“Giovani contro la dittatura”: ecco la nuova categoria di obiettori di coscienza israeliani

Oren Ziv

5 settembre 2023, +972

Otto nuovi renitenti alla leva parlano dell’occupazione, delle proteste contro la riforma giudiziaria e dell’obiezione di coscienza come strumento di protesta.

Domenica pomeriggio centinaia di israeliani si sono riuniti davanti al liceo Herzliya Hebrew Gymnasium nel centro di Tel Aviv per pubblicizzare la nuova lettera dei giovani obiettori di coscienza sotto lo striscione “Giovani contro la dittatura”. Nonostante le pressioni dell’estrema destra e del Ministero dell’Istruzione, e nonostante la decisione del consiglio del liceo di annullare l’evento, centinaia di persone sono accorse per ascoltare la lettura della lettera, partecipare a seminari e sostenere i 230 giovani che hanno firmato la lettera e che intendono rifiutare l’arruolamento nell’esercito israeliano.

A differenza delle precedenti cosiddette “lettere refusenik” (della dissidenza), l’attuale lettera collega l’opposizione alla riforma giudiziaria del governo con l’obiezione di coscienza legata all’occupazione. Alcuni firmatari con cui +972 ha parlato hanno affermato di aver deciso di rifiutarsi di servire nell’esercito per protestare contro l’occupazione ancor prima che si formasse l’attuale governo.

Altri hanno deciso di farlo negli ultimi mesi, dicendo che è stato questo governo, il più estremista della storia israeliana, a far pendere l’ago della bilancia e spingerli al rifiuto. Alcuni di loro hanno spiegato che è stata la presenza del “blocco anti-occupazione” alle manifestazioni settimanali contro la riforma giudiziaria che li ha spinti a prendere la decisione, e che nel clima dell’opinione pubblica di oggi l’obiezione di coscienza è più accettata che in passato, soprattutto dopo il rifiuto di massa da parte dei riservisti dell’esercito seguìto alla riforma.

Nella dichiarazione si legge: “Come giovani donne e uomini che stanno per essere arruolati nel servizio militare israeliano diciamo NO alla dittatura in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Con la presente dichiariamo che ci rifiutiamo di arruolarci nell’esercito finché la democrazia non sarà assicurata a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano.”

Nonostante sei mesi di lotta ostinata per una vera democrazia condotta nelle strade quasi ogni giorno, il governo continua a perseguire il suo rovinoso programma. Temiamo davvero per il nostro futuro e per il futuro di tutti coloro che vivono qui. Alla luce di ciò non abbiamo altra scelta che adottare misure estreme e rifiutarci di prestare servizio nell’esercito. Un governo che distrugge la magistratura non è un governo per cui possiamo prestare servizio. Un esercito che occupa militarmente un altro popolo non è un esercito al quale possiamo unirci”.

Abbiamo intervistato otto adolescenti che hanno firmato la lettera e parlato della loro decisione di rifiutarsi di servire nell’esercito.

Nuri Magen, 17 anni

Nuri Magen. (Oren Ziv)

Anche dopo che il governo aveva iniziato ad approvare la legge sul principio di ragionevolezza [per cui le disposizioni di legge devono essere adeguate al fine limitando le scelte arbitrarie, ndt.] pensavo che mi sarei arruolato. Prima di allora ero contrario all’occupazione, ma pensavo che avrei prestato servizio in una posizione in cui non sarei stato direttamente coinvolto. Pensavo di prestare servizio in Marina e in un certo senso potevo giustificarlo. Questo prima che iniziassero ad approvare le leggi.

Soprattutto mi spaventavano gli orrori che avrebbero potuto accadere in uno, due anni, mentre sarei stato bloccato [nell’esercito]. Non voglio sentirmi parte di questa cosa. Man mano che la situazione si fa più grave, anche le persone senza opinioni politiche o coloro che sono su posizioni di centro si stanno aprendo a opinioni che fino a poco tempo fa erano considerate “estreme”. Due anni fa gli obiettori di coscienza erano una piccolissima minoranza. Ora abbiamo occupato la scuola e organizzato un evento con centinaia di persone e i media; non era mai successo.

Sofia Orr, 18 anni

Sofia Orr. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché mi oppongo alla dittatura e voglio lottare per una vera democrazia per tutti, sia in Israele che nei territori occupati. Per me è stato importante firmare questa lettera perché stabilisce questo collegamento, che per me è evidente, che la riforma e l’occupazione non possono essere separate.

Penso che questo evento e il numero dei firmatari dimostrino come queste opinioni stiano lentamente iniziando a diventare opinione pubblica, o almeno che la pubblica opinione è pronta ad ascoltarle e ad essere coivolta. Questa è davvero una benedizione. Mostra il cambiamento che sta ora accadendo. Dobbiamo andare avanti e non lasciare che ci zittiscano. Cercare di metterci a tacere fa parte di quella politica dittatoriale a cui ci opponiamo.

Itay Gavish, 17 anni

Itay Gavish. (Oren Ziv)

Durante le proteste mi sono imbattuto nel blocco anti-occupazione, e lì ho capito che non volevo prendere parte all’occupazione e che mi sarei rifiutato di arruolarmi nell’esercito. Ho firmato la lettera per dimostrare che io e centinaia di altri giovani non avremmo prestato servizio nell’esercito di occupazione. In queste manifestazioni ho sentito che era legittimo uscire allo scoperto per protestare.

Penso di aver avuto paura di essere troppo radicale, e il blocco anti-occupazione era un luogo dove potevi andare a manifestare con gli altri sionisti e poi fare qualcosa di più. La lotta contro la riforma giudiziaria è fatta anche da persone che non hanno per forza a che fare con l’occupazione e non si preoccupano necessariamente del fatto che il rifiuto alla leva sia un importante strumento di protesta.

Lily Hochfeld, 17 anni

Lily Hochfeld. (Oren Ziv)

Mi sono chiesta quale fosse il mio limite, se fossi disposta a prestare servizio in qualsiasi esercito di qualsiasi paese. Ho deciso che ci sono eserciti in cui voglio credere che non mi sarei arruolata. Per me dare pieno sostegno alla violenza dei coloni, a decenni di governo militare e alla riforma giudiziaria che dà tutto il potere a politici corrotti e clericali supera totalmente il mio limite. Non posso più arruolarmi in un tale esercito senza temere per il mio futuro e per quello del mio Paese.

Le proteste hanno aperto il vaso di Pandora. All’improvviso, una mattina ci siamo svegliati e al governo sedevano persone che un tempo erano fuori dalla legalità anche per la destra, come [Itamar] Ben Gvir, che continua sulle orme di [Meir] Kahane [rabbino ortodosso, scrittore e politico ultranazionalista già parlamentare poi condannato per atti di terrorismo, ndt.] Il nuovo governo ha reso tutto chiaro: abbiamo capito le loro vere intenzioni.

Tal Mitnick, 17 anni

Tal Mitnick. (Oren Ziv)

Io e altri giovani ci siamo resi conto che la dittatura che esiste in Israele e la dittatura che esiste da decenni nei territori occupati sono inseparabili. Il maggior obiettivo dei politici e dei coloni è quello di intensificare l’occupazione e l’oppressione di più popolazioni all’interno di Israele e nei territori occupati, e di annettere l’Area C della Cisgiordania [che è sotto il pieno controllo militare israeliano].

Per molti di noi queste manifestazioni sono state una rivelazione. Non ero politicamente attivo prima delle proteste. Mi hanno fatto capire cosa significa manifestare come coscritti con centinaia di altri prima di essere arruolati e dichiarare “non faremo il servizio militare”.

Ella Greenberg Keidar, 16 anni

Ella Greenberg Keidar. (Oren Ziv)

Siamo stati intervistati dai media prima dell’evento di oggi. In quasi tutte le interviste, gli intervistatori hanno cercato di cogliere l’attimo [e chiederci]: “Sei contro l’occupazione o sei contro la riforma?” Perché, dicono, opporsi all’occupazione è irrilevante: è una notizia vecchia. Ciò che ci interessa sono coloro che rifiutano la riforma giudiziaria. Cosa c’entra l’occupazione? Questo è il tipo di discorso che fanno i manifestanti che vengono al blocco anti-occupazione con le bandiere israeliane.

L’opposizione all’occupazione è incompleta senza l’opposizione alla riforma giudiziaria e viceversa. Le persone che promuovono la riforma – Simcha Rothman, Itamar Ben Gvir, Bezalel Smotrich, sono coloni. La loro agenda è quella dei coloni, che prevede l’espansione dell’occupazione, la pulizia etnica e le espulsioni. La riforma ha lo scopo di ripulire l’Area C dai palestinesi, legalizzare nuovi avamposti e garantire ancora più privilegi, sanciti per legge, agli insediamenti e ai coloni. Voglio dire ai media e al pubblico di Kaplan [arteria principale nel centro di Tel Aviv dove si sono svolte le manifestazioni, ndt.] che queste cose sono correlate.

Ayelet Kovo, 17 anni

Ayelet Kovo. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non sono pronto a far parte del braccio violento dello Stato, utilizzato per opprimere le persone. Non sono pronto per essere una persona che opprime i palestinesi nei territori occupati, né per essere quello che opprime il popolo ebraico e palestinese nelle manifestazioni in Israele. So che qui non c’è mai stata democrazia o parità di diritti, e non sono pronto ad arruolarmi per un paese che è fondamentalmente discriminatorio.

Iddo Elam, 17 anni

Iddo Elam. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non accetterò di arruolarmi in questo esercito. È un esercito che occupa la Cisgiordania e milioni di palestinesi, l’esercito di un governo di estrema destra che cerca di portare la dittatura dai territori occupati in Israele. Lo vediamo bene in queste ultime settimane, con le minacce alla nostra manifestazione al liceo e con le violenze della polizia contro i manifestanti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Soldatesse israeliane costringono delle donne palestinesi a spogliarsi utilizzando un cane da combattimento

Amira Hass

5 settembre 2023 – Haaretz

Durante un raid a Hebron cinque donne della stessa famiglia sono state costrette a spogliarsi sotto la minaccia di un cane dell’unità cinofila e dei fucili dei soldati

A luglio nella città di Hebron in Cisgiordania due soldatesse israeliane mascherate, armate di fucili e con un cane da attacco, hanno costretto cinque donne facenti parte di una famiglia palestinese a spogliarsi, ognuna separatamente. Le soldatesse hanno minacciato di liberare il cane se le donne non avessero obbedito, dichiara la famiglia.

Durante lirruzione nella casa i soldati hanno perquisito i maschi della famiglia ma non hanno chiesto loro di togliersi i vestiti.

I militari erano in possesso di informazioni secondo cui in quella casa sarebbero state presenti delle armi e il portavoce dellunità delle forze di difesa israeliane ha detto ad Haaretz che sono stati trovati un fucile M16 e munizioni, il che ha richiesto una ulteriore perquisizione degli occupanti.

Un totale di 26 persone, tra cui 15 minori dai 4 mesi ai 17 anni, vivono in tre appartamenti adiacenti nella casa della famiglia Ajluni, nella zona sud di Hebron. La famiglia dice che il 10 luglio all’1:30 di notte circa 50 soldati con almeno due cani hanno circondato la casa.

Secondo la famiglia circa 25 – 30 soldati hanno preso posizione all’interno degli appartamenti passando da una stanza all’altra dopo aver svegliato gli occupanti con torce elettriche, forti colpi alle porte e minacce di sfondarle.

La maggior parte dei soldati erano mascherati e si vedevano solo gli occhi. Uno, che sembrava essere l’ufficiale in comando ed era senza maschera, indossava pantaloni militari ma una normale camicia a maniche corte. Le donne non sapevano chi fosse.

Alle 5:30 del mattino, i soldati hanno lasciato la casa, portando con sé il primogenito della famiglia, Harbi, che hanno arrestato. La famiglia ha subito scoperto che i gioielli d’oro che il fratello più giovane, Mohammed, aveva acquistato in vista del suo matrimonio, erano scomparsi. Valevano 40.000 shekel [9.800 euro, ndt.]. Gli uomini si sono precipitati alla stazione di polizia israeliana nel vicino insediamento di Kiryat Arba per sporgere denuncia.

La polizia ha detto che non era stato rubato nulla, ma il giorno successivo un agente ha telefonato a Mohammed e gli ha detto di venire a ritirare il suo oro. Gli è stato detto che i soldati avevano pensato che si trattasse di proiettili. Lunità del portavoce delle IDF [esercito israeliano, ndt.] afferma che i gioielli si trovavano in una borsa nera chiusa con del nastro adesivo, aperta successivamente in una stanza investigativa.

La moglie di Harbi, Diala, ha scoperto che mancavano anche 2.000 shekel che si trovavano in un cassetto, ma il denaro non è stato restituito. I portavoce dell’esercito affermano di non essere a conoscenza di tale accusa.

Costretta a spogliarsi davanti ai suoi figli

Le donne costrette a denudarsi sono Ifaf, 53 anni, sua figlia Zeinab, 17 anni, e le tre nuore di Ifaf: Amal, Diala e Rawan, che hanno circa 20 anni. Una dopo laltra sono state portati nella cameretta rosa e viola dei figli di Amal; ,un orsacchiotto rosa faceva la guardia.

La prima a essere chiamata nella stanza è stata Amal, 25 anni, costretta a spogliarsi in presenza di tre dei suoi quattro figli, che si erano appena svegliati. Piangendo, urlando e terrorizzati dal cane e dai fucili, hanno visto delle soldatesse mascherate ordinare a gesti e in un arabo stentato ad Amal di togliersi l’abito da preghiera.

Amal se lo è sfilato. Quindi le è stato chiesto di togliersi il resto dei vestiti. Lei ha protestato, facendo presente che non poteva avere nulla nascosto sotto i pantaloncini e la canottiera. Racconta che allora hanno liberato il grosso cane, che le si è avvicinato ma senza toccarla.

I bambini atterriti urlavano per tutto il tempo. Amal ha detto alle soldatesse di tirare indietro il cane perché i bambini ne avevano paura; poi si è tolta il resto dei vestiti. I bambini hanno anche dovuto assistere all’ordine dato alla madre, una volta denudata, di voltarsi, mentre singhiozzava per l’umiliazione. Circa 10 minuti dopo lei e i bambini sono stati portati fuori dalla stanza pallidi e tremanti.

La seconda ad essere chiamata è stata Ifaf, la più anziana della famiglia. Non ha voluto parlare molto del suo calvario, anche se ha raccontato che le soldatesse le hanno ordinato con gesti e in un arabo stentato di togliersi i vestiti. Basta, voltati, rivestiti.

Nel frattempo gli altri membri della famiglia venivano trattenuti in altre due stanze dello stesso appartamento. Le donne e i bambini erano in una stanza e gli uomini nell’altra. Due o tre soldati armati erano appostati davanti alla porta di ogni stanza e ordinavano agli Ajluni di non parlare.

Di tanto in tanto compariva un altro soldato e riferiva qualcosa ai colleghi. Mentre erano tenuti prigionieri nelle stanze i membri della famiglia hanno sentito le urla di Amal e dei figli, seguite da quelle delle altre donne.

Sentivano anche i soldati frugare negli appartamenti adiacenti, dare colpi, aprire i cassetti e lasciarli cadere sul pavimento, oltre alle loro risate.

Silenzio sul trauma

Non sono molte le segnalazioni riguardanti donne palestinesi costrette a denudarsi durante un raid dellesercito nella loro casa. Manal al-Jabari nei suoi 15 anni nel ruolo di ricercatrice sul campo a Hebron per l’organizzazione israeliana per i diritti BTselem ha registrato circa 20 casi simili. Ma ritiene che tali episodi svoltisi sotto la minaccia del fucile siano aumentati negli ultimi mesi. La maggior parte delle donne rifiuta di essere intervistata dai giornalisti sul trauma subito, dice Jabari.

Ma le donne della famiglia Ajluni hanno accettato di essere identificate per nome a patto di non essere fotografate. Alla stessa Jabari è stato intimato di togliersi tutti i vestiti durante una massiccia perquisizione notturna delle case a Hebron dopo l’uccisione il 21 agosto di una donna nel vicino insediamento coloniale di Beit Hagai. Jabari ha notato una telecamera sulla fronte di una soldatessa e si è rifiutata di spogliarsi.

In seguito alle mie insistenze la soldatessa ha rimosso la telecamera. Comunque mi sono rifiutata di spogliarmi. Hanno ceduto, forse perché faccio parte di BTselem”, afferma. Ma i soldati hanno saccheggiato la sua casa, rotto diversi oggetti e lasciato un tale disordine che Jabari non sapeva da dove cominciare a rimettere tutto a posto. Questo è quello che fanno spesso i soldati ed è quello che hanno fatto a casa degli Ajluni.

Parlando ad Haaretz il 27 agosto, le donne della famiglia Ajluni hanno sentito da Jabari, anche lei presente, il racconto della sua personale disavventura. A quel punto hanno ricordato di aver visto anche loro qualcosa sulla fronte delle soldatesse, ma di non sapere cosa fosse. Ora, oltre al trauma della perquisizione, erano tormentate dal dubbio che le soldatesse le avessero filmate mentre erano nude.

L’esercito ha sostenuto con una dichiarazione che le soldatesse non indossavano telecamere, al contrario del cane, ma [hanno aggiunto che] quella era spenta.

In un primo momento le donne hanno detto di non essere sicure se le soldatesse fossero mascherate, ma poi hanno concluso che dovevano esserlo. “Quando ciascuna di noi entrava nella stanza, le soldatesse spostavano un po’ i loro berretti… così abbiamo potuto notare che avevano i capelli lunghi, il che significava che erano donne”, ricordano Diala e Zeinab, completando a vicenda il racconto.

Delle cinque donne costrette a spogliarsi solo Amal non era a casa quando le altre hanno parlato con Haaretz. Era andata a comprare degli oggetti per il matrimonio. La vita riprendeva, l’anno scolastico era iniziato e poco a poco il sorriso tornava sui volti delle donne e dei loro bambini.

Jabari, la ricercatrice sul campo di BTselem, ha registrato i resoconti delle donne un giorno dopo il raid, descrivendo il terrore e lo shock che le Ajluni avrebbero ancora provato settimane dopo. Per circa quattro settimane i bambini si svegliavano spaventati nel cuore della notte e bagnavano il letto. Spesso le donne avevano la sensazione che i soldati fossero ancora in casa e sussultavano ogni volta che sentivano un rumore provenire da fuori.

Soldati davanti alla casa

La notte del raid Diala, 24 anni, si è svegliata sentendo suo marito, Harbi, litigare con qualcuno e chiedere che non entrassero in camera da letto perché lì c’era sua moglie. “Mi sono resa conto che erano soldati e mi sono alzata velocemente per coprirmi e mi sono vestita in fretta con un abito da preghiera”, ha detto.

Continua dicendo che in quel momento hanno fatto irruzione nella stanza i soldati e due grossi cani con la museruola. Le tre ragazze che dormivano nella camera dei genitori si sono svegliate e hanno visto i fucili, i cani e gli occhi che scrutavano da sopra le maschere.

Mio marito ha urlato ai soldati, in ebraico e arabo, di allontanarsi e di portare via i cani. Le mie figlie strillavano, piangevano e tremavano di paura. Lujin, che ha 4 anni, se l’è fatta addosso. I soldati hanno ordinato a mio marito di non parlare con me, gli hanno puntato i fucili alla testa e lo hanno trascinato in cucina”, racconta Diala.

Lo avrebbe rivisto solo diversi giorni dopo, al tribunale militare di Ofer, dove la sua detenzione è stata prolungata più volte. È sospettato di possedere un’arma, dice.

La notte del raid lei e le figlie sono state lasciate in camera da letto per 10 – 15 minuti; poi i soldati le hanno ordinato di attraversare il cortile per recarsi dove era stata obbligata a raccogliersi tutta la famiglia. Era l’appartamento di suo cognato Abdullah e di sua moglie Amal. Diala ha chiesto di poter prendere i soldi dal cassetto, ma lufficiale in maniche corte non lo ha permesso, dice.

Il cortile è solo parzialmente asfaltato ed è pieno di sassi, spine e pezzi di vetro. Lufficiale non le ha permesso di mettere le scarpe alle figlie e ha fatto segno che dovevo portarle in braccio”, dice Diala. Ma lei ha preso in braccio solo Ayla, di 17 mesi e mentre uscivano Lujin e Lida, che ha 5 anni, rimanevano aggrappate alla loro mamma.

“Stavo morendo di paura quando sono passata accanto al cane”, ha detto. Le sue figlie le saltellavano accanto, scalze e piangenti. Ha pensato che nel cortile ci fossero anche altri cani.

A quel punto Abdullah ha chiesto il permesso di recarsi nell’appartamento in cui suo fratello Mohammed si sarebbe trasferito dopo il matrimonio. Abdullah voleva prendere i gioielli d’oro, ma i soldati hanno rifiutato. Lui si è ribellato, quindi lo hanno ammanettato da dietro, bendato e portato nella cucina di Diala e Harbi.

Hanno fatto lo stesso con suo cugino di 17 anni, Yamen. Le donne li hanno trovati in cucina dopo che i soldati sono andati via con Harbi. Hanno tagliato le manette di plastica con un coltello.

Dopo la perquisizione intima di Ifaf, è stata la volta di Diala. Un soldato è entrato nel soggiorno e le ha detto di andare con lui. “Sono entrata in una stanza e, avendo tanta paura del grosso cane, sono rimasta vicino alla porta e ho cercato di uscire”, racconta. Le soldatesse mi hanno urlato contro e mi hanno ordinato di restare nella stanza”.

Quando si è rifiutata di togliersi gli indumenti sotto l’abito da preghiera la soldatessa con il cane ha minacciato di liberare l’animale. Anche Diala una volta nuda ha dovuto girare intorno a se stessa in presenza delle soldatesse, e anche lei ha pianto.

La diciassettenne Zeinab si è ribellata. Quando i soldati hanno chiesto a tutti di consegnare i propri telefoni lei è riuscita a nascondere il suo sotto un cuscino. Ha raccontato che, mentre i membri della famiglia erano ancora seduti in soggiorno con i bambini, un soldato mi ha indicato e mi ha detto [in arabo] Tu, vieni e mi ha condotto nella stanza dei bambini.

Le soldatesse mi hanno mostrato i capelli per farmi capire che erano donne e mi hanno ordinato di mettermi in un angolo della stanza. Poi il soldato ha aperto con rabbia la porta, ha sbirciato dentro, ha agitato il mio telefono, ha sollevato il fucile e lo ha puntato contro di me. Era arrabbiato perché non lo avevo consegnato quando me lo ha detto. Ho urlato. Per fortuna non mi ero ancora tolto lhijab”.

(A quel punto Diala interviene dicendo che le altre donne l’hanno sentita urlare e non sapendo cosa stesse succedendo erano molto preoccupate.)

“Pensavo che ci avrebbero esaminato con apparecchiature elettromagnetiche”, dice Zeinab. Quando la soldatessa mi ha ordinato in un arabo stentato di spogliarmi sono rimasta sorpresa. Ho detto: “Cosa?”. Lei ha risposto: “I vestiti”. Ho detto: “Non voglio”. E lei mi ha intimato: “Togliti tutto”.

Ho deciso di urlare mostrando che non avevo niente addosso e lei ha insistito perché mi togliessi tutto. Quando mi sono opposta si sono avvicinate a me in modo minaccioso con il cane. Ho sentito Diala urlarmi dall’esterno della stanza di fare quello che diceva la soldatessa.

Dopodiché mi sono spogliata. La soldatessa mi ha detto di voltarmi. Mi sono voltata solo a metà e allora lei ha avvicinato di nuovo il cane. Tremavo e piangevo”.

Ad un certo punto i bambini sono stati lasciati soli in soggiorno, senza le loro madri e in presenza dei soldati armati. Dopo essere state perquisite, le madri sono state condotte in un corridoio adiacente. I bambini erano spaventati e piangevano.

I soldati hanno in parte accolto le richieste delle madri e hanno permesso loro di prendere i due bambini più piccoli. Ifaf e uno dei suoi nipoti raccontano che i soldati hanno cercato di calmare i bambini rimasti soli in soggiorno. Hanno fatto il batti pugno con i pugnetti di alcuni di loro.

Il portavoce dell’unità delle IDF ha dichiarato: Secondo lintelligence è stato trovato un lungo M16, oltre a munizioni e un caricatore. Dopo il ritrovamento dell’arma è stato necessario controllare le altre persone presenti nell’abitazione per escludere la possibilità di trovare altre armi. Secondo le istruzioni degli investigatori della polizia di Hebron le soldatesse [dell’unità cinofila] hanno perquisito le donne presenti nella casa in una stanza chiusa, ognuna individualmente. Le soldatesse non indossavano telecamere.

Il cane, che non era presente nella stanza durante l’ispezione, aveva una telecamera montata sulla schiena per scopi operativi e in quel momento non era accesa. Nel corso delle perquisizioni è stata rinvenuta e portata via insieme all’arma una borsa nera nascosta, chiusa con del nastro adesivo. La borsa è stata aperta nella stanza delle indagini e si è capito che si trattava di gioielleria.

Il giorno dopo la perquisizione è venuto il fratello dellarrestato, ha firmato [una dichiarazione secondo cui] si trattava di gioielli di famiglia e se li è ripresi. Non siamo a conoscenza dell’affermazione relativa ai 2.000 shekel. Non ci risulta alcuna lamentela riguardo al caso. Qualora pervenga verrà presa, come di consueto, in considerazione”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele uccide due palestinesi e distrugge ancor di più il campo di Nur Shams

Redazione di Al Jazeera

5 settembre 2023 – Al Jazeera

Ayed Abu Harb è stato ucciso durante un’incursione su vasta scala del campo di Nur Shams a Tulkarem, prima di un altro palestinese ucciso da Israele nella Valle del Giordano.

Tulkarem, Cisgiordania occupata – Forze israeliane hanno ucciso un giovane palestinese e ne hanno ferito gravemente un altro durante una massiccia incursione contro il campo profughi nella città di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania occupata, danneggiando alcune infrastrutture del campo.

Sempre martedì qualche ora dopo un altro palestinese è stato ucciso dopo che avrebbe aperto il fuoco contro soldati israeliani in una colonia ebraica illegale in Cisgiordania.

Il ministero palestinese della Sanità ha annunciato che l’uomo ucciso a Tulkarem è il ventunenne Ayed Samih Khaled Abu Harb, affermando che è stato colpito alla testa. Alle 11 si è svolto il corteo per il suo funerale.

All’alba forze israeliane con trattori blindati hanno fatto irruzione da varie direzioni nel sovrappopolato campo profughi di Nur Shams. provocando la resistenza armata da parte di combattenti palestinesi.

Hanno disselciato la strada che porta al campo, a pochi minuti dalla città di Tulkarem, e prima di ritirarsi tre ore dopo hanno distrutto alcune case e negozi, così come infrastrutture.

Hanno distrutto ogni cosa”

Taha al-Irani, presidente del comitato popolare del campo, ha parlato martedì con Al Jazeera del livello di devastazione e dello shock per l’uccisione di Abu Harb e il ferimento di un altro uomo.

Ti assicuro che il martire [Ayed] era semplicemente in piedi davanti alla porta di casa quando è stato ucciso, e l’uomo in condizioni critiche è un taxista che stava andando al lavoro,” afferma al-Irani, 50 anni.

C’è una devastazione totale nel campo… La strada principale che lo collega ad altre città – Tulkarem, Nablus, Ramallah – è stata parzialmente distrutta.”

Il campo profughi di Nur Shams, sorto nel 1952, è uno dei due campi di Tulkarem ed è stato costruito per accogliere rifugiati palestinesi della zona di Haifa in seguito alla Nakba, o pulizia etnica della Palestina da parte delle milizie sioniste nel 1948.

Mohammad Abu Talal, trentanovenne proprietario di un supermarket, dice ad Al Jazeera: “L’esercito è entrato con scavatrici e trattori. Hanno distrutto il negozio, hanno distrutto ogni cosa.”

In un comunicato il provveditorato agli studi di Tulkarem ha annunciato che avrebbe sospeso le lezioni martedì.

Quest’anno sono stati uccisi 233 palestinesi

Più tardi sempre martedì nella Valle del Giordano forze israeliane hanno affermato di aver ucciso un palestinese che aveva aperto il fuoco verso un centro commerciale in una colonia illegale nei pressi della Route 90, la principale autostrada della regione.

Il palestinese è stato identificato dal ministero palestinese della Sanità come il diciassettenne Mohammed Zubaidat.

Prima di essere ucciso Zubaidat avrebbe ferito un soldato israeliano.

Con la morte di Abu Harb e Zubaidat il numero di palestinesi uccisi dall’esercito israeliano dall’inizio dell’anno è salito a 233.

L’esercito israeliano ha affermato di aver arrestato nella sola nottata di martedì 21 palestinesi “ricercati sospetti”. In totale sono migliaia i palestinesi detenuti in varie forme da Israele.

L’esercito israeliano occupa militarmente da 56 anni la Cisgiordania, dove vivono circa tre milioni di palestinesi.

Negli ultimi due anni la resistenza armata palestinese si è riorganizzata ed è cresciuta per rilevanza, soprattutto nel nord della Cisgiordania occupata. Come risposta Israele ha cercato di schiacciare questa resistenza con incursioni quasi quotidiane, che hanno provocato pressoché ovunque vittime, contro le città, villaggi e campi profughi palestinesi

Nur Shams è stato preso di mira il 24 luglio in un altro recente attacco israeliano su larga scala, durante il quale sono stati feriti almeno 13 palestinesi, di cui 4 da proiettili veri e 9 da granate. Durante l’incursione le forze israeliane hanno anche danneggiato seriamente infrastrutture, obbligando l’Autorità Nazionale Palestinese a destinare una parte del proprio bilancio alla ricostruzione del campo.

Grazie a dio non avevamo ancora pubblicato bandi di appalto per la ricostruzione di strade e infrastrutture (dopo i primi raid),” afferma al-Irani.

Il 5 agosto l’esercito israeliano ha fatto incursione nel campo e ha colpito alla testa da distanza ravvicinata il diciottenne Mahmoud Abu Sa’an uccidendolo, ha affermato il ministero della Sanità. Abu Sa’ad si era appena diplomato all’esame di maturità.

Se gli israeliani pensano di poter ottenere la sicurezza e la pace con l’oppressione e i crimini che commettono stanno delirando. Ciò non avverrà finché i palestinesi non avranno ottenuto i loro diritti per vivere in dignità nel loro Stato,” afferma al-Irani.

Interviste di Ayman Nobani nel campo profughi di Nur Shams.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un comitato dell’ONU pubblica un esaustivo studio sulla legalità dell’occupazione di Israele 

Jeff Wright

4 settembre 2023,  Mondoweiss

Lo studio è la più esaustiva e persuasiva analisi del perché l’occupazione di Israele è ora diventata illegale”, afferma l’ex Relatore Speciale dell’ONU Michael Lynk. “Sarà a lungo il punto di riferimento intellettuale e politico sulla Palestina e il diritto internazionale.”

La settimana scorsa il Comitato ONU per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP) ha pubblicato uno studio durato due anni: ‘La legalità dell’occupazione israeliana dei territori occupati, compresa Gerusalemme est.’

Il Presidente del Comitato ambasciatore Cheikh Niang ha presentato lo studio commissionato dal CEIRPP ed elaborato dal Centro Irlandese per i Diritti Umani dell’Università Nazionale di Irlanda a Galway. Niang ha detto: “L’importanza e l’urgenza di questo studio non possono essere sovrastimate…E’ un obbligo per noi, comunità internazionale, approfondire la nostra comprensione delle questioni giuridiche sollevate da questa prolungata occupazione e dal suo forte impatto sui diritti umani, la pace e la stabilità nella regione.”

Su invito del Comitato ONU l’ex Relatore Speciale per l’ONU sulla Palestina Michael Link ha fatto delle riflessioni sullo studio. Ha evidenziato molte delle sue conclusioni e lo ha descritto come “la più esaustiva, dettagliata, accurata documentazione che affronta le questioni che l’Assemblea Generale dell’ONU ha posto di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia per il suo parere consultivo sulla legalità dell’occupazione della Palestina da parte di Israele, che dura ormai da più di 56 anni.”

Il rapporto di 106 pagine è uno studio esaustivo (ricco di oltre 700 note a margine) che conclude che la condotta di Israele incorre in “due chiari presupposti del diritto internazionale che stabiliscono quando un’occupazione belligerante può essere definita illegale.” (Un’occupazione belligerante, il termine più spesso usato nel diritto internazionale, è chiamata più comunemente occupazione militare ed è definita come il controllo militare da parte di una potenza dominante su un territorio al di fuori del territorio sovrano di tale potenza).

Lo studio conduce il lettore nei meandri del diritto internazionale: le definizioni; i casi in cui un’occupazione permessa ai sensi del diritto internazionale può essere considerata illegale; casi analoghi portati davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ); un’analisi – e confutazione – delle politiche e delle posizioni di Israele relativamente alla sua amministrazione del territorio palestinese; la presentazione della prova che l’occupazione belligerante è diventata illegale; un esame della responsabilità – in base al diritto internazionale – per la comunità internazionale di agire per porre termine all’occupazione.

E lo studio giuridico è accessibile a lettori profani. Coloro che sono ben informati sulla perdurante situazione in Palestina/Israele potranno corroborare le proprie conoscenze attraverso le tante risorse e conclusioni rivelate dallo studio.

Mentre riconosce che “la sede più appropriata per esaminare la legalità dell’occupazione è la Corte Internazionale di Giustizia”, lo studio, come si legge, “fornisce la base concreta per sostenere la conclusione che l’occupazione di Israele è illegale.”

A seguito della rilevazione di illegalità, lo studio conclude che, secondo il diritto internazionale, la conseguenza dovrebbe essere l’immediato, incondizionato e totale ritiro delle forze militari di Israele; l’allontanamento dei coloni; lo smantellamento del regime amministrativo militare, con chiare indicazioni che l’annullamento della violazione di un atto illecito a livello internazionale non è soggetto a negoziato. Dovrebbero essere accordate piene e proporzionate riparazioni a singoli individui, corporazioni ed enti palestinesi coinvolti, per il danno generazionale causato dalle appropriazioni di terra e proprietà da parte di Israele, dalle demolizioni di case, spoliazione di risorse naturali, negazione del ritorno ed altri crimini di guerra contro l’umanità organizzati per gli obbiettivi di colonizzazione e di annessione di un occupante illegale.

Si prevedono discussioni all’Aja la prossima primavera da parte della ICJ sulla legalità dell’occupazione israeliana e sulle conseguenze legali spettanti alla comunità internazionale.

Mondoweiss ha intervistato telefonicamente il professor Lynk, ora in pensione, dopo la riunione del comitato.

Mondoweiss: come è nato lo studio, perché il Centro Irlandese per i Diritti Umani?

Michael Lynk: L’idea dello studio è nata tramite il Comitato ONU sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese e la Divisione per i Diritti dei Palestinesi. Hanno individuato la necessità di uno studio ad ampio raggio, sia per la formazione pubblica che per promuovere i passi diplomatici per l’autodeterminazione palestinese.

Per molte ragioni aveva senso contattare il Centro Irlandese. Anzitutto perché l’Irlanda, tra tutti gli Stati europei, ha assunto una posizione molto buona relativamente alle iniquità collegate all’occupazione. In secondo luogo, il Centro ha formato parecchi studiosi di legge che hanno continuato a scrivere molto sulla Palestina. Molti sono andati a lavorare con organizzazioni in Palestina ed Israele su questioni riguardanti l’occupazione e il diritto internazionale. Perciò il Centro aveva la disponibilità, la conoscenza dell’occupazione e la competenza giuridica per essere in grado di condurre lo studio.

Lasciatemi dire che sono una persona profondamente impegnata ad occuparsi di diritto internazionale e di Palestina. Eppure ho imparato moltissimo dallo studio. Vi sono molte fonti e molte conclusioni e molte, molte argomentazioni che non mi erano consuete. E’ rivoluzionario. Nel prossimo periodo sarà il punto di riferimento intellettuale e politico sulla Palestina e il diritto internazionale.

Quali sono alcune delle caratteristiche importanti dello studio?

Una è la visione in gran parte del nord globale – USA, Canada e molti Paesi europei: “Si, ci possono essere illegalità o atti illegittimi da parte di Israele nella gestione dell’occupazione: le colonie, l’annessione di Gerusalemme est, il muro.” Ma complessivamente questi Paesi hanno sempre ritenuto che l’occupazione fosse legale. Dicono: “Stiamo solo aspettando la giusta…magica salsa diplomatica per mettere insieme le parti a negoziare la fine di questo.”

Lo studio dice che non solo ci sono significative illegalità correlate all’occupazione, ma l’occupazione stessa è oggi illegale…

Tutto quel che dovete fare è ascoltare i commenti dei nuovi leader israeliani per capire che l’occupazione non finirà grazie a Israele. Naftali Bennet, quando era Primo Ministro due anni fa, disse: “Sono contrario ad uno Stato palestinese e sto rendendo impossibile condurre negoziati diplomatici che possano portare ad uno Stato palestinese.” Benjamin Netanyahu ha detto – e sto parafrasando: “Il massimo che possiamo offrire ai palestinesi è un non-Stato. Cioè avranno il potere di raccogliere la loro immondizia, pulire le loro strade e gestire il loro servizio idrico. Per il resto, noi controlliamo il territorio dal Mediterraneo al Giordano.”

Quale spera sarà l’impatto dello studio?

Dovrebbe essere una pietra miliare nel pensiero diplomatico riguardo a come affrontare e come porre fine all’occupazione israeliana, obbiettivo dichiarato da tutti gli Stati del mondo, a parte Israele. Se l’occupazione stessa è illegale, questo alza l’asticella della responsabilità in capo alla comunità internazionale, in particolare il nord globale, di ammettere finalmente che l’occupazione non finirà da sola. Non finirà ripetendo il mantra dei “negoziati per una soluzione a due Stati”, quando non viene fatto niente da parte del nord globale per imporre un costo diplomatico… un costo economico ad Israele che sta facendo il possibile per scrivere il necrologio dell’autodeterminazione palestinese.

Quanto all’udienza che si terrà davanti alla ICJ, quale conclusione pratica, concreta possiamo prevedere?

A dicembre dello scorso anno l’ONU ha adottato una risoluzione che chiedeva alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su una serie di questioni – se la prolungata occupazione è sempre illegale, quali sono le conseguenze giuridiche che emergono dall’adozione da parte di Israele delle relative misure discriminatorie, quali sono le conseguenze giuridiche per la comunità internazionale e per le Nazioni Unite. Ricorderete che l’ICJ è la più alta istanza giuridica nel sistema delle Nazioni Unite. Nel 2004 emise un parere consultivo che stabilì che il muro di separazione israeliano era illegale.

Ora, molti Paesi – in primis del sud globale – hanno inviato dichiarazioni scritte alla ICJ, sostenendo che l’occupazione è divenuta illegale e che deve finire immediatamente. Alcuni hanno argomentato che Israele ha violato le norme fondamentali del diritto internazionale istituendo l’apartheid. Solo un piccolo gruppo di Stati – che comprende gli Stati Uniti, Israele, il Regno Unito e il Canada – ha inviato dichiarazioni in cui si chiede che la ICJ non risponda alla richiesta dell’Assemblea Generale di un parere consultivo, sostenendo che tutto dovrebbe invece essere posto ad un tavolo negoziale.

Il solo modo in cui i palestinesi possono mai sperare di trattare veramente ad un tavolo negoziale è se la comunità internazionale insistesse che qualunque negoziato tra Israele e Palestina sia condotto totalmente in un quadro basato sui diritti, con la richiesta centrale che Israele ponga completamente fine all’occupazione, immediatamente e senza condizioni. E che Israele sia responsabile delle riparazioni verso i palestinesi per ciò che è accaduto negli ultimi decenni.

Qualche riflessione personale sul suo lavoro?

Considero un onore nella mia vita l’aver ricoperto il ruolo di Relatore Speciale dell’ONU per sei anni (2016-2022). Prima della mia nomina avevo svolto una notevole quantità di lavoro su Palestina e Israele, avevo vissuto nei territori occupati e lavorato alle Nazioni Unite, avevo fatto ampie letture sulla Palestina. Ma l’opportunità come Relatore Speciale di parlare a livello internazionale sul peggioramento della situazione dei diritti umani, di incontrare le coraggiosissime organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani che hanno fatto un enorme lavoro su questa questione, è stata la più significativa esperienza della mia carriera giuridica.

Aggiungerò questo: quei sei anni hanno segnato un importante punto di svolta. All’improvviso potevi iniziare a vedere l’enorme cambiamento di direzione. Nel 2016 era un’eresia pronunciare la parola apartheid. Al momento in cui me ne sono andato nel 2022 il termine apartheid era stato adottato da tutte le importanti organizzazioni per i diritti umani internazionali e regionali per descrivere ciò che avveniva nei territori occupati…oltre a ciò che è accaduto dopo il mio periodo in carica: l’avvento di questo nuovo governo israeliano estremista, l’inasprimento dell’atteggiamento internazionale verso l’occupazione. Penso che l’atteggiamento internazionale stia cambiando, e cambiando rapidamente. Non sarebbe cambiato senza tutte queste organizzazioni per i diritti umani che agiscono sul campo in Palestina ed Israele, che hanno fatto un lavoro così eroico per cambiare il vocabolario, per cambiare la consapevolezza di ciò che sta accadendo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I veri architetti e attuatori del regime di supremazia ebraica in Israele

Hagai El-Ad

2 settembre 2023,  Haaretz

La gran parte di quelli che sono così sprezzanti nei confronti di Ben-Gvir convivono molto bene con l’apartheid israeliano – semplicemente non lo proclamano ai quattro venti

Nei mesi trascorsi da quando il deputato Itamar Ben-Gvir (Sionismo religioso/Otzma Yehudit) è stato nominato Ministro della Sicurezza Nazionale di Israele non c’è stata settimana in cui un general maggiore dell’esercito o della polizia in pensione non abbia sommerso di profondo disprezzo il “ministro della distruzione”, la nullità che non capisce nulla e ha ancor meno esperienza, il “sospetto” dello Shin Bet che è diventato il “ministro rompiballe” e chi più ne ha più ne metta. La rabbia è così pervasiva che ci si può solo fermare e chiedersi: che cosa si sta cercando di nascondere dietro tutto questo?

Perché, dopo tutto, è doveroso e persino logico disprezzare Ben-Gvir per le politiche violente, piene di odio e razzismo che promuove. Ma qual è il significato di questo profondo disprezzo? Anni fa (ai bei vecchi tempi, quando era semplicemente un “sospetto”), il servizio di sicurezza dello Shin Bet lo giudicava “persona acuta, brillante e astuta”. Verso la fine del 2022, dopo le elezioni per l’attuale XXV Knesset, Ben-Gvir è riuscito a sfruttare la forza politica della sua piccola fazione alla Knesset (i sei parlamentari di Otzma Yehudit) e gli è stato assegnato il portafoglio ministeriale che aveva richiesto.

Da allora il ministro rompiballe si è lavorato il commissario di polizia e i suoi pezzi grossi come se fossero palle da impasto a temperatura ambiente.

Per non parlare del percorso che la nullità ha superato dall’essere una persona con la quale il primo ministro Benjamin Netanyahu rifiutava di farsi fotografare a persona che non molto tempo fa è stata complice nella manovra di Netanyahu per annullare il principio di ragionevolezza [per cui l’atto legislativo si deve adeguare ad un canone di razionalità per evitare decisioni arbitrarie ed irrazionali, ndt.] dell’Alta Corte. Tutto ciò sembrerebbe sottintendere l’esistenza di una certa dose di saggezza pratica e di acume politico. Forse non si dovrebbe essere meno automaticamente sprezzanti nei confronti di chi ha raggiunto tutto questo?

Invece di affrontare seriamente una tale figura politica e l’agenda che persegue, molti preferiscono deglutire e rallegrarsi del fatto che il gabinetto di sicurezza non venga convocato (per paura che Ben-Gvir possa ottenere delle informazioni) e che vengano prese decisioni importanti sopra la sua testa (perché è una superflua nullità). Una nullità talmente superflua che sta guidando un movimento ben radicato a plasmare un discorso pubblico che normalizza la supremazia ebraica e la grida ai quattro venti – e sono proprio quei quattro venti l’essenza della questione.

In effetti, la grande maggioranza di coloro che sono così sprezzanti nei confronti di Ben-Gvir convivono molto bene con un Israele di supremazia ebraica – semplicemente non lo gridano ai quattro venti, il cielo non voglia. Questo è il metodo su cui si fonda il regime israeliano: garantire “l’assoluta uguaglianza dei diritti”, come previsto dalla Dichiarazione di Indipendenza (e poi imporre un regime militare ai cittadini palestinesi e saccheggiare le loro terre); consentire ai sudditi palestinesi presenti nei territori di presentare ricorso all’Alta Corte di Giustizia (che a sua volta convalida la tortura, le demolizioni di case, l’incarcerazione senza processo e il furto di terre); avviare un’indagine quando i soldati uccidono palestinesi (e poi chiudere il caso senza incriminazioni); essere una “nazione startup” (e utilizzare la tecnologia avanzata qui sviluppata per migliorare il controllo sui palestinesi); parlare quando necessario del “processo di pace” (e nel frattempo continuare a costruire colonie).

In breve: supremazia ebraica? Fantastico. Ma Otzma Yehudit (potere ebraico) al governo? Orrore. Tutto – uccidere, espropriare, opprimere – solo non alla luce del sole, in modo da mantenere una legittimità internazionale, in modo da non diventare come il Sud Africa durante il regime dell’apartheid – pur nel pieno di una assennata realizzazione dell’apartheid. Anche se questo metodo necessita di più tempo, richiede pazienza e una certa abilità, se si guarda ai risultati di 100 anni di sionismo è impossibile mettere in dubbio il fatto che, almeno finora, ha avuto successo. Un buon trucco: praticare l’apartheid ed essere considerati, agli occhi del mondo – e ai nostri stessi occhi – una democrazia.

Affinché la faccenda funzioni, ogni apparato statale deve adempiere al proprio compito: Knesset ed esercito, ministeri e tribunali. Questi ultimi – i tribunali, che sono stati al centro del discorso pubblico degli ultimi mesi, attaccati da destra e difesi da sinistra – hanno effettivamente svolto un ruolo centrale nel convalidare il regime di supremazia ebraica.

E non solo per quanto riguarda la situazione nei territori occupati, ma per l’intero territorio governato da Israele: basti ricordare la legge sui Comitati di Ammissione, che consente alle comunità costruite su suolo pubblico di respingere le domande di residenza di candidati “non idonei” – leggi “arabi”. (Nel 2014 l’Alta Corte si era rifiutata di intervenire; proprio di recente la Knesset ha esteso l’applicazione della legge con il sostegno dei membri dell’opposizione), o la Legge fondamentale di Israele come Stato-nazione del popolo ebraico (nel 2021, l’Alta Corte ha respinto le istanze contro la legge – 10 giudici ebrei contro l’unico dissenso del giudice arabo, George Karra). Coloro che non ne sono ancora convinti dovrebbero ascoltare ciò che l’ex presidente della Corte Suprema, Dorit Beinisch, ha affermato solo pochi mesi fa sul ruolo della Corte: “La Corte Suprema non ha mai deciso che le colonie non sono legali, che è un principio fondamentale nel diritto internazionale.”

No. Siamo parte del sistema. Se Israele sta dando battaglia sulla scena internazionale, non intralciamo, al contrario: sosteniamo.

La Corte Suprema è tanto lontana dal ministro rompiballe quanto l’est è dall’ovest. Questo è ovvio. Ma quale dei due ha contribuito maggiormente a far avanzare il progetto delle colonie e al suo successo? In realtà, la risposta a questa domanda è banale: è la Corte Suprema, un gioco da ragazzi. Ma emotivamente, è una risposta che – per la maggior parte dei sostenitori della nostra “democrazia”– è intollerabile.

Lo stesso discorso vale quando si tratta di un elemento cruciale della capacità di Israele di governare i palestinesi: la necessità di insabbiare così tante uccisioni di palestinesi e nel contempo conservare una facciata di legittimità per la violenza di Stato. Israele lo fa da anni con grande abilità. Dopo le ultime elezioni, Ben-Gvir ha cercato di promuovere una “legge sull’immunità” per il personale delle forze di sicurezza, ma alla fine è stato convinto (per il momento) ad abbandonare l’idea. Presumibilmente perché ha capito che, in pratica, l’immunità che Israele concede ai membri delle sue forze di sicurezza è quasi assoluta, e che è preferibile andare avanti così fino in fondo, anche se a volte implica aspettarsi ciò che a prima vista sembrano “indagini”.

Chi ha maggiormente contribuito alla creazione di questo stato di cose, in cui l’inutile teatrino delle indagini serve con successo a Israele sulla scena internazionale e gli consente di continuare a uccidere palestinesi senza assumersene alcuna responsabilità? L’avvocato generale-procuratore generale-Alta Corte di Giustizia militare (nota anche come “élite giudiziaria”), o Ben-Gvir? Ancora una volta, la risposta è banale: la faccenda dell’immunità è frutto del lavoro di quegli stessi onesti giuristi; Ben-Gvir non vi ha parte. Si potrebbero citare molti altri esempi, non ultimo il ricco campo delle modalità “legali” con cui la terra palestinese è stata saccheggiata ai suoi originari proprietari e passata nelle mani dello Stato dal 1948 ad oggi. Ma ormai il metodo è chiaro.

Arriviamo così al 2023, e ai quattro venti: molti ebrei in Israele hanno deciso di non voler più stare a questo gioco, per quanto vincente e intelligente possa essere. Vogliono di più e più velocemente. Possono essere definiti estremisti o messianici, ma questo non spiega nulla. Come è successo? Sul piano emotivo è impossibile non distinguere la necessità di colmare il divario tra un’ideologia chiara e comprensibile a tutti e la sua attuazione eccessivamente complessa. Perché se va bene la “supremazia ebraica”, perché non il “Piano di vittoria” (di Bezalel Smotrich), o “Lasciate vincere le forze di difesa israeliane” e tutto il resto? A livello pratico, secondo loro, è possibile e auspicabile portare avanti il progetto di supremazia ebraica tra il fiume e il mare con più forza, meno parole, e una maggiore dose di grettezza, potere e violenza. Sì, palesemente, ai quattro venti.

La verità è che non c’è motivo di stupirsi se gradualmente sempre più ebrei abbiano deciso di seguire la strada lastricata da tutte quelle sedicenti persone ragionevoli e di arrivare a conclusioni che stanno ora scioccando le persone ragionevoli.

Ecco cosa sta succedendo ora: volenti o nolenti, lo stiamo sentendo sempre più gridato ai quattro venti. Vediamo che qualcuno grida la supremazia ebraica in tutte le direzioni. In realtà quel qualcuno non è Ben-Gvir. Quella figura è il primo ministro (che nel 2016 ha telefonato al padre del sergente Elor Azaria [che uccise un palestinese ferito incapace di nuocere, ndt.]), il presidente della Corte Suprema (che proclama che la Legge Fondamentale dello Stato-Nazione non vìola l’uguaglianza), il comandante dell’aeronautica (con più di 500 bambini palestinesi uccisi a Gaza nell’estate 2014) e il capo dello Shin Bet (che invoca la “difesa di necessità” per la tortura, e, meraviglia delle meraviglie, ogni palestinese finisce per confessare). Gli artefici della supremazia ebraica e i suoi attuatori. Sono loro che non solo sono d’accordo con Ben-Gvir sul principio della supremazia ebraica, ma sono anche quelli che ci hanno portato a questo punto e sono stupiti e furiosi quando lui e i suoi simili vogliono andare oltre.

Questi sono i fatti. Ma sono emotivamente insopportabili. Cosa fare? Trasformare Ben-Gvir in una sorta di clown marginale, svilirlo per non dover affrontare la persona che grida ai quattro venti, che è la persona nello specchio. Bandire le prove. Ben-Gvir è tutto ciò che non siamo. E poi potremo gridare “De-mo-cra-zia” fino a diventare rauchi.

Ma qui la democrazia non è mai esistita. Anche se potessimo tornare al novembre 2022, senza Ben-Gvir e con il principio della ragionevolezza, saremmo comunque uno Stato di apartheid. È questo ciò che vogliamo? Le prossime elezioni forse rafforzeranno Ben-Gvir o forse, al contrario, lo metteranno effettivamente da parte, ma la strada aperta dagli architetti della supremazia ebraica – la strada aperta dal sionismo così come è stato messo sin qui in pratica – resterà aperta. Se non Ben-Gvir, altri la percorreranno.

E qui sta la vera difficoltà: sebbene l’apartheid con il trucco del rossetto burocratico sia uno stratagemma intelligente, ad un certo punto cesserà di persuadere. Dopotutto, c’è la realtà, ci sono i fatti, c’è la vita stessa. Il fatto è che anche dopo 100 anni di sionismo, metà della popolazione tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è palestinese. Se veramente ci importa della vita, dobbiamo trovare una risposta ad una domanda sensata: che tipo di vita costruiremo qui tutti insieme?

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Palestinese ucciso nello scontro a fuoco durante il raid israeliano in una città della Cisgiordania

Redazione Al Jazeera

1° settembre 2023- Al Jazeera

Le forze israeliane hanno preso d’assalto Aqaba e distrutto un edificio dopo averlo assediato, ma non sono riuscite ad arrestare un palestinese ricercato

Un palestinese è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalle forze israeliane durante un raid in una città occupata della Cisgiordania a seguito di uno scontro che ha provocato la distruzione di un edificio.

Abdul Rahim Fayez Ghannam, 36 anni, è stato colpito alla testa ad Aqaba, a nord di Tubas, e dichiarato morto venerdì all’ospedale locale.

Nidal Odeh, direttore dei servizi di emergenza ad Aqaba, ha riferito ai media locali che le forze israeliane hanno impedito alle ambulanze di raggiungere i feriti e che un’ambulanza è stata chiaramente colpita da proiettili veri.

Le forze israeliane hanno fatto irruzione nella città alla ricerca di Ahmad Walid, che accusano di aver effettuato il mese scorso un attacco armato vicino a un posto di blocco nella Valle del Giordano.

Il testimone Saleh Abu Arra ha detto ad Al Jazeera che i soldati israeliani pensavano che Walid si nascondesse in uno degli edifici, ma non c’era.

Il raid è iniziato intorno alle 5 del mattino. I miei due fratelli vivono con le loro famiglie nell’edificio che è stato circondato dalle forze israeliane”, ha riferito il 39enne.

Uno dei suoi fratelli, Bakr Abu Arra, è stato arrestato dagli israeliani.

Saleh Abu Arra ha affermato che “Gli hanno urlato attraverso gli altoparlanti di uscire con la sua famiglia e poi lo hanno picchiato con i fucili e insultato, terrorizzando sua moglie e i figli”, ha detto.

Dopo mezz’ora le forze israeliane hanno iniziato a lanciare bombe assordanti e lacrimogeni contro l’edificio, poi hanno preso di mira il secondo e il terzo piano con granate anticarro che hanno distrutto anche una sala nuziale adiacente.

Nelle cinque ore successive si sono verificati scontri violenti, ha riferito Amir al-Qasem, un altro testimone, con i soldati israeliani che sparavano contro l’edificio in rovina con proiettili veri e gli abitanti palestinesi che lanciavano oggetti contro i veicoli militari.

Anche palestinesi armati hanno preso di mira il convoglio israeliano con proiettili veri.

Al-Qasem ha riferito che “Il martire Fayez è rimasto intrappolato nello scontro a fuoco”; “È un contadino e stava andando nei suoi campi”.

Al-Qasem ha affermato che gli israeliani hanno fallito nella loro missione di arrestare Walid, e quindi hanno iniziato a sparare a caso sulla casa distrutta e sulle aree circostanti.

Ha detto anche di non aver “mai visto una tale quantità di bossoli all’interno di un edificio”.

Le forze israeliane hanno arrestato i due fratelli Bakr e Mohammed Abu Arra e il padre Abdelrazeq.

Il fratello di Ahmad Walid, Mushrif, ha detto ad Al Jazeera di essere rimasto sorpreso quando l’intelligence israeliana lo ha chiamato al telefono

“Mio fratello è operaio in Israele e va via per due settimane o un mese alla volta”, ha precisato Mushrif.

Abbiamo detto agli israeliani che non era qui, ma loro hanno costretto i miei genitori anziani a uscire, li hanno portati all’edificio di Abu Arra e li hanno costretti a gridare con gli altoparlanti ad Ahmad di arrendersi”.

In un comunicato l’esercito israeliano ha affermato che è scoppiato uno scontro a fuoco tra combattenti armati e soldati e “uno degli uomini armati è stato colpito”.

Inoltre afferma che le truppe hanno anche “utilizzato missili a spalla e granate” e successivamente hanno trovato ordigni esplosivi improvvisati e altre armi nell’edificio.

I raid militari israeliani, quasi quotidiani, hanno provocato alcuni dei peggiori combattimenti nella Cisgiordania occupata dall’inizio degli anni 2000.

Più di 200 palestinesi sono stati uccisi da Israele dall’inizio di quest’anno, e le Nazioni Unite affermano che il 2023 sarà l’anno più letale per i palestinesi da quando questo organismo ha iniziato a registrare le vittime palestinesi nel 2006.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Golda: maldestro tentativo di promuovere la propaganda israeliana

Nada Elia

30 agosto 2023 – Middle East Eye

Il film è permeato dalla narrazione sionista, mentre ignora verità fondamentali sulla guerra arabo-israeliana del 1973

Avevo scarse aspettative per Golda, il film sull’ex prima ministra israeliana che nel 1973 ottenne la vittoria del proprio Paese contro gli eserciti egiziani e siriani. 

L’Hollywood Reporter ha descritto il film come un biopic che presenta l’unica donna capo di stato di Israele come “una leader militare sorprendentemente efficace” e una scaltra diplomatica. Ovviamente il regista Guy Nattiv non voleva mostrarci molto del lato “umano” dietro la leggenda, o solo aspetti che potrebbero renderla ancor più leggendaria. Ma con un interesse potenzialmente rinnovato in questo personaggio storico forse questo potrebbe essere un ottimo momento per separare il mito dalla realtà. 

Il mito: negli Stati Uniti Golda Meir è un’icona femminista. Era il quarto primo ministro di Israele dal 1969 al 1974 quando, in un sondaggio Gallup, fu votata “la donna più ammirata” negli USA, davanti all’allora first lady Betty Ford, con Pat Nixon, moglie dell’ex presidente Richard Nixon, al terzo posto. 

La leader israeliana era bianca, appartenente alla seconda ondata [migratoria], ragazza copertina del femminismo sionista progressista americano, il cui ritratto con la didascalia “Ma sa scrivere a macchina?” era comparso sui manifesti di una campagna pubblicitaria che criticava gli stereotipi di genere sul posto di lavoro. 

Naturalmente è detestata dai palestinesi come la donna che, fra numerose altre affermazioni offensive, ha detto che “i palestinesi non esistono” e insinuato che gli arabi odino gli ebrei più di quanto non amino i propri figli. 

 Non molti di quelli a cui piacerebbe riproporre la negazione della nostra esistenza fatta dalla Meir sono effettivamente al corrente del più ampio contesto di quella affermazione, di quanto sia profondamente radicata nella visione del mondo eurocentrica ed imperiale che un popolo non costituisca di diritto una nazione in mancanza degli orpelli del moderno Stato-Nazione europeo. 

Quindi Meir non stava negando che noi esistessimo come esseri umani, ma piuttosto che avessimo diritti in quanto palestinesi perché la Palestina, la nazione storica, non era uno Stato indipendente riconosciuto secondo i criteri europei. 

Quando mai c’è stato un popolo indipendente palestinese con uno Stato palestinese?” ha detto. “Era Siria meridionale prima della Prima Guerra Mondiale e poi una Palestina che includeva la Giordania. Non è che ci fosse un popolo palestinese in Palestina che si considerava un popolo palestinese e noi siamo arrivati e li abbiamo buttati fuori e tolto loro il Paese. Non esistevano.” 

Mentalità coloniale

Ovviamente questa è la stessa mentalità con cui si sono privati i popoli autoctoni dell’isola di Turtle [nel lago Erie, tra Michigan e Ohio, ndt.] del loro diritto alla sovranità, perché non avevano confini arbitrari e un sistema politico riconosciuto dai conquistatori europei. Il sionismo si basa su questa mentalità coloniale reiterata ufficialmente quest’anno dal ministro israeliano delle finanze Bezalel Smotrich, che ha anche detto che la storia palestinese e la nazione palestinese non esistono.

Basta dare un’occhiata ai documenti dell’epoca a cui Meir fa riferimento per dimostrare che si sbaglia: la rivista Falastin fu fondata agli inizi del 1900 e la valuta dell’epoca reca la scritta “Palestina”, non “Siria meridionale”.

Gli israeliani sembrano più equilibrati a proposito di questa donna controversa. L’enciclopedia delle donne ebree Shalvi/Hyman scrive: “Era, come si dice oggi, un’‘ape regina,’ una donna che, arrivata in vetta, ha tolto la scala. Non ha esercitato le prerogative del potere per risolvere i problemi specifici delle donne, per promuovere altre donne o per far progredire lo status delle donne nella sfera pubblica. Il fatto è che, alla fine del suo mandato, le sue sorelle israeliane non stavano meglio di prima che si insediasse.” 

Le prime recensioni di Golda non sono state entusiastiche. Bad Movie Reviews, un canale YouTube dedicato alla recensione di brutti film, l’ha descritto come parole come “noioso”, “piatto” e “unidimensionale”.

Secondo il Washington Post il film “è superficiale”. Infatti non ci è mai detto il motivo per cui l’Egitto e la Siria hanno attaccato Israele il 6 ottobre 1973. Era per riottenere la penisola del Sinai e le alture del Golan, entrambe occupate illegalmente da Israele dal 1967. 

Invece sentiamo Meir mettere in guardia dalla minaccia per Israele “se i siriani conquistano le alture di Golan”. Ma un esercito che si riprende una terra occupata illegalmente non sta “conquistando” quella terra, la sta liberando. 

Invenzioni offensive

Meir è interpretata da Helen Mirren, il cui talento va “perso in una nuvola di fumo”, secondo una recensione pubblicata dal Detroit News, che definisce i film “irritante” e “maldestro”. Inoltre il focus è sull’ “autodifesa” di Israele, un presunto “diritto” più volte ricordato dai nostri politici quando in realtà nessun Paese ha il “diritto” di difendere un’occupazione illegale, anzi ha l’obbligo giuridico di porvi fine.

Persino il Los Angeles Times, una testata decisamente filo-sionista, ha definito la pellicola “scialba”, pur lodando l’interpretazione di Mirren, “la migliore e forse la sola cosa interessante”. Stranamente il quotidiano osserva che, mentre Bradley Cooper ha suscitato controversie perché indossava una protesi sul naso per interpretare un altro famoso ebreo, Leonard Bernstein, il dibattito se ‘solo ebrei dovrebbero interpretare ebrei?’ qui non c’è stato”, anche se Mirren indossa un naso finto (e abiti imbottiti) per interpretare il personaggio sullo schermo.

Ovviamente questi recensori, come me, non si sono fatti influenzare dal battage pubblicitario del film. Cosa Golda dovesse trasmettere noi non l’abbiamo capito

E va bene così. La mia preoccupazione era che il film avrebbe avuto un gran successo, tale da migliorare l’immagine di Israele con la sua hasbara sionista [propaganda per diffondere all’estero informazioni positive su Israele e le sue azioni, ndt.] in un momento in cui il Paese ne ha un bisogno disperato. E la narrazione sionista certamente permea tutto il film: “Questo è di nuovo come nel 1948,” dice Meir, come se nel 1948 fosse stato Israele, non la Palestina, ad essere stato attaccato. 

Meir sostiene anche che gli “arabi” (riferendosi a egiziani e siriani, i palestinesi non sono citati neppure una volta nel film) non piangono i propri morti, mentre la morte di ogni soldato ebreo morto in battaglia grava pesantemente sulla sua anima. Altre simili invenzioni sioniste offensive costellano il film.

Ma l’effetto complessivo del film è proprio il contrario. Vediamo un Paese intenzionato ad attivare la sua potenza nucleare per tenersi illegalmente terra occupata e politici manipolatori disposti a estorcere armi agli USA anche quando il Paese sembra riluttante a offrirglieli senza condizioni. Questa non è proprio la leader eroica, straordinaria ed etica con cui il regista e i produttori sicuramente volevano far colpo su di noi. 

In conclusione, anche se Golda avrebbe dovuto tenere a galla la propaganda israeliana, in realtà l’ha affondata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La polizia israeliana ferisce decine di lavoratori palestinesi che protestano vicino al valico

Fayha Shalash, Ramallah

29 agosto 2023 MiddleEastEye

I palestinesi protestano contro le autorità israeliane che impediscono agli autobus di portarli al lavoro in Israele.

Martedì mattina la polizia di frontiera israeliana ha attaccato i lavoratori palestinesi vicino al valico settentrionale della città di Qalqilya, nella Cisgiordania settentrionale occupata, ferendone decine.

Decine di lavoratori avevano bloccato parte della Route 55 adiacente al valico di Eyal, uno dei principali posti di blocco tra Israele e Cisgiordania, dopo che la polizia israeliana aveva impedito ad autobus e altri veicoli di trasportarli ai loro luoghi di lavoro in Israele.

Centinaia di guardie di frontiera israeliane sono arrivate sul posto per reprimere la protesta, ferendo decine di lavoratori e proprietari di veicoli che sono stati poi trasferiti all’ospedale governativo Darwish Nazzal di Qalqilya.

Le autorità israeliane hanno fermato gli autobus che, secondo loro, circolano senza licenza o trasportano lavoratori senza permesso.

Senza autobus e altri appositi veicoli i palestinesi che lavorano in Israele non hanno mezzi a disposizione per raggiungere il posto di lavoro dopo aver attraversato il posto di blocco.

Come ogni mattina, Zuhdi Abu Taha, 34 anni, si stava recando al valico per andare al lavoro. È rimasto sorpreso dalla presenza di decine di lavoratori sulla strada principale e di un gran numero di soldati israeliani.

All’improvviso i soldati hanno iniziato a lanciarci contro granate assordanti e lacrimogeni. Ho sentito qualcosa colpirmi il viso e il sangue riempirmi la bocca con un dolore forte e insopportabile, quando una granata stordente mi è esplosa accanto”, ha detto Abu Taha a Middle East Eye.

Abu Taha è stato prima trasferito all’ospedale governativo con una lacerazione al labbro inferiore, un ampio taglio a quello superiore, una mascella rotta e denti rotti. Ma a causa della gravità delle ferite, è stato portato in un ospedale privato a Nablus per un intervento chirurgico urgente.

Più di 20 lavoratori hanno riportato soffocamento e contusioni durante l’attacco, che ha causato scontri nella zona durati più di un’ora.

Secondo Abu Taha l’assalto ai lavoratori non è una novità, anche se possiedono i permessi necessari.

Ogni mattina i lavoratori aspettano diverse ore al valico prima di poter entrare, il che li porta a soffrire spesso di affanno e, in alcuni casi, di attacchi di cuore.

I lavoratori palestinesi accusano Israele di abusi e maltrattamenti intenzionali e di trascurare i loro diritti come lavoratori e le misure di sicurezza pubblica, la cui mancanza mette le loro vite in costante pericolo.

Shaher Saad, segretario generale della Federazione Generale dei Sindacati Palestinesi, ha definito brutale l’attacco contro i lavoratori palestinesi che cercano di guadagnarsi da vivere in circostanze difficili.

In un comunicato stampa ha affermato che le autorità israeliane hanno soppresso gli autobus che trasportano i lavoratori come forma di punizione collettiva.

Ha inoltre invitato l’Organizzazione Internazionale del Lavoro e la Confederazione Internazionale dei Sindacati a intervenire immediatamente e a proteggere con urgenza i lavoratori che entrano in Israele per lavoro.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Valori condivisi”: l’Israele di Netanyahu consolida un’altra fosca alleanza con l’estrema destra europea

Editoriale di Haaretz

29 agosto 2023 – Haaretz

Mentre il ministro degli Esteri Eli Cohen è sottoposto a critiche giustificatamente feroci per aver reso pubblico un incontro segreto con la sua omologa libica, provocando disordini a Tripoli, la sua fuga a Istanbul con timori per la sua incolumità, e un’ulteriore rottura nelle relazioni con gli USA, Israele ha rafforzato un’altra dubbia amicizia, questa volta a Bucarest.

Su indicazioni di Cohen, l’ambasciatore israeliano in Romania, accompagnato dal leader dei coloni Yossi Dagan, ha incontrato il segretario del partito Alleanza per l’Unità dei Rumeni, di estrema destra, violando il boicottaggio israeliano dei contatti con un partito ultranazionalista, espansionista territoriale e filorusso che esalta il leader rumeno fascista del periodo della Seconda Guerra Mondiale Ion Antonescu, sotto il cui regime collaborazionista con il nazismo vennero uccisi 400.000 ebrei rumeni. Lo scorso anno il partito ha affermato che l’Olocausto in Romania fu una “questione di poco conto”.

Gli israeliani hanno strappato al leader dell’AUR George Simion una scialba e incompleta condanna dell’antisemitismo e della negazione dell’Olocausto. Ma la vera vittoria per il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, per la quale era disposto a vendere l’anima di Israele, è stato il pieno sostegno di Simion alle colonie israeliane in Cisgiordania.

Questo incontro fa parte di una strategia a lungo termine dei successivi governi Netanyahu: uno scambio di favori con i partiti di estrema destra europei. Israele ha legittimato i nazionalisti autoritari con ignobili primati di antisemitismo, negazionismo e fanatismo antimusulmano in cambio di un impegno a favore delle politiche israeliane.

Non c’è scarsità di partner estremisti, di Ungheria, Polonia, Italia, Francia, Svezia e ora Romania, ansiosi di ottenere un certificato israeliano di conformità. Per il partito Likud di Netanyahu, che ha costruito rapporti con tutta l’estrema destra europea, e per i coloni questa è un’occasione unica.

I termini di questa contrattazione faustiana sono espliciti: appoggiate la nostra annessione, noi ignoreremo il vostro antisemitismo; appoggiate il furto di terra delle colonie, noi sosterremo il vostro irredentismo territoriale; appoggiate il nostro attacco alla democrazia liberale, noi sosterremo il vostro fascismo e revisionismo sull’Olocausto; sostenete la nostra supremazia ebraica, e noi faremo altrettanto con la vostra supremazia cristiana.

Con l’estrema destra che sta notevolmente crescendo nei sondaggi nel continente, con elezioni decisive per il parlamento europeo il prossimo anno, così come elezioni nazionali in Austria, non c’è da sorprendersi che le comunità ebraiche locali, che sono in prima linea nell’opposizione di principio all’estrema destra, si ritrovino a chiedersi se Israele stia con loro.

Mentre il fiasco di Eli Cohen con la Libia ha fatto scalpore, questo incontro in Romania, che fa presagire la reale direzione in cui Netanyahu intende portare Israele, è passato inosservato. Il suo attacco alla democrazia, a una magistratura indipendente e a ogni valore liberale normativo, rafforzando nel contempo l’occupazione, è accompagnato dalla formazione di un asse di alleati deleteri e illiberali ma “filo-israeliani”, che si legittimano e sostengono a vicenda.

Sono passati solo 5 anni da quando l’allora presidente [della repubblica] Reuven Rivlin denunciò l’accondiscendenza di Netanyahu nei confronti dei neofascisti europei in nome dell’opportunismo politico e diplomatico.

Rivlin criticò duramente tali alleanze come “assolutamente incompatibili” con i principi israeliani. Oggi l’Israele di Netanyahu abbraccia orgogliosamente i suoi “valori condivisi” con l’estrema destra europea, e nel contempo butta nella spazzatura le comunità ebraiche e ogni residuo di dignità morale.

Il presente articolo è l’editoriale del direttore di Haaretz come è stato pubblicato in Israele nei giornali in ebraico e in inglese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli USA si oppongono alla rivelazione dell’incontro Libia-Israele perché ‘affossa’ lo sforzo di normalizzazione

Redazione MEE

28 agosto 2023 – Middle East Eye

La ministra degli Esteri libica Najla al-Mangoush che si era incontrata con l’omologo israeliano è fuggita in Turchia per motivi di sicurezza dopo essere stata rimossa.

Axios [sito di notizie statunitense, ndt.], citando funzionari israeliani e USA, ha riportato che durante il fine settimana gli Stati Uniti hanno protestato presso il governo israeliano per la decisione del ministro degli Esteri Eli Cohen di rivelare pubblicamente l’incontro segreto con la sua omologa libica.

La scorsa settimana la ministra degli Esteri libica Najla al-Mangoush si è incontrata in Italia con l’israeliano Cohen nonostante i due Paesi non abbiano relazioni ufficiali. Cohen si è vantato in una dichiarazione “del grande potenziale della cooperazione tra i due Paesi”.

Le dimensioni e la posizione strategica della Libia le conferiscono una grande importanza per i suoi contatti e costituiscono un enorme potenziale per Israele,” ha aggiunto Cohen.

Un funzionario USA ha riferito ad Axios che l’amministrazione Biden è rimasta sorpresa quando Cohen ha svelato l’incontro dicendo che l’idea di Washington era che dovesse restare segreto.

Axios ha riferito che sabato alcuni funzionari USA hanno parlato con Cohen e altri israeliani protestando per la gestione del caso da parte del ministero degli Esteri.

Un collaboratore di Cohen ha detto che si pensava che prima o poi l’incontro sarebbe stato reso pubblico e ha deciso di fare una dichiarazione dopo che la stampa israeliana aveva chiesto del meeting al suo ufficio.

‘Affossa’ la normalizzazione Libia-Israele

La rivelazione israeliana ha causato diffuse proteste in Libia e il governo di Tripoli è stato lasciato solo ad occuparsi di domare la rivolta. Il ministro degli Esteri libico ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che lo scambio non ha incluso “discussioni, accordi o consultazioni”, e ha definito il meeting “un incontro casuale e non preparato”.

Il premier libico ha sospeso e poi rimosso Mangoush che a quel che si dice è fuggita in Turchia temendo per la propria sicurezza.

La Libia si è da sempre opposta alla normalizzazione dei rapporti con Israele e sostiene la causa palestinese. Le proteste aggiungono un ulteriore livello di instabilità al Paese petrolifero, diviso tra due governi rivali.

Il primo ministro Abdulhamid al-Dbeibah guida il governo con sede a Tripoli, a occidente, ed è giunto al potere nel febbraio del 2021 al termine di un processo appoggiato dall’ONU per unificare la Libia e prepararla alle elezioni. Dbeibah sta incontrando una pressione crescente affinché si dimetta, mentre l’élite politica libica ostacola il processo elettorale.

La Libia orientale è comandata da un governo sostenuto dal generale Khalifa Haftar che guida l’Esercito Nazionale Libico (LNA). Da parte sua Haftar si è messo in contatto con Israele. Nel novembre 2021 Saddam Haftar, suo figlio e comandante militare con un ruolo chiave nel LNA, ha visitato Israele.

La reazione nelle piazze libiche all’incontro di Cohen con Mangoush ha anche causato un inconsueto rimprovero a Israele, che si era abituato a rivelare pubblicamente i propri legami con gli Stati arabi.

Dal 2020 Israele ha normalizzato i suoi rapporti con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan tramite una serie di accordi mediati dagli Stati Uniti. Anche l’Arabia Saudita sembra stia prendendo in considerazione la normalizzazione dei suoi legami e ha pubblicamente preso parte a esercitazioni militari con Israele.

Egitto e Giordania hanno stabilito relazioni diplomatiche con Israele decenni fa. Sebbene i legami pubblici siano ridotti al minimo, sono spesso annunciati incontri tra leader e funzionari. 

Tre funzionari USA e israeliani hanno riferito ad Axios che l’amministrazione Biden stava lavorando da due anni alla normalizzazione delle relazioni della Libia con Israele.

Secondo i rapporti la prospettiva di normalizzazione era stata discussa in un incontro fra Dbeibah e il direttore della CIA William Burns, che aveva visitato il Paese a gennaio. Un funzionario ha riferito ad Axios che ora, dopo la reazione negativa all’incontro in Libia, questi sforzi e quelli per normalizzare i rapporti di altri Paesi arabi con Israele sono stati danneggiati.

Ha poi concluso: “L’amministrazione Biden è preoccupata che la rivelazione dell’incontro e gli scontri ad esso seguiti non solo danneggeranno gli sforzi di normalizzare le relazioni fra Israele e Libia, ma anche quelli in corso con altri Paesi arabi”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)