesia lo utilizzava per minimizzare la repressione contro il movimento nero di guerriglia che alla fine conquistò l’indipendenza e ribattezzò il Paese Zimbabwe. Il New York Times vuole davvero condividere questa orribile storia?

L’articolo del Times inizia con un rapido reportage di prima mano di un testimone del terribile attacco aereo notturno israeliano contro Deir-El-Balah, a Gaza. Ismail al-Swarka vi ha perso otto dei suoi parenti, cinque dei quali bambini.

Ma poi il giornale fa una digressione e un’operazione di riduzione del danno in associazione con l’esercito israeliano. Il Times afferma che l’esercito spiega che “vittime civili sono inevitabili nei brulicanti quartieri di Gaza.” Aggiunge che “Israele accusa i miliziani di utilizzare civili, compresi i loro stessi parenti, come scudi umani…” E, insistendo sull’argomento propagandistico, il giornale dice che Israele “adotta numerose precauzioni per evitare vittime civili inutili.”

Il giornale confonde anche le notizie veritiere, insinuando che, nonostante la morte di civili, ci doveva effettivamente essere stata “un’infrastruttura militare della Jihad Islamica”, nella zona che Israele ha attaccato. Il lettore si sente confuso, con l’impressione che l’aviazione israeliana potrebbe aver fatto un errore, ma forse no, e che in ogni caso simili errori sono rari.

La versione degli avvenimenti del Times è profondamente disonesta. Molte ore prima che il Times mettesse sul sito il suo articolo, il quotidiano indipendente israeliano Haaretz aveva già affermato chiaramente, nella sua prima frase:

Giovedì l’esercito israeliano ha ammesso di aver commesso un errore nel colpire mercoledì notte a Gaza un edificio che ospitava una famiglia di otto persone, tutte morte nell’attacco.”

I giornalisti di Haaretz, Yaniv Kubovich e Jack Khoury, hanno continuato a scrivere articoli veritieri, invece di stenografare i portavoce ufficiali dell’esercito israeliano. Si è scoperto che “l’edificio dove la famiglia (gli 8 gazawi uccisi nell’attacco, compresi 5 bambini) viveva era su una lista di potenziali bersagli, ma ufficiali israeliani della Difesa hanno confermato ad Haaretz che nell’ultimo anno non era stata aggiornata o controllata prima dell’attacco… Fonti della Difesa hanno confermato che in nessuna fase l’area è stata controllata per [verificare] la presenza di civili.”

Con buona pace delle “numerose precauzioni” dell’esercito israeliano per evitare di colpire civili palestinesi.

C’è stata ulteriore disonestà da parte del Times. La seconda frase dell’articolo del Times informa che “il portavoce dell’esercito israeliano in lingua araba ha postato su twitter la foto del comandante della Jihad Islamica palestinese che sostiene sia stato ucciso nel raid…” Poi cita la Jihad Islamica che nega le affermazioni di Israele. A te, lettore, decidere.

Ma Haaretz ha continuato a fare vera informazione. In un articolo di poche ore dopo Kubovich e Khoury hanno rivelato che l’esercito israeliano ha ammesso che la dichiarazione relativa al “comandante della Jihad Islamica” era una menzogna. “Funzionari della difesa ora ammettono che si è trattato di una dichiarazione falsa,” hanno detto.

L’inviato del Times David Halbfinger è in Israele da più di 2 anni. Non sarebbe ora che si creasse qualche fonte all’interno dell’esercito israeliano?

Questo orribile crimine di guerra israeliano – perché di questo si tratta – ricorda una storia rivelatrice raccontata da Yonatan Shapira, l’ex-pilota dell’aviazione israeliana che ora è un refusnik [israeliani che si rifiutano di fare il soldato o di partecipare ad attività nei territori palestinesi occupati, ndtr.], uno dei sempre più numerosi israeliani che non continueranno a prestare servizio nell’esercito. Nel 2003 Shapira, ancora in servizio, si scontrò con il comandante dell’aviazione riguardo a quelli che vengono anche eufemisticamente chiamati “assassinii mirati” – aerei da guerra avevano sparato missili contro leader palestinesi a Gaza, uccidendo anche passanti innocenti, alcuni dei quali bambini.

Shapira chiese al comandante: “Cosa sarebbe successo se i dirigenti palestinesi si fossero trovati a Tel Aviv? Avresti ordinato ai tuoi piloti di sparare lì, mettendo a rischio passanti israeliani?” Il comandante rispose di no. “Quindi tu attribuisci maggior valore agli israeliani che ai palestinesi,” rispose Yonatan. “Cercati qualcun altro per pilotare il tuo aereo.”

James North è un redattore generale di Mondoweiss e per quarant’anni è stato un inviato in Africa, America latina e Asia. Vive a New York.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quando l’esercito israeliano inizia ad attaccare lo fa anche la sua armata di troll in rete

Michael Arria

15 novembre 2019 – Mondoweiss

Act.IL [applicazione per telefonini rivolta a sostenitori di Israele, ndtr.] è una campagna internazionale filo-israeliana finanziata almeno in parte dal governo del Paese. Il progetto include un’applicazione che consente agli utenti di guadagnarsi punti e premi per la promozione dello Stato di Israele in rete, attaccando il BDS e altri movimenti filo-palestinesi. Secondo un reportage di Electronic Intifada [sito palestinese di notizie e commenti, ndtr.] dell’inizio dell’anno, opera con un bilancio di oltre un milione di dollari.

Michael Bueckert è uno studente di dottorato in sociologia ed economia politica alla Carleton University [università canadese con sede a Ottawa, ndtr.] e dall’aprile 2018 ha curato un account twitter che segue le “missioni” dell’applicazione. Bueckert ha parlato con Michael Arria di Mondoweiss della storia del progetto, del suo uso durante i recenti attacchi contro Gaza e della sua effettiva influenza o meno.

Arria: Solo per cominciare, penso che molte persone che stanno dalla nostra parte siano probabilmente a conoscenza del tuo lavoro. Ma per gente che non ne sa niente, puoi descrivere brevemente l’applicazione ACT:IL e spiegare chi la finanzia?

Bueckert: Sì. Ormai da un paio d’anni seguo le attività di propaganda dell’applicazione semiufficiale di Israele. Si chiama ACT.IL ed è stata creata con una sorta di collaborazione tra il governo israeliano e un certo numero di gruppi della lobby filoisraeliana negli USA finanziati da Sheldon Adelson [miliardario USA che finanzia Netanyahu e i coloni, ndtr.]. Forse c’è una mancanza di chiarezza riguardo all’esatta natura di quel rapporto. L’applicazione è stata finanziata in parte dal governo israeliano… Penso che il governo abbia pagato per lo sviluppo del sito web su cui è stata ospitata e per parecchie pubblicità, compresi contenuti sponsorizzati, come articoli sponsorizzati su giornali israeliani che sembrano proprio normali articoli ma sono stati pagati essenzialmente dal governo israeliano. All’epoca gli sviluppatori dell’applicazione stavano parlando con lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna di Israele) e con i funzionari della difesa israeliana di come avrebbero lavorato per identificare obiettivi in rete e per avere una sorta di compito per elaborare le reazioni. Ma su questo hanno fatto una parziale marcia indietro.

Ma fondamentalmente è un’applicazione che chiunque al mondo può scaricare sul proprio telefonino e identifica obiettivi in rete, le chiamano “missioni”, in cui singoli individui filoisraeliani possono molto facilmente partecipare a una discussione in rete. Quindi identificherà un tweet che loro devono leggere o un commento su Facebook riguardo a un articolo di notizie che gli può piacere. Essenzialmente, è un modo per coordinare in rete un comportamento in modo che sembri naturale, ma in realtà è assolutamente architettato da questa specie di organismo centralizzato con il sostegno del governo israeliano. Però l’obiettivo è condizionare molto rapidamente il discorso in rete in modo che sia a favore di Israele.

Arria: Hai una qualche idea di quante persone stanno usando l’applicazione e portando avanti queste “missioni”?

Bueckert: È difficile dirlo in ogni momento. Non sembra che ci siano molte persone. Sicuramente ci sono migliaia di persone che hanno scaricato l’applicazione, forse decine di migliaia. Ma è difficile valutare esattamente quanta gente sia attiva in modo continuativo. Molte missioni non sembrano avere molta diffusione, non tanti utenti hanno partecipato a molte di esse. Per cui è molto, molto difficile dirlo.

Arria: Ci sono momenti particolari in cui l’applicazione è più attiva che in altri?

Bueckert: Di nuovo, è difficile dirlo in termini di utilizzo, ma sicuramente lo si può dire magari in base alla quantità di missioni che l’applicazione sta producendo. Ci sono un sacco di argomenti diversi. Direi che le missioni sono più frequenti ogni volta che un musicista o un artista sta per andare in Israele. In genere c’è un numero di missioni per l’applicazione che danno indicazione agli utenti di fare commenti sui loro post di Instagram o dare loro il benvenuto in Israele, questo tipo di cose, per una sorta di lotta contro qualunque pressione che possano ricevere a favore del boicottaggio [contro Israele].

Poi c’è un’intera categoria di missioni più serie e importanti, dove viene veramente presa di mira una specifica questione locale, di solito in università dove devono colpire una specifica conferenza o gruppo di studenti in modo che sembri che ci sia una reazione spontanea contro un’organizzazione filo-palestinese, quando in realtà è tutto preordinato. E in qualche caso, intendo dire, l’applicazione si è vantata di aver fatto licenziare persone o di aver fatto annullare eventi. Per cui quando prende di mira una questione locale può realmente avere una grande impatto.

E poi penso che i momenti in cui si vede la maggiore attività sia come ora, quando c’è un’escalation di violenza, soprattutto con attacchi aerei contro Gaza e il lancio di razzi in risposta. È quando hai una risposta assai massiccia, con tutta una serie di missioni tutte in una volta. E forse c’è un’impennata negli utenti reali che sfruttano queste missioni, non so. Ma sicuramente l’applicazione è molto più attiva in questi momenti.

Arria: Su questo punto puoi parlare del tipo di missioni che hai visto di recente? È appena stato annunciato un cessate il fuoco, ma negli ultimi due giorni Israele ha lanciato missili contro Gaza. Com’è una tipica missione quando succede qualcosa del genere?

Bueckert: Certo. Quindi adesso ci sono circa 40 missioni relative a questo problema. La maggior parte di queste missioni sta prendendo di mira articoli di notizie, su Facebook o Twitter, in cui ti si chiede di lasciare un commento che metta in discussione la terminologia utilizzata. Se il titolo dell’articolo dice che è stato ucciso un miliziano della Jihad Islamica, ti viene chiesto di commentare: “Hai omesso un’informazione importante” o “È una prospettiva di parte.” Questo tipo di cose, E penso che il punto principale di questo tipo di missioni (soprattutto su Facebook) sia fare in modo che gli utenti normali scoprano le notizie e si imbattano in quegli articoli informativi, perché quello che stanno cercando di fare (e in questo caso, hanno molto successo) è ottenere questi commenti a sostegno per mettere in cima alla lista un commento proprio sotto all’articolo su Facebook. Così se sei un utente casuale di Facebook e ti imbatti in questi articoli di notizie, la prima cosa che vedi appena sotto il titolo sono questi commenti critici da parte di persone qualsiasi in rete e quella che sembra una normale reazione spontanea a quell’articolo è in realtà coordinata. Quindi direi che così è la maggioranza delle missioni.

E molte di loro intendono distogliere l’attenzione delle notizie dal fatto che sono state le uccisioni mirate di dirigenti della Jihad Islamica da parte di Israele che hanno deliberatamente scatenato quest’ultima serie di violenze. E così molti articoli stanno cercando di contrastare ciò dicendo che ci sono razzi tutto il tempo, Israele non ha colpito per primo. Ci sono anche parecchie missioni in cui, per esempio, condividono su Facebook video di razzi lanciati su Israele per dire che così è la vita sotto il terrorismo da Gaza, questo genere di cose.

Alcune missioni sono un po’ offensive. Una di loro riguarda la condivisione del video di un uomo in Israele e di come il suo cane sia stato emotivamente scioccato dal lancio di razzi, favorendo così il benessere dei cani in Israele. Nel frattempo penso che in quel preciso momento erano stati uccisi 36 palestinesi. Quattro di loro erano minorenni. E quindi (le missioni riguardano il fatto di) evitare qualunque domanda sulle vittime palestinesi e cercare di dare tutta la colpa a Gaza. E questo è il tipo di missioni che in questo momento stanno inondando l’applicazione.

Arria: So che è impossibile quantificare quale impatto cose del genere stiano avendo, ma personalmente hai la sensazione che stia in qualche modo facendo la differenza in termini di opinioni a favore di Israele?

Bueckert: È veramente impossibile dirlo. Ci sono stati una serie di tentativi di verificarlo. (Uno studio) ha suggerito che molto del traffico per la pagina di destinazione che hanno creato sia arrivato effettivamente dal mio account Twitter, mettendolo in evidenza, piuttosto che dall’applicazione stessa. E quindi ciò suggerisce che ci sia molto poco da ricavarne, almeno ciò è avvenuto in precedenti occasioni.

Anche Electronic Intifada ha fatto su ciò qualche articolo, che suscita qualche domanda sulla sua efficacia, considerando soprattutto la quantità di denaro e di risorse che sono stati impiegati. Penso sia veramente impossibile dire se commenti di “mi piace” su Facebook e Twitter facciano una qualche differenza o meno, ma sospetto che sia tutt’al più molto ridotta.

Tuttavia direi che quando si tratta di missioni più mirate, che attaccano determinati individui e riguardano la situazione lavorativa di persone o cercano di far annullare conferenze, queste sembrano essere piuttosto efficaci. C’è stato un caso all’inizio dell’anno, quando l’applicazione ha avuto molte missioni da perseguire (il Comitato Consultivo per il Modello di Programma di Studi Etnici della California) per la proposta di un programma di studi etnici che parlava in termini positivi dei palestinesi e del BDS come movimento sociale. E ci sono stati molte missioni che hanno preso di mira specifici consigli di amministrazione scolastici, mandando mail ai singoli individui sul comitato di programma. Quindi quando si tratta di questi specifici esempi, penso che l’applicazione possa essere piuttosto efficace. Ma quando si tratta solo di cercare di condizionare la reazione generale a un avvenimento come gli attuali raid aerei e razzi, non lo so proprio.

Arria: Il monitoraggio dell’applicazione ti ha dato la sensazione di quanto Israele stia prendendo seriamente il movimento BDS? Da una parte si sentono costantemente gruppi filo-israeliani prendersi gioco del movimento perché avrebbe un impatto insignificante, ma poi ci sono anche molte risorse che vengono utilizzate per combatterlo, come vediamo in questo caso.

Bueckert: È un dibattito che c’è anche in Israele e tra diversi ministeri, persino riguardo a se (il BDS) sia realmente una minaccia o qualcosa su cui valga la pena di impiegare risorse. Il ministero degli Affari Strategici, ovviamente, è quello che si occupa di tutta la faccenda. Ma al ministero degli Affari Esteri penso che la concezione sia che dovrebbero piuttosto semplicemente ignorarlo e lasciarlo perdere, per cui è difficile dire cosa effettivamente pensino.

Cosa suggerisce la quantità di risorse che mettono in questo tipo di campagne? Beh, non penso che suggerisca necessariamente che (credano che il BDS sia una reale minaccia), ma piuttosto che non hanno intenzione di lasciare che una qualunque opinione a favore dei palestinesi venga accolta all’interno dell’attuale discorso pubblico. La mia impressione è che tutto ciò riguardi meno la minaccia concreta del BDS e più l’assoluta intolleranza relativa a qualunque cosa positiva nei confronti dei palestinesi.

Michael Arria è il corrispondente dagli USA di Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto ONU contro il BDS

Azeezah Kanji e David Palumbo-Liu

12 Novembre 2019 – Al Jazeera

BDS: nel mirino del colonialismo dei diritti umani

Un recente rapporto dell’ONU contribuisce alla strumentalizzazione del discorso dei diritti umani da parte di Israele per giustificare l’oppressione in Palestina

Nel suo rapporto sull’antisemitismo presentato il 17 ottobre alle Nazioni Unite il relatore speciale sulla libertà di religione e di fede Ahmed Shaheed ha citato – senza smentirle – affermazioni secondo cui “gli obiettivi, le attività e gli effetti del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sono fondamentalmente antisemiti.”

Questa legittimazione dell’attacco contro il BDS è un atto d’accusa schiacciante – non contro il BDS, ma contro la logica pretestuosa per contestarlo.

Gli “obiettivi” e le “attività” del movimento sono esclusivamente fondati sulle leggi internazionali e sulle stesse risoluzioni dell’ONU: porre fine all’occupazione dei territori palestinesi, garantire l’uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele e rispettare il diritto al ritorno dei rifugiati.

Dal punto di vista del diritto internazionale, non è il BDS che dovrebbe essere considerato discutibile, ma la sfacciata riluttanza di Israele quando si tratta di rispettare norme fondamentali delle leggi internazionali.

Come ha evidenziato un’altra recente pubblicazione dell’ONU, Israele ha messo in pratica meno dello 0,5% delle raccomandazioni prescritte dall’ONU dal 2009 per porre rimedio ai crimini dell’occupazione – rendendo palesemente necessaria l’applicazione di ulteriori meccanismi di pressione economica e politica. La stessa ONU ha identificato 192 attività economiche che probabilmente violano le leggi internazionali agevolando e ricavando profitti dalle illegali colonie israeliane.

Screditare persino le pratiche non violente come il BDS equivale a negare ai palestinesi qualunque diritto a resistere al fatto di essere colonizzati.

Cancellando il contesto dell’occupazione, il rapporto di Shaheed cerca in modo perverso di presentare i palestinesi come coloro che violano i diritti umani invece che vittime di queste violazioni.

Egli fa riferimento al rapporto di una commissione ONU per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale (CERD) che esprime preoccupazione riguardo ai discorsi d’odio antisemita in Palestina – ma ignora totalmente il fatto che questo rapporto inizia riconoscendo che “l’occupazione israeliana, l’espansione delle colonie e il continuo blocco della Striscia di Gaza, che sono considerati illegali dalle leggi internazionali, pongono seri problemi perché (la Palestina) metta in atto pienamente i suoi impegni in base alla Convenzione (sulla discriminazione razziale).”

Shaheed condanna anche l’“antisemitismo di sinistra” di “individui che sostengono di appoggiare opinioni antirazziste e antimperialiste.” Ma rimane palesemente in silenzio riguardo al razzismo insito nello stesso imperialismo, anche in Palestina, dove le libertà religiose al centro del suo incarico (e vari altri diritti fondamentali delle popolazioni indigene sotto occupazione) sono sistematicamente calpestate. Per esempio, i palestinesi cristiani e musulmani devono affrontare limitazioni all’accesso a luoghi fondamentali per il culto come Betlemme e al-Aqsa.

In realtà chi contribuisce in modo assolutamente schiacciante all’aumento delle statistiche sull’antisemitismo in Paesi come la Germania e gli Stati Uniti non è la sinistra “antirazzista e antimperialista”, ma sono i neonazisti e l’estrema destra, sostenuti dagli stessi partiti politici del nazionalismo bianco che prendono di mira anche gli attivisti per i diritti di musulmani e palestinesi.

Le implicazioni repressive dell’analisi di Shaheed sono evidenti, con la prova del nove dell’antisemitismo che egli accoglie: le linee guida dell’“Holocaust Remembrance Association” [Associazione per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa a cui aderiscono 31 Paesi, ndtr.] (IHRA).

Il problema con esse non è la definizione di antisemitismo che include – “una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio verso gli ebrei” – ma gli esempi di antisemitismo che fornisce, parecchi dei quali coinvolgono le critiche a Israele o al sionismo.

Per esempio, agli occhi dell’IHRA (e a quanto pare dello stesso Shaheed) “negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele sia un’impresa razzista” equivale all’antisemitismo.

Non importa che alcuni dei maggiori critici alla creazione dello Stato ebraico siano stati importanti politici ebrei, come il membro del governo inglese Edwin Montagu, che nel 1917 definì la premessa secondo cui il popolo ebraico costituisce una Nazione separata come “antisemita”.

Come ha notato il filosofo dell’università di Oxford e cofondatore di “Independent Jewish Voices” [Voci ebraiche indipendenti] (GB) Brian Klug, l’effetto di equiparare l’antisionismo con l’antisemitismo è fondere lo Stato ebraico con il popolo ebraico: lo stesso peccato di cui il relatore speciale Shaheed accusa chi critica Israele.

La ridefinizione dell’antisemitismo dell’IHRA è stata messa in discussione da studiosi ebrei e da numerose organizzazioni per i diritti civili, dalla “Foundation for Individual Rights in Education” [Fondazione per i Diritti Individuali nell’Educazione, associazione USA per la libertà di parola nei campus, ndtr.] e dalla British Columbia Civil Liberties Association [Associazione per le Libertà Civili della Columbia Britannica”: società benefica canadese per le libertà civili e i diritti umani, ndtr.], perché confonde le critiche a Israele con il razzismo.

Nonostante sia stata bocciata dall’ “Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali” [ente dell’UE per la difesa dei diritti, ndtr.], la ridefinizione dell’IHRA è stata adottata da Paesi nel Nord America e in Europa – mettendo in pericolo la democrazia che Shaheed pretende di stare salvando dall’ “intossicazione” dell’antisemitismo.

Per esempio, negli USA la concezione eccessivamente estesa di antisemitismo è stata accolta dal Department of Education Office of Civil Rights [Dipartimento dell’Ufficio Educativo per i Diritti Civili, ente federale USA per la difesa del diritto all’istruzione, ndtr.] sotto la direzione di Kenneth Marcus, nominato dal presidente Donald Trump, che ritiene che gli studenti che protestano a favore dei diritti dei palestinesi dovrebbero essere perseguiti penalmente. È stata anche brandita nel tentativo di censurare eventi universitari e corsi sulla Palestina e per intentare cause contro docenti palestinesi.

Ciò è parte di un più ampio contesto di legalizzazione della soppressione della libertà di parola, in cui leggi contro il BDS sono state approvate in 27 Stati USA e proposte in altri 14 – sfidando direttamente la Costituzione USA e le decisioni della Corte Suprema che stabiliscono il diritto al boicottaggio in generale. Mentre Shaheed nel suo rapporto chiarisce che “le leggi internazionali riconoscono i boicottaggi come forme legittime di espressione politica,” al contempo legittima la demonizzazione del BDS sottesa alla legislazione contro il boicottaggio.

L’ossessione riguardo alle critiche contro Israele (sia di ebrei che di non ebrei) svia l’attenzione dal violento e spesso mortale antisemitismo dei suprematisti bianchi e dei nazionalisti di destra, che aspirano a restaurare la “grandezza” americana tornando alle forme più apertamente razziste del dominio del colonialismo di insediamento.

L’ironia del fatto che il BDS venga condannato in nome della “libertà di religione e di fede” esemplifica le contraddizioni insite nella lunga tradizione del colonialismo dei diritti umani – in cui i diritti umani, lungi dall’essere la salvezza dei dannati della terra, sono stati strumento della loro condanna. Dall’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone nel 1798 all’attacco di Bush all’Afghanistan e all’Iraq più di due secoli dopo, gli imperialisti hanno costantemente utilizzato il discorso dei diritti per presentare se stessi come i guardiani della dignità umana e come suoi violatori quelli che essi hanno massacrato, torturato e spossessato.

Nello sviluppo del sistema internazionale dei diritti umani contemporaneo seguito alla Seconda Guerra Mondiale, le potenze europee si sono presentate come i progenitori dei diritti umani, insistendo sulle eccezioni per proteggere le loro stesse atrocità coloniali dalle critiche. Il riferimento ai “diritti umani fondamentali” nel preambolo dello Statuto dell’ONU nel 1945 venne introdotto dallo statista afrikaner [popolazione bianca sudafricana di origine olandese, ndtr.] Jan Smuts, le cui altre significative eredità includono le politiche segregazioniste in Sud Africa che prepararono la strada all’apartheid. Questa genealogia colonialista è portata avanti fino ad ora dalle istituzioni israeliane, dalle Ong dei coloni e dai tribunali che si appellano ai diritti umani per giustificare l’oppressione dei palestinesi.

Come hanno notato gli studiosi di diritto internazionale Nicola Perugini e Neve Gordon nel loro libro “Il diritto umano di dominare” [Nottetempo, 2016, ndtr.], “gli indigeni palestinesi (vengono dipinti) come invasori e quindi perpetratori di violazioni dei diritti umani, mentre i coloni ebrei sono concepiti come nativi e descritti come vittime di abusi.”

Nella realtà capovolta dei dominatori, lo spossessamento e la distruzione della proprietà palestinese sono giuridicamente razionalizzati come necessari per salvaguardare i “diritti umani” dei coloni quali la libertà di religione, mentre tentativi di frenare o smantellare le colonie illegali sono descritti come “discriminazione razziale” e “pulizia etnica” contro i coloni. La giustizia per i palestinesi sotto occupazione è denunciata come un’ingiustizia per gli occupanti.

Quanti si battono per la libertà e l’autodeterminazione dei palestinesi sono gli eredi di un’altra forte tradizione: quella dei movimenti anticolonialisti che hanno resistito contro coloro che hanno sostenuto di parlare per l’umanità intera mentre ne colonizzavano brutalmente l’84%.

Anche quando è stato combattuto da una repressione spietata, dalla demonizzazione e dalla criminalizzazione, il popolo sottoposto a dominio coloniale ha continuato a sfidare le ingiuste strutture di potere e i concetti di esclusivismo razziale di diritti, dignità, libertà, leggi e umanità che li difendono.

I frutti dei loro tentativi vennero sanciti nelle risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU che riconoscono “la necessità di portare a una fine rapida e incondizionata il colonialismo in tutte le sue forme,” e “la legittimità della lotta dei popoli per…la liberazione dalla dominazione coloniale, apartheid e occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili”: una lotta per la liberazione che continua fino ad oggi, attraverso movimenti come il BDS.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di al Jazeera.

Sugli autori

Azeezah Kanji (dottorato e master in giurisprudenza in diritto islamico) è un’accademica in ambito giuridico e scrittrice che vive a Toronto.

David Palumbo-Liu è professore Louise Hewlett Nixon alla Stanford University.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il giurista dell’occupazione

Etan Nechin

5 novembre 2019 – The Jacobin

Razionalizzare l’occupazione israeliana

Meir Shamgar, ex presidente della Corte Suprema israeliana, è morto lo scorso mese. Uno dei padri fondatori del sistema giudiziario di Israele, ha utilizzato sotterfugi giuridici per dare una copertura legale all’illegale occupazione della terra palestinese

In Israele la destra ha sempre inveito contro la Corte Suprema del Paese, accusandola di porre limiti all’esercito e di favorire i diritti dei palestinesi sulle pretese dei coloni. Per i più infervorati sostenitori dell’occupazione della Palestina, la Corte Suprema israeliana è colpevole di “attivismo giudiziario”. Quando il politico di “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] Moti Yogev insistette perché la Corte Suprema venisse rasa al suolo dal un trattore D9, riassunse la posizione di molti nella destra israeliana. Allo stesso tempo la Corte Suprema spesso è celebrata come un bastione del liberalismo israeliano, un fulgido esempio della democrazia del Paese in una regione non democratica. Meir Shamgar, presidente della Corte tra il 1983 e il 1995, è particolarmente rispettato per il suo ruolo chiave in tutto ciò.

Lo scorso mese, in seguito alla sua morte, il presidente Ruvi Rivlin ha descritto Shamgar come uno dei “padri fondatori del sistema giudiziario israeliano” – e in effetti lo era. Prima di prestare servizio alla Corte Suprema di Israele per 20 anni, Shamgar aveva ricoperto posizioni molto importanti come avvocato generale militare per le IDF (Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.]) e poi come procuratore generale. La sua carriera è importante anche perché condusse l’inchiesta per l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin.

 

Costruire il sistema giudiziario

Shamgar, nato Meir Sternberg, proveniva da una famiglia sionista revisionista [cioè di destra, ndtr.] della libera città di Danzica [in Polonia, ndtr.] nel 1925. La città-Stato semiautonoma, creata dal trattato di Versailles [dopo la Prima Guerra Mondiale, ndtr.] e in cui operava un potere legislativo misto polacco e tedesco, precipitò nel 1939 sotto l’autorità della Germania nazista – provocando l’immigrazione dell’adolescente Shamgar nella Palestina mandataria.

Lì si unì all’Irgun, il gruppo paramilitare ebraico guidato da Menachem Begin, che condusse attacchi sia contro i funzionari britannici che contro civili palestinesi. Nel 1946 venne arrestato per attività antibritanniche e passò due anni internato in Eritrea, ma tornò in tempo per partecipare alla guerra arabo-israeliana del 1948. Studi a Gerusalemme furono seguiti da una laurea in giurisprudenza a Londra, che gli consentì di diventare avvocato generale militare nel 1961. Su insistenza di Ben Gurion, ebraicizzò il suo cognome in Shamgar.

Come avvocato generale militare Shamgar definì rapidamente un quadro giuridico per ogni futuro scenario in cui Israele si sarebbe trovato ad occupare terra straniera. L’ipotesi di lavoro era sempre stata che, benché l’occupazione non potesse essere moralmente giustificabile, potesse essere razionalizzata dal punto di vista legale. A questo fine, invece di andare contro le convenzioni giuridiche, Shamgar le accolse – e le utilizzò per i suoi obiettivi. Molto prima dell’occupazione dei territori palestinesi nel 1967, i consiglieri giuridici israeliani estrassero da documenti delle leggi internazionali – dalla [convenzione dell’] Aia, dalla Convezione di Ginevra e dal diritto consuetudinario britannico –possibili precedenti legali che potessero diventare utili. Voleva che tutti gli  ambiti giuridici venissero coperti – e la possibilità di ridefinirli quando la situazione fosse mutata.

 

Un quadro complessivo eterogeneo

I lavori preparatori di Shamgar non furono inutili: nel 1967 un milione di palestinesi a Gaza e in Cisgiordania finì sotto il governo militare israeliano. Da un giorno all’altro le IDF presero il controllo della regione e divennero l’arbitro di tutte le questioni giudiziarie. I palestinesi si ritrovarono a vivere sotto l’autorità di un comandante regionale israeliano e, se arrestati, le loro cause legali vennero trattate da un tribunale militare. Le IDF distribuirono volantini per spiegare i nuovi ordini appena arrivavano dallo stato maggiore.

Fu un’idea di Shamgar definire i territori palestinesi come “tenuti” invece che “occupati”, suggerendo una provvisorietà che desse a Israele i margini giuridici per operare appositamente nei territori sostenendo nel contempo che non ci sarebbero rimasti.

Dopo il 1967 Israele affrontò una serie di ostacoli giuridici riguardo ai territori. In primo luogo dovette imparare come affrontare la resistenza palestinese all’occupazione. Se i palestinesi avessero avuto il diritto di resistere, con la violenza o meno, sarebbero stati considerati nemici combattenti, e i loro prigionieri sarebbero stati prigionieri di guerra – un risultato che Shamgar voleva evitare. La soluzione venne di nuovo trovata nei precedenti delle leggi internazionali. I pubblici ministeri avrebbero sostenuto che i combattenti palestinesi non stessero resistendo, ma attaccando “in modo indiscriminato”: quindi avrebbero potuto essere definiti terroristi. Anche la resistenza disarmata avrebbe potuto essere considerata ostile. Ciò portò all’attuale modus operandi nei territori occupati: ogni azione, persino andare a lavorare, è considerata potenzialmente ostile – perché la popolazione è vista come essenzialmente ostile. Oltretutto, dopo la guerra del 1967, Shamgar, in quanto procuratore generale, prese la decisione radicale di consentire ai palestinesi di presentare appello alla Corte Suprema israeliana. Il risultato fu intrecciare il sistema della giustizia e il potere giudiziario civile israeliani con gli ingranaggi del governo militare.

Per i palestinesi un giusto processo può essere interminabile, labirintico e limitato nella sua applicazione. Se si accetta l’ipotesi di lavoro che l’obiettivo dell’intera popolazione palestinese sia di rovesciare il potere dominante, allora si può anche accettare che l’esercito necessiti della libertà d’azione per agire in un territorio ostile. Questo punto di vista avvalorava la pratica della detenzione amministrativa, che fa in modo che palestinesi possano essere detenuti con accuse inconsistenti senza processo. Inizialmente questa pratica venne applicata con qualche limitazione, ma come la Prima Intifada si inasprì e i tribunali militari vennero impegnati da migliaia di giovani detenuti palestinesi, Israele adattò la legge per togliere ogni limitazione, vale a dire che i palestinesi potevano essere trattenuti indefinitamente senza vedere un giudice. Cambiare la legge fu piuttosto semplice: a differenza della legge israeliana, che deve essere ratificata tre volte dalla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] e applicata dai tribunali, le corti militari devono solo inviare agli alti comandi una nota perché sia firmata dal ministero della Difesa.

La destra può accusare la Corte Suprema israeliana di aver capitolato a favore dei palestinesi. Ma per lo più essa è stata esclusivamente dalla parte dell’esercito e dello Stato. Questa è la tautologia giuridica: quando una popolazione è definita ostile dallo Stato, esso può prendere misure per sopprimere ogni forma di ostilità – ma è lo Stato che decide cosa sia da considerare ostile. In questo modo la Corte Suprema smette di essere terzo ramo del potere e viene utilizzata invece come avallo giudiziario per annullare qualunque controllo del pubblico o internazionale. Ovviamente tutto ciò è legale. O, come afferma il detto israeliano, “è kosher [consentito dalla religione, soprattutto riguardo all’alimentazione, ndtr.], ma fa schifo.”

 

Legalizzare le colonie

Oltre ai palestinesi soggetti all’occupazione, i tribunali israeliani dovevano anche prendere in considerazione come trattare la popolazione ebraica che aveva iniziato ad insediarsi nei territori dopo il 1967. Secondo la convenzione di Ginevra, il “trasferimento di popolazione” è illegale. Ma, dato che i coloni israeliani non erano obbligati a spostarsi ma lo facevano volontariamente, la Corte Suprema definì ciò come legale.

Poi c’era il problema della terra in sé. Secondo le leggi internazionali, la terra poteva essere espropriata solo per ragioni di sicurezza – per cui la Corte Suprema stabilì che le colonie ebraiche dovevano essere demolite. Ma ciò non impedì alla destra israeliana di trovare una scappatoia giuridica. Come mostra il documentario del 2011 The Law in These Parts [La legge da queste parti, documentario israeliano sul sistema giudiziario, ndtr.], gli avvocati militari andarono a scavare nel diritto ottomano per cercare una soluzione e scoprirono che un “impero” aveva il diritto di confiscare “terra non coltivata”. Ovviamente le terre palestinesi erano tutt’altro che incolte. Ma, sotto gli auspici di Shamgar e della Corte Suprema, questa classificazione venne applicata nel 1975 e le colonie vennero autorizzate.

Pertanto i coloni ricadono sotto la giurisdizione del sistema giuridico israeliano, mentre i palestinesi no. È compito dei militari proteggere i coloni, e se un palestinese attacca un colono o un soldato, lui o lei saranno trattati come terroristi: violentemente e rapidamente. Ma se un colono attacca un palestinese, il caso viene trattato in un tribunale civile israeliano. Nell’eventualità di coloni che aggrediscano soldati, se il caso arriva a processo i coloni sono trattati come delinquenti, non come terroristi.

Nonostante i loro privilegi, molti coloni vedono l’apparato legale e securitario israeliano come ostile a loro. Percepiscono la struttura formale democratico-giudiziaria israeliana come estranea e interventista. Il ministro dei Trasporti e politico di “Casa Ebraica” Bezalel Smotrich ha fatto eco a questa opinione quando ha detto che Israele dovrebbe seguire la legge della Torah [insieme di prescrizioni religiose, ndtr.].

L’avvocatura generale militare, insieme alla Corte Suprema israeliana, ha fornito una copertura all’esercito per la prassi delle uccisioni mirate e ha fatto finta di niente quando si è trattato della tortura di palestinesi sospetti.

 

La nuova normalità

Shamgar si congedò dalla Corte Suprema nel 1995. Quell’anno presiedette l’inchiesta ufficiale sull’assassinio di Yitzhak Rabin. È ironico che Yigal Amir, lo studente di diritto di destra che uccise Rabin, lo fece perché anche lui era preoccupato dello status dei territori occupati; si prese l’incarico di applicare la legge ebraica, diventando giudice ed esecutore. La commissione Shamgar affermò che l’uccisione era stata possibile per una mancanza di cooperazione tra i vari organi della sicurezza responsabili delle misure complessive di sicurezza durante gli eventi pubblici. Ma non prese in considerazione lo spostamento ideologico strutturale che era avvenuto dal 1967: i territori “tenuti” erano legati alla terra da forze politiche che approvavano la costruzione di nuove colonie, politici messianici ed esercito che, invece di difendere una popolazione, ne controllava un’altra e da un sistema giuridico che in realtà era triplice: uno per gli israeliani, uno per i palestinesi e uno per i coloni.

Quello che il sistema legale non ha affrontato è il fatto che il provvisorio era diventato permanente. Nel 2012 il rapporto Levy, stilato da una commissione speciale nominata dal governo sugli avamposti dei coloni, concluse che le colonie erano legittime e che ogni avamposto non autorizzato lo dovesse essere. Ciò ha consolidato un enorme paradosso: la commissione non riconobbe la Cisgiordania come territorio occupato né chiese allo Stato di annetterlo. Né un territorio dello Stato né un territorio occupato, non è chiaro quale base giuridica esista per regolare le attività di Israele nei territori occupati. Questa ambiguità è molto proficua per Israele, in quanto consente alle IDF di esercitare potere nei territori palestinesi mantenendo i suoi abitanti palestinesi in una zona grigia giuridica.

I funzionari giudiziari e pubblici israeliani hanno sempre inventato nuovi sistemi per giustificare l’occupazione, per adeguare i fatti all’ideologia e non viceversa. Il sistema giuridico in Israele e l’ordine militare in Palestina sono certo militanti, ma non nel senso inteso dalla destra. La Corte Suprema usa le sue apparenti credenziali progressiste sulle libertà civili israeliane e la sua conservazione dell’integrità elettorale come un modo per giustificare l’apparato oscuro che opera nel cortile di casa orientale di Israele.

Con Shamgar al comando, il sistema giudiziario israeliano è stato fondamentale nella trasformazione delle leggi israeliane per adeguarle al progetto politico e territoriale dell’occupazione. Questa è l’eredità di Meir Shamgar.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quale precisione da parte di Israele?

Yvonne Ridley

13 novembre 2019 – Middle East Monitor

La propaganda sulla precisione degli israeliani cerca di giustificare il massacro di innocenti

Le forze israeliane “di difesa” (IDF), nome assolutamente fuorviante, e i loro sostenitori si arrabbiano molto quando i componenti dell’esercito, quinta potenza militare al mondo, sono accusati di prendere di mira donne e bambini innocenti.Si rilasciano veementi smentite a livello mondiale, anche se è esattamente quello che succede come conseguenza inevitabile del fatto di lanciare materiali altamente esplosivi in aree densamente abitate da civili.

Persino mentre stanno ancora cadendo le bombe, la propaganda israeliana ingrana la quarta. Ieri un tweet delle IDf annunciava drammaticamente: “ULTIME NOTIZIE. Abbiamo appena attaccato il comandante della Jihad islamica a Gaza, Baha Abu Al Ata. Al Ata era direttamente responsabile di centinaia di attacchi terroristici contro civili e soldati israeliani. Il suo prossimo attacco era imminente.” Questo messaggio era poi subito seguito da un altro post che sosteneva che l’azione mortale era “un attacco chirurgico”.

Questa affermazione è discutibile. Quello che il team della propaganda delle IDF, l’hasbara, ha dimenticato di riportare era che, colpendo Abu Al-Ata, l’esercito di occupazione aveva anche ucciso la moglie e gravemente ferito quattro dei loro figli e una vicina. Non c’era niente di “preciso” o “chirurgico” a proposito di questo attacco: si tratta probabilmente di un crimine di guerra.

Wikipedia spiega che quando si lanciano missili Hellfire, “usati in varie uccisioni di personaggi di alto profilo” e altre bombe cosiddette intelligenti in un’area residenziale si uccideranno dei civili. I civili non-combattenti non erano protetti in alcun modo durante la Seconda guerra mondiale, il che spiega perché fu redatto l’Articolo 33 della Convenzione di Ginevra nel 1949. Esso stabilisce che nessuno possa essere punito per un’infrazione che non ha commesso personalmente. Sono proibite le misure di rappresaglia nei confronti delle persone protette e dei loro beni.

Ora dobbiamo assistere e testimoniare a tale doppia oscenità: non solo Israele ignora la Convenzione di Ginevra uccidendo dei civili, ma anche i lobbysti pro-Israele che difendono tale azione. Fra i molti tweet postati a sostegno dell’attacco militare, uno che ha attirato la mia attenzione proveniva dal direttore delle pubbliche relazioni di una ONG tedesca: Josias Terschüren mi attaccava quando ho avuto l’ardire di far notare che in aree abitate da civili non esiste una cosa come “l’attacco chirurgico.”

“Apparentemente nessuno, a parte il bersaglio, il terrorista, e sua moglie, sono morti nell’attacco chirurgico e due dei suoi figli sono stati feriti in modo serio” twittava Terschüren. “Questo può succedere, ed è successo, ad altri familiari di terroristi. Nessun civile è stato ferito.”

Perciò, agli occhi di questa persona, né la moglie di Abu Al-Ata né i suoi figli possono essere considerati civili innocenti: sono membri della “famiglia di un terrorista”.

Quando ho messo in discussione questo punto, il direttore delle pubbliche relazioni di “Iniziativa 27 gennaio” un’organizzazione sull’Olocausto con sede a Berlino, ha risposto: “Mi riferivo alle sue critiche agli attacchi israeliani in aree densamente popolate. Tutto quello che volevo dire era che, a parte i suoi familiari, nessun altro civile è stato colpito. È un fatto comune, seppur sfortunato e spiacevole, nei casi di membri delle famiglie dei terroristi”.

Io non sono sicura se Terschüren, che si descrive “conservatore” e “cristiano”, abbia deliberatamente diffuso questa spregevole propaganda o se sia lui stesso una vittima della  propaganda di Israele, perché questa è un’arma di cui le IDF usano e abusano con grande abilità.

Consideriamo questo, per esempio: “Questa mattina abbiamo ucciso un comandante della Jihad islamica in #Gaza” hanno twittato ieri le IDF. “Questo è il motivo per cui ti dovrebbe importare.” Il video che accompagnava il testo includeva scene tratte da filmati di attacchi terroristi inclusi quelli dell’11 settembre, quelli a Mumbai, Manchester, Parigi, in Svezia, Indonesia e Nigeria, nessuno dei quali aveva niente a che fare con i palestinesi. Cercare di collegare i gruppi della resistenza palestinese agli attacchi terroristici transnazionali altrove è semplicemente disonesto. Questi non sono filiali di Al-Qaeda o Daesh, non importa quante volte le IDF e i lacchè di Israele cerchino di convincerci del contrario. Semplicemente non è vero.

Ma questo è quanto siamo arrivati ad aspettarci da un Paese che non può giustificare in altro modo il proprio terrorismo di stato. “Bugie, dannate bugie, e propaganda israeliana” come avrebbe potuto dire Mark Twain.  Purtroppo tale propaganda sembra funzionare, a giudicare dai social media: quelli che sono anti-palestinesi ci cascano completamente, probabilmente perché alimenta il loro razzismo e odio innati.

Dopo l’assassinio di Abu Al-Ata e di sua moglie le IDF sono state impegnate in altri “attacchi chirurgici”. Il totale dei morti, al momento in cui scrivo, è di 23 palestinesi, dei quali i lobbisti pro-Israele affermano che solo 12 erano “membri accertati di gruppi terroristi”. Dopo tutto, gli attacchi non erano per niente chirurgici.

Forse i 18 innocenti coinvolti in tutto ciò erano le mogli e i bambini di “terroristi”. E questo va bene, secondo gli illusi e accecati sostenitori dei crimini. I loro sofismi per giustificare l’assassinio di uomini, donne e bambini innocenti sono disgustosi.

Le opinioni espresse in quest’articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 

 




Hamas non partecipa allo scontro

Menachem Klein

13 novembre 2019 – + 972

Perché Hamas si tiene fuori dallo scontro tra Israele e la Jihad Islamica

Il coordinamento politico e per la sicurezza di Israele con Hamas ha risposto ad interessi condivisi per molti anni. Ora Hamas spera di rimanere fuori dall’attuale scontro per estendere se possibile il suo potere politico in Cisgiordania

Nella nuova serie di scontri tra Israele e la Jihad Islamica a Gaza si ha l’impressione che ci sia un accordo non scritto tra Israele e Hamas. Ciò non è fuori dal comune nei rapporti tra nemici con interessi comuni. Siria e Israele, per esempio, una volta avevano un accordo riguardante i limiti invalicabili del coinvolgimento di quest’ultimo in Libano.

Per comprendere la delicata danza tra Israele e Hamas è necessario conoscere la storia recente. Nel 2007 Hamas cacciò Fatah, che allora governava Gaza con l’uomo forte Mohammed Dahlan. In risposta, Israele impose un blocco a Gaza, sperando che avrebbe fatto crollare il regime di Hamas attraverso pressioni esterne o provocando una rivolta interna palestinese. Quella strategia è fallita: fino ad oggi Hamas è rimasta al potere.

Verso il 2010 Israele cambiò la politica di cacciare Hamas, optando invece per una sorta di coesistenza. Il governo decise di istituzionalizzare la separazione tra Gaza e la Cisgiordania, annettendo gradualmente parti di quest’ultima e cercando nel contempo accordi concreti con Hamas. Israele rifiuta di consentire ad Hamas di avere una posizione forte in Cisgiordania, che è una delle ragioni principali della sua collaborazione per la sicurezza con Mahmoud Abbas e l’Autorità Nazionale Palestinese.

Quindi Israele rafforza il potere di Abbas incentivando sospetti e ostilità nei confronti di Hamas, ma si è prefissato la conservazione del potere di Hamas a Gaza. Utilizza la classica tattica del divide et impera per controllare entrambe le parti dei palestinesi, comprendendo che, se Hamas dovesse cadere, il vuoto potrebbe essere riempito da uno dei gruppi affiliati all’ISIS presenti nel Sinai. Israele ha bisogno di un rapporto stabile con Hamas per tenere l’ISIS fuori da Gaza.

Il coordinamento con Hamas è stato sospeso nel 2014, dopo che militanti palestinesi rapirono e uccisero tre ragazzi israeliani in Cisgiordania. Israele accusò Hamas di essere responsabile, ignorando le sue smentite, e riarrestò prigionieri palestinesi che erano stati rilasciati come parte di un accordo per la liberazione di Gilad Shalit [soldato israeliano rapito da Hamas nel 2006, ndtr.]. Ciò mise in moto uno confronto militare che terminò nello stesso modo di precedenti scontri – con la conferma di precedenti accordi strategici, compreso il fatto di alleggerire il blocco, estendere la zona di pesca di Gaza e consentire che entrassero a Gaza finanziamenti del Qatar.

A settembre, quando la Jihad Islamica ha sparato razzi contro Ashdod mentre Netanyahu vi stava facendo un comizio elettorale, i media israeliani iniziarono a concentrarsi sul bellicoso comandante del gruppo, Baha Abu al-Ata, assassinato martedì mattina. Riunioni dell’intelligence hanno sottolineato che Abu al-Ata era probabilmente un comandante ribelle che non accettava l’autorità di Hamas.

Abu al-Ata era un obiettivo perché danneggiava gli accordi tra Israele ed Hamas. Assassinandolo Israele ha mandato il messaggio ad Hamas di essere interessato a mantenere questi accordi. Da quando i miliziani della Jihad Islamica hanno iniziato a lanciare razzi in risposta all’assassinio, Hamas ne è rimasta fuori, mentre Israele ha chiarito di agire solo contro la Jihad Islamica. Hamas, i cui principali dirigenti non hanno fatto commenti, non ha interesse a rafforzare la Jihad Islamica o ad essere trascinata in un conflitto armato con Israele. Tuttavia, se la risposta israeliana dovesse uccidere troppi civili palestinesi, Hamas probabilmente risponderà. In una situazione di crescenti tensioni, ciò potrebbe avvenire in conseguenza di errori operativi o di malintesi.

Politicamente Hamas è concentrata sulle elezioni palestinesi che Abbas ha annunciato all’inizio dell’anno. L’organizzazione intende accettare i parametri di Abbas: elezioni parlamentari seguite da quelle presidenziali. Hamas ha anche accettato che le elezioni avvengano con modalità diverse. Invece di elezioni regionali in 16 distretti dei territori occupati – in cui il partito che vince prende tutto – le elezioni saranno in tutto il Paese. Ciò significa che anche se Hamas non vincesse la maggioranza dei voti, avrebbe la possibilità di conquistarsi una solida posizione in Cisgiordania e presentare un proprio candidato alla presidenza. Abbas, un leader molto impopolare, si è impegnato a non presentarsi per un ulteriore mandato. Hamas spera di poter andare oltre il governo a Gaza e di partecipare alle elezioni nazionali.

Menachem Klein è docente di scienze politiche all’università [israeliana] di Bar Ilan. E’ stato consigliere della delegazione israeliana con l’OLP nel 2000 e uno dei leader della Geneva Initiative [Iniziativa di Ginevra, un gruppo di dirigenti politici e intellettuali israeliani e palestinesi che hanno stilato un piano di pace non accettato né da Israele né dai palestinesi, ndtr.]. Il suo nuovo libro “Arafat and Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed” [Afarat e Abbas: ritratti di dirigenti in uno Stato rinviato], è stato da poco pubblicato da Hurst London and Oxford University Press New York.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




boicottaggio contro Puma

Puma continua ad aiutare Israele a mascherare con lo sport le violazioni dei diritti umani

Imprese come Puma, che supporta le associazioni sportive israeliane, ignorano consapevolmente l’oppressione degli atleti palestinesi.

 Aya Khattab

27 Ottobre 2019 | Al Jazeera

 

Da quando ho iniziato a giocare a pallone da ragazzina, il mio sogno è sempre stato farlo nella nazionale femminile palestinese di calcio. E ci sono riuscita! Mi sono fatta strada attraverso le diverse categorie, cominciando con la squadra under 16, ed ora sono difensore nella nazionale.

Realizzare il mio sogno non ha però comportato soltanto duro lavoro, ma anche l’affrontare un’ulteriore aspetto del sistema israeliano di oppressione militare e discriminazione razziale.

Essere un atleta in Palestina non è semplice. Qui non si può dire che il gioco sia al di sopra di politica e conflitto. Qui siamo circondati da posti di blocco israeliani, barriere di separazione, strade segregate e colonie. Le infrastrutture israeliane di occupazione e apartheid negano a tutti i palestinesi, atleti inclusi, qualsivoglia libertà di movimento. Siamo costantemente vessati, minacciati e umiliati dalle forze israeliane. Quando siamo in campo, non ci è concesso il lusso di dimenticare l’occupazione.

Quando viaggiamo per gli allenamenti o per un evento siamo continuamente costretti a subire perquisizioni umilianti ai checkpoint militari. Le partite vengono interrotte da incursioni di militari armati. I campi da gioco vengono fagocitati dalla continua espansione degli insediamenti illegali, i nostri stadi devastati dalle bombe israeliane.

Dedicarsi alla carriera di atleta in Palestina è senz’altro una lotta costante, poiché l’occupazione israeliana pone delle barriere di fronte a noi ad ogni passo. Questo è il motivo per cui ci aspettiamo che il resto del mondo, ed in particolar modo le imprese e le istituzioni sportive, si mostrino consapevoli della nostra sofferenza e ci appoggino. Questo è il motivo per cui rifiutiamo i tentativi di alcune industrie o di certe marche dello sport di mascherare l’occupazione israeliana.

L’anno scorso, la multinazionale dell’abbigliamento sportivo Puma ha firmato un contratto di sponsorizzazione della durata di quattro anni con la IFA, la Israel Football Association [la federazione calcistica israeliana, ndtr.]. La IFA include squadre provenienti dalle colonie israeliane illegali, costruite su terreni sottratti alle famiglie palestinesi violando le leggi internazionali.

La complicità dell’IFA nella prassi israeliana di occupazione illegale è stata ripetutamente condannata da consiglieri delle Nazioni Unite, decine di parlamentari europei, personaggi pubblici, dalla società civile e da associazioni per i diritti umani.

La sponsorizzazione dell’IFA da parte di Puma e la legittimazione internazionale che ne consegue lasciano intendere al regime israeliano razzista e di destra che l’ espansione delle colonie illegali ottenuta con l’ espulsione di famiglie palestinesi dalle terre dei loro avi può continuare impunemente.

Puma sostiene che lo sport “ha la capacità di trasformarci e darci potere”. É vero. Lo sport ha cambiato la mia vita e quella di molti palestinesi, che hanno perseverato nel seguire i propri sogni nonostante le scoraggianti condizioni dettate dall’occupazione.

Tuttavia, anziché dare potere a persone come noi, che ogni giorno si rapportano con l’oppressione, Puma ha scelto di dare potere e supporto ai nostri oppressori.

Più di duecento squadre palestinesi hanno richiesto alla compagnia di attenersi ai suoi stessi codici etici e annullare l’accordo con l’IFA.

Qual è stata la risposta di Puma alle continue richieste di riconsiderare il contratto? Un risibile tentativo di schivare le critiche appellandosi alla “dedizione verso l’uguaglianza universale”, mentre insiste nel sottoscrivere le violazioni dei diritti umani dei palestinesi perpetrate da Israele, e aiuta lo Stato ebraico a mascherare con lo sport il suo sistema di oppressione.

Nel frattempo, l’edizione della Coppa di Palestina di quest’anno è stata cancellata a causa di nuove restrizioni israeliane alla libertà di movimento dei palestinesi. Israele aveva inizialmente negato l’autorizzazione a raggiungere la Cisgiordania a tutti i giocatori della squadra uscita vincitrice dalla Coppa di Gaza, eccetto uno. Quando la squadra ha ripresentato la domanda, Israele ha negato l’autorizzazione a tutti i giocatori eccetto cinque.

Nel 2018, i proiettili dei cecchini israeliani hanno ucciso 183 palestinesi a Gaza, ferendone più di 6,000, nel corso delle manifestazioni pacifiche mirate ad ottenere la fine dell’asfissiante assedio israeliano alla striscia (in atto da ormai dodici anni), e il rispetto del diritto al ritorno, sancito dalle Nazioni Unite. I cecchini israeliani hanno stroncato la carriera di promettenti atleti palestinesi, inclusi calciatori, pugili, ciclisti, pallavolisti.

Una commissione di indagine delle Nazioni Unite ha scoperto che i soldati israeliani hanno intenzionalmente preso di mira ed ucciso civili palestinesi che partecipavano alle manifestazioni, il che può costituire un crimine di guerra.

Ciononostante, la posizione di Puma è rimasta immutata. Ecco perché sostenitori del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, movimento che propone il boicottaggio di Israele fintanto che non accetti di accogliere importanti richieste relative ai diritti umani dei palestinesi, ndtr.] in tutto il mondo hanno intrapreso azioni più incisive contro l’impresa. In migliaia hanno invitato a smettere di acquistare i prodotti Puma finché il marchio non mette fine alla sponsorizzazione dell’IFA.

Lo scorso giugno le associazioni per i diritti umani in venti Nazioni del mondo hanno protestato contro tale sponsorizzazione nei negozi Puma, negli uffici e durante le partite di squadre sponsorizzate dal marchio. Oggi riproporranno tale protesta per una seconda giornata di azione globale, con più di 50 manifestazioni in tutto il mondo.

Sta a tutti noi pretendere che Puma risponda per il fatto di non rispettare i principi dello sport e della correttezza.

In quanto giovane e determinata donna palestinese che ha fatto dell’andare oltre i limiti e del superare ostacoli parte essenziale della propria vita, non permetterò che il sistema di oppressione israeliano mi impedisca di vivere il mio sogno.

Tutti coloro che credono nella libertà e nella giustizia possono unirsi a me e pretendere che Puma rispetti il proprio impegno di promuovere il cambiamento sociale, mettendo fine alla sponsorizzazione della nostra oppressione.

 

(Traduzione dall’inglese di Jacopo Liuni)




La visione progressista di Bernie Sanders sul “come combattere l’antisemitismo” rivela una visione superata di Israele

Nada Elia

11 novembre 2019       Mondoweiss

L’editoriale di Bernie Sanders, “Come combattere l’antisemitismo”, coglie molti argomenti appropriati con le attuali idee progressiste. Ricordando come i crimini di odio siano cresciuti dopo l’elezione di Trump, scrive: “Gli antisemiti che hanno marciato a Charlottesville non odiano solo gli ebrei. Odiano l’idea della democrazia multirazziale. Odiano l’idea di uguaglianza politica. Odiano gli immigrati, le persone di colore, le persone LGBTQ, le donne e chiunque altro si opponga a un’America per soli bianchi. Accusano gli ebrei di coordinare un massiccio attacco contro i bianchi di tutto il mondo, usando persone di colore e altri gruppi emarginati per fare il loro lavoro sporco.”

Bernie continua col denunciare l’utilizzo dell’antisemitismo come arma, sia in quanto strategia per dividere i progressisti, sia come tentativo di soffocare le critiche nei confronti di Israele. L’antisemitismo, afferma Bernie, è “una teoria della cospirazione secondo cui una minoranza segretamente potente esercita il controllo sulla società. Come altre forme di fanatismo – razzismo, sessismo, omofobia – l’antisemitismo è usato dalla destra per dividere le persone l’una dall’altra e impedirci di lottare insieme per un futuro condiviso di uguaglianza, pace, prosperità e giustizia ambientale. Quindi voglio dire il più chiaramente possibile: affronteremo questo odio, faremo esattamente l’opposto di ciò che Trump sta facendo e riuniremo le nostre differenze per riunire le persone”.

Fin qui tutto bene. Ma poi, Bernie continua col fare una dichiarazione incredibilmente anacronistica, vale a dire che “Una delle cose più pericolose che Trump ha fatto è dividere gli americani usando false accuse di antisemitismo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni USA-Israele. Dovremmo essere molto chiari sul fatto che non è antisemita criticare le politiche del governo israeliano”.

Per qualsiasi attivista amante della giustizia che  abbia sostenuto i diritti dei palestinesi per molti lunghi anni prima che Trump aspirasse persino alla presidenza, e che sia stato tacciato per decenni di antisemitismo dai progressisti e dai PEPS (Progressisti Eccetto che per la Palestina), che sia stato inserito nelle liste nere, a cui siano state negate le promozioni o a cui siano stati sottratti i mezzi di sostentamento per aver criticato le politiche del governo israeliano, molto prima di Trump, questa affermazione è offensiva. La censura sistematica di qualsiasi critica progressista a Israele, l'”eccezione palestinese alla libertà di parola”, come è  noto, si è basata a lungo sulla falsa accusa di antisemitismo. Non è che, come vorrebbe Bernie, sia stato Trump [il primo] a farlo.

Il giudizio erroneo di Bernie sulla cronologia dell’utilizzo dell’accusa di antisemitismo come arma è, tuttavia, in sintonia con un altro suo grave errore storico, vale a dire la sua nostalgia dei sionisti “liberal” per l’Israele precedente al 1967. Nonostante la sua affermazione stranamente vaga, che “la fondazione di Israele è ritenuta da un’altra popolazione nella terra di Palestina la causa del loro doloroso sradicamento”, Bernie afferma sbrigativamente che i gravi crimini di Israele sono iniziati solo con l’occupazione del 1967.

 “Quando guardo al Medio Oriente – scrive Bernie – io vedo in Israele [un Paese] in grado di contribuire alla pace e alla prosperità dell’intera regione, ma a cui mancano le possibilità di farlo in parte a causa del suo conflitto irrisolto con i palestinesi. E vedo un popolo palestinese desideroso di dare il suo contributo – e con molto da offrire -, eppure schiacciato sotto un’occupazione militare che ormai dura da mezzo secolo, che determina una realtà quotidiana di dolore, umiliazione e risentimento. Porre fine a quell’occupazione e consentire ai palestinesi di avere l’autodeterminazione in uno Stato indipendente, democratico ed economicamente vitale è nell’interesse degli Stati Uniti, di Israele, dei palestinesi e della regione”.

Evidentemente l’illusione dei due Stati è difficile da abbandonare. Quindi sarò molto onesta: Bernie non è il candidato dei miei sogni. La sua nostalgia per l’Israele di prima del 1967 rivela una cecità riguardo l’oppressione strutturale insita nella fondazione dello Stato etno-nazionalista che egli ama. Afferma “Il mio orgoglio e la mia ammirazione nei confronti di Israele convive con il mio sostegno alla libertà e all’indipendenza palestinese. Respingo l’idea che ci siano delle contraddizioni”, eppure sembra inconsapevole che la stessa discriminazione che denuncia nella Cisgiordania post-1967 è stata e rimane l’esperienza quotidiana dei palestinesi all’interno della Linea verde [linea di demarcazione stabilita tra Israele e alcuni paesi arabi dopo il 1949, n.d.tr.]. Non riconosce che Israele ha negato ai palestinesi il diritto al ritorno nelle loro città a partire dal 1948, non solo dal 1967, e che Israele stava già sparando sui palestinesi che cercavano di reclamare le loro proprietà nel 1948, 1949 e fin da allora, non solo a partire dalla Grande Marcia del Ritorno.

Tuttavia, [riguardo] questo ciclo elettorale, sono solo pragmatica. Nel condannare ancora l’intero sionismo in quanto razzismo, le mie critiche a Bernie non significano che non voterò per lui, e inviterò anche gli altri a votare per lui, se dovesse essere il candidato democratico. E per molti versi, Bernie rimane il miglior candidato presidenziale raccomandabile per quanto riguarda i palestinesi, non ultimo a causa della sua recente dichiarazione sul cambiare orientamento di alcuni degli aiuti statunitensi a Israele verso aiuti umanitari a Gaza, e il suo riconoscimento che non può esserci una soluzione che non rispetti i diritti e le aspirazioni palestinesi.

Questo paese è arrivato così a destra che una presidenza di Bernie Sanders, pur non risolvendo la maggior parte dei problemi, produrrà un correttivo indispensabile, sia a livello nazionale, sia in termini di politica estera.

Nada Elia

Nada Elia è una studiosa e attivista palestinese, scrittrice e responsabile di movimenti locali,. A attualmente sta completando un libro sull’attivismo nella diaspora palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I lacrimogeni devastano le condizioni di vita a Gaza

Amjad Ayman Yaghi

6 novembre 2019 – The Electronic Intifada

Attraverso le sue fotografie Atia Darwish ha documentato come, nonostante il fatto di essere sottoposta a un brutale blocco israeliano, la gente di Gaza riesca ancora a trovare momenti di gioia.

La sua immagine di bambini palestinesi che mangiano un’anguria in spiaggia è stata ospitata in un’esposizione all’aperto che in settembre ha circolato in Libano.

Molti di quelli che si sono meravigliati dell’immagine probabilmente non erano a conoscenza del fatto che l’uomo che l’ha fotografata attualmente non può lavorare. Darwish ha perso parzialmente la vista – indispensabile per un fotografo – a causa di ferite inflittegli da Israele.

Il 14 dicembre dello scorso anno Darwish stava lavorando durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno nella zona orientale di Gaza. Stava scattando foto da circa mezz’ora quando è stato ferito da un candelotto lacrimogeno.

Darwish ha perso conoscenza. Quando l’ha riacquistata, si è ritrovato in terapia intensiva all’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Il candelotto lo aveva colpito sotto l’occhio sinistro. Ha perso alcune ossa attorno all’occhio e anche la mascella è stata danneggiata.

L’occhio ha continuato a sanguinare per una settimana e il mio orecchio nei due giorni successivi,” dice.

Darwish teme di non poter recuperare la vista.

Nel febbraio di quest’anno è andato a farsi curare in Egitto. Lì un medico gli ha diagnosticato una fibrosi della retina e ha detto che non è curabile.

Posso solo essere sottoposto ad [un intervento di] chirurgia estetica,” dice Darwish. “Mi sento abbandonato. Il mondo non considera le bombe lanciate contro di noi da Israele come pericolose. Ma possono uccidere persone e i sogni dei nostri giovani.”

Darwish con l’occhio sinistro non può vedere a più di 15 cm. È anche diventato parzialmente sordo.

Il drammatico cambiamento del suo aspetto provocato dalla ferita lo ha scioccato. “Quando sono tornato a Gaza (dall’Egitto), mi sono sentito senza speranza guardando le vecchie foto di me su Facebook e Instagram,” dice. “Non sarò mai più così.”

Darwish spera di riprendere a lavorare come fotografo, facendo affidamento sul suo occhio destro. “Dovrò stare più attento,” afferma.

Non era la prima volta che Darwish veniva colpito da un candelotto lacrimogeno mentre fotografava la Grande Marcia del Ritorno.

Nel luglio dello scorso anno uno di questi candelotti lo ha colpito alla gamba destra. In seguito ha dovuto essere curato per le ustioni.

Non letali?

Le sue ferite sono tutt’altro che rare. Benché l’esercito israeliano descriva i lacrimogeni come “non letali”, queste armi hanno ucciso [dei] palestinesi.

Almeno sette persone sono morte perché colpite da candelotti lacrimogeni sparati da Israele durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno, iniziate il 30 marzo 2018. Quattro delle vittime erano minorenni.

Hasan Nofal è morto dopo essere stato colpito a febbraio da un lacrimogeno sparato verso i manifestanti. Aveva solo 16 anni.

Suo padre Nabil sta ancora cercando di capire cosa sia successo.

In un primo tempo, quando ha saputo che Hasan era stato ferito, Nabil non ha pensato che la ferita potesse essere troppo grave. Hasan si trovava ad una distanza sufficiente dalla barriera che separa Gaza da Israele, ha pensato Nabil.

Hasan è morto quattro giorni dopo essere stato portato in ospedale.

Mio figlio era innocente,” dice Nabil. “Israele sa che le bombe che lancia stanno uccidendo persone?”

Mentre la loro tragedia viene spesso ignorata dai mezzi di comunicazione occidentali, i manifestanti sono regolarmente feriti a Gaza. “Al Mezar”, un’organizzazione per i diritti umani, ha informato che solo il 25 ottobre 13 persone che hanno partecipato alla Grande Marcia del Ritorno sono state direttamente colpite da candelotti lacrimogeni. Ahmad Ammar, un ventitreenne di al-Shujaiyeh, un quartiere di Gaza City, è stato colpito da uno di questi candelotti a settembre. La bocca e la guancia destra sono rimaste gravemente ustionate, provocando danni a lungo termine al suo volto.

Ero lontano dalla barriera di confine,” dice Ammar. “Stavo bevendo un succo perché avevo la nausea a causa dei gas lacrimogeni, che hanno un forte odore. Quando ho iniziato lentamente ad allontanarmi ho sentito qualcuno gridarmi di stare attento alle bombe lacrimogene visibili vicino a me. Mi sono girato e improvvisamente sono stato colpito da una di loro.”

Disoccupato

Ammar ha perso conoscenza. “Quando mi sono risvegliato ero in ospedale,” racconta. “Alcuni dei miei amici erano vicino a me. Ho chiesto loro uno specchio per vedere la mia faccia, ma si sono rifiutati di darmelo.”

Ammar era solito vendere ortaggi in un mercato locale. Da quando è stato ferito non è tornato a lavorare. Non può pensare ad altro che alla sua ferita e ad ottenere una terapia correttiva. “Ho bisogno di una chirurgia estetica,” dice. “Sfortunatamente non si può avere a Gaza. Alcuni dottori mi hanno detto che qui non abbiamo le risorse necessarie. E fuori da Gaza è molto cara.”

I lacrimogeni che l’occupazione israeliana spara contro di noi uccidono i nostri sogni e le nostre speranze,” afferma. “Ogni giorno mi alzo e mi vedo allo specchio. Mi sento malissimo.”

Anche Mohammad Fseifes è rimasto disoccupato a causa delle ferite riportate durante una protesta a fine maggio.

Lavorava nelle costruzioni e nell’agricoltura nella zona di Khan Younis a Gaza. Da quando è rimasto ferito non è riuscito a trovare un lavoro.

Da circa cinque mesi ha frequenti dolori alla testa e stenta a dormire. Non si sente sufficientemente bene neppure per giocare a pallone.

Fseifes si trovava nei pressi della barriera di confine quando le truppe israeliane lo hanno colpito con un candelotto lacrimogeno. “Ricordo di essere caduto a terra,” dice. “Sei giorni dopo mi sono svegliato e ho visto mio padre. Ho forti dolori alla testa. Il medico mi ha detto che il mio cranio è stato fratturato.”

Sono molto triste quando mi guardo allo specchio,” aggiunge. “Il medico dice che posso essere operato al cranio, ma solo fuori da Gaza. Non so cosa ne sarà di me.”

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista con sede a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Fiori nel deserto” e insostenibilità ambientale

Francesca Merz

7 novembre 2019 Nena News

Tra le narrazioni più note vi è quella legata alla “fioritura del deserto”: la tecnologia messa al servizio di zone desertiche. Ma tutto questo ha avuto ed ha un costo eccezionale per l’ambiente, l’acqua e altre risorse naturali.

La narrazione dedicata alla capacità di far fiorire il deserto è certamente molto efficace, efficace a tal punto da essere stata la principale al centro del padiglione israeliano dell’Expo di Milano. Gli articoli che raccontavano dello stupendo padiglione israeliano così si esprimevano Un campo verde verticale, installazioni multimediali e le storie di un popolo industrioso, di tecnologie all’avanguardia e aziende innovative che hanno fatto fiorire il deserto. Queste sono le prerogative del Padiglione Israele a Expo 2015”. “Fields of tomorrow” i campi del domani, ecco il titolo immaginifico e grandioso che raccontava di un popolo e di un’industria che era stata capace di apportare benessere, verde, coltivazioni mai tentate, dove prima era deserto.

Nella prima stanza del padiglione attori e performer interagiscono con il pubblico mentre video sono proiettati alle pareti. La prima parte della mostra racconta la storia e le vite di tre generazioni di contadini che sono riusciti a far fiorire il deserto. Attraverso ricordi, immagini e filmati i visitatori scoprono l’ostinazione pro-attiva degli israeliani ma anche la loro attitudine di fronte alle avversità” L’articolo continua “Una sezione della mostra è dedicata alla Foresta KKL-JNF. Con all’attivo 240 milioni di alberi piantati negli ultimi 70 anni, Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund sta riforestando il paesaggio di Israele e offre nuove chance a ecosistemi a rischio creando una banca di semi, sviluppando nursery botaniche e piantando alberi”. “Israele è un Paese giovane, ma con una tradizione di tremila anni, che attraverso lavoro, ricerca e sviluppo ha saputo rendere fertili molti dei suoi terreni in prevalenza aridi”. Queste le argomentazioni scelte dal governo di Netanyahu per presentare alla vetrina milanese che aveva come slogan “Nutrire il pianeta” l’ennesima storia fatta di molte imprecisioni. E’utile quindi fare un passo indietro e provare a capire con maggiore precisione, come nascono “i fiori nel deserto”. Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando.

Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazione del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele ha deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzata. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, come si può immaginare, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione, la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, ha comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

Il problema idrico rimane tema cruciale della politica e della propaganda elettorale israeliana, tra i vari progetti saltati fuori negli anni, anche la creazione di un canale di comunicazione tra il Mar Rosso e il Mar Morto, progetto difficile e quasi irrealizzabile ma che ha visto molta popolarità anche nelle recenti campagne elettorali, insieme all’altro grande tema: la presa da parte di Israele di tutta la valle del Giordano per ragioni economiche  e strategiche, valle che conserva la maggior parte delle risorse idriche utilizzabili. Questi  progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque se si modifica il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibileil ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Basti pensare che Israele controlla una diga nella parte meridionale del Lago di Tiberiade attraverso la quale può regolare il flusso d’acqua in entrata. Attualmente l’acqua che arriva nel Mar Morto è pari a meno di 30 metri cubi al secondo mentre secondo i dati dei primi anni Sessanta la portata del Giordano era stimata attorno ai 1.300 metri cubi. Ecco il motivo per cui il livello del lago salato è sceso di 27 metri in circa 35 anni, ad un ritmo medio di poco meno di un metro all’anno. L’estensione complessiva del Mar Morto è di oltre 1000 kmq, lungo circa 75 chilometri e largo 15. Fino a circa trenta anni fa si componeva di due bacini comunicanti e uniti tra di loro, oggi, in seguito alla continua evaporazione e al minore contributo idrico dovuto alla variazione del corso del Giordano, per alimentare la straordinaria agricoltura iper-tecnologica che ha fatto fiorire il deserto, il bacino meridionale si è quasi completamente prosciugato, lasciando al posto dell’acqua una vasta distesa di sale. La salinità media delle acque raggiunge il 33.7%, valore elevatissimo se lo confrontiamo con il Mar Rosso che ha una salinità media del 3.8%. Il fiume Giordano si è ridotto a uno stretto ruscello marroncino che gorgoglia verso sud. Una volta 1,3 miliardi di metri cubi d’acqua scorrevano ogni anno attraverso il fiume Giordano. Era largo 25 metri, fiancheggiato da salici e pioppi e pieno di pesci che potevano essere mangiati. Oggi l’acqua del fiume Giordano non proviene più dal Mare di Galilea ma dalle acque reflue, dal deflusso agricolo contaminato e dall’acqua salata che è stata scaricata al suo interno. Uno dei piccoli affluenti del fiume, il torrente di Erode, oggi è contaminato a causa degli allevamenti intensivi e dalle enormi vasche di pesci riempite con mangimi, ormoni ed escrementi di pesci. Poco lontano, la grande diga di di Alumot è ridotta a un semplice tumulo di terra a soli due chilometri da dove il fiume ha avuto inizio. Sul lato settentrionale della diga macchinari pesanti pompano acqua fresca di fiume nel vettore nazionale israeliano, che fornisce agli israeliani da un quarto a un terzo della loro acqua dolce, mentre sul lato meridionale della diga un grande tubo emette acqua di fogna giallo-marrone che gorgoglia e schiuma nel letto del fiume.

Questo è lo scenario del nuovo deserto fiorito, mentre prima certamente il deserto era solo deserto, ma era inutile e inutilizzato solo per i nostri occhi occidentali, era invece un perfetto sistema climatico in equilibrio da millenni, capace di dare cibo in abbondanza e sostentamento ad un popolo, quello palestinese, che, a differenza di quanto ci piace credere, non è mai stato povero, come dimostrano molto bene i reportage dei viaggiatori ottocenteschi, che raccontano di un popolo di pastori, agricoltori, proprietari terrieri, beduini il cui legame con quella terra conosciuta palmo a palmo da secoli, consentiva un equilibrio e una ricchezza in termini di produzione, che ne faceva decantare i fasti dai pellegrini che passavano per quelle terre d’Oriente, le cui memorie di viaggio parlavano di une terra ricca di ogni prelibatezza e prodotto, e i prodotti di quella terra, al contrario di ciò che possiamo immaginare, non erano datteri, non erano avocados, non erano manghi, così richiesti dal recente mercato “bio” internazionale, che si ritiene etico e solidale per il solo essere vegano, ma che davvero poche domande si fa sulle metodologie di produzione di ogni singolo frutto che arriva sulle nostre tavole. Il deserto dunque è fiorito, fiorito grazie a coltivazioni non endemiche che succhiano quantità di acqua che prima serviva per sostentare migliaia di ettari, e ora non basta nemmeno per una singola coltivazione intensiva, fiorito grazie al lavoro minorile e sottopagato, fiorito devastando l’eco-sistema globale,  fiorisce ora per lasciare poi morte e desertificazione nel giro di pochi decenni, eliminando la naturale ciclicità delle coltivazioni, essenziale per preservare il terreno e renderlo coltivabile nel tempo, come già chiaramente visibile dal prosciugamento massiccio del Lago di Tiberiade e del Mar Morto.

La grande quantità di risorse necessarie non è utilizzata solo per le coltivazioni intensive, ma anche in gran parte per la vita delle colonie e degli insediamenti illegali, all’ingresso di ognuna delle colonie che potrete visitare vi si presenterà di fronte una ricca serie di aiuole e fontane. Le colonie del  Neghev sono veri e propri villaggi turistici perfetti, con villette a schiera in stile Florida, grandi centri commerciali, fiori dai mille colori, una immagine distopica, un outlet del benessere nel mezzo del deserto, in cui ogni forma di disordine è stata abolita, dove il “decoro”, parola così abusata di questi tempi, regna sovrano, in cui filari di pini (ebbene sì, i pini, nel deserto) allineati come le coscienze collettive di uno stato di polizia, segnano il punto più elevato di quel concetto di pulizia e decoro tanto caro ai nostri giorni. Decoro e benessere, in contrapposizione con la gioiosa e apparentemente disorganizzata vita che lì, in quelle terre, aveva consentito un equilibrio straordinario tra uomo, ambiente e animali. Il deserto è fiorito, i beduini che vi abitavano sono relegati in campi profughi, gli stessi beduini che da secoli con equilibrio e rispetto per il clima e per la ciclicità delle stagioni preservavano quell’ambiente desertico conoscendo tutte le sue falde acquifere che si rinnovavano nel tempo. Il nostro occhio poco allenato a pensare che un deserto possa essere un luogo di vita, si accontenta di provare ammirazione per chi riesce a far fiorire i tulipani nel deserto, così vedere i fiori e accanto il deserto e le tende dei beduini nella nostra narrazione distorta ci fa pensare ad un miglioramento, è invece un’aggressione scriteriata al territorio, non solo ai danni dei palestinesi, ma di un intero ecosistema, e di un valore paesaggistico destinato a perdersi per sempre, un’aggressione che Israele stesso sta pagando, poiché l’abbassamento del livello del Mar Morto e del lago di Tiberiade sono i primi e più evidenti segnali del grande collasso creato da questa situazione, uno sfruttamento esagerato e non controllato delle risorse del territorio; per questo eccesso di richiesta di risorse non basta nemmeno più utilizzare l’acqua dei pozzi in territorio palestinese, come Israele fa da tempo, avendo posto sotto il suo controllo l’intera rete idrica.

Come ci ricorda Neve Gordon L’80% delle falde acquifere montane, i più vasti bacini d’acqua di queste regioni, è ubicato nel sottosuolo della Cisgiordania, il restante 20% in quello israeliano. Rendendosi conto dell’importanza di questa risorsa vitale, che al momento fornisce il 40% del fabbisogno dell’agricoltura di Israele, e quasi il 50% della sua acqua potabile, dopo la guerra Israele cominciò a modificare lo statuto giuridico e istituzionale dei diritti sull’acqua delle regioni occupate. L’effetto principale di tale trasferimento di poteri fu una pesante limitazione alla trivellazione di nuovi pozzi atti a soddisfare i bisogni degli abitanti palestinesi, in parallelo all’appropriazione di acqua per soddisfare i fabbisogni della popolazione israeliana.

In contrapposizione a questo modello, può essere utile riportare uno dei tantissimi esempi virtuosi di coltivazione e cura del territorio, portato avanti in Palestina, uno degli esempi più significativi è ciò che sta avvenendo nel villaggio di Battir, un luogo che di per sé merita il viaggio, merita per poter respirare modelli economici e sociali differenti.  Battir è una comunità autonoma, un villaggio di circa 4000 persone, situato poco a sud di Gerusalemme, poco lontano da Betlemme,  un paesino dove le colline sono ricoperte di ulivi ed un antico sistema di irrigazione permette al verde di crescere rigoglioso. A Battir ci sono vigneti, alberi di fico, sette sorgenti naturali e terrazze coltivate. Il paese è incastonato in un sistema di valli dove l’agricoltura fiorisce sin dal tempo dei romani e le cisterne dell’epoca sono ancora in funzione, restaurate e tenute funzionanti da una comunità locale attenta e consapevole. Alcune funzionano anche da vasche di pietra dove la gente del posto fa il bagno per rinfrescarsi quando il caldo è troppo torrido. Recentemente Battir è diventato patrimonio Unesco. La comunità autonoma ha fatto una scelta importante, quella di non farsi finanziare da aiuti internazionali, il loro modello di sviluppo si è basato su una condivisione iniziale, la scelta di sedersi intorno ad un tavolo per capire come gestire la terra, anche per loro è stato del tutto nuovo, Vivien Sansor, fotografa e attivista palestinese, è tra le anime del progetto, e ci racconta di come esso sia nato, e di come le persone non fossero abituate a poter scegliere per la loro terra.

A Battir hanno costruito una comunità autonoma, ad essere coinvolte nella gestione dei terrazzamenti le famiglie della comunità, che si occupano di coltivare e manutenere gli antichi terrazzamenti ancora intatti, nessuna occupazione è passata su queste terre, nessuna ruspa, nessuna nuova casetta californiana ha preso il posto delle meraviglie che si possono osservare in questa oasi di bellezza autentica. Ogni famiglia ha il suo lotto di terra, e raziona l’acqua, come era d’uso in quelle comunità fin dall’antichità. L’ Unesco l’ha iscritta nel suo patrimonio, in relazione alle sue terrazze, e ai canali di irrigazione, ed è così che Battir continua a combattere costantemente l’occupazione, tramite la salvaguardia  del suo patrimonio, materiale e immateriale, fatto di reperti, ma anche di tradizioni, e di un paesaggio con colture specifiche, adatte a non far impoverire il terreno, ma anzi capaci di dare nuova linfa ai terreni. E’ stato creato un ecomuseo, un vero e proprio progetto dinamico di supporto alla città. Da qui è ben visibile il clamoroso divario che esiste tra due concetti di mondo, economia, evoluzione completamente differenti. L’occupazione ha inciso e continua ad incidere sul paesaggio, volendolo fare anche quando non è necessario per scopi agricoli o di riconversione di terreni per le monocolture industriali. Dalla collina di Battir questo è subito chiaro: proprio da qui si può scorgere tutta la valle di fronte, sotto il controllo israeliano, e lì, in contrapposizione alla gioia rigogliosa di frutta e verdura delle terrazze di Battir, si può vedere una valle ricoperta di abeti portati dal Nord America, esili, gracili, su un terreno arido, rappresentano ancora una volta la necessità di sostituire una memoria.

L’architettura del paesaggio, così come quella urbana, è uno dei tanti metodi per mistificare la storia, modificando addirittura la flora e la fauna dei luoghi, una globalizzazione anche della natura che è regimentata, modificata, piegata, in una distorsione globale che aiuta la cancellazione di ogni memoria. Battir guarda gli abeti dalle sue cascate d’acqua, e si prepara a crescere: per il prossimo anno (2020) la comunità sta cercando di coinvolgere un numero sempre più alto di contadini per la gestione e la coltivazione dei terrazzamenti, ed anche in questo caso è chiaramente visibile che, oltre che due popoli in conflitto ci sono due modelli di sviluppo contrapposti. Nena News