Gli USA si oppongono alla rivelazione dell’incontro Libia-Israele perché ‘affossa’ lo sforzo di normalizzazione

Redazione MEE

28 agosto 2023 – Middle East Eye

La ministra degli Esteri libica Najla al-Mangoush che si era incontrata con l’omologo israeliano è fuggita in Turchia per motivi di sicurezza dopo essere stata rimossa.

Axios [sito di notizie statunitense, ndt.], citando funzionari israeliani e USA, ha riportato che durante il fine settimana gli Stati Uniti hanno protestato presso il governo israeliano per la decisione del ministro degli Esteri Eli Cohen di rivelare pubblicamente l’incontro segreto con la sua omologa libica.

La scorsa settimana la ministra degli Esteri libica Najla al-Mangoush si è incontrata in Italia con l’israeliano Cohen nonostante i due Paesi non abbiano relazioni ufficiali. Cohen si è vantato in una dichiarazione “del grande potenziale della cooperazione tra i due Paesi”.

Le dimensioni e la posizione strategica della Libia le conferiscono una grande importanza per i suoi contatti e costituiscono un enorme potenziale per Israele,” ha aggiunto Cohen.

Un funzionario USA ha riferito ad Axios che l’amministrazione Biden è rimasta sorpresa quando Cohen ha svelato l’incontro dicendo che l’idea di Washington era che dovesse restare segreto.

Axios ha riferito che sabato alcuni funzionari USA hanno parlato con Cohen e altri israeliani protestando per la gestione del caso da parte del ministero degli Esteri.

Un collaboratore di Cohen ha detto che si pensava che prima o poi l’incontro sarebbe stato reso pubblico e ha deciso di fare una dichiarazione dopo che la stampa israeliana aveva chiesto del meeting al suo ufficio.

‘Affossa’ la normalizzazione Libia-Israele

La rivelazione israeliana ha causato diffuse proteste in Libia e il governo di Tripoli è stato lasciato solo ad occuparsi di domare la rivolta. Il ministro degli Esteri libico ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che lo scambio non ha incluso “discussioni, accordi o consultazioni”, e ha definito il meeting “un incontro casuale e non preparato”.

Il premier libico ha sospeso e poi rimosso Mangoush che a quel che si dice è fuggita in Turchia temendo per la propria sicurezza.

La Libia si è da sempre opposta alla normalizzazione dei rapporti con Israele e sostiene la causa palestinese. Le proteste aggiungono un ulteriore livello di instabilità al Paese petrolifero, diviso tra due governi rivali.

Il primo ministro Abdulhamid al-Dbeibah guida il governo con sede a Tripoli, a occidente, ed è giunto al potere nel febbraio del 2021 al termine di un processo appoggiato dall’ONU per unificare la Libia e prepararla alle elezioni. Dbeibah sta incontrando una pressione crescente affinché si dimetta, mentre l’élite politica libica ostacola il processo elettorale.

La Libia orientale è comandata da un governo sostenuto dal generale Khalifa Haftar che guida l’Esercito Nazionale Libico (LNA). Da parte sua Haftar si è messo in contatto con Israele. Nel novembre 2021 Saddam Haftar, suo figlio e comandante militare con un ruolo chiave nel LNA, ha visitato Israele.

La reazione nelle piazze libiche all’incontro di Cohen con Mangoush ha anche causato un inconsueto rimprovero a Israele, che si era abituato a rivelare pubblicamente i propri legami con gli Stati arabi.

Dal 2020 Israele ha normalizzato i suoi rapporti con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan tramite una serie di accordi mediati dagli Stati Uniti. Anche l’Arabia Saudita sembra stia prendendo in considerazione la normalizzazione dei suoi legami e ha pubblicamente preso parte a esercitazioni militari con Israele.

Egitto e Giordania hanno stabilito relazioni diplomatiche con Israele decenni fa. Sebbene i legami pubblici siano ridotti al minimo, sono spesso annunciati incontri tra leader e funzionari. 

Tre funzionari USA e israeliani hanno riferito ad Axios che l’amministrazione Biden stava lavorando da due anni alla normalizzazione delle relazioni della Libia con Israele.

Secondo i rapporti la prospettiva di normalizzazione era stata discussa in un incontro fra Dbeibah e il direttore della CIA William Burns, che aveva visitato il Paese a gennaio. Un funzionario ha riferito ad Axios che ora, dopo la reazione negativa all’incontro in Libia, questi sforzi e quelli per normalizzare i rapporti di altri Paesi arabi con Israele sono stati danneggiati.

Ha poi concluso: “L’amministrazione Biden è preoccupata che la rivelazione dell’incontro e gli scontri ad esso seguiti non solo danneggeranno gli sforzi di normalizzare le relazioni fra Israele e Libia, ma anche quelli in corso con altri Paesi arabi”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La lettera sull’”apartheid” di alcuni accademici ha lo scopo di infrangere il “muro di silenzio” delle istituzioni ebraiche

Philip Weiss

28 agosto 2023 – Mondoweiss

L’elenco dei firmatari di una lettera di accademici israeliani che attacca il sostegno ebraico all'”apartheid” rivela “la grande paura” all’interno della comunità ebraica: molti hanno paura di firmare la lettera per non compromettere la loro carriera.

Il 5 agosto un gruppo di accademici ebrei israeliani ha pubblicato una lettera intitolata Lelefante nella stanza, fortemente critica nei confronti dei leader ebrei americani. Li accusa di fare uneccezione rispetto all’ impegno ebraico per la giustiziasostenendo l’”apartheid” in Israele. Afferma che i palestinesi devono avere uguali diritti, in uno o due Stati, e che solo la democrazia può salvare Israele dalla dittatura.

Da allora la coraggiosa lettera ha guadagnato lattenzione dei media globali e oltre 2000 firme, in gran parte di accademici, compresi dei sionisti tradizionali come David Myers, Paul Scham, Dan Fleshler, Rabbi Arthur Waskow e Shaul Magid. Alcuni nomi sono una vera sorpresa: Benny Morris e lo studioso dellOlocausto Saul Friedlander. La lettera ha anche ottenuto il sostegno della sinistra.

Shira Klein, una delle autrici, mi fa sapere che la lettera è stata pensata come un colpo di martello: per rompere il muro di silenzioesistente nella comunità ebraica americana in materia di diritti dei palestinesi. E nonostante abbia ottenuto un grande successo, dice, lelenco dei 2147 firmatari rivela la grande paura” allinterno della comunità ebraica: molti ebrei nelle istituzioni ebraiche le hanno detto che hanno paura di firmare per timore che ciò comprometta la loro carriera.

La Klein dice di aver avuto lidea della lettera dopo una sconcertante discussione con un rabbino da cui emergeva l’omertà presente nella comunità ebraica statunitense a proposito della Palestina.

A giugno lei e altri tre accademici israeliani presso università americane si sono messi a lavorare sulla lettera: Omer Bartov, Meir Amor e Lior Sterneld. A loro si è unito presto l’accademico David Myers, ex capo del New Israel Fund [ONG a favore dei diritti sociali e uguaglianza in Israele con sede negli Stati Uniti, ndt.] e del Center for Jewish History.

Tutti noi siamo profondamente integrati nella comunità ebraica. Siamo tutti israeliani tranne David. Siamo cresciuti in Israele, abbiamo fatto il servizio militare e tutto il resto, dice Klein. Quindi sarebbe difficile liquidare qualcuno dei promotori come ebrei che odiano sè stessi”.

Klein è una docente di storia alla Chapman University, specializzata sul ruolo degli ebrei italiani in tale comunità. Ha anche pubblicato lavori sulle distorsioni del tema dell’Olocausto su Wikipedia.

La lettera è nata in seguito alla sensazione degli studiosi che esista una incredibile dissonanzatra lo splendido spirito progressistaquale caratteristica fondamentale della comunità ebraica americana su innumerevoli questioni di giustizia sociale, dalla razza ai diritti dei gay e il silenzio assoluto su tutto ciò che riguarda Israele”, dice Klein.

Aveva tre figli nelle scuole ebraiche e nel loro programma di studi la parola palestinesenon era nemmeno menzionata. Gli insegnanti le hanno detto che dovevano tenere la bocca chiusa. Cera una coltre di grande paura di esprimersi su Israele”, afferma.

La risposta alla lettera è stata straordinaria, afferma Klein, con centinaia di accademici che hanno concordato sul termine apartheid e sulla possibilità di uno Stato democratico. Ma è emerso chiaramente anche il [blocco legato ad un] divieto.

Molti potenziali firmatari hanno detto a Klein: Sono daccordo con ogni parola. Ma hanno espresso timore per la sicurezza del lavoro o per ritorsioni da parte dei consigli di amministrazione, o riguardo la possibilità che dei committenti ritirassero i finanziamenti, che le organizzazioni di cui sono responsabili reagissero negativamente.

L’elenco dei firmatari ebrei riflette questo clima. “La stragrande maggioranza dei rabbini sono professori emeriti o cappellani”, dice Klein. I cappellani in genere lavorano per istituzioni come gli ospedali e non devono rispondere ai consigli di amministrazione.

Molti rabbini sono Ricostruzionisti. “Ci sono pochissimi rabbini conservatori o riformati”, sostiene Klein, e non è sicura se ci siano rabbini ortodossi.

Allo stesso modo gli accademici ebrei tendono ad essere professori di ruolo o docenti emeriti.

Puoi sentire il suono del silenzio, afferma Klein. Dice che vorrebbe avere un dollaro per ogni docente che le ha detto che gli piacerebbe firmare ma che non può correre il rischio.

Noto che c’è una scarsità di firmatari provenienti da organizzazioni sioniste liberali come J Street, Americans for Peace Now e New Israel Fund. [La parola] apartheid e il discorso sullo Stato unico li hanno sicuramente bloccati.

I promotori hanno deliberatamente inserito la parola apartheid. In effetti, appare due volte nella lettera e ha spaventato alcuni potenziali firmatari. Sebbene Klein abbia affermato che i redattori hanno rinunciato alla tentazione di inserire la frase, “stiamo assistendo ad un potenziale genocidio”.

Il comitato direttivo per la lettera è cresciuto fino a comprendere Tamir Sorek, Omri Boehm, Hasia Diner, Nitzan Lebovic e Peter Bainart, dice Klein. “Vi hanno partecipato una dozzina di persone in tutto.”

Hanno cercato quante più firme potevano ottenere all’interno della comunità ebraica senza alienarsi le simpatie delle persone. Ma non volevamo delle dichiarazioni superficiali e ambigue, afferma Klein. “È stato difficile trovare quell’equilibrio.”

Ecco il passaggio più incisivo della lettera:

Senza uguali diritti per tutti, sia in uno Stato, due Stati, o in qualsiasi altro quadro politico, c’è sempre il pericolo di una dittatura. Non potrà esserci democrazia per gli ebrei in Israele finché i palestinesi vivranno sotto un regime di apartheid, come lo hanno descritto esperti di diritto israeliani.

Un segno importante del gradimento della lettera è dato dall’adesione di molti esponenti del movimento di sinistra, pragmatico e solidale con i palestinesi, che hanno trovato il linguaggio gradevole. Tra di loro, Diner, Marjorie Feld, Avi Shlaim, Mazin Qumsiyeh, Mark Braverman, Jacqueline Rose, Judith Butler, Nurit Peled Elhanan, Eva Illouz, Rabbi Ellen Lippmann, James Paul del Global Policy Forum, Ian Lustick, Lowell Johnston, Joseph Levine, Rabbi Brian Walt, Brian Klug, Mark LeVine, Estee Chandler e Juan Cole.

La lettera viene alla luce nel momento in cui il Partito Democratico ha varato la legge sullapartheid: in Israele e Palestina non esisterebbe apartheid, e decine di interventi al Congresso confermano questa convinzione.

Naturalmente il destinatario principale della lettera è la comunità ebraica. “La domanda da un milione di dollari è quale impatto avrà la lettera”, afferma Klein. , abbiamo lattenzione dei media. Ma si tradurrà in sermoni durante le festività principali? Si tradurrà nellinserimento dei palestinesi nei programmi di studio delle scuole ebraiche? Se così non fosse, non cambierebbe nulla”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Bombardare i palestinesi è una “funzione pubblica”, sentenzia la Suprema Corte olandese

Ali Abunimah

25 agosto 2023 – The Electronic Intifada

 

Venerdì la Corte Suprema olandese ha confermato che due alti comandanti dell’esercito israeliano godranno dell’immunità giudiziaria riguardo ad una causa civile relativa al loro ruolo nell’uccisione da parte di Israele nel 2014 di una famiglia palestinese nella Striscia di Gaza.

La decisione conferma una sentenza del 2021 del tribunale di grado inferiore, secondo cui in base al diritto consuetudinario internazionale i funzionari di uno Stato straniero godono dell’immunità per cause civili presso i tribunali olandesi per qualunque atto compiuto nello svolgimento di una “funzione pubblica”.

Questa cosiddetta immunità funzionale rispetto alla responsabilità civile si applica anche nei casi in cui i funzionari potrebbero essere processati penalmente per crimini di guerra per le stesse presunte azioni.

Siamo delusi e arrabbiati per la sentenza odierna”, ha detto a The Electronic Intifada Ismail Ziada, il ricorrente nella causa. “La corte ancora una volta ha agito in modo codardo e vergognoso ed ha scelto di porre la politica al di sopra delle persone, bloccando l’accesso alla giustizia. La sentenza odierna non fa che aggravare l’ingiustizia che abbiamo subito.”

Ziada, un cittadino palestinese-olandese, ha denunciato Benny Gantz, capo dell’esercito israeliano all’epoca, e Amir Eshel, allora capo dell’aviazione, per la decisione di bombardare la casa della sua famiglia durante l’aggressione di Israele a Gaza nel 2014.

Da allora Gantz è stato Ministro della Difesa di Israele e vice Primo Ministro ed ora è un importate politico dell’opposizione.

Ziada chiede centinaia di migliaia di dollari di danni ai comandanti israeliani.

L’attacco israeliano ha completamente distrutto l’edificio di tre piani nel campo profughi di al-Bureij.

Ha ucciso l’anziana madre settantenne Muftia, i suoi fratelli Jamil, Yousif e Omar, la cognata Bayan ed il nipote dodicenne Shaban, oltre ad una settima persona che era in visita alla famiglia.

Nel 2019 Gantz ha condotto una campagna elettorale celebrando l’attacco del 2014 a Gaza, che uccise più di 2.200 palestinesi, compresi 551 minori.

Si vantava presso i suoi elettori di aver riportato Gaza all’ “età della pietra”.

Funzione pubblica”

L’avvocata per i diritti umani Liesbeth Zegveld, che rappresenta Ziada, ha sostenuto che l’immunità funzionale non è assoluta.

Per esempio, nel 2010 la Corte Europea dei Diritti Umani ha stabilito che “nei casi in cui l’applicazione dell’immunità di Stato rispetto alla giurisdizione limita l’esercizio del diritto di accesso ad un tribunale, la Corte deve accertare se le circostanze del caso giustificano tale limitazione.”

Ziada ha argomentato che la concessione della totale immunità civile ad uno Stato straniero e ai suoi funzionari costituirebbe una limitazione sproporzionata dei suoi diritti ai sensi della Convenzione Europea sui Diritti Umani, poiché in quanto palestinese della Striscia di Gaza non ha altro foro competente se non i tribunali olandesi dove possa fare ricorso.

Tuttavia la decisione della Corte Suprema olandese respinge tale argomentazione, il che significa che Gantz e Eshel non devono rispondere dell’uccisione dei familiari di Ziada.

E’ indiscutibile che gli accusati furono coinvolti nel bombardamento nell’esercizio della loro funzione pubblica”, stabilisce la Corte Suprema olandese. Gantz e Eshel hanno perciò “diritto all’immunità dalla giurisdizione, a prescindere dalla natura e dalla gravità della condotta denunciata nei loro confronti.”

Ma i giudici olandesi avrebbero potuto scegliere un’altra strada, aprendo un nuovo orizzonte per la protezione dei diritti umani.

Avrebbero potuto riconoscere che i tribunali olandesi devono essere accessibili a Ziada in quanto foro competente di ultima istanza e avrebbero potuto fare riferimento alla posizione del governo olandese espressa in una dichiarazione del 2016, non collegata a questo caso, secondo cui “La perpetrazione di crimini internazionali, per definizione, non può costituire una funzione ufficiale.”

L’occupazione, l’assedio e il bombardamento della Striscia di Gaza da parte di Israele costituiscono numerose, ben documentate, flagranti e gravi violazioni del diritto internazionale, che sono attuate perseguendo un intrinseco scopo illegittimo: il mantenimento di un sistema di apartheid e supremazia razziale sul popolo palestinese.

Determinati”

Ziada ha sottolineato che a maggio il Primo Ministro olandese Mark Rutte ha impegnato l’Olanda a perseguire le responsabilità per crimini di guerra in tutto il mondo, ma soprattutto in Ucraina.

Oggi si dice ai palestinesi che questo impegno non è né assoluto né universale”, ha affermato Ziada. “L’Olanda applicherà una giustizia selettiva ed offrirà l’immunità quando i palestinesi chiederanno giustizia nei confronti dei criminali di guerra israeliani.”

Certo, invece di perseguire la responsabilità penale nei confronti di coloro che hanno perpetrato presunti crimini di guerra contro i palestinesi, il governo olandese attua una politica di condivisione e gratificazione verso di loro, firmando accordi di cooperazione militare con Israele.

Ziada ha detto che la sua causa civile, iniziata cinque anni fa, “è stata una lunga ed impegnativa battaglia legale per la famiglia.”

Tuttavia siamo determinati a vedere condotti davanti alla giustizia questi criminali di guerra”, ha aggiunto.

Ziada sta riesaminando la sentenza di venerdì con i suoi avvocati e sta valutando se portare il caso alla Corte Europea dei Diritti Umani.

Speriamo che un giorno potremo ottenere giustizia per il massacro della nostra famiglia e di migliaia di altre famiglie palestinesi che hanno sofferto per mano dei criminali di guerra israeliani”, ha detto Ziada.

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine, appena distribuito da Haymarket Books.

Ha scritto anche One country: a bold proposal to end the israeli-palestinian impasse.

Le opinioni sono esclusivamente sue.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Politica dell’inganno: messa a nudo la slealtà della Gran Bretagna verso la Palestina

Peter Oborne

25 agosto 2023 – MiddleEastEye

Con lucida analisi e una meticolosa ricerca, il nuovo libro dello storico Peter Shambrook dimostra come la Gran Bretagna abbia mentito fin dall’inizio sulle sue intenzioni riguardo alla Palestina

Ad aprile le forze di sicurezza israeliane hanno brutalmente aggredito i fedeli palestinesi all’interno della moschea di Al-Aqsa, nella Gerusalemme est occupata.

All’indomani dell’attacco James Cleverly, ministro degli Esteri britannico, ha invitato “tutte le parti a rispettare gli accordi storici sullo status quo dei luoghi santi di Gerusalemme e a cessare ogni azione provocatoria”.

Cleverly dovrebbe sapere che ad Al-Aqsa c’è stato un solo aggressore: Israele. Avrebbe anche dovuto sapere che l’accordo sullo status quo attribuisce la responsabilità della sicurezza interna ad Al-Aqsa al re di Giordania Abdullah II.

E che l’accordo sullo status quo non attribuisce alcun ruolo alle forze israeliane all’interno del complesso di Al-Aqsa. Eppure Cleverly ha proceduto a fare allegramente la sua menzognera dichiarazione.

Lo splendido nuovo libro dello storico del Medio Oriente Peter Shambrook colloca la disinvolta malafede di Cleverly nel suo tragico contesto storico.

In Policy of Deceit. Britain and Palestine 1914-1939 [Politica dell’inganno. La Gran Bretagna e la Palestina 1914-1939] Shambrook dimostra che il resoconto cinicamente fuorviante di Cleverly sugli eventi all’interno di Al-Aqsa – così come innumerevoli altre dichiarazioni false e sbilanciate da parte di funzionari britannici – fa parte di uno schema di disonestà britannica sulla Palestina che risale a più di un secolo fa.

In una trattazione di ammirevole lucidità di pensiero e meticolosa erudizione Shambrook dimostra come la Gran Bretagna abbia mentito fin dall’inizio sulle sue intenzioni riguardo alla Palestina.

La Gran Bretagna e gli Ottomani

Al centro della sua persuasiva indagine c’è l’accordo concluso tra l’impero britannico e lo sharif della Mecca dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

La Gran Bretagna era allora la più grande potenza del mondo, ma cominciò a temere di perdere i “possedimenti” all’estero quando gli Ottomani si schierarono con la Germania.

La situazione si fece critica quando, contro ogni previsione, l’impero ottomano respinse l’invasione britannica della Turchia nel 1915.

A seguito di questo disastro gli inglesi conclusero di non avere altra scelta se non quella di stringere un accordo con Hussein Ibn Ali, sharif della Mecca, membro della famiglia hashemita il cui lignaggio risale per 41 generazioni fino al profeta Maometto – la principale autorità religiosa per i santuari dell’Islam.

L’accordo era semplice: lo sharif avrebbe guidato una rivolta araba contro gli ottomani. In cambio, la Gran Bretagna promise di concedere un vasto Stato arabo dopo la sconfitta degli ottomani.

Cosa sia accaduto è un case study sulla perfidia britannica. Nel 1920 il Ministero degli Esteri inventò un “Vilayet [provincia in turco, ndt.] di Damasco” ottomano il cui confine si estendeva per quasi 500 km. a sud fino al Golfo di Aqaba. Nessuna provincia del genere era mai esistita.

I distretti amministrativi ottomani erano geograficamente molto precisi. La provincia compresa nel fittizio Vilayet inventato dalla Gran Bretagna era in realtà chiamato – come qualsiasi rapida occhiata a una mappa ottomana avrebbe potuto stabilire – il Vilayet della Siria.

Sir Henry McMahon, alto commissario in Egitto, fu incaricato di iniziare un contatto epistolare con lo sharif.

Nel suo illuminante testo Shambrook racconta la storia della corrispondenza tra lo sharif e McMahon. Ciò significa entrare in un campo minato, perché lo Stato britannico non ha mai ammesso che la Palestina fosse inclusa nell’area promessa allo sharif.

La posizione britannica è stata sostenuta da studiosi seri. Il prof. Isaiah Friedman, in Palestine: A Twice-Promised Land? [Palestina: una terra promessa due volte?] (pubblicato 23 anni fa), supportò la posizione del governo britannico. Lo stesso vale per In the Anglo-Arab Labyrinth [Nel labirinto anglo-arabo] (1976) di Elie Kedourie.

Grazie a ricerche su documenti privati e registri pubblici, Shambrook confuta sia le conclusioni di Kedourie che quelle di Friedman, smantellando nel contempo la versione ufficiale degli eventi e dimostrando che il governo britannico aveva effettivamente promesso la Palestina allo sharif.

Per di più dimostra che gli inglesi hanno mentito in merito fin dall’inizio. Nella lunga lista di decisori britannici che hanno fatto affermazioni fuorvianti figurano David Lloyd George, Arthur Balfour, George Curzon, Winston Churchill e numerosi funzionari del Ministero degli Esteri.

Cinicamente sfruttata

Al centro dell’inganno britannico c’era, nelle lettere inviate da McMahon allo sharif, l’interpretazione intenzionalmente errata della parola “distretti”, resa dalla parola araba wilayat.

Una parola molto simile – vilayet – era usata dagli amministratori turchi. Aveva un significato leggermente diverso. Questa differenza venne cinicamente sfruttata dal Ministero degli Esteri per escludere tutta la Palestina dall’area assegnata allo sharif.

Questo punto essenziale era ben noto non solo agli Ottomani, ma a tutte le grandi potenze, ed era chiaro come il sole sulla mappa dettagliata utilizzata dai generali britannici presso il Ministero della Guerra a Londra durante la loro pianificazione strategica per sconfiggere gli Ottomani.

Shambrook stabilisce inoltre che McMahon non stava commettendo un errore innocente usando il termine wilayat nella sua corrispondenza. L’alto commissario per l’Egitto sapeva perfettamente cosa significava quella parola in arabo e cosa significava vilayet in turco. Possiamo esserne certi perché in altre parti della corrispondenza egli usò accanto a wilayat anche il termine vilayet nel senso corretto.

Se McMahon avesse specificato nella sua lettera che riservava [alla Gran Bretagna] l’intera regione a ovest del Vilayet della Siria, allora tutta la Palestina sarebbe stata esclusa dall’accordo concluso con lo sharif.

Ma non lo fece.

Promessa infranta

Significativamente McMahon espose queste circostanze in una lettera esplicativa spedita due giorni dopo al Ministero degli Esteri. In cui diceva ai suoi padroni a Londra di avere escluso dalla sua offerta allo sharif le coste settentrionali della Siria (l’attuale Libano), che in nessun caso possono includere la regione della Palestina.

Shambrook prosegue dimostrando che questa era la prospettiva accettata dai decisori militari e diplomatici britannici fino al 1920. Fu solo allora che il Ministero degli Esteri inventò il Vilayet di Damasco. Anche in questa fase il Ministero degli Esteri dichiarò che non vi erano ambiguità nella corrispondenza di McMahon per quanto riguardava la Palestina. Ma aveva bisogno di adattarsi alla nuova realtà politica, con il governo di Lloyd George determinato a realizzare una nuova macchinazione politica a favore dei sionisti in Palestina.

Nei successivi 20 anni il governo britannico – in 24 diverse occasioni! – rifiutò di rendere pubblica la corrispondenza tra lo sharif e McMahon a fronte delle richieste non solo arabe.

Il motivo, come risulta dagli atti, è semplice. I funzionari sapevano che sarebbe stato impossibile difendere in parlamento la promessa non mantenuta sulla Palestina allo sharif.

Questo rifiuto, come mostra Shambrook, inasprì le relazioni anglo-arabe per tutto il periodo tra le due guerre. Shambrook dimostra anche come l’unica ragione per cui gli inglesi alla fine nel 1939 pubblicarono la corrispondenza fu quella di tenersi buono il mondo arabo mentre si profilava un’altra guerra mondiale.

Non c’è da stupirsi che il grande storico Arnold Toynbee, funzionario del Ministero degli Esteri durante la Prima Guerra Mondiale, abbia scritto in seguito che “la Palestina non era esclusa dall’area in cui il governo britannico aveva promesso nel 1915 di riconoscere e sostenere l’indipendenza araba, e che la Dichiarazione Balfour del 1917 era quindi incompatibile con un impegno precedente”.

Toynbee aggiunse che questo inganno “è forse il peggior crimine di cui un diplomatico professionista possa macchiarsi, poiché compromette la reputazione di onestà del Paese”.

Ferite infette

Il libro di Shambrook rappresenta un’importante acquisizione storica. Risolve il mistero dell’accordo tra lo sharif e McMahon. Ribalta la secolare narrazione britannica secondo cui la Palestina era esclusa dall’accordo con lo sharif. Scarta anche l’idea promossa da studiosi come Albert Hourani o Martin Gilbert secondo cui la verità dell’accordo fosse misteriosa o inafferrabile.

Oltre a ciò dimostra che la corrispondenza tra lo sharif e McMahon avrebbe potuto avere un peso legale maggiore della famosa promessa fatta due anni dopo alla comunità ebraica internazionale sotto forma della Dichiarazione Balfour, che era una dichiarazione di intenti e non (perlomeno ufficialmente) un accordo tra due parti.

Oggi dovremmo ricordare che lo sharif mantenne la sua parte nell’accordo, guidando una rivolta contro il dominio ottomano nell’Hijaz [parte nord-occidentale della Penisola arabica, ndt.].

Gli inglesi no.

Da allora il popolo palestinese è stato costretto a subirne le conseguenze.

Shambrook conclude il suo libro con un appello alla Gran Bretagna affinché riconosca di non aver mantenuto la sua promessa.

Ovunque per curare le ferite della storia sono necessari il riconoscimento degli errori e la volontà di tutte le parti coinvolte di assumersi la responsabilità delle politiche perseguite,” scrive.

In Medio Oriente, dove da tanto tempo tali ferite si sono aggravate, il riconoscimento da parte del governo britannico, anche se in ritardo, della verità riguardo alla promessa fatta in precedenza allo sharif della Mecca nel 1915 sarebbe sicuramente benvenuto”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Peter Oborne ha vinto il premio per il miglior blog di commenti sia nel 2022 che nel 2017 ed è anche stato nominato Libero Professionista dell’Anno nel 2016 ai Drum Online Media Awards per gli articoli che ha scritto per Middle East Eye. È stato anche nominato Editorialista dell’Anno dei British Press Awards nel 2013. Si è dimesso da capo editorialista politico del Daily Telegraph nel 2015. Il suo ultimo libro è The Fate of Abraham: Why the West is Wrong about Islam [Il destino di Abramo: perché l’Occidente si sbaglia sull’Islam], pubblicato a maggio da Simon & Schuster. Fra i suoi libri precedenti The Triumph of the Political Class [Il trionfo della classe politica], The Rise of Political Lying [L’ascesa della menzogna politica], Why the West is Wrong about Nuclear Iran [Perché l’Occidente ha torto sul nucleare iraniano] e The Assault on Truth: Boris Johnson, Donald Trump and the Emergence of a New Moral Barbarism [L’assalto alla verità: Boris Johnson, Donald Trump e l’emergere di una nuova barbarie morale].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I sionisti liberal hanno smesso di credere che Israele si redimerà da solo

Philip Weiss

22 agosto 2023 – Mondoweiss

Per anni la posizione dei sionisti liberal [progressisti e moderatamente di sinistra, ndt.] è stata: “Stiamo con il meglio della natura di Israele, che si redimerà da solo.” Quello che hanno ottenuto in cambio di questa convinzione sono fascismo, razzismo violento e occupazione.

Adesso ciò sta cambiando. Grazie all’arroganza e al fascismo del governo di Netanyahu, i sionisti liberal americani si stanno rivoltando contro Israele. Stanno denunciando l’“apartheid” israeliana e chiedono boicottaggio e sanzioni contro Israele per le sue violazioni dei diritti umani.

Ovviamente i palestinesi e gli antisionisti dicono queste cose da molti anni. I sionisti liberal lo possono fare ora perché altri ebrei gli stanno dando il permesso di dirle. Ma, qualunque cosa uno pensi di tali politiche etnocentriche, nella comunità ebraica è in corso un cambiamento significativo (e certamente avrà conseguenze all’interno del Partito Democratico e, in ultima analisi, sulla politica USA).

Guardiamo come stanno le cose.

In primo luogo, c’è stata quella lettera del 5 agosto di studiosi ebrei/israeliani secondo cui Israele pratica “apartheid”, “suprematismo ebraico” e pulizia etnica con il beneplacito dei dirigenti degli ebrei americani. Ed è ora che gli ebrei americani chiedano un cambiamento. La lettera è nota perché uno dei firmatari è Benny Morris, uno studioso che ha giustificato l’espulsione dei palestinesi da parte di Israele durante la Nakba [la pulizia etnica durante la guerra del 1947-49, ndt.] come necessaria per la creazione di Israele.

Ora la lettera ha più di 1.900 firme, tra cui quella del 97enne Yehuda Bauer, uno studioso israeliano dell’Olocausto e presidente onorario in pensione dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, composta da 24 Paesi, per lo più europei, ndt.], che ha emanato la falsa definizione di antisemitismo che include le dure critiche a Israele. E c’è il docente di filosofia Avishai Margalit dell’Università Ebraica, un amico di Michael Walzer ( che non ha firmato).

La Finestra di Overton [che definisce la gamma di idee accettabili nel dibattito sulle politiche pubbliche, ndt.] di una discussione accettabile si sta spostando rapidamente, evidenzia Peter Beinart [famoso editorialista e commentatore politico USA, ndt.], che ha firmato. Altri firmatari statunitensi sono Riva Hocherman, direttrice esecutiva di Metropolitan Books [importante casa editrice statunitense, ndt.], Dan Fleshler di Ameinu [organizzazione sionista legata al partito Laburista israeliano, ndt.], il rabbino Michael Lerner [politico e religioso californiano moderatamente critico con Israele, ndt.], David Nasaw, storico presso la CUNY [l’università della città di New York, ndt.], lo studioso Stephen Zunes [docente di relazioni internazionali contrario all’occupazione israeliana, ndt.] e il rabbino Arthur Waskow (mio collega studente al college della città di Baltimora).

All’inizio di questo mese, dopo che il parlamento israeliano ha sfidato le proteste di massa e ha votato per ridurre fortemente il potere della Corte [suprema] a favore del governo, vergogna riguardo a Israele, indignazione e richieste di agire sono argomenti di una discussione tra ebrei americani afflitti pubblicata da “Americans for Peace Now” [associazione USA affiliata all’omonima organizzazione pacifista israeliana, ndt.].

Queste sono alcune delle opinioni più taglienti:

Diane Blumson ha affermato che è tempo che i dirigenti dell’ebraismo statunitense chiamino Israele a rispondere delle violazioni dei diritti umani che risalgono a 75 anni fa:

“Provo una grande sofferenza e rabbia. Voglio sentire dai pulpiti di tutti i nostri rabbini e cantori che dobbiamo smettere di difendere Israele in quanto vittima come modo per giustificare le violazioni che hanno angariato i palestinesi fin dalla nascita dello Stato.”

Heidi Feldman ha osato condannare gli ignobili aspetti della formazione dell’identità ebraica:

“E’ come leggere la Bibbia, le parti imbarazzanti in cui gli israeliti sono bellicosi, insensibili, prepotenti e aggressivi sia nei confronti delle tribù attorno a loro che di chi tra loro è scettico. Non è l’ebraismo in cui io credo, io credo in un ebraismo in cui amiamo il nostro vicino, amiamo persino lo straniero.”

Harry Appelman ha invocato finalmente l’emancipazione dei palestinesi:

“Dobbiamo portare i cittadini palestinesi fuori dai margini e nel dibattito (e nell’elettorato), concentrando le proteste e le discussioni sull’occupazione.”

Anche Robert Snyder ha reso onore al potenziale politico dei palestinesi:

“(Dobbiamo) lavorare sempre più con i palestinesi all’interno di Israele e in Cisgiordania. Gli ebrei progressisti e liberal ora condividono molti interessi con i palestinesi all’interno di Israele e dovrebbero votare insieme per costruire una nuova maggioranza.” Ho più volte affermato che questo pensiero porta inevitabilmente a invocare uno Stato unico democratico e il BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.].

Questo è un ragionamento di Michael Rahimi a favore del boicottaggio:

“Domani vado a Tel Aviv a trovare i miei parenti e accomiatarmi da loro. Finché le cose non cambieranno non tornerò in Israele. Non posso più sopportare quello che il Paese è diventato ed è un crimine quello che ne hanno fatto negli ultimi 20 anni… Lo stanno trasformando in un abominio.”

Ci sono state varie richieste a Biden di agire. Sembra la posizione di J Street [associazione filo-israeliana moderatamente contraria all’occupazione e legata al Partito Democratico, ndt.]. Dannazione, Biden deve fare qualcosa. Ma cosa? Non lo sappiamo! Da un anonimo:

“Penso che tutti sappiamo che c’è bisogno della voce di Biden. Temo che finora la risposta di Biden sia stata piuttosto moderata.”

Elliot Feldman chiede delle sanzioni:

È finito il tempo in cui erano sufficienti i discorsi. Le azioni di Israele devono avere delle conseguenze. L’amministrazione Biden potrebbe iniziare tornando indietro rispetto alla dottrina Pompeo [ministro degli Esteri dell’amministrazione Trump, ndt.]. Potrebbe aprire un ufficio consolare a Gerusalemme est. Potrebbe ri-destinare parte dell’aiuto militare a Israele per ricostruire case, comunità e infrastrutture palestinesi. Potrebbe mostrare un’opposizione più vigorosa nei confronti dell’ambiguità di Israele riguardo all’Ucraina.”

Robert O. Freedman vede favorevolmente un colpo di stato militare!

“Finché questo processo non verrà fermato o da uno sciopero generale che blocchi il Paese… o persino da un colpo di stato da parte dei generali israeliani che non vogliono veder svanire il potere di deterrenza delle IDF [l’esercito israeliano, ndt.], il futuro di Israele sembra piuttosto cupo.”

Parecchie voci parlano di guerra civile: “Sento che lo scenario da incubo di ebrei contro ebrei è arrivato,” dice uno.

Ricordo che quando questo sito iniziò ad esistere le persone dicevano abitualmente a me e ad Adam Horowitz [direttore esecutivo di Mondoweiss, ndt.]: “Perché presentate ogni giorno cattive notizie su Israele, sembrate ossessionati.” E io rispondevo: “Beh, noi siamo ossessionati, questo è un grande problema ebreo/americano, ci impedisce di vedere il sole.” Quindi non ce ne staremo zitti e a volte essere dissonanti è una virtù. Oggi sembra che ogni minuto che passa abbiamo sempre più compagnia.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un anno difficile aspetta 1,3 milioni di studenti palestinesi che tornano a scuola

Redazione di Palestine Chronicle (PC, WAFA)

22 agosto 2023 – Palestine Chronicle

Questa settimana e la prossima più di 1,3 milioni di minori palestinesi ritorneranno a scuola in Cisgiordania, incluse Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza.

Questo sta accadendo durante un anno tumultuoso, ha affermato Lynn Hastings, la coordinatrice residente e umanitaria delle Nazioni Unite nel territorio palestinese occupato.

Le scuole dovrebbero essere un rifugio in cui i minori imparano, crescono e sono protetti. È dove le giovani menti sono incoraggiate a informarsi, esplorare e sviluppare tutto il loro potenziale. Ma per i minori nel territorio palestinese occupato, il 2023 è stato un anno molto brutto”, ha affermato in una dichiarazione citata dall’agenzia palestinese di notizie WAFA.

I minori hanno perso settimane di apprendimento quest’anno come risultato di prolungati scioperi dell’UNRWA [l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] e degli insegnanti in Cisgiordania, della spirale [di violenza] di maggio a Gaza e delle operazioni delle forze israeliane nei campi profughi palestinesi in Cisgiordania,” ha affermato.

Quanto più tempo i minori perdono relativamente all’istruzione, più difficile sarà compensare e rimediare quella perdita; tutte le comunità ne sentiranno l’impatto.”

Ma diventa sempre peggio,” ha aggiunto la coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite.

Dall’inizio dell’anno 45 minori palestinesi sono stati uccisi, 35 in Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est e altri sette nella Striscia di Gaza. In Cisgiordania il numero totale di bambini palestinesi uccisi quest’anno è quasi pari a quello dei bambini uccisi in tutto il 2022.”

Guerra contro i minorenni

La WAFA ha riferito che nei primi sei mesi del 2023 le Nazioni Unite hanno registrato più di 423 incidenti che hanno avuto un impatto sui minori palestinesi e sulla loro istruzione, incluse le forze israeliane che hanno sparato contro scuole o studenti, condotto operazioni e demolito scuole, i maltrattamenti da parte dei coloni e ritardi ai posti di controllo che hanno riguardato circa 50.000 minori.

Tre scuole sono state demolite dalle autorità israeliane negli ultimi 12 mesi, la più recente delle quali il 17 agosto, nel villaggio di Ein Samiya, solo pochi giorni prima dell’inizio del nuovo anno scolastico.

Cinquantotto altre scuole sono sottoposte a ordinanze di parziale o completa demolizione o di blocco dei lavori.

Tutti gli attori devono adempiere ai loro obblighi di proteggere i minori e di prevenire la loro esposizione ad ogni forma di violenza. L’accesso sicuro all’istruzione è un diritto fondamentale di tutti i minori e deve essere protetto e salvaguardato in tutti i momenti, e ovunque,” ha affermato Hastings.

Ha aggiunto:

E noi, come comunità internazionale, dobbiamo fare di più per assicurare che ci siano sufficienti risorse per l’autorità palestinese e l’UNRWA, e supportare il piano per la risposta umanitaria per fornire una istruzione regolare, sicura e di alto livello a tutti i minori palestinesi.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Adolescente palestinese ucciso in un raid israeliano al nord della Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

22 agosto 2023 – Al Jazeera

Circa 50 palestinesi arrestati dalle forze israeliane, fra cui due sospettati di essere coinvolti nell’attacco armato di lunedì.

Le autorità sanitarie palestinesi hanno comunicato che durante un raid al nord della Cisgiordania occupata le forze israeliane hanno colpito e ucciso un adolescente palestinese.

Il ministero della Salute ha detto che Othman Abu Khoruj, 17 anni, è stato colpito alla testa e ucciso durante un attacco contro la città di Zababdeh, a sud di Jenin.

L’agenzia di stampa Wafa ha riferito che le forze israeliane sono entrate a Zababdeh per effettuare un arresto.

Yousef Sharqawi, un palestinese che lavora in un supermercato locale, ha detto ad Al Jazeera che 12 veicoli militari israeliani sono entrati in città per cercare il cugino più giovane, Yazan Sharqawi.

Hanno circondato due delle case della nostra famiglia, poi sono entrati per cercare Yazan,” ha affermato Sharqawi. “Suo padre ha detto che non era in casa e l’hanno costretto a telefonargli.”

Il più giovane dei Sharqawi, 24 anni, stava lavorando in una panetteria ed è stato subito arrestato appena arrivato a casa.

Un testimone ha riferito che, nello scontro che ne è seguito, mentre i giovani palestinesi stavano cercando di respingere i soldati israeliani, Othman Abu Khuroj è stato colpito due volte, una alla testa e la seconda alla spalla.

Atef, il padre di Abu Khuroj, stava lavorando nei campi quando ha sentito del ferimento del figlio.

Sono arrivato in ospedale e mi hanno detto che se ne era andato,” ha detto il cinquantasettenne. “Mio figlio lavorava in panetteria dalle 8 del mattino alle 7 di sera, l’ho visto il giorno prima. Scherzava, mi ha rubato una sigaretta, era il mio figlio minore.”

Othman, che come molti altri giovani palestinesi aveva dovuto lasciare la scuola per aiutare economicamente la famiglia, all’inizio dell’anno era stato incarcerato per un mese dagli israeliani.

Chiedi in paese, tutti gli volevano bene,” conclude il padre.

L’ala armata del Jihad islamico, la brigata al-Quds, ha rilasciato un comunicato in cui sostiene che Othman Abu Khuroj era uno dei suoi combattenti.

Ribadiamo che il sangue dei martiri alimenterà la nostra continua resistenza e che questi sacrifici fatti dai nostri eroici combattenti non saranno inutili,” si legge nella dichiarazione.

L’esercito israeliano ha detto che i suoi soldati hanno aperto il fuoco dopo che “ordigni esplosivi” erano stati lanciati verso di loro.

Una persona colpita è stata identificata,” si dice in una dichiarazione.

Le truppe israeliane compiono di routine dei raid in zone come Jenin, nominalmente sotto il controllo civile e di sicurezza dell’Autorità Palestinese del presidente Mahmoud Abbas.

Arresti e interrogatori

Nella Cisgiordania meridionale l’esercito israeliano ha catturato due palestinesi sospettati di aver sparato il giorno prima vicino ad Hebron contro un’auto uccidendo un colono israeliano e ferendone gravemente un altro.

In una nota l’esercito israeliano ha affermato che forze di esercito, del servizio di sicurezza dello Shin Bet e di commando della guardia di frontiera, noti come Yamam, insieme hanno arrestato i due sospettati che sono imparentati tra loro.

L’esercito israeliano ha detto che durante l’interrogatorio i due sospettati hanno confessato di essere coinvolti nell’attacco. Le forze di sicurezza israeliane hanno detto anche di aver confiscato il fucile usato per sparare contro l’auto lunedì.

I media palestinesi hanno identificato i due sospettati arrestati vicino a Hebron come Saqer e Mohammed al-Shantir.

L’attacco è avvenuto due giorni dopo l’uccisione di padre e figlio israeliani a un autolavaggio nella città cisgiordana di Huwara.

In questo caso, nonostante un’operazione di ricerca con raid di truppe nei villaggi e perquisizioni casa per casa, Israele non ha ancora arrestato nessuno.

L’esercito israeliano ha affermato di aver compiuto perquisizioni su larga scala e arresti in Cisgiordania nella notte di martedì.

Secondo il Club dei prigionieri palestinesi [una ong palestinese, ndt.] sono stati arrestati almeno 50 palestinesi, per la maggior parte ex prigionieri delle carceri israeliane.

Questa campagna di arresti è considerata una delle più vaste dall’inizio dell’anno,” dice una nota, precisando che le detenzioni sono accompagnate da “abusi sistematici, pestaggi di detenuti e delle loro famiglie, minacce e atti di vandalismo”.

La Cisgiordania occupata è scossa da violenze fin dall’inizio dell’anno scorso, con ripetuti attacchi mortali da parte dell’esercito e violenze dei coloni contro comunità palestinesi, come anche da una serie di attacchi di palestinesi contro bersagli israeliani.

Secondo le Nazioni Unite dall’inizio dell’anno sono stati uccisi più di 200 palestinesi, il numero di vittime più elevato dal 2005. Nello stesso periodo sono stati uccisi 30 israeliani.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele: il movimento dei coloni si sente più forte e assapora la possibilità di “ebraicizzare” la Galilea

Ben Lynfield – Ramat Arbel, Israele

21 agosto 2023 – Middle East Eye

Oltre alle colonie illegali nella Cisgiordania occupata gli attivisti di estrema destra vogliono formare maggioranze ebraiche in aree con grandi comunità di palestinesi provvisti di cittadinanza israeliana

Lestrema destra religiosa israeliana, galvanizzata dal governo più a destra della storia, sta portando avanti la sua campagna per ebraicizzare” aree con consistenti comunità palestinesi.

Mentre lattenzione internazionale è focalizzata principalmente sullespansione degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, le aree con una vasta popolazione araba allinterno dei confini israeliani precedenti al 1967 [confini stabiliti con l’armistizio del 1949 e oltrepassati da Israele in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967, ndt.] stanno diventando sempre più il fulcro di unoffensiva demografica.

Fa parte di queste aree la regione settentrionale della Galilea, che ospita un gran numero di palestinesi con cittadinanza israeliana presi di mira da attivisti aderenti alla stessa ideologia che cerca di espandere il processo di colonizzazione nella Cisgiordania occupata.

Gi insediamenti coloniali in Galilea, Giudea, Samaria e nel Negev sono tutti eccellenti”, ha detto a Middle East Eye lattivista di destra Orit Spitz. Hanno tutti lo stesso valore, fanno tutti parte della Terra dIsraele”.

Il termine Giudea e Samaria” è spesso usato dagli israeliani per descrivere la Cisgiordania occupata.

Seguendo lesempio dei coloni ebrei in Cisgiordania, più di un anno fa Spitz ha contribuito a creare un avamposto coloniale illegale vicino alla città araba di Eilabun, in Galilea.

In Cisgiordania tali avamposti sono legalizzati retroattivamente, soprattutto sotto lattuale governo, in cui il leader di estrema destra del partito Sionismo Religioso, Bezalel Smotrich, detiene un ampio potere. Sembra che ora stia cominciando ad accadere lo stesso in Galilea.

Il mese scorso il governo di Netanyahu ha deciso che Ramat Arbel, l’avamposto coloniale la cui realizzazione ha visto l’impegno di Spitz, diventerà una città.

Agli occhi del movimento dei coloni la città servirà come punto di partenza di una missione nazionale volta ad alterare l’attuale equilibrio tra ebrei e arabi all’interno della popolazione della Galilea e raggiungere nell’area una netta predominanza ebraica.

Dobbiamo riempire la Galilea [di coloni] perché attualmente è a maggioranza araba”, spiega Spitz.

Condivisione di interessi e ambizioni

Lidea di incrementare la presenza ebraica in Galilea non è nuova. Ma oggi è supportata da un governo israeliano più ricettivo alle richieste dellestrema destra che in qualsiasi altro momento della storia dello Stato.

La deferenza di Netanyahu verso l’estrema destra deriva da una condivisione di interessi e valutazioni. Egli ha bisogno del sostegno dellestrema destra per mantenere intatta la sua coalizione, mentre lestrema destra condivide il suo obiettivo politico centrale di rimuovere la facoltà della Corte suprema israeliana di controllare il potere della coalizione.

Con la neutralizzazione della Corte lestrema destra avrebbe una libertà ancora maggiore nell’espropriare i palestinesi in Cisgiordania e degradare lo status dei cittadini palestinesi allinterno di Israele.

Considerando il passato di destra radicale di Netanyahu e il fatto che abbia conferito legittimità allestrema destra prima e dopo le elezioni dello scorso anno i critici ritengono che sarebbe un errore pensare che abbia dei dubbi riguardo a questi obiettivi.

Tra le figure chiave del governo ci sono il leader di Potere Ebraico e ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, che ha fatto una campagna con la promessa di espellere gli “sleali” cittadini arabi e ebraici di sinistra, e il leader di Sionismo Religioso e ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha invitato a cancellare” un villaggio della Cisgiordania, Huwwara, e ha minacciato di tagliare i finanziamenti alle località arabe.

È chiaro che questo governo sta intensificando gli atteggiamenti razzisti discriminatori che favoriscono la comunità ebraica”, afferma Yousef Jabareen, ex membro della Knesset [parlamento israeliano, ndt.].

Quest’ultimo usa il termine apartheid strisciante” per descrivere misure governative tra cui lapprovazione di un disegno di legge che aumenta il numero di comunità ebraiche che possono escludere di fatto i cittadini arabi dalla residenza.

Il 1° agosto Ben-Gvir e altri “guru” dell’estrema destra, tra cui il deputato Aryeh Kellner del partito Likud di Netanyahu, hanno preso parte ad una celebrazione della decisione del governo di promuovere [la fondazione di] Ramat Arbel. Uno Spitz sorridente osservava i politici di sesso maschile ballare con i giovani coloni religiosi.

Un altoparlante annunciava che Ramat Arbel sarebbe diventata una grande città”. Ma non tutti gli ebrei che vivono nelle vicinanze sono entusiasti di questa prospettiva, soprattutto perché persone come Ben-Gvir sono considerati da molti come acerrimi nemici per aver sostenuto il tentativo di Netanyahu di accrescere i suoi poteri, come evidenziato da politiche come la riforma giudiziaria.

Spitz e i politici hanno affermato che Ramat Arbel è solo il primo seme di quella che il governo chiama la “ebraicizzazione della Campagna della Galilea”. I cittadini palestinesi affermano che liniziativa è unulteriore manifestazione del suprematismo e razzismo ebraico.

Secondo Spitz e Moshe Solomon, membro della Knesset per il partito Sionismo Religioso, è prevista la costruzione di una serie di nuove comunità ebraiche. Ciò mentre i cittadini palestinesi si trovano ad affrontare la scarsa disponibilità di terra, i tagli al bilancio e la mancanza di piani regolatori, fattori che hanno come conseguenza la demolizione delle case.

Nel sud il governo rifiuta di riconoscere i villaggi beduini e allinizio di questa settimana nel villaggio di Ras Jrabah centinaia di beduini hanno ricevuto lavviso che avrebbero dovuto lasciare le loro case per far posto alla costruzione di un quartiere a maggioranza ebraica nella città di Dimona [città israeliana adiacente a Ras Jrabah, ndt.]

Qui la maggioranza non è ebraica’

A Ramat Arbel, mentre i politici ballavano, più di un migliaio di manifestanti antigovernativi provenienti dalle zone ebraiche vicine hanno manifestato contro la presenza di politici di estrema destra. Sventolando bandiere israeliane gridavano Vergogna”, suonando corni e tamburi per sovrastare i canti festosi.

Ma dal frastuono affiorava, a mo’ di incitamento, una delle canzoni preferite dei coloni della Cisgiordania: Ti espanderai verso il mare, lest, il nord e il sud”. Daniella Weiss, un’influente leader dei coloni della Cisgiordania, scattava delle foto.

Questi sono momenti esaltanti per i membri della destra religiosa come Weiss. Recentemente lesercito ha permesso al suo gruppo Nachala di rioccupare un insediamento coloniale vicino alla città di Nablus, in Cisgiordania, su quella che secondo le organizzazioni per i diritti umani è una proprietà privata palestinese rubata.

I danzatori sorreggevano un cartello con l’emblema di Nachala, una mappa che comprende tutto il territorio che va dalla penisola egiziana del Sinai, Israele, i territori occupati, alla Giordania, la Siria e l’Iraq.

Solomon si è preso una pausa dalle danze per rispondere alle domande su dove sta andando la Galilea sotto il governo di estrema destra.

La ebraicizzazione della Galilea è un valore supremo. C’è un consenso nella società israeliana sulla colonizzazione, e sulla ebraicizzazione della Galilea. È un’area molto significativa. Siamo stati qui fin dai tempi della Bibbia ma con nostro rammarico qui la maggioranza non è ebrea”, ha detto Solomon allorgano di informazione australiano Plus61J Media.

Riferendosi ai cittadini palestinesi di Israele, dice: la loro presenza non è un problema ma vogliamo stabilirci qui, fondare colonie e portare le famiglie in questo bellissimo posto affinché ci siano abbastanza ebrei che possano vivere in pace.

Chiunque viva qui e non è ebreo va perfettamente bene finché non danneggi gli ebrei”, afferma Solomon.

Aggiunge che è importante che la Galilea abbia unaimpronta” ebraica.

Dove c’è una colonia ci sarà un’impronta ebraica. Dove c’è l’agricoltura ci sarà un’impronta ebraica. Dove passa laratro ci sarà un’impronta ebraica”.

Solomon sostiene che Israele fu costretto a lasciare la Striscia di Gaza e le aree della Cisgiordania settentrionale perché gli insediamenti coloniali ebraici lì non erano abbastanza forti. I luoghi in cui non eravamo abbastanza presenti ci sono stati portati via”, dice.

Più ebrei ci saranno qui, più ci saranno lavoro, cultura, istruzione e sicurezza”, aggiunge.

Ma gli arabi in Israele si sentono già più insicuri, preoccupati per i segnali che indicano che la coalizione è intenzionata ad attuare la legislazione razzista del 2018, la Legge sullo Stato Nazione che ha consacrato linsediamento coloniale ebraico come valore nazionale e che ai loro occhi, e a quelli dei critici, ha formalizzato lo status degli arabi come cittadini di seconda classe.

Quando non si lavora per migliorare le condizioni di vita dei villaggi e città esistenti e si creano nuove città e insediamenti coloniali moderni, questa è discriminazione”, afferma Reem Hazzan, leader di Arab Hadash, principale partito nella città settentrionale di Haifa.

Questo per non parlare del fatto che nella per la nostra memoria collettiva queste terre furono confiscate e appartenevano ai palestinesi. Invece di godere congiuntamente di queste terre, il loro usufrutto va esclusivamente agli ebrei”.

Anche Amir Wohl, uno dei manifestanti ebrei contro Ben-Gvir, esprime inquietudine.

“Sono preoccupato per una presa di potere da parte dei fondamentalisti ebrei. Ogni volta che i ministri vengono al nord, noi protestiamo contro di loro. Vogliamo vivere in una democrazia e loro vogliono uno Stato di diritto ebraico ortodosso senza arabi.”

Di Ramat Arbel, Wohl dice: Questa è solo una provocazione. Ci sono già molti insediamenti per ebrei in Galilea”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele prende di mira gli operatori del pronto soccorso palestinese nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

20 agosto 2023 – Al Jazeera

Le Nazioni Unite dicono che quest’anno 77 operatori sanitari sono stati feriti e 30 ambulanze sono state danneggiate mentre cercavano di soccorrere i palestinesi.

Il più recente attacco israeliano dello scorso mese contro il campo profughi di Jenin, nella zona settentrionale della Cisgiordania occupata, è stato descritto come un “massacro” da funzionari e abitanti locali e condannato dalle Nazioni Unite, ma è lungi dall’essere unico per ampiezza e crudeltà.

Sabato, in occasione della Giornata Mondiale dell’aiuto umanitario, la coordinatrice umanitaria dell’ONU Lynn Hastings ha rilasciato una dichiarazione in cui si dice che 77 operatori sanitari sono stati feriti e 30 ambulanze sono state danneggiate durante attacchi, proteste o anche solo in giorni normali.

Hastings ha precisato che il primo soccorso è costituito da ong con volontari, medici, infermieri, addetti comunali e altri che spesso rischiano le proprie vite mentre portano aiuto.

Hastings continua dicendo che sono ostacolati “dall’occupazione israeliana, da divieti di spostamento, divisioni politiche, conflitti ricorrenti e persino dai tentativi di denigrare il loro lavoro”.

Nel corso di vari anni innumerevoli testimoni sul campo hanno documentato deliberate azioni israeliane che prendono di mira gli addetti al soccorso che non mostrano di volersi fermare.

Personale medico bersagliato

Omar Azzam, coordinatore legale degli aiuti umanitari internazionali presso la società palestinese della Mezzaluna Rossa ha riferito ad Al Jazeera che dall’inizio del 2023 ad oggi ci sono state 193 reati delle forze israeliane a danno del personale medico nella Cisgiordania occupata.

Continua poi dicendo che si tratta di aggressioni dirette sul campo, attacchi contro ambulanze, accessi vietati e ostruiti e feriti e malati presi di mira.

Solo a luglio sono stati registrati 10 attacchi diretti contro il personale medico, con uso di gas e proiettili veri, come nel caso di un volontario nel campo di Askar che stava offrendo assistenza” afferma Azzam “Aveva con sé un badge, ma gli hanno sparato a un piede, quindi intenzionalmente.”

A Gerusalemme il team di Azzam ha documentato 314 casi fino alla fine di giugno in cui al pronto soccorso è stato impedito di andare sul posto o sono stati costretti a cambiare veicolo senza tenere in considerazione la salute dei pazienti.

Hanno anche riferito di 80 casi di paramedici a cui le forze israeliane hanno negato completamente l’accesso ai feriti e 41 casi in cui hanno subito ritardi o sono stati ostacolati.

Inoltre nove pazienti sono stati rapiti mentre ricevevano cure mediche, cosa avvenuta persino dentro le ambulanze.

Azzam ha detto che durante il raid più recente a Jenin “un paziente, in condizioni critiche, è stato interrogato dentro l’ambulanza e poi, dopo che i paramedici sono stati aggrediti, è stato arrestato e trasferito su un veicolo militare di pattuglia.”

Strisciavo per terra’

Hamza Abu Hajar, un volontario della società palestinese di soccorso medico a Nablus, ha pagato un caro prezzo durante i sei anni in cui ha prestato assistenza.

Il ventisettenne ha detto ad Al Jazeera che lo scorso dicembre durante un raid israeliano a Nablus gli hanno sparato al petto con proiettili veri ed è rimasto tra la vita e la morte in un reparto di terapia intensiva per parecchi giorni.

Otto mesi dopo sto ancora soffrendo per le complicanze causate dalle pallottole entrate nel petto e uscite dalla schiena,” ha continuato.

Nel corso degli anni ho subito varie aggressioni da parte delle forze di occupazione. e sono stato colpito da proiettili, lacrimogeni e bombe assordanti per impedirmi di raggiungere i feriti, o sono stato attaccato persino da pattuglie dell’occupazione.”

Lo scorso mese le forze israeliane hanno sparato ad Amir Ahmad Amir, un volontario della Mezzaluna Rossa a Nablus.

Il venticinquenne, diventato padre tre mesi fa, era al campo profughi di Askar a Nablus per cercare di prestare assistenza medica a un minore quando i cecchini israeliani gli hanno sparato tre volte ad entrambe le gambe.

A carponi ho cercato di raggiungere un muro ma mi sparavano contro direttamente e deliberatamente. Alcuni hanno sparato alle scarpe che indossavo,” ha detto ad Al Jazeera dall’ospedale dove sarà operato per danni neurologici.

Dopo l’operazione di luglio a Jenin Israele ha detto che “garantisce l’assistenza umanitaria e non applica alcun limite all’accesso del personale medico, eccetto in luoghi dove le loro vite sono in pericolo a causa di uno scontro a fuoco”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Basta ai palestinesi poter accedere alle proprie terre due volte all’anno?

Amira Hass

20 agosto 2023 Haaretz

L’Alta Corte di Israele ha respinto la petizione degli abitanti del villaggio di Anin per poter lavorare i propri terreni oltre il muro di separazione ogni giorno, ed ha stabilito che due volte a settimana fosse sufficiente. Ora l’esercito israeliano dice che gli agricoltori potranno accedere ai propri terreni solo due volte all’anno.

I contadini del villaggio di Anin vogliono lavorare la propria terra ogni giorno, perciò hanno chiesto che il varco nella barriera di separazione che divide i loro campi dal villaggio venisse aperto quotidianamente, non due volte a settimana. Hanno inoltrato questa richiesta nel 2007, circa cinque anni dopo che Israele ha costruito il muro sulla loro terra, ma è stata respinta.

Un anno fa hanno nuovamente fatto la richiesta, di nuovo rifiutata e in marzo hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia. Allora l’esercito ha informato loro e la Corte che in realtà sta programmando di rendere “stagionale” l’apertura del varco: invece di due volte alla settimana, verrà aperto due volte all’anno per l’aratura e la raccolta delle olive. E se i contadini sono così desiderosi di recarsi sul proprio terreno ogni giorno potranno guidare per 25 chilometri, sia per andare che per tornare, attraverso un altro varco. Quindi l’Ufficio del Procuratore di Stato ha raccomandato alla Corte di respingere la petizione.

I giudici non hanno nemmeno tenuto un’udienza con i richiedenti e la loro avvocata, Tehila Meir dell’associazione israeliana per i diritti HaMoked. Nella prima settimana di agosto hanno semplicemente emesso la sentenza: due giorni alla settimana sono ampiamente sufficienti, ha scritto la giudice Ruth Ronnen in accordo con i suoi colleghi Yael Willner e Alex Stein. Se davvero il varco diventasse stagionale i richiedenti potrebbero tentare un ricorso legale, ha precisato.

Dei circa 17.000 dunam (4.200 acri) del villaggio in Cisgiordania, 11.000 sono incastrati tra il muro di separazione e la Linea Verde, in un’enclave di 31.000 dunam. E’ l’enclave di Barta’a, che ospita 7.000 palestinesi in sette villaggi, il più grande dei quali è la stessa Barta’a. Ci vivono anche circa 3.000 coloni in quattro insediamenti; c’è pure una zona industriale israeliana.

E’ difficile dire che è la Cisgiordania e non Israele. I lavori di costruzione e altri lavori per lo sviluppo nei villaggi palestinesi sono pesantemente limitati. I palestinesi che non vivono nell’enclave sono impossibilitati ad entrare, anche se pochi privilegiati ricevono un permesso speciale. Sono i residenti dei villaggi ad est del muro, i cui terreni si trovano ad ovest del muro di cemento (fino a poco tempo fa una staccionata), come gli abitanti di Anin.

Viaggio estenuante, lunga attesa

I soldati aprono il varco a Anin solo il lunedì e il mercoledì e solo due volte al giorno per brevi periodi: dalle 6,50 alle 7,10 del mattino e dalle 15,50 alle16,10 del pomeriggio. Il varco si trova a 5 minuti di cammino dalle case dei richiedenti e la loro terra dista dai 5 ai 20 minuti dal varco.

Prima del 1948 Anin aveva 45.000 dunam”, dice al telefono a Haaretz il capo del consiglio del villaggio Mohammed Issa. Circa 27.000 di essi sono finiti in Israele. Dal 2002 la maggior parte della terra coltivabile che ci è rimasta è al di là del muro. Ogni famiglia ha il terreno là.”

Ottenere un permesso per entrare nei terreni coltivabili è una procedura molto complicata; i permessi sono concessi solo agli abitanti i cui documenti di proprietà soddisfano le condizioni dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania. Inoltre occorre provare la parentela diretta con i proprietari (cioè coniugi e figli; i nipoti non ottengono i permessi). Tutto ciò è sottoposto ad un rigoroso controllo burocratico e di sicurezza. Il permesso va rinnovato ogni pochi mesi, ogni anno o ogni due anni, a seconda del tipo di permesso.

Gli abitanti di Anin che fanno la procedura attraverso il controllo dell’Amministrazione Civile e il servizio di sicurezza dello Shin Bet possono raggiungere la loro terra attraverso il varco di Barta’a, 25 chilometri a sud. Questo varco è aperto tutti i giorni, ma è un viaggio di circa un’ora e mezza da Anin e la strada è in parte costituita da pista sterrata che solo un trattore o un veicolo fuoristrada possono percorrere.

Questo lontano posto di blocco è utilizzato da centinaia di palestinesi di altri villaggi che vivono nell’enclave di Barta’a o hanno dei permessi per attraversarla, perciò per passare di là vi sono lunghe attese specialmente al mattino – il momento migliore per l’attività agricola.

Tanto per cominciare, passare con un trattore richiede un permesso che spinge i richiedenti ad una corsa a ostacoli burocratica. I contadini che portano attrezzi da lavoro attraverso il varco di Barta’a devono subire un lungo controllo di sicurezza – e poi, dopo circa due ore in strada, devono tornare di nuovo verso nord per guidare fino al loro terreno che è a portata di vista e di cammino dalle loro case.

Anche gli alti costi del viaggio spaventano i richiedenti: 80 shekel (21,20 dollari) al giorno con il proprio veicolo, oppure 60 shekel al giorno col trasporto pubblico, che non è disponibile a tutte le ore del giorno.

Tutte queste argomentazioni, dettagliate nella petizione da Meir di HaMoked, non hanno convinto i giudici. Ronnen si è allineata all’esercito e all’Amministrazione Civile in ogni aspetto, affermando che “le uniche colture attualmente esistenti nei terreni sono uliveti che richiedono una coltivazione solo stagionale durante le stagioni dell’aratura e della raccolta.” Ha aggiunto che “i richiedenti non contestano questa affermazione”.

Invece i richiedenti la hanno contestata. Una replica di Meir alla risposta dell’Ufficio del Procuratore di Stato alla petizione afferma che prima della costruzione del muro di separazione i contadini del villaggio coltivavano cereali come grano e frumento e verdure come pomodori, cipolle, sesamo e cetrioli. La costruzione del muro e la limitazione dei giorni in cui si può attraversarlo hanno costretto gli agricoltori a rinunciare alle colture che necessitano di irrigazione, cura e sorveglianza quotidiane, ha detto Meir.

La linea dura della Corte

Durante una visita al varco a maggio, su iniziativa dell’esercito e dell’Ufficio del Procuratore di Stato dopo che è stata presentata la petizione, gli agricoltori hanno spiegato la situazione agli alti funzionari, come documentato da Meir, che ha partecipato all’incontro con altre persone di HaMoked. Meir ha allegato alla sua risposta un parere di Bimkom, un’associazione israeliana per i diritti che perora l’uguaglianza nella pianificazione ed ha lavorato per molti anni con le comunità palestinesi nell’enclave di Barta’a.

Fornendo dati e fotografie aeree, Bimkom dimostra che molti degli appezzamenti di terra di Anin, che prima del 2000 erano intensamente coltivati, sono inariditi a causa delle restrizioni all’ingresso. Gli alberi negli uliveti di Anin, che non necessitano di irrigazione, sono meticolosamente curati.

Alla domanda se gli abitanti del villaggio sperassero di tornare a coltivare verdura, grano e cereali, Issa, il capo del consiglio del villaggio, ha risposto a Haaretz: “Adesso stiamo parlando di come mantenere e salvare ciò che abbiamo, gli alberi che abbiamo.”

E’ indignato dalla sentenza secondo cui il varco sarà aperto solo due volte all’anno. “Una mandria di buoi (da un vicino villaggio israeliano nell’area di Wadi Ara) raggiunge i nostri alberi e li danneggia, perciò dobbiamo essere là ogni giorno”, ha detto Issa.

Il timore è che ciò che succede in altri luoghi dove l’esercito e l’Amministrazione Civile concede l’ingresso ai contadini solo due o tre volte all’anno avverrà anche ad Anin: gli uliveti verranno invasi dai cardi selvatici e devastati da frequenti incendi boschivi e la loro produzione diminuirà drasticamente.

Nella loro risposta alla petizione gli avvocati dell’Ufficio del Procuratore di Stato, Yael Kolodny e Jonathan Berman, hanno sostenuto a nome dell’esercito e dell’Amministrazione Civile che il varco viene usato dagli abitanti di Anin con permessi agricoli soprattutto per entrare senza autorizzazione in Israele. Hanno detto di sostenere questo sulla base di un filmato di un drone e di una improvvisa visita al varco alla fine di marzo, quando sono state interrogate le persone che lo attraversavano. Hanno detto che molti avevano con sé un cambio di abiti e alcuni erano “vestiti elegantemente”. Nessuno aveva attrezzi da lavoro, hanno aggiunto gli avvocati.

In risposta i contadini hanno detto a Meir che alcuni di loro effettivamente escono di casa in abiti puliti e si cambiano in tenuta da lavoro, che indossano anche per riparare veicoli, per costruire, per tinteggiare le case e svolgere altre attività. Inoltre i lavoratori che attraversano il varco normalmente lasciano i loro attrezzi nell’appezzamento piuttosto che portarli avanti e indietro. Meir ha scritto, citando Bimkom, che gli uliveti curati dimostrano che i contadini si recano regolarmente dove sono gli alberi e se ne prendono cura con dedizione.

Quanto al filmato del drone, Meir ha scritto che è stato ripreso in Cisgiordania e non mostra nessuno che entra in Israele. I richiedenti, che hanno notato il drone, dicono che il filmato è selettivo, mostra persone che salgono nelle auto (che secondo l’esercito le portano in Israele), ma non mostra quelli che continuano a piedi fino ai loro appezzamenti. I richiedenti aggiungono che alcuni contadini trovano dei passaggi in auto israeliane (di proprietà di palestinesi cittadini dello Stato) per arrivare più in fretta ai loro terreni.

Meir ha detto a Haaretz che la sentenza mostra un drastico peggioramento nel rispetto da parte della Corte degli obblighi dello Stato verso i palestinesi danneggiati dal muro di separazione. Ha sottolineato che la Corte ha approvato la costruzione del muro all’inizio del 2000 dopo che lo Stato si è impegnato a ridurre i danni ai palestinesi separati dai loro terreni al minimo indispensabile, consentendo loro un accesso ragionevole alle loro terre.

Ora che accade che l’accesso non sia ragionevole, la Corte respinge l’appello dei contadini senza un’udienza, ha precisato. “E’ triste vedere quanto poco costi considerare giustificabile danneggiare i diritti umani dei palestinesi che cercano di lavorare i propri terreni”, ha detto Meir.

HaMoked ha anche evidenziato un altro inquietante aspetto della sentenza: i giudici hanno stabilito che queste terre “formalmente” appartengono all’ “area di Giudea e Samaria”, la Cisgiordania, che è occupata da Israele dal 1967. Questa affermazione indica che nella sostanza, al contrario che nella forma, questo territorio palestinese, noto in gergo militare come “zona di congiunzione”, non fa parte dell’ “area di Giudea e Samaria.”

Così c’è soltanto un passo tra la sentenza della Corte ed il suo assenso all’annessione della terra oltre il muro. I giudici sanno bene che solo gli israeliani e i turisti stranieri hanno libero accesso a questa area, mentre i palestinesi ne sono del tutto impediti, e che solo le colonie e l’Amministrazione Civile vi possono mettere in atto piani edilizi, mentre le autorità locali palestinesi, che posseggono questa terra, non possono. Del resto la Corte ha approvato questo stato di cose nel 2011.

Fondamentalmente oltre 500 chilometri quadrati di terra (9,4% dell’intera Cisgiordania) sono imprigionati tra il muro di separazione e la Linea Verde. Quindi la realtà è che un’enorme fetta di terra è stata sostanzialmente annessa ad Israele senza una dichiarazione “formale”.

Per adempiere alla promessa dello Stato di permettere ai contadini di lavorare la propria terra sono stati costruiti 79 varchi nel muro di separazione. Solo cinque sono aperti tutto il giorno, 11 sono aperti per poco tempo due o tre volte al giorno e 10 sono aperti per alcuni brevi intervalli due o tre giorni alla settimana.

Con la chiusura del varco di Anin questo numero scenderà a 9 e il varco di Anin si aggiungerà a 53 altri “varchi stagionali”, aperti solo alcuni giorni all’anno per l’aratura, la raccolta e a volte per diserbare. La gente di Anin ha tempo fino a lunedì per fare appello contro la decisione di chiudere il loro varco.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)