Jenin: tutta la storia, intervista con Mustafa Barghouti

Mustafa Barghouti

7 luglio 2023 – PalestineDeepDive

Il dottor Mustafa Barghouti è il leader di Iniziativa Nazionale Palestinese e anche il presidente della Società Palestinese di Assistenza Medica. È stato candidato alla presidenza nelle elezioni palestinesi ed è medico. 

Questa settimana il dr. Barghouti ha passato parecchi giorni a Jenin, è entrato nella città e nel campo profughi nel secondo giorno dell’incursione e degli attacchi israeliani che hanno ucciso 12 palestinesi, fra cui 4 minori. 

Palestine Deep Dive [Approfondimenti sulla Palestina, rivista on-line, ndt.] ha ottenuto un’intervista esclusiva con il dr. Barghouti per ascoltare il suo resoconto su come si sono svolti gli attacchi israeliani contro Jenin, sull’entità dei danni dopo il massacro, sul conseguente stato d’animo della gente sul posto. Vogliamo anche conoscere la sua opinione su come oggi i palestinesi sono trattati dai principali mezzi d’informazione.

PDD: Può riassumerci gli eventi di questa settimana a Jenin?

Dr Barghouti: Certo. Beh, prima di tutto lasciatemi dire che l’attacco israeliano contro Jenin non è in alcun modo giustificato. Non era diretto solo contro il campo di Jenin, ma anche contro l’intera città. Per pattugliare la zona Israele ha usato tutto il suo arsenale militare: blindati, carri armati, elicotteri Apache e caccia F-16.

Hanno usato razzi e droni per attaccare una popolazione essenzialmente di civili, in una delle zone più densamente popolate del mondo: il campo profughi di Jenin infatti conta 16.000 persone che vivono in meno di mezzo chilometro quadrato.

L’esercito ha mirato ad arrestare o uccidere persone che stanno resistendo all’occupazione, ma non ci sono riusciti, a parte uccidere 12 persone fra cui 4 minori di età inferiore ai 17 anni. Poiché hanno fallito, hanno condotto arresti arbitrari di persone che non fanno realmente parte della resistenza. Hanno anche condotto attacchi terribili e causato enormi danni al campo.

Hanno utilizzato carri armati e bulldozer corazzati che hanno demolito le strade principali e il campo, distruggendo anche delle case, moltissime auto, dando poi fuoco a molti edifici nella città di Jenin, così come nel campo profughi.

Hanno anche usato droni per lanciare razzi contro i civili. Sono stato in molte case che sono state completamente, totalmente distrutte. È stato veramente un miracolo che non siano state uccise molte più persone, ma ci sono stati comunque almeno 200 feriti. Il numero ufficiale è 130, ma in realtà molti preferiscono essere curati a casa piuttosto che in ospedale per paura di essere arrestati. A Jenin ho visitato gli ospedali principali che sono molto vicini al campo, e ho visto i feriti, persone a cui hanno sparato con l’intento di uccidere.

I feriti hanno pallottole nell’addome, nel petto e nelle gambe. Tutti i proiettili usati sono ad alta velocità e lo scopo era di uccidere. Ho visto un uomo colpito alla testa, con il cervello spappolato, prima che lasciassimo l’ospedale ne hanno annunciato la morte. Ma hanno compiuto terribili massacri anche dentro le case, attacchi terribili contro le persone. Le loro famiglie mi hanno detto che l’esercito è entrato nelle case attraverso i muri.

Sono andati da una casa all’altra aprendosi dei varchi nei muri e quindi le famiglie improvvisamente si sono trovate davanti i soldati. Hanno separato gli uomini dalle donne, ammanettato gli uomini, isolandoli in una stanza separata per poi arrestarne la maggioranza, mentre le donne erano in una zona separata, tutte nella stessa stanza. Di solito l’esercito interrompe l’erogazione dell’elettricità. Come sapete la zona è molto calda, è estate, la gente è rimasta bloccata nelle stanze senza acqua, cibo, provviste e con un gran caldo. Molti sono anziani che soffrono di ipertensione, diabete e cardiopatie.

Sono stati tenuti così per due giorni mentre l’esercito occupava il resto della casa, in molti casi l’hanno usata per creare postazioni per i cecchini per sparare alle persone che pensavano facessero parte della resistenza. Molte famiglie mi hanno detto che i soldati hanno rubato loro i soldi. Ci sono dei piccoli, contenitori, non so come li chiamano, in cui i bambini conservano i loro soldini, uno sembrava un giocattolo: li hanno rotti e hanno preso i risparmi dei bambini!

Ma, peggio ancora, hanno isolato i minori, in alcuni casi in una stanza con un ufficiale o un soldato per interrogarli, cercando di costringerli a testimoniare contro i familiari, per esempio a dire che i familiari avevano delle armi. Quando non ci sono riusciti hanno portato nella stanza un cane per terrorizzarli mentre erano separati dalle famiglie. Questo è il tipo di comportamento dell’esercito israeliano. Oltre a ciò hanno attaccato le ambulanze, impedendo alle equipe mediche di raggiungere i feriti in tempo. Hanno sparato a un ragazzo, Hamesia, e l’hanno lasciato a morire dissanguato, il suo corpo è stato trovato solo ore dopo perché l’esercito non ha permesso a nessun medico di avvicinarglisi.

Hanno sparato alle ambulanze, al personale di pronto soccorso e ai giornalisti. C’è un video in cui si vede l’esercito sparare 10 volte da un blindato contro una macchina da presa di una TV e una troupe della stazione televisiva Al-Araby. Solo un miracolo ha salvato questi giornalisti dall’essere uccisi, come era accaduto in precedenza a Shireen Abu Akleh nella stessa zona, e non sorprende che si siano comportati così con i nostri giornalisti. Nel corso degli ultimi 10 anni l’esercito ha ucciso 52 giornalisti palestinesi nel corso di vari attacchi contro i civili.

Fino ad ora il numero totale di palestinesi uccisi dall’esercito israeliano è 197, i feriti sono molte centinaia. Queste sono le cifre più alte dal 2005. L’attacco contro Jenin ha fallito nel senso che non sono riusciti a catturare le persone che cercavano.

PDD: cosa voleva ottenere il primo ministro Benjamin Netanyahu invadendo Jenin?

Dr Barghouti: Netanyahu ha dichiarato molto chiaramente che il suo obiettivo è non solo prevenire la fondazione di uno Stato palestinese indipendente, ma soprattutto togliere completamente dalla testa della gente anche solo l’idea di uno Stato palestinese. Ha dichiarato che il suo governo fascista ha annunciato dei piani per espandere le colonie con una velocità senza precedenti. Hanno già costruito 50 nuove colonie illegali, cosa che non succedeva da anni. Hanno dichiarato la costruzione di non meno di 13.000 nuove abitazioni nelle colonie.

Hanno rivelato che il loro obiettivo è di legalizzare tutti gli avamposti di insediamento creati dai coloni, inclusi i sette nuovi che hanno ricevuto un’autorizzazione da questo nuovo governo. Il numero totale di avamposti di insediamento è 171. Il piano di Netanyahu è di riempire la Cisgiordania con 151 di queste nuove colonie che andranno ad aggiungersi alle altre. Smotrich, il secondo più importante ministro del governo e che si è auto-dichiarato fascista e omofobo, ha reso noto la strategia dell’establishment israeliano.

Ha detto che riempirà la Cisgiordania di coloni e colonie, cosicché i palestinesi perderanno ogni speranza di ottenere un loro Stato e poi avranno una scelta fra tre opzioni: emigrare, morire o accettare una vita di sottomissione a questo regime. Ben-Gvir ha detto che hanno ucciso 120 palestinesi e che ne uccideranno altre migliaia. Ecco il tipo di linguaggio che questo governo sta usando. Allora qual è il piano di Netanyahu?

Il piano di Netanyahu è annettere completamente tutta la Cisgiordania e ebraizzarla, impedire la creazione di uno Stato palestinese indipendente, non concedere la libertà ai palestinesi e allo stesso tempo uccidere chiunque resista a queste ingiustizie. Quando parla di uccidere e arrestare i palestinesi che resistono all’occupazione egli intende praticamente chiunque respinga questi orrendi progetti di mantenere l’occupazione e il sistema di apartheid in Palestina. Non ci sta riuscendo perché l’intero popolo palestinese non accetterà mai una vita di schiavitù sotto l’occupazione israeliana e il suo sistema di apartheid. 

Praticamente quello che Netanyahu sta facendo è esattamente quello che Einstein ha descritto come follia: quando uno continua a fare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Noi siamo stati vittime dell’oppressione israeliana per i 56 anni di occupazione e 75 anni di pulizia etnica avvenuta durante la Nakba nel 1948 e loro hanno continuato ad opprimerci, ma noi non abbiamo mai smesso di resistere a questa ingiustizia in ogni modo possibile. Ed ecco il motivo per cui dico che Netanyahu sta fallendo, perché il suo obiettivo di soggiogarci non avrà mai successo. Nel frattempo tantissimi hanno perso la loro vita, anche in questa fase, e penso che la morte di ogni palestinese, e di ogni israeliano, sia responsabilità del governo israeliano, anche se le cifre sono così diverse.

Quando si paragona il numero dei palestinesi uccisi con quello degli israeliani la discrepanza è enorme, ma io penso che tutti, il sangue di tutti, palestinesi o israeliani, sia sulle mani di questi estremisti e fascisti come Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir, che impediscono che la pace prevalga in quest’area o che qui ci sia giustizia. 

Credo che ora ci troviamo davanti a uno dei governi più estremisti, ma la cosa tragica è che l’opposizione sionista in Israele, che si oppone a Netanyahu riguardo alla riforma del sistema giudiziario, non ha nulla da obiettare a quello che si sta facendo a noi palestinesi. In realtà tutti i leader dell’opposizione hanno sostenuto gli attacchi contro il campo di Jenin e quelli contro i palestinesi. È veramente di poco aiuto e molto deludente perché significa che sfortunatamente tutti i partiti sionisti stanno sostenendo il sistema di occupazione, apartheid e fascismo e la crescita del fascismo che sta riguardando Israele stesso.

Ci sono stati molti saggi leader israeliani che a un certo punto hanno detto che l’occupazione diventerà il cancro che divorerà Israele dall’interno, e io penso che sia esattamente quello che sta succedendo. L’occupazione ha prodotto i coloni, i coloni l’apartheid che sta ora producendo il fascismo in Israele, che è la cosa più pericolosa a cui siamo sottoposti. 

Nel frattempo voglio elogiare il notevole spirito di resilienza e solidarietà che i palestinesi hanno mostrato l’un l’altro nel campo di Jenin, perché oggi ero con equipe mediche che venivano da Ramallah, Gerusalemme e Tulkarem, con la Società Palestinese di Assistenza Medica, l’organizzazione che dirigo.

Erano tutti nel campo ad aiutare la gente, offrendo cure. La gente è arrivata da tutto il Paese per portare latte, cibo, materiale medico sanitario per i bambini e molte amministrazioni comunali intorno a Jenin hanno mandato trattori e macchinari per cercare di riparare alcuni dei terribili danni alle infrastrutture causati dall’esercito. Sono state tagliate le condutture dell’acqua, disselciate le strade, distrutte le attrezzature sanitarie, completamente tagliata la rete elettrica. Le infrastrutture sono state distrutte e non è la prima volta: è esattamente quello che è successo nel 2002 quando Israele invase il campo di Jenin e distrusse tutto, uccidendo più di 70 persone. È veramente ironico che la generazione che oggi sta resistendo all’occupazione sia quella dei bambini nati nel 2002.

PDD: Qual è oggi l’atteggiamento sul terreno dei giovani palestinesi verso il “Processo di Pace”?

La giovane generazione e io stesso abbiamo perso speranza nel cosiddetto processo di pace molto tempo fa, ma cosa abbiamo? Gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993, esattamente 30 anni fa. Israele ne ha ostacolato l’implementazione, essi dovevano essere un accordo ad interim solo per sei anni per arrivare alla fondazione di uno Stato palestinese. Yitzhak Rabin, che firmò quell’accordo, fu assassinato da un estremista israeliano. Netanyahu ha sollevato l’opinione pubblica israeliana contro il governo che firmò gli Accordi di Oslo. Netanyahu nel 1994 ha poi scritto un libro intitolato A Place Under the Sun (Un posto sotto il sole) in cui ha promesso che avrebbe affossato il processo di Oslo e impedito la fondazione di uno Stato palestinese. Questo è esattamente quello che ha fatto. Dal 2014 non c’è stato un solo incontro fra i leader palestinesi e quelli israeliani. Israele ha bloccato tutti questi meeting, i negoziati e ha continuato a costruire colonie illegali che sottraggono terra alla Cisgiordania, distruggendo qualsiasi possibilità per la soluzione dei due Stati.

Quando Israele attacca il campo di Jenin, dei civili, sta attaccando dei rifugiati spogliati delle loro terre, della loro patria nel 1948 e che vivono in condizioni orribili in un campo profughi sotto l’occupazione israeliana. Quando Israele attacca un campo profughi così, con una situazione molto critica sotto la sua occupazione con il suo arsenale militare, carri armati, aerei, droni e caccia, quando fa tutto ciò è totalmente inaccettabile che il mondo resti in silenzio e, ancor peggio, che alcuni Paesi incoraggino Israele.

Le dichiarazioni del governo degli Stati Uniti e del governo britannico dicono che Israele ha il diritto all’autodifesa non sono altro che dare il via libera a questa aggressione. E il popolo palestinese che vive sotto l’occupazione israeliana? Non abbiamo il diritto di difenderci o per loro siamo degli esseri subumani? Penso che il fatto vergognoso sia che il parlamento britannico discuta come impedire la forma di resistenza più pacifica, cioè il boicottaggio, disinvestimento e le sanzioni. Fare ricorso al BDS come è successo in Sudafrica non è altro che un atto di libertà di parola, libertà per un popolo di lottare contro l’ingiustizia, per protestare contro l’occupazione e il sistema di apartheid.

Queste posizioni a sostegno di Israele rendono complici coloro che rilasciano dichiarazioni come “Israele ha il diritto all’autodifesa” di un crimine di guerra che Israele ha commesso e continua a commettere contro il popolo palestinese. Tutto il discorso sulla soluzione dei due Stati è diventato null’altro che un cliché che non convince nessuno. Se Stati Uniti, Regno Unito, Europa fossero realmente seri a proposito dello Stato palestinese lo avrebbero riconosciuto e non si sarebbero limitati a riconoscere solo Israele. Se fossero seri sulla soluzione dei due Stati avrebbero iniziato immediatamente a far pressione su Israele, inclusa l’imposizione di sanzioni, per costringerlo a fermare le attività delle colonie illegali che, come ammettono questi Paesi, stanno distruggendo la possibilità di uno Stato palestinese e la soluzione dei due Stati. Penso che tutto questo parlare della soluzione dei due Stati sia null’altro che un modo per distrarre l’attenzione, un modo per dare a Israele più tempo per finire il vero lavoro che sta facendo qua: l’annessione della Cisgiordania e l’eliminazione totale di ogni possibilità di soluzione a due Stati.

E noi diciamo che, nonostante Israele abbia distrutto l’opzione dei due Stati, ciò non significa che abbiano distrutto la nostra speranza di libertà. E hanno creato una nuova realtà, che è una realtà di uno Stato di apartheid. L’alternativa può solo essere uno Stato democratico in cui i palestinesi godano della parità dei diritti non solo come cittadini, ma anche come Nazione, con l’uguaglianza dei diritti per i cittadini e parità di diritti nazionali. Questa è l’unica soluzione a una situazione di uno Stato di apartheid.

PDD: come sono trattati oggi i palestinesi dai media?

Dr Barghouti: Noi siamo per lo più ignorati e raramente intervistati. Io ricordo sempre che 10 o 20 anni fa venivamo intervistati molto più frequentemente dai media internazionali, come CNN e BBC. Negli ultimi anni siamo stati totalmente ignorati. Io non penso che la narrazione dei palestinesi passi attraverso la maggioranza di questi organi di stampa. È per questo che ora contiamo di più sui social media.

Anche quando abbiamo la rara opportunità di portare all’attenzione della gente la narrazione e il punto di vista palestinese, gli israeliani attaccano immediatamente queste emittenti, come stanno facendo ora con la BBC. Vogliono monopolizzare la verità, i media. Vogliono impedire alla gente in Gran Bretagna e nel mondo di conoscere la realtà, la verità. La BBC ha intervistato me ma anche molti israeliani, molti più di noi, eppure gli israeliani attaccano la BBC perché vogliono zittire la voce della verità. Vogliono ostacolare la possibilità che nel mondo si sappia la verità su quello che sta succedendo qui.

Noi non stiamo dicendo che non dovrebbero intervistare gli israeliani, lasciate che lo facciano, ma dovrebbero intervistare anche noi. Noi abbiamo il pieno diritto di portare le nostre opinioni ai media e all’opinione pubblica mondiali. La gente può poi giudicare da sé chi ha ragione e chi torto, cosa è corretto e cosa non lo è, e quali sono i fatti. Ma impedire persino che si possa conoscere il punto di vista dei palestinesi secondo me fa pensare a due cose.

Uno, un comportamento fascista che tenta di monopolizzare la verità e i fatti. Mi spiace. Mostra anche che la posizione di Israele è debole perché hanno paura della verità. Hanno paura del fatto che se si mette uno di noi davanti ai media con un israeliano, persino uno dei fascisti israeliani, la gente riconoscerà immediatamente che noi stiano dicendo la verità. Io dico sempre ai miei colleghi dei media che noi abbiamo bisogno forse di un decimo di quello che hanno gli israeliani per avere la meglio. Perché? Perché noi diciamo la verità ed è questo che essi temono.

PDD: La BBC avrebbe dovuto scusarsi con l’ex primo ministro Naftali Bennett per aver domandato se Israele è “felice di uccidere minori palestinesi”?

Dr Barghouti: Penso che fosse solo giusto perché Israele sta uccidendo i minori. Appena prima dell’ultimo assalto contro Jenin i soldati israeliani hanno ucciso un bambino di due anni e mezzo e il padre davanti a casa. Il padre è stato raggiunto da due proiettili alla spalla e il piccolo uno al cervello, è morto: due anni e mezzo! Gli hanno sparato dieci volte. Poi l’esercito ha detto che è stato un errore, ma nessun soldato è stato portato in tribunale e nessuno è stato punito. Nel 1996 io stesso come medico stavo cercando di aiutare un ferito al quinto piano a Ramallah dove c’erano scontri fra l’esercito e la gente.

Mentre stavo cercando di bloccare l’emorragia un cecchino israeliano mi ha visto e mi ha sparato due volte. Ho ancora 35 schegge nella schiena e in una spalla. Nessuno è stato punito. No, Israele uccide bambini e civili e medici e giornalisti. No, non penso che la BBC avrebbe dovuto scusarsi per questo. Secondo me l’establishment israeliano con il suo enorme potere sta praticando quello che io chiamo terrorismo intellettuale contro i media in tutto il mondo e contro chiunque solidarizzi con i palestinesi. Nessuno dovrebbe accettare di subire questo terrorismo intellettuale che Israele sta mettendo in atto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Palestine Deep Dive.

Mustafa Barghouti

Politico, attivista e medico

Il dr. Mustafa Barghouti è medico, attivista e politico palestinese, segretario generale di Iniziativa Nazionale Palestinese, anche nota come Mubadara. È membro del Consiglio Legislativo Palestinese dal 2006 e fa anche parte del Consiglio Centrale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




In diretta: il raid di Jenin si conclude con la morte di 12 palestinesi e un israeliano

5 luglio 2023 – Middle East Eye

Le truppe israeliane si ritirano dal campo profughi martedì notte dopo un assalto durato due giorni

PUNTI CHIAVE

I residenti di Jenin si svegliano in mezzo alla devastazione

Uccisi tre minorenni su 12 palestinesi

Israele bombarda Gaza dopo il lancio di razzi

Aggiornamenti in tempo reale

Il bilancio delle vittime palestinesi sale a 12 mentre è rimasto ucciso un soldato israeliano

7 ore fa

Buongiorno lettori di MEE,

È stata un’altra notte di conflitto nella Cisgiordania occupata, a Gaza e in Israele.

Ieri notte, secondo l’esercito israeliano, i due giorni di assalto israeliano al campo profughi di Jenin si sono conclusi con la ritirata delle truppe che ha lasciato una scia di devastazione.

Quando poco dopo la mezzanotte le truppe israeliane se ne sono andate gli abitanti hanno dichiarato di aver trovato al loro rientro il caos, con strade distrutte e edifici ridotti in macerie.

Almeno 12 palestinesi sono stati uccisi e più di 100 sono rimasti feriti.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese quasi un terzo [degli abitanti] del campo profughi, circa 4.000 palestinesi, è fuggito dalle proprie case.

La scorsa notte mentre Israele ritirava le sue forze un soldato israeliano è stato ucciso.

Nell’operazione sono stati utilizzati circa 1.000 soldati israeliani, con l’impiego di elicotteri d’attacco insieme a droni, aerei da combattimento e armi pesanti, con il risultato che numerose proprietà sono state danneggiate o distrutte.

Qualche ora dopo che le forze israeliane hanno iniziato a ritirarsi da Jenin cinque razzi sono stati lanciati da Gaza verso Israele, inclusa la città di Sderot. Non sono stati segnalati feriti.

L’attacco di Israele a Jenin è stato uno dei più pesanti assalti israeliani in Cisgiordania in quasi 20 anni.

L’esercito israeliano ha effettuato contro il campo profughi almeno 20 attacchi con droni.

Aggiornamento a tarda notte

15 ore fa

Il raid israeliano nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania, ha ucciso almeno 12 palestinesi quando i militari hanno preso di mira il campo profughi e gli ospedali della zona, in quella che è una delle più vaste operazioni militari in Cisgiordania degli ultimi anni.

L’offensiva è stata diffusamente descritta come uno dei peggiori attacchi israeliani a Jenin degli ultimi due decenni.

Martedì il Ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese ha confermato la morte di 2 persone, portando il numero totale di palestinesi uccisi ad almeno 12.

Secondo la Ministra della Sanità palestinese May al-Kaila durante il raid le forze israeliane hanno preso di mira anche ospedali, personale medico e ambulanze.

La ministra ha affermato che le forze israeliane hanno fatto irruzione nell’ospedale pubblico di Jenin e hanno aperto il fuoco provocando tre feriti. Kaila ha aggiunto che hanno attaccato anche l’ospedale Ibn Sina.

Nel corso del raid oltre agli ospedali sono state danneggiate anche una chiesa cattolica e una moschea. Le foto condivise online mostrano le finestre della chiesa distrutte ed evidenti danni all’esterno.

Diverse notizie che citano fonti israeliane hanno affermato che martedì le forze israeliane avrebbero iniziato a ritirarsi, mentre i media palestinesi riportano sporadici scontri con le forze israeliane.

“Le forze israeliane hanno iniziato a ritirarsi dal campo di Jenin”, ha detto martedì sera ad AFP [agenzia di stampa francese, ndr.] un portavoce dell’esercito, senza fornire ulteriori dettagli.

Tuttavia, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito che l’operazione non è stata un evento occasionale, aggiungendo che Israele “continuerà fino a quando sarà necessario” ad impegnarsi in operazioni militari a Jenin.

MEE sta facendo una pausa nella copertura, ma riprenderà presto. Per rimanere aggiornato sulle ultime novità, seguici su Facebook, Instagram, Twitter e TikTok.

La risposta degli Stati Uniti all’assalto in Cisgiordania riafferma la mano libera di Israele

16 ore fa

Il crescente uso da parte di Israele di sofisticate attrezzature militari nella Cisgiordania occupata, inclusi droni ed elicotteri d’attacco Apache, ha incontrato una scarsa reattività da parte dell’amministrazione Biden, cosa che ha sottolineato la mancanza di linee rosse da parte di Washington in risposta all’intensificarsi della violenza nella regione.

Il raid su Jenin è il culmine di settimane di attacchi militari che hanno visto Israele dispiegare armi sempre più pesanti nella Cisgiordania occupata.

“Quando si tratta dell’uso della forza da parte di Israele gli Stati Uniti non pongono assolutamente linee rosse”, ha detto a MEE Marwa Maziad, esperta di relazioni USA-arabo-israeliane, presso l’Università del Maryland.

A giugno per la prima volta in quasi 20 anni elicotteri da combattimento sono stati inviati nella Cisgiordania occupata dopo che un un veicolo di trasporto truppe è stato colpito da quello che i militari hanno definito un ordigno esplosivo improvvisato (IED) abbastanza avanzato”.

Solo due giorni dopo Israele ha ucciso in un attacco con droni vicino a Jenin due membri del ramo militare del movimento della Jihad islamica palestinese e un leader militare di Fatah.

Alcuni esperti hanno affermato che gli Stati Uniti sono preoccupati che l’introduzione da parte di Israele di droni armati nella Cisgiordania occupata abbia l’effetto potenziale di allentare le regole di ingaggio e infiammare ulteriormente le tensioni, ma gli analisti dicono a Middle East Eye che il raid mortale di Israele su Jenin mostra che per l’amministrazione Biden si tratta di una questione irrilevante.

Il bilancio delle vittime sale ad almeno 12

17 ore fa

Il Ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese ha affermato che il bilancio delle vittime del raid dell’esercito israeliano a Jenin è ora salito a 12 palestinesi.

Per ora il Ministero non ha fornito dettagli sulle circostanze del nuovo decesso.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà per le violenze in Cisgiordania

18 ore fa

Venerdì il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà a porte chiuse in seguito all’operazione militare israeliana nella città palestinese di Jenin.

Secondo Reuters i diplomatici hanno detto che gli Emirati Arabi Uniti hanno chiesto l’incontro “alla luce degli allarmanti sviluppi in Palestina”.

Le organizzazioni ebraiche statunitensi incolpano Netanyahu per la violenza dei coloni della Cisgiordania

19 ore fa

Una dichiarazione congiunta rilasciata lunedì da 12 organizzazioni ebraiche americane incolpa il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per gli attacchi violenti dei coloni israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata.

“In qualità di leader della comunità ebraica americana non possiamo rimanere a guardare”, viene riportato su Haaretz come parte della dichiarazione firmata da organizzazioni tra cui l’Union for Reform Judaism, il New Israel Fund, J Street e il National Council for Jewish Women.

Le organizzazioni hanno espresso la loro “crescente angoscia e orrore” per la recente ondata di attacchi violenti da parte di coloni ebrei israeliani contro le comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Questa violenza “non è venuta dal nulla, ma è in linea con il più ampio programma del governo Netanyahu di espansione degli insediamenti, intensificazione dell’occupazione ed espulsione dei palestinesi”, sostengono le organizzazioni.

“Il primo ministro Netanyahu ha la responsabilità ultima delle politiche messe in atto in Cisgiordania sotto la sua autorità e per la ‘chilul hashem’, dissacrazione del nome di Dio, che è stata scatenata sotto forma di questi spregevoli attacchi violenti”.

Le forze israeliane iniziano a ritirarsi da Jenin

19 ore fa

Nella tarda serata di martedì le forze israeliane hanno iniziato a ritirarsi dalla città palestinese di Jenin dopo aver condotto una delle più pesanti operazioni militari da anni nella Cisgiordania occupata, secondo quanto riportato da diverse testate giornalistiche che citano fonti israeliane.

“Le forze israeliane hanno iniziato a ritirarsi dal campo di Jenin”, ha detto martedì sera ad AFP un portavoce dell’esercito, senza fornire ulteriori dettagli.

Martedì scorso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’operazione a Jenin non è stata un evento occasionale e che Israele “continuerà per tutto il tempo necessario” a impegnarsi in operazioni militari a Jenin.

L’ultimo raid, iniziato lunedì, ha ucciso 11 palestinesi e ha lasciato decine di feriti. Le forze israeliane hanno anche preso di mira diversi ospedali della zona con lacrimogeni e proiettili veri.

Il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha affermato che i militari sarebbero in grado di “duplicare e riprodurre” l’operazione a Jenin e prendere di mira chiunque “cerchi di danneggiare i cittadini israeliani”.

“Lo seguiremo fino a casa sua, alla sua camera da letto, lo arresteremo e lo assicureremo alla giustizia”, ha detto.

“Quando Israele ha attaccato ci trovavamo in ospedale “

19 ore fa

Rapporto di Middle East Eye da un ospedale di Jenin mentre le forze israeliane continuano il loro raid nella città occupata della Cisgiordania, prendendo di mira gli ospedali e sparando nelle loro vicinanze.

Ci trovavamo all’ospedale governativo di Jenin quando l’esercito israeliano lo ha attaccato con lacrimogeni sparati dai soldati e con droni”, ha detto Latifeh Abdellatif, corrispondente di Middle East Eye.

“Sono stati sparati almeno sei volte dei lacrimogeni all’interno dell’ospedale nonostante fossero presenti pazienti che potevano essere danneggiati dall’inalazione di gas”.

Abdellatif afferma che poco dopo i gas lacrimogeni le forze israeliane hanno sparato proiettili veri nelle vicinanze dell’ospedale, ferendo almeno tre persone. Aggiunge che ci sono stati attacchi simili vicino all’ospedale Ibn Sina.

“Ci sono stati molti casi di soffocamento curati sul posto e sono state portate alcune persone per cure urgenti”, dice.

Potete leggere di più sui rapporti di Abdellatif qui.

Israele attacca gli ospedali, afferma il Ministero della Sanità palestinese

20 ore fa

Il ministro della sanità palestinese May al-Kaila ha dichiarato che le forze israeliane stanno sempre più prendendo di mira ospedali, personale medico e ambulanze.

Kaila ha detto che le forze israeliane hanno fatto irruzione nell’ospedale pubblico di Jenin e hanno aperto il fuoco lasciando tre persone ferite. Ha aggiunto che hanno fatto irruzione anche nell’ospedale Ibn Sina.

“Questa aggressione è un affronto al diritto internazionale e [dimostra] una determinazione ad uccidere [i palestinesi]”, ha affermato.

Martedì pomeriggio le forze israeliane hanno anche preso di mira con lacrimogeni l’ospedale pubblico come riportato dai media locali con video che mostrano persone in fuga dalla struttura circondata da una coltre di fumo.

Anche gli ospedali Khalil Suleiman e Amal sono stati attaccati.

Kaila ha affermato che l’esercito israeliano ha ripetutamente ostacolato e impedito alle squadre di ambulanze palestinesi di raggiungere i feriti.

La coalizione BDS sudafricana chiede il boicottaggio di Israele

1 giorno fa

La sezione sudafricana del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) chiede al Paese di attuare un boicottaggio di Israele e di perseguire i sudafricani che hanno prestato servizio nelle forze militari israeliane.

La dichiarazione arriva dopo che nelle prime ore di lunedì l’esercito israeliano ha lanciato il suo ultimo raid nella città di Jenin, nella Cisgiordania occupata.

“Il nostro governo afferma di sostenere i principi del diritto internazionale, quindi attendiamo un’azione decisiva dal Sudafrica alle Nazioni Unite, chiedendo il ripristino delle procedure anti-apartheid attraverso sanzioni internazionali e un embargo sulle armi contro lo [Stato di] apartheid israeliano”, ha affermato Roshan Dadoo, coordinatore della coalizione BDS sudafricana.

“Chiediamo inoltre che il nostro governo dichiari persona non grata l’ambasciatore dello [Stato di] apartheid israeliano a Pretoria e rompa le relazioni diplomatiche e qualsiasi altro rapporto”, ha affermato.

La coalizione ha dichiarato che il Sudafrica “ha il dovere morale ed etico di agire contro l’impunità dello Stato israeliano coloniale dell’apartheid e di sostenere il popolo palestinese che resiste [all’] occupazione illegale e ai crimini di guerra commessi contro di loro”.

Il Sudafrica ha una legge che stabilisce che ai suoi cittadini non è permesso di “impegnarsi in attività mercenarie” o fornire “assistenza militare straniera a qualsiasi Stato” a meno che non venga concessa un’autorizzazione speciale. Chiunque violi questa legge è soggetto a detenzione carceraria.

Ci sono stati diversi casi portati dai palestinesi all’Autorità Nazionale di Perseguimento Penale contro i sudafricani che prestano servizio nell’esercito israeliano.

Il bilancio delle vittime sale a 11

1 giorno fa

Dopo la morte di un giovane palestinese martedì il bilancio delle vittime del raid israeliano nella città occupata di Jenin in Cisgiordania è salito a 11 palestinesi.

Secondo i notiziari palestinesi Abd al-Rahman Sa’abneh è morto martedì per le ferite riportate dopo essere stato ferito da proiettili veri sparati da soldati israeliani a Jenin.

Nel raid israeliano danneggiati luoghi di culto

1 giorno fa

Sia una chiesa cattolica che una moschea hanno subito danni a seguito del raid israeliano su larga scala a Jenin.

Il Patriarcato Cattolico di Gerusalemme ha rilasciato una dichiarazione in cui conferma che la chiesa è stata presa di mira dall’offensiva.

Le foto condivise online mostrano le finestre della chiesa distrutte ed evidenti danni all’esterno.

“La città di Jenin sta affrontando un’aggressione israeliana senza precedenti che prende di mira persone e territorio”, ha dichiarato il patriarca Pierbattista Pizzaballa.

La parrocchia cattolica della città ha subito danni a causa di questa aggressione, ha aggiunto.

Lunedì anche la moschea di Al-Ansar è stata presa di mira dalle forze israeliane, che avevano come obiettivo i palestinesi rimasti nella moschea durante la notte.

La moschea, che si trova nel quartiere di Al-Damaj, è stata utilizzata nel corso dei bombardamenti da persone in cerca di sicurezza.

Testimoni oculari hanno affermato che nei locali della moschea sono stati usati proiettili veri e lacrimogeni e che hanno contribuito ai danni anche i bulldozer che hanno scavato intorno alla moschea.

Ministero della Sanità palestinese: oltre 20 persone in gravi condizioni

1 giorno fa

Il Ministero della Sanità palestinese afferma che oltre 100 persone hanno riportato ferite gravi a seguito dell’offensiva israeliana a Jenin. Circa 20 dei feriti sono stati definiti in “gravi condizioni”.

Secondo i media locali le forze israeliane sono ancora nel campo di Jenin e prendono di mira case e persone con colpi di arma da fuoco.

Sono stati sparati lacrimogeni contro la folla anche fuori dall’ospedale principale di Jenin, senza alcuna indicazione di quanto durerà l’offensiva.

La Mezzaluna Rossa afferma che finora oltre 500 famiglie sono state evacuate dal campo.

Per il secondo giorno il campo di Jenin resta tagliato fuori dalle risorse

1 giorno fa

Abitanti e testimoni oculari nel campo di Jenin affermano che a seguito dell’offensiva israeliana per il secondo giorno le persone non hanno avuto accesso alle risorse primarie.

Siamo rimasti senza acqua e senza elettricità, è impossibile contattare chiunque sia rimasto nel campo, ci ha detto un testimone oculare.

Finora oltre 3.000 persone sono state sfollate da Jenin, eppure il campo è stato completamente chiuso, con un numero imprecisato di persone rimaste al suo interno.

Il corrispondente di MEE sul campo afferma anche che le forze israeliane stanno entrando nelle case private ed effettuando arresti, lasciando le persone in uno stato di terrore.

Il Primo Ministro britannico esorta Israele a mostrare “moderazione”

1 giorno fa

Martedì Rishi Sunak, il Primo Ministro del Regno Unito, ha esortato Israele a proteggere i civili palestinesi, mentre le forze israeliane continuano l’offensiva a Jenin per il secondo giorno.

“Ci preme dire che la protezione dei civili deve avere la priorità in qualsiasi operazione militare, e sollecitiamo le IDF [esercito israeliano, ndt.] a mostrare moderazione nelle sue operazioni e chiediamo a tutte le parti di evitare un’ulteriore escalation sia in Cisgiordania che a Gaza, sia ora che nei giorni a venire.”

Sunak ha anche affermato che il Regno Unito chiede a Israele di “aderire ai principi di necessità e proporzionalità nel difendere i propri legittimi interessi di sicurezza”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le dichiarazioni di Netanyahu dovrebbero indurre un importante cambiamento di paradigma nella Palestina  occupata

Ramzy Baroud

4 luglio 2023 – Middle East Monitor

È noto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sia contrario alla creazione di uno Stato palestinese, ma ora ha detto chiaramente di voler andare persino oltre. Come riportato dai media israeliani egli ha affermato alla commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset: “Dobbiamo eliminare le aspirazioni [arabo-palestinesi] a uno Stato,”. Il leader di destra ha aggiunto che il suo governo sta “preparandosi per il giorno dopo Abbas,” riferendosi all’88enne presidente dell’Autorità Palestinese. “È nostro interesse che l’Autorità [Palestinese] continui a lavorare. Nelle aree in cui riesce ad agire, lavora per noi.”

Alcuni, tra cui alcuni funzionari dell’Autorità Palestinese, sembrano stranamente sorpresi dalle sue parole, dato che le intenzioni israeliane sulla libertà e il desiderio di uno Stato dei palestinesi sono noti persino ai novellini della politica.

Il portavoce ufficiale della presidenza palestinese ha replicato sottolineando che solo uno Stato palestinese indipendente può garantire “sicurezza” e “stabilità”. Questa terminologia è usata spesso dai funzionari palestinesi per suscitare supporto negli USA, poiché questo linguaggio è mutuato dalla narrazione di Washington sulla Palestina e il Medio Oriente. In pratica “sicurezza” è quasi sempre connessa con Israele e “stabilità” è legata a programmi e interessi USA nella regione.

Tuttavia questo linguaggio non è affatto importante per Israele, perché la “sicurezza” dal punto di vista di Tel Aviv si ottiene con il sostegno incondizionato degli USA e il “coordinamento sulla sicurezza” con l’accordo fra l’occupazione militare israeliana e l’AP. Entrambe sono già state ottenute. Ecco perché Netanyahu ha detto alla commissione della Knesset che l’AP “fa il lavoro per noi”, aggiungendo “e non abbiamo alcun interesse che crolli”. In altre parole il primo ministro israeliano considera l’AP come un’altra linea di difesa contro quegli stessi palestinesi i cui interessi l’Autorità dovrebbe rappresentare e promuovere.

Per quanto riguarda la “stabilità”, essa è di scarso interesse per Israele, che in termini pratici definisce stabilità il proprio completo dominio sui palestinesi. Anzi, sull’intera regione.

Nessuna delle affermazioni su esposte è basata su complesse analisi o congetture, esse sono desunte da dichiarazioni ufficiali e azioni israeliane sul terreno.

Quando Bezalel Smotrich, ministro israeliano di estrema destra, a marzo ha dichiarato che ” i palestinesi non esistono perché non esiste il popolo palestinese,” non stava dando una lezione di storia o semplicemente tenendo un discorso d’odio. Stava dichiarando indirettamente che Israele non è responsabile né moralmente, né legalmente né politicamente delle sue azioni contro coloro che, nella perversa visione sionista del mondo, non esistono.

Le sue considerazioni sono coerenti con i continui pogrom commessi dai suoi sostenitori, i coloni ebrei illegali, armati e pericolosi, in tutta la Cisgiordania occupata, contro i palestinesi a Huwara, a febbraio, e più di recente contro Turmus Ayya e altre città e villaggi palestinesi. Né gli americani né gli europei hanno imposto alcuna misura punitiva contro Smotrich e neppure contro le bande di coloni che hanno dato fuoco a case e auto palestinesi, uccidendo e ferendo molti durante gli attacchi.

Eppure questa è solo una piccolissima parte di un quadro più ampio in cui Israele dice e fa quello che vuole, mentre gli americani continuano a recitare un vecchio copione politico come se niente fosse cambiato sul terreno. Eppure non ci possono essere dubbi che i responsabili della politica estera USA sappiano molto bene che Israele non ha alcun interesse in una conclusione giusta e pacifica alla sua occupazione militare della Palestina.

Perciò abbiamo il diritto di chiedere perché il governo statunitense insista nel seguire la stessa logora formula e solleciti entrambe le parti a impegnarsi nuovamente nel cosiddetto “processo di pace” e ritornare ai negoziati. Questo mantra continua a definire la politica estera USA come ha fatto sin dai primi anni ’90, quando Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) firmarono gli accordi di Oslo. Oslo peggiorò una situazione già pessima: da allora il numero di colonie illegali e i coloni sono triplicati e il popolo palestinese è ancora più vulnerabile, non solo davanti alla violenza israeliana, ma anche per la repressione e corruzione dell’AP. Non è sicuramente una coincidenza che Abbas abbia giocato un ruolo chiave nella firma degli accordi di Oslo.

Sebbene Oslo sia stato ingiusto con i palestinesi, dato che opera largamente al di fuori dei paradigmi internazionali accettabili e non ha clausole per farli rispettare o scadenze, Netanyahu e altri leader israeliani vi si sono comunque opposti, perché, seppure simbolicamente, ci si aspetta che Israele si comporti in un certo modo. Sentirsi dire di non costruire o espandere le colonie, per esempio, ha sempre fatto infuriare Netanyahu, che nel passato ha attaccato molte volte persino i suoi benefattori americani su questo tema, in particolare durante l’amministrazione del presidente Barack Obama.

I leader israeliani si sentono al di sopra di ogni legge o aspettativa che provenga dall’esterno, anche se queste aspettative sono piuttosto limitate e provengano da stretti alleati come Washington. Naturalmente con il tempo Netanyahu prevarrà non solo su ogni presunta “pressione” dagli USA e dalla comunità internazionale, ma anche sulle forze politiche più “progressiste” nella sua società.

Ora, armato di un governo di coalizione stabile e apparentemente immune da ogni critica significativa, ancor meno di tangibili conseguenze per le sue azioni, il leader israeliano è pronto a portare avanti senza esitazioni i suoi programmi di destra.

Ed ecco quindi le sue recenti osservazioni, che sono una versione ancora più arrogante delle dichiarazioni fatte nell’ottobre 2004 dall’alto consigliere del governo israeliano Dov Weissglas, che spiegò le vere intenzioni che stavano dietro il disimpegno dell’esercito israeliano a Gaza nel 2005. Era una tattica israeliana che mirava a “congelare il processo di pace,” ha detto Weissglas ad Haaretz. “E quando si congela quel processo si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si previene una discussione sui rifugiati, i confini e Gerusalemme. Effettivamente l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto quello che esso comporta, è stato rimosso a tempo indeterminato dai nostri piani.”

In realtà questo ” intero pacchetto” era stato rimosso da lungo tempo dai programmi israeliani, ma i leader del Paese hanno continuato a riferirsi comunque a uno Stato palestinese per soddisfare aspettative al ribasso della politica USA. Netanyahu ha giocato questo giochino in più di un’occasione, fra le altre nella sua intervista a febbraio con la CNN, in cui ha sostenuto che uno Stato palestinese è possibile, ma solo se non ha la sovranità. Adesso è pronto a superare quell’apparentemente vecchio linguaggio per muoversi in territori politici nuovi, dove non è permessa neppure l’aspirazione a una Palestina indipendente.

Se il linguaggio di Netanyahu, allarmante ma onesto, spingerà probabilmente molti israeliani alla violenza e palestinesi alla resistenza, dovrebbe anche indurre una maggiore chiarezza, facendo accantonare una volta per tutte il discorso disonesto su “sicurezza”, “stabilità” e sul moribondo “processo di pace”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele bombarda Gaza dopo l’assalto a Jenin

5 luglio 2023 – Al Jazeera

Aerei colpiscono posizioni di Hamas nella Striscia di Gaza dopo il lancio di razzi verso il sud di Israele in seguito all’offensiva israeliana a Jenin.

Aerei militari israeliani hanno colpito la Striscia di Gaza in risposta al lancio di razzi dall’enclave assediata dopo che Israele ha concluso l’offensiva su larga scala a Jenin, nella Cisgiordania occupata.

L’attacco israeliano di mercoledì ha colpito una fabbrica di armi sotterranea appartenente a Hamas, la fazione palestinese che governa la Striscia. Non si riportano vittime.

E’ accaduto dopo che Israele ha affermato di aver abbattuto cinque razzi lanciati contro il sud di Israele dalla Striscia di Gaza.

Intanto l’esercito israeliano mercoledì ha detto che le sue forze si sono ritirate da Jenin ponendo fine ad un’offensiva di due giorni per terra e per cielo che ha ucciso almeno 12 palestinesi e ne ha feriti più o meno altri 100.

Gli abitanti costretti a fuggire dal campo profughi di Jenin dove si è svolto il raid hanno incominciato a tornare nella notte di mercoledì per esaminare le proprie case e beni distrutti. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha detto di aver evacuato 500 famiglie dal campo, in totale circa 3.000 persone.

Migliaia di palestinesi in tutta la Cisgiordania hanno festeggiato il ritiro delle forze israeliane.

Il campo profughi di Jenin ospita migliaia di palestinesi discendenti delle persone espulse quando nel 1948 venne creato Israele.

Israele ha sostenuto che l’attacco, iniziato lunedì, aveva come obbiettivo i combattenti di Jenin, ma le associazioni di assistenza affermano di aver curato feriti di tutte le età.

Il raid ha ricevuto tra le altre la condanna dell’Iran, della Giordania e della Lega Araba.

Il Segretario Generale ONU Antonio Guterres ha espresso “profonda preoccupazione” riguardo all’assalto a Jenin e venerdì terrà una riunione per discuterne.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“La nuova Nakba”: quello che un giornalista palestinese ha visto mentre informava sull’invasione di Jenin

Mohammed Abed

4 luglio 2023 – Mondoweiss

Quello che ho visto a Jenin è una nuova Nakba. Siamo stati riportati indietro al 1948, al 1967 e al 2002 quando il campo profughi di Jenin venne raso al suolo. Questa è stata la sorte della gente del campo nelle ultime 24 ore.

All’incirca verso l’1:30 della notte del 3 luglio i droni dell’esercito di occupazione hanno lanciato un attacco aereo su una delle sedi della resistenza palestinese nel campo profughi di Jenin.

Ho subito indossato il mio gilet con la scritta “Stampa” e mi sono diretto al campo dove erano avvenuti gli attacchi aerei. Lungo il percorso di 5 km per arrivare al campo hanno iniziato a giungerci notizie secondo cui le forze militari dell’occupazione avevano lasciato le basi dell’esercito che si trovano ai posti di controllo di Dotan, Jalameh e Salem che circondano Jenin. Stavano per entrare in città.

In quel momento mi sono reso conto che l’invasione era iniziata.

Carri armati in marcia verso Jenin FOTO: ATEF SAFADI/EFE VIA ZUMA PRESS/APA IMAGES)

Quando sono arrivato al campo l’esercito era già là, schierato fuori dall’ingresso occidentale presso la rotonda di Awda. Sono affluite decine di veicoli blindati che poi si sono sparpagliate per accerchiare il perimetro del campo.

Abbiamo iniziato a informare dell’invasione mentre l’esercito entrava a forza. Questa volta sembrava diverso dalle precedenti incursioni, l’esercito faceva ampio uso dei droni militari per lanciare attacchi aerei su vari luoghi all’interno del campo, qualcosa che non si era più visto dalla Seconda Intifada. Le esplosioni sono continuate per parecchie ore, mentre l’esercito continuava a martellare il campo dall’alto. Dopo un po’ le esplosioni sono diventate meno frequenti, sostituite da un suono diverso, più familiare, di ordigni artigianali fatti esplodere.

Abbiamo tentato di entrare per continuare il nostro lavoro, ma l’esercito ci ha impedito di avanzare. Ha impedito anche alle ambulanze e al personale medico di entrare per curare i feriti.

Un mezzo blindato dell’esercito israeliano blocca l’ingresso del campo di Jenin. Foto:MOHAMMED NASSER/APA IMAGES)

Siamo andati all’ospedale Ibn Sina di Jenin e abbiamo assistito all’afflusso graduale di persone, molte delle quali ferite o che cercavano un rifugio. Abbiamo notato che altri veicoli militari continuavano a passare nei pressi dell’ospedale, almeno cinque convogli, tra cui quattro bulldozer militari, diretti al campo.

Sono passate ore e dal campo proveniva il suono delle esplosioni. Abbiamo cominciato a documentare i casi di persone ferite e uccise che hanno iniziato a raggiungere l’ospedale. Dopo che le forze di occupazione avevano impedito loro di curare i feriti, sul posto sono arrivate ambulanze.

Di primo mattino i bulldozer si sono messi a disselciare le vie di Jenin, scavando trincee profonde un metro nel terreno. È stata la prima volta in vent’anni che abbiamo visto queste scavatrici in azione.

Le conseguenze del feroce attacco con bulldozer che ha sventrato il manto stradale e schiacciato una macchina . Foto: NASSER ISHTAYEH/SOPA IMAGES VIA ZUMA PRESS WIRE/APAIMAGES)

Quando è sorto il sole abbiamo visto i droni dell’esercito coprire il cielo su di noi, mettendo in chiaro che l’invasione sarebbe probabilmente continuata per un certo tempo. Durante il giorno ci siamo avviati verso vari luoghi in cui era schierato l’esercito. Il primo è stato in via Haifa, dove stazionavano vari veicoli militari. Il secondo è stato la rotonda del ministero dell’Interno, dove un convoglio di blindati stava formando un cordone attorno alla zona per chiudere le strade di accesso al campo. Il terzo luogo è stato presso il cinema Circle, nel centro di Jenin, dove si stava svolgendo uno scontro armato tra l’esercito e i combattenti della resistenza. Miliziani erano schierati ai lati delle strade e scambiavano colpi di armi da fuoco con l’esercito. Improvvisamente a un certo punto della sparatoria un nutrito gruppo di combattenti ha iniziato ad avanzare verso il centro della strada e ha continuato a sparare contro i blindati. Mentre filmavamo uno dei miei colleghi si è girato verso di me e mi ha detto che ciò gli ricordava le violente battaglie di strada della Seconda Intifada.

Queste scene di scontri armati erano già state documentate dall’inizio degli ultimi avvenimenti nel campo profughi di Jenin, ma le incursioni dell’anno scorso non hanno niente a che vedere con quello che abbiamo visto con i nostri occhi. Abbiamo assistito all’audacia e allo stoicismo dei combattenti della resistenza mentre affrontavano l’occupazione, dimostrando una tenace determinazione da far rabbrividire.

Infine, il quarto luogo è stato l’ingresso principale del campo profughi di Jenin, dove lo scontro era più feroce. Pneumatici in fiamme riempivano le strade, così come il fumo nero che saliva in colonne che servivano come temporanea cortina fumogena intesa a proteggere i combattenti. Poco dopo un attacco aereo nel campo si potevano sentire le ambulanze che portavano via decine di feriti all’Ibn Sina, dove si era riunita una folla per aiutare il personale medico nel trasporto dei feriti. È così che la gente del campo affronta queste condizioni, offrendosi aiuto reciproco indipendentemente dalla competenza specifica. Quello che vogliono fare è dare una mano in ogni modo possibile.

Il soccorso ai feriti all’ingresso del Campo Profughi. Foto:MOHAMMED NASSER/APA IMAGES

Dopo poco tempo è entrata un’altra ambulanza che portava un gruppo di giornalisti evacuati dal campo. Stavano informando sugli avvenimenti in loco quando l’esercito li ha presi di mira con proiettili veri. Nessuno è stato direttamente colpito, ma alcuni sono tornati senza il loro equipaggiamento in quanto l’esercito ha deliberatamente sparato contro le telecamere che stavano trasmettendo gli eventi dal vivo.

Ho parlato con uno dei giornalisti, Issam Rimawi:

Io e altri colleghi — Hisham Abu Shaqrah, Amid Shehadeh, Rabie Munir, and Abdulrahman Younis — ci trovavamo all’interno del campo prima che le forze di occupazione lo invadessero. Improvvisamente le forze di occupazione sono arrivate in mezzo al campo durante il nostro lavoro, non ci hanno consentito di andarcene e anzi hanno aperto il fuoco contro di noi. Ci siamo rifugiati in una delle case finché siamo stati portati via da un’ambulanza. È stato uno spettacolo terrificante.”

È così che si sono svolti i fatti a Jenin finché è scesa la notte, quando l’esercito ha obbligato migliaia di persone a lasciare il campo. Quelle famiglie sono scappate perché gli è stato detto che la loro casa sarebbe stata bombardata, ma molti sono rimasti nella propria abitazione.

Questo è ciò che significa essere profugo. Questa è la Nakba, rinata dai crimini dell’occupazione. Siamo stati riportati indietro al 1948, al 1967 e al 2002, quando il campo profughi di Jenin venne raso al suolo.

Abbiamo parlato alle famiglie del campo. Ci hanno detto che le ambulanze sono arrivate e hanno detto loro che dovevano andarsene dalle loro case perché l’occupazione intendeva bombardare molte delle loro abitazioni. Una delle persone ha descritto il livello di distruzione a cui ha assistito:

Quando abbiamo lasciato le nostre case le strade erano completamente distrutte. Ovunque nel campo c’erano segni di devastazione e abbiamo camminato sulle macerie causate dagli attacchi aerei e dai bulldozer. Nel campo niente è rimasto come prima. Tutto è stato distrutto.”

Questa è stata la sorte delle persone del campo nelle ultime 24 ore e forse è la stessa sorte che li attende nelle prossime 24 ore. Gli attacchi aerei continuano e i combattimenti si intensificano. Possiamo sentire altre esplosioni, ed è quasi certo che continueranno.

Mohammed Abed

Mohammed Abed è un giornalista palestinese che risiede a Jenin.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come Israele sta testando l’intelligenza artificiale nella guerra contro i palestinesi

Richard Silverstein

1 luglio 2023 MiddleEastEye

Israele rafforza la sua rete di controllo e i palestinesi sono diventati i primi bersagli di tecnologie terrificanti e letali

Lo scorso anno l’esercito israeliano ha lanciato una nuova strategia per inserire armi e tecnologie dell’intelligenza artificiale in tutti i reparti militari – la trasformazione strategica più radicale degli ultimi decenni. Il mese scorso il Ministero della Difesa israeliano si è vantato che l’esercito sta per diventare una “superpotenza” dell’IA nel campo della guerra autonoma .

“C’è chi vede l’IA come la prossima rivoluzione che cambierà il volto della guerra sul campo”, ha detto il generale dell’esercito in pensione Eyal Zamir alla Conferenza di Herzliya, un forum annuale sulla sicurezza. Gli impieghi militari dell’IA potrebbero includere “la capacità delle piattaforme informatiche di colpire in sciami, o dei sistemi di combattimento di operare in modo indipendente … o l’aiuto in un processo decisionale rapido su scala maggiore di quanto si sia mai visto”.

L’industria militare israeliana sta producendo una vasta gamma di navi e veicoli militari autonomi, tra cui un “veicolo robot armato” descritto come dotato di un insieme di programmi “robusto” e “letale” con “riconoscimento automatico del bersaglio”. Un sottomarino autonomo per la “raccolta segreta di informazioni”, soprannominato BalenaBlu, è in fase di collaudo.

È ovvio che tutto questo vi spaventi da morire. Israele non sta creando solo un mostro di Frankenstein, ma interi plotoni capaci di portare distruzione non solo sui loro obiettivi palestinesi ma su chiunque in qualsiasi parte del mondo.

I palestinesi sono il banco di prova per tali tecnologie, e servono da “prova di fattibilità” per gli acquirenti globali. I clienti più probabili di Israele sono paesi coinvolti in guerre; anche se queste armi possono dare un vantaggio sul campo di battaglia, alla fine aumenteranno sicuramente il livello generale di sofferenza e spargimento di sangue tra tutti i partecipanti. Saranno in grado di uccidere in numero maggiore con esiti maggiormente letali. Perciò sono terrificanti.

Un’altra nuova tecnologia di intelligenza artificiale israeliana, Pozzo di Sapere, non solo controlla da dove i militanti palestinesi lancino razzi ma può anche essere utilizzata per prevedere i luoghi dei futuri attacchi.

Se tali sistemi possono offrire agli israeliani protezione dalle armi palestinesi, consentono anche a un Israele indisturbato di diventare una potenziale macchina per uccidere, scatenando terrificanti attacchi contro obiettivi militari e civili senza quasi dover affrontare una resistenza da parte dei nemici.

Cerca e distruggi

Queste tecnologie sono un avvertimento al mondo su quanto sia diventata pervasiva e invadente l’IA. E non è rassicurante che l’esperto capo di intelligenza artificiale dell’esercito israeliano affermi di essere competitivo rispetto agli stipendi degli specialisti di IA sul mercato privato, fornendo “significanza”. Come se questo potesse in qualche modo rassicurare, aggiunge che per le armi IA di Israele ” [ci sarà] sempre una persona umana coinvolta nel prossimo futuro…”.

Lascio a voi le riflessioni su quanto possa essere “significante” uccidere i palestinesi. Ed è improbabile che ci sia sempre un essere umano a controllare queste armi sul campo di battaglia. Il futuro prevede robot in grado di pensare, giudicare e combattere autonomamente, con poco o nessun intervento umano oltre la programmazione iniziale. Sono stati definiti la “terza rivoluzione nella guerra dopo la polvere da sparo e le armi nucleari”.

Possono essere programmati per cercare e distruggere il nemico, ma chi determina chi è il nemico e chi decide della vita o della morte sul campo di battaglia? Sappiamo già che in guerra gli umani commettono errori, a volte terribili. I programmatori militari, nonostante la loro esperienza nel determinare ciò che i robot armati penseranno e faranno, non sono meno inclini all’errore. Le loro creazioni potrebbero presentare enormi incognite di comportamento che potrebbero costare innumerevoli vite.

La Palestina è uno dei luoghi più sorvegliati al mondo. Le telecamere a circuito chiuso sono sempre presenti nel paesaggio palestinese, dominato dalle torri di guardia israeliane, alcune armate di pistole robotizzate telecomandate. In alto volano i droni, in grado di lanciare gas lacrimogeni, sparare direttamente sui palestinesi sottostanti o sparare diretti da personale a terra. A Gaza, la sorveglianza costante spaventa e traumatizza i residenti.

Oltre a ciò ora Israele ha anche app di riconoscimento facciale come Blue Wolf che mirano a catturare immagini di ogni palestinese. Queste immagini vengono inserite in un enorme database a cui si può attingere per qualsiasi scopo. Il software di aziende come Anyvision, in grado di identificare un numero enorme di individui, è integrato con sistemi contenenti informazioni personali – compresi i post sui social media.

È una rete di controllo che infonde paura, ossessione e un senso di disperazione. Come disse una volta l’ex capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano Rafael Eitan, l’obiettivo è quello di far “correre i palestinesi come scarafaggi drogati in una bottiglia”.

Il mostro di Frankenstein

Molti ricercatori sui dati e difensori della privacy hanno messo in guardia dai pericoli dell’IA sia nella sfera pubblica che nelle azioni di guerra. I robot militari mossi dall’intelligenza artificiale sono solo uno dei tanti esempi e Israele è in prima linea in questi sviluppi. È il dottor Frankenstein e questa tecnologia è il suo mostro.

Human Rights Watch ha chiesto il divieto di queste tecnologie militari avvertendo: “Le macchine non possono comprendere il valore della vita umana”.

Può darsi che la tecnologia israeliana di IA sia, almeno agli occhi dei suoi creatori, destinata alla protezione e alla difesa degli israeliani. Ma il danno che infligge alimenta un circolo vizioso senza fine di violenza. L’esercito israeliano e i media che promuovono tale stregoneria creano solo più vittime – inizialmente palestinesi, ma in futuro ogni dittatura o stato genocida che acquisti queste armi produrrà il proprio mucchio di vittime.

Un altro “risultato” dell’intelligenza artificiale è stato l’assassinio nel 2020 da parte del Mossad del padre del programma nucleare iraniano, Mohsen Fakhrizadeh. Il New York Times ne ha dato questo sbalorditivo resoconto: “Gli agenti iraniani che lavoravano per il Mossad avevano parcheggiato un camioncino Nissan Zamyad blu sul lato della strada… Sul pianale del camioncino era posta una mitragliatrice da cecchino da 7,62 mm… L’assassino, un abile cecchino, prese posizione, tarò i mirini, armò l’arma e premette leggermente il grilletto.

“Tuttavia non era affatto vicino ad Absard [in Iran]. Stava scrutando lo schermo di un computer in una località sconosciuta a più di 1.600 km. di distanza… [Questa operazione è stata] il debutto di un mitragliatore di alta precisione computerizzato ad alta tecnologia, equipaggiato con intelligenza artificiale e visione a più telecamere gestite via satellite e in grado di sparare 600 colpi al minuto.

“Nell’arsenale di armi ad alta tecnologia per l’uccisione mirata a distanza la mitragliatrice potenziata e telecomandata si unisce poi al drone da combattimento. Ma a differenza di un drone, la mitragliatrice robot non attira gli sguardi al cielo dove il drone potrebbe essere abbattuto, e può essere collocata ovunque, qualità queste capaci di rimodellare il mondo della sicurezza e dello spionaggio.”

Conosciamo i pericoli insiti nelle armi autonome. Una famiglia afghana è stata brutalmente uccisa in un attacco di droni statunitensi nel 2021 perché uno dei suoi membri era stato erroneamente identificato come un terrorista ricercato. Sappiamo che l’esercito israeliano ha ripetutamente ucciso civili palestinesi in quelli che ha definito “errori” sul campo di battaglia. Se gli esseri umani che combattono su un campo di battaglia possono sbagliare in modo così eclatante, come possiamo aspettarci che le armi e i robot gestiti dall’intelligenza artificiale facciano un lavoro migliore?

Ciò dovrebbe sollevare un allarme sull’impatto devastante che l’IA avrà sicuramente nel mondo militare e sul ruolo guida di Israele nello sviluppo di tali armi letali fuori regolamento.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam dedicato a denunciare gli eccessi dello Stato di sicurezza nazionale israeliano. Suoi articoli sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi sulla guerra del Libano del 2006 A Time to Speak Out (È ora di parlare, Verso ed.) e ha un altro saggio nella raccolta Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood (Israele e Palestina: prospettive alternative sulla condizione di Stato, Rowman & Littlefield)

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




ILAN PAPPE su Gamal Abdul Nasser: perché dobbiamo riesaminare la guerra del giugno 1967

Ilan Pappe

27 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Nasser sbagliò i calcoli riguardo alla reazione di Israele. Benché il governo israeliano sapesse molto bene che Nasser non intendeva iniziare una guerra, utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Giugno è il mese in cui si ricorda la guerra del giugno 1967.

Gli storici riconsiderano un avvenimento non solo sulla base di nuove prove. Le loro analisi sono influenzate anche dal passare del tempo che consente loro di riesaminare aspetti differenti di eventi fondamentali come questo.

E quando indaghi la storia e utilizzi documenti e prove solide, a volte deludi amici e nemici.

In questo articolo vorrei riprendere in considerazione il ruolo in quella guerra dell’ex presidente egiziano Gamal Abdul Nasser. Penso che il suo ruolo non sempre corrisponda alla percezione comune di questo grande leader e forse deluda valutazioni percepite del suo contributo alla lotta.

Nasser, Palestina e Israele

Qui scrivo dal punto di vista palestinese, nel senso che sono meno interessato a quanto successe all’Egitto in seguito al ruolo di Nasser in Palestina, indubbiamente un argomento significativo. Mi interessa invece l’impatto del leader egiziano sulla storia della Palestina contemporanea.

Nasser arrivò al potere in quanto membro del movimento dei Liberi Ufficiali nella rivoluzione del luglio 1952. Subito dopo assunse la carica di vice capo del movimento, prima di togliere il comando a Muhmad Naguib.

Anche come vice capo era interessato ai negoziati con Israele. Ricorse a un importante diplomatico in Francia per iniziare colloqui con gli israeliani. La sua controparte fu Moshe Sharett, all’epoca ministro degli Esteri di Israele.

Certo Nasser considerava la Nakba come una catastrofe. Credeva fortemente al diritto dei rifugiati palestinesi a tornare e riteneva Israele una grave minaccia per il mondo arabo. Ma Nasser era anche un pragmatico che capiva bene come Israele fosse diventato una parte essenziale dell’assetto imperialista americano nel mondo arabo, e quindi cercò il modo di limitarne il potenziale pericolo.

All’epoca, nel 1952, Nasser non riteneva necessariamente gli Stati Uniti degli arcinemici dei regimi arabi progressisti e sperava che un approccio realistico verso Israele gli avrebbe ingraziato gli americani.

Nel 1952 fece due richieste ragionevoli e rimase sorpreso nell’apprendere che sia la Gran Bretagna che gli USA le trovarono accettabili: un ritorno incondizionato dei rifugiati palestinesi e un ponte terrestre attraverso il sud del Naqab (il Negev) che unisse Giordania ed Egitto. In cambio sarebbe stato disposto a [firmare] un patto di non aggressione con Israele e, successivamente, la pace.

Ben Gurion e i suoi due compari

Il primo ministro israeliano dell’epoca, David Ben Gurion, respinse categoricamente ogni contatto con il leader egiziano: di fatto, dal momento in cui fu chiaro che Nasser sarebbe stato il leader dell’Egitto, Ben Gurion cercò il modo di rovesciarlo.

Invece Sharett fu più disponibile: non che accettasse le condizioni di Nasser, ma apprezzò l’idea dei negoziati e sperò di trovare un compromesso.

Per un breve periodo, quando Sharett sostituì Ben Gurion come primo ministro di Israele per un anno e mezzo, tra il 1954 e il 1955, sembrò possibile arrivare a un compromesso.

Benché non fosse più nel governo, Ben Gurion aveva lasciato due compari che, come lui, credevano che Nasser dovesse essere spodestato. Questa convinzione era di per sé il risultato di un’ideologia radicata, in base alla quale solo un’esibizione della spietatezza di Israele avrebbe potuto ammansire gli arabi e cancellare ogni progetto panarabo che potesse aiutare i palestinesi.

Uno dei due compari era il ministro della Difesa Pinchas Lavon, l’altro il capo di stato maggiore Moshe Dayan.

I tre progettarono una serie di azioni per far fallire il desiderio di Sharett di raggiungere un accordo con Nasser. Si iniziò con la violazione dell’accordo di armistizio con l’Egitto costruendo una colonia illegale sulla terra di nessuno, seguita dall’ignobile massacro nel villaggio di Qibyah, in Cisgiordania.

Esso venne messo in atto nel 1953 da unità d’élite israeliane guidate da Ariel Sharon. Sessantacinque abitanti vennero uccisi, in parte facendo saltare in aria le loro case mentre vi stavano ancora dormendo.

Ma il culmine di questa campagna fu la formazione di un’organizzazione terroristica di ebrei egiziani a cui venne ordinato di piazzare bombe in cinema e librerie legate alla cultura occidentale per incrementare la sfiducia verso Nasser agli occhi degli americani.

I terroristi vennero catturati prima che riuscissero a portare a termine le loro azioni.

Il ritorno al potere di Ben Gurion

Dopo un’assenza relativamente breve Ben Gurion tornò al potere. Nel febbraio 1955 inviò il suo esercito nella Striscia di Gaza per compiere un’operazione militare che diede come risultato l’uccisione di 37 soldati egiziani. Fino a quel momento, come indicato nelle sue memorie dallo stesso Nasser, il leader egiziano era disposto a negoziare con Israele, attenendosi a una posizione che americani e britannici vedevano ancora come sensata e realizzabile.

Quando comprese che l’Occidente non era disposto a esercitare pressioni su Israele e non avrebbe mosso un dito per porre fine alle ambizioni colonialiste e annessioniste di Israele verso il mondo arabo, Nasser cambiò rotta. Ora si era convinto che Israele avrebbe attaccato sia la Siria che la Giordania per espandere i propri confini geografici. Ciò richiese un nuovo modo di pensare.

La nuova strategia di Nasser

Allora Nasser intraprese una nuova strategia, che includeva un appoggio più evidente alle nascenti attività di resistenza e di guerriglia dei palestinesi contro Israele, tentativi di unità panaraba, la creazione di un blocco di Paesi non allineati [né con gli USA né con l’URSS, ndt.] con India e Jugoslavia e l’acquisto di armi più moderne per il suo esercito.

Tra tutte queste politiche egli scelse quella nota come del rischio calcolato, utilizzando discorsi bellicosi e simulando la preparazione della guerra, con la speranza che ciò sarebbe stato sufficiente per obbligare l’Occidente a esercitare pressioni su Israele perché cessasse i suoi attacchi.

Questa strategia includeva la chiusura degli stretti di Tiran che collegano il Mar Rosso al Golfo di Aqaba, concentrando un’armata nella penisola del Sinai e chiedendo all’ONU di ritirarsi dalla frontiera tra Egitto e Israele.

Ma Nasser sbagliò previsione riguardo alla reazione israeliana. Benché sapesse benissimo che Nasser non intendeva fare la guerra, il governo israeliano utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Il resto, come si suol dire, è storia

Documenti declassificati

Documenti recentemente declassificati degli incontri del governo israeliano mostrano chiaramente che i dirigenti israeliani capirono che la guerra non era imminente e che molto dipendeva dalle loro azioni.

In effetti non c’era bisogno di attendere l’apertura degli archivi per arrivare a tale conclusione. Molti leader israeliani lo ammisero. Uno di loro fu Menachem Begin, che faceva parte del governo dell’epoca e che disse a capi militari dell’esercito israeliano:

“Nel giugno 1967 facemmo di nuovo una scelta. La concentrazione dell’esercito egiziano sui confini del Sinai non dimostrava che Nasser stesse realmente per attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi: noi decidemmo di attaccarlo.”

Israele ha bisogno della guerra

Come nel 1948, anche nel 1967 Israele aveva bisogno di guerre per raggiungere i tipici obiettivi di ogni movimento colonialista di insediamento: avere più spazio geografico con meno popolazione nativa che vi abiti.

Dal 1963 Israele aveva preparato piani complessivi in attesa della mossa perfetta per iniziare il suo progetto di un “Israele più grande”. Ma fallì, perché credeva erroneamente che lo squilibrio demografico derivante dalla creazione di una tale entità potesse essere facilmente risolto opprimendo per decenni milioni di palestinesi. Dato che non poteva replicare la campagna di pulizia etnica del 1948, Israele scelse di trattare le popolazioni da poco occupate come detenuti in una vasta e sempre più grande prigione.

La resistenza palestinese a questa mostruosa politica continua fino ad oggi.

La lezione è che, persino con un governo di sinistra, laburista, che governò Israele tra il 1948 e il 1977, Israele non voleva la pace. Al contrario, Tel Aviv sperò di imporre la sua volontà al mondo arabo alleandosi strettamente con l’Occidente.

Le conseguenze di questa strategia si fecero sentire oltre la Palestina, il cui popolo fu la principale vittima di questa intransigenza israeliana. Di fatto ebbe un impatto notevole e dannoso su tutto il mondo arabo.

Sfortunatamente stiamo ancora assistendo ai frutti amari di questa aggressione, che può essere fermata solo dalla liberazione della Palestina e dalla creazione di uno Stato democratico su tutta la Palestina storica, che garantisca il ritorno dei profughi.

È l’unico modo che ci consentirebbe di chiudere questo pericoloso e triste capitolo della storia del mondo arabo e, si spera, permetterebbe a tutti noi di iniziarne uno nuovo e più promettente.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché i pogrom dei coloni stanno squassando la Cisgiordania proprio ora

Menachem Klein 

26 giugno 2023 +972

Frustrati dalle reazioni armate ai loro pogrom, i coloni continueranno a propugnare la supremazia ebraica con ogni mezzo necessario.

A volte un evento è così estremo da strappare il paraocchi della deliberata ignoranza alla società ebraico-israeliana. Il pogrom di Huwara lo scorso febbraio in cui centinaia di coloni hanno incendiato la città palestinese nella Cisgiordania occupata è stato un evento del genere. I pogrom della scorsa settimana a Turmus Ayya, Urif e Umm Safa hanno aperto ulteriormente il quadro, costringendo molti israeliani a guardare in faccia a una realtà presente da tempo e che senza dubbio può peggiorare.

Il problema principale non è però nel sottoprodotto dell’occupazione – il terrorismo dei coloni ebrei – ma nell’attività di routine di Israele nei territori. In effetti, la decisione dei dirigenti della sicurezza israeliana di etichettare i pogrom come “terrorismo” indica che il paraocchi è stato levato solo in parte: semplicemente non vogliono che il terrorismo ebraico interferisca o metta in imbarazzo l’autorità di esercito, Shin Bet e polizia.

L’insediamento coloniale è di per sé un atto violento, che sia fatto in accordo con la legge israeliana o con una legge che lo legittima retroattivamente. È violento perché i coloni impongono la loro presenza agli abitanti autoctoni e li privano della terra, dell’acqua, della libertà di movimento e dei diritti umani fondamentali. È un sistema organizzato di violenza per conto dello Stato.

La simbiosi tra esercito e coloni non si limita alla violenza; esiste anche nella concezione che hanno della loro missione. I coloni definiscono esplicitamente la loro missione come l’ebraizzazione dell’area, e lo fanno in modo efficace e coerente. La missione dell’esercito non è garantire la sicurezza a tutti i residenti nei territori – come il diritto internazionale richiede alla potenza occupante – ma piuttosto proteggere i coloni dalle reazioni dei nativi palestinesi, ai quali non è permesso difendersi, né con l’aiuto delle forze di sicurezza palestinesi, né istituendo una propria guardia nazionale.

Il fattore che determina se la vita e la proprietà di un residente della Cisgiordania saranno protette è se è ebreo o meno.

Anche l’espansione delle colonie in risposta all’assassinio di israeliani – come alte cariche del governo si sono impegnate a fare la scorsa settimana – non è un’innocua azione civile. È una violenza senza immediato spargimento di sangue, ma che inevitabilmente genererà una resistenza palestinese seguita da una sanguinosa repressione dell’esercito.

I palestinesi sono tollerati solo se si annullano nel paesaggio, diventando oggetti inanimati che rinunciano alla loro identità collettiva. Ma finché mantengono quell’identità sono per definizione il nemico. L’esercito e lo Shin Bet continueranno a controllarli con dati biometrici ed elettromagnetici che tracciano la loro posizione, le loro azioni e i pensieri espressi nelle telefonate e sui social media. La completa dipendenza dei palestinesi da Israele per i permessi rende facile per le autorità israeliane raccogliere informazioni sulla loro famiglia e le condizioni mediche, le tendenze sessuali, le debolezze personali e l’inquadramento sociale e utilizzare tali informazioni come arma per costringerli a collaborare.

Il predominio ebraico è chiaro come il sole e il popolo palestinese sta sanguinando fisicamente e politicamente. Tuttavia, man mano che le colonie si espandono e l’esercito interviene aumenta l’attrito, e così anche la motivazione palestinese a reagire. Oggi la violenza palestinese ha poca speranza di liberare la Cisgiordania la disparità di potere tra le parti è fin troppo evidente. Piuttosto, intende far pagare un prezzo, un qualsiasi prezzo, ai colonizzatori.

Una frustrazione pericolosa

Questa reazione frustra i coloni. Com’è possibile che tutto il loro potere e la loro supremazia non abbiano ancora cancellato l’identità e la resistenza palestinese? Questa frustrazione è ciò che muove i pogrom, come quelli che abbiamo visto la scorsa settimana, che poi spingono l’esercito e il governo a usare ancora più forza nell’espandere il progetto di insediamento coloniale. Solo pochi giorni fa, il Col. (Forze di Riserva) Moshe Hagar, capo dell’accademia premilitare nella colonia di Beit Yatir, ha invocato la distruzione di una città o di un villaggio palestinesi per dare una lezione ai palestinesi. Nel frattempo Bezalel Smotrich che funge sia da Ministro delle Finanze che come Ministro incaricato degli Affari Civili in Cisgiordania, ha definito “sbagliato e pericoloso” qualsiasi paragone tra ciò che ha definito “terrore arabo” e le “contro-operazioni di civili”.

La loro frustrazione oggi è maggiore di quanto non fosse in passato. Negli anni ’80 e ’90 i coloni nei territori occupati si sono trasformati da movimento civile sostenuto dalla classe dirigente in classe dirigente essi stessi. Si sono fatti strada nei livelli esecutivi degli ambiti governativi di amministrazione e sicurezza che controllano la popolazione palestinese e la sua terra. Oggi, sotto l’attuale governo di estrema destra, hanno raggiunto l’apice del potere. Non pensano affatto a riconoscere dei limiti al proprio potere, perché la direzione delle loro ambizioni politiche è diretta e inequivocabile. Non devono ritrarsi.

L’idea di contenere il conflitto per non perdere il controllo – come sperano di fare esercito, Shin Bet e polizia – è per loro inaccettabile, poiché la loro frustrazione è pari al loro estremismo politico e teologico. I coloni stanno spingendo i dirigenti della sicurezza ad agire secondo la visione di Hagar. A differenza dell'”Operazione Scudo Difensivo” – quando l’esercito israeliano distrusse fisicamente e politicamente l’Autorità Nazionale Palestinese nel 2002 attraverso devastanti invasioni urbane – oggi non c’è più una leadership da decimare. L’ANP sotto il presidente Mahmoud Abbas l’ha già fatto per Israele. L’appello della destra israeliana a lanciare “Scudo Difensivo II” è invece un invito a porre i civili palestinesi come obiettivo centrale piuttosto che come semplice e accettabile effetto collaterale.

La fine del conflitto e la soluzione dei due Stati non sono più interessanti per l’opinione pubblica israeliana e per la comunità internazionale. In mancanza di una soluzione – o più precisamente, della volontà di perseguirne una – i governi stranieri, compresi gli Stati arabi, hanno permesso a Israele di creare un regime unico nell’intera area compresa tra il fiume e il mare senza dover dichiarare ufficialmente l’annessione.

Il fatto che due popoli diversi vivano sotto due sistemi di leggi e un unico potere significa che Israele sta attuando pratiche di apartheid, supremazia razziale e governo militare non come una questione di politica estera, ma piuttosto come politica interna.

Questo è il motivo per cui, ad esempio, il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir sta cercando di istituire una propria milizia privata, per avere il potere di sottoporre i cittadini palestinesi di Israele alla detenzione amministrativa e per approfondire la penetrazione dello Shin Bet nella vita dei cittadini palestinesi di Israele. E, sulla scia degli eventi del maggio 2021 [grave esplosione di violenza iniziata il 10 maggio 2021 e continuata fino all’entrata in vigore del cessate il fuoco il 21 maggio, ndt.] l’esercito israeliano ha ora elaborato piani per agire contro i cittadini palestinesi in caso di conflitto.

I dirigenti di Israele si stanno rendendo conto che devono piegare ulteriormente la legge alla loro volontà, altrimenti l’identità dell’intera area tra il fiume e il mare non sarà mai esclusivamente ebraica. E, sfortunatamente, la sinistra ebraica sionista non ha né la visione né il coraggio per impedire questa tendenza.

Menachem Klein è professore di Scienze Politiche all’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 ed è stato uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cisgiordania: sviluppo della resistenza armata palestinese nei campi profughi contro i raid israeliani

Leila Warah, Tulkarem, Cisgiordania occupata

24 giugno 2023 – Middle East Eye

Nur Shams a Tulkarem è il più recente campo di rifugiati ad organizzare delle brigate mentre le incursioni israeliane diventano un elemento costante nelle vite dei palestinesi

Un piccolo gruppo di giovani, di cui tre armati di fucili informalmente imbracciati, staziona fuori da un supermercato. Fissano con circospezione qualunque sconosciuto che entri nel campo profughi, stando all’erta per individuare forze israeliane che possano fare irruzione in qualunque momento.

La scena potrebbe facilmente svolgersi a Jenin o Nablus, due città palestinesi nel nord della Cisgiordania occupata che hanno ricevuto attenzione internazionale per la loro resistenza armata contro l’occupazione di Israele.

Benché i giovani siano del nord, non provengono né da Jenin né da Nablus. Vengono dal campo profughi di Nur Shams a Tulkarem, ancora più ad ovest, e sono membri di un gruppo di resistenza armata recentemente creatosi nella zona.

In un vicolo del campo il 24enne leader delle brigate Tulkarem, Mohammad, dice a Middle East Eye di credere che l’occupazione israeliana non abbia lasciato ai giovani della Cisgiordania altra scelta che rivolgersi alla resistenza armata.

L’occupazione israeliana è la nemica di Dio, perciò io lotto per riavere la nostra terra in nome di Dio”, dice. “Il nostro problema non è che loro sono ebrei, è che stanno occupando la nostra terra.

Se vieni da noi con la violenza la nostra unica opzione è rispondere con la violenza. L’occupazione non ci lascia alcuno spazio di mediazione, solo i fucili.”

Una dura realtà e un futuro nero’

Le Brigate Tulkarem sono nate a febbraio e sono sotto il comando delle brigate Al-Quds, l’ala militare del movimento della Jihad islamica.

Sono formate da 15 militanti del campo di Nur Shams di età tra i 16 e i 25 anni, che si impegnano a “difendersi” contro l’occupazione militare di Israele attraverso la resistenza armata. 

Siamo all’inizio della resistenza. Tutto ciò che è accaduto non è che l’inizio. Stanno emergendo nuove generazioni e la libertà sarà nelle loro mani e sarà ottenuta da loro”, dice Mohammad.

La gente del posto dice che il campo profughi di Nur Shams subisce quasi ogni giorno incursioni militari, incluse cinque operazioni su larga scala in questo anno.

Questa generazione è nata in una dura realtà e un nero futuro. Ogni giorno l’occupazione fa incursione nel campo e arresta i loro padri. Uccidono i loro amici e distruggono tutto”, dice a MEE Ibrahim Al-Nimr, di 51 anni, un attivista che lavora per la Società dei Prigionieri Palestinesi.

Il gruppo crea dei posti di blocco a tutte le entrate del campo e le tiene chiuse tra mezzanotte e mezzogiorno per contrastare le frequenti incursioni e neutralizzare agenti israeliani sotto copertura.

Niya Jundi, abitante di Nur Shams, dice che la comunità “incoraggia gli sforzi della giovane e resiliente generazione che vuole vivere in un Paese libero.”

Ovviamente ci sono inconvenienti nella resistenza. Ci rende più difficile accedere ai servizi, ma è un nostro diritto imbracciare le armi finché non saremo liberi dall’occupazione.”

Una rete di resistenza armata

I locali dicono che la nascita della Brigata Tulkarem è stata indotta dal “martirio” dell’abitante di Nur Shams Saif Abu Libda.

Nato e cresciuto nel campo, Abu Libda si è unito alla Brigata Jenin e sperava di portare un giorno la resistenza armata a casa sua a Nur Shams, cosa che avrebbe completato il “triangolo della resistenza del nord” tra Jenin, Nablus e Tulkarem.

Il 2 aprile 2022 le forze israeliane gli hanno teso un’imboscata e lo hanno ucciso insieme a Saeb Abahra, di 30 anni, e Khalil Tawalbeh, di 24, mentre stavano guidando a Jenin. Tutti e tre erano membri delle Brigate Al-Quds, ma al momento sembra che non fossero impegnati in scontri armati.

Tutti i gruppi di resistenza in Cisgiordania sono in contatto tra di loro. Tutti abbiamo lo stesso obbiettivo”, dice Mohammad.

Jamal Huweil, professore di scienze politiche e relazioni internazionali all’università arabo-americana di Jenin, dice che, come Abu Libda, gente da tutta la Cisgiordania – comprese Tubas, Nablus, Balata e Hebron – è andata a Jenin per conoscere la lotta armata.

Con l’intensificarsi della resistenza armata in Cisgiordania, Israele ha ufficialmente dato inizio alla campagna ‘Spezzare l’Onda’ nel marzo 2022, conducendo incursioni militari quasi quotidiane in tutta la Cisgiordania e incrementando la politica di sparare per uccidere, con la conseguenza di arresti di massa e di segnare l’anno più mortale per i palestinesi nei territori occupati dopo la seconda Intifada due decenni fa.

Huweil ritiene che Israele abbia chiamato così l’operazione riferendosi a Jenin, dove è iniziata l’“onda”.

Israele considera il campo profughi di Jenin un’incubatrice di resistenza. L’onda continua ed ha raggiunto Nablus, il campo profughi di Nur Shams a Tulkarem e il campo profughi Aqbat Jabir a Gerico. Jenin è la fonte della resistenza palestinese e a sua volta un problema per Israele”, dice a MEE.

Anche con la crescita della resistenza armata, Huweil specifica che i rapporti di forza tra l’esercito di prima classe di Israele e i giovani militanti siano molto sproporzionati.

Non c’è paragone, quando loro hanno elicotteri Apache, aerei da ricognizione e unità speciali contro un gruppo di combattenti dotati del minimo indispensabile”, dice.

Mentre la resistenza armata palestinese si diffonde, i leader israeliani hanno invocato l’ “Operazione Scudo Difensivo 2”, con riferimento all’invasione militare su larga scala della Cisgiordania nel 2002 durante la seconda Intifada.

Ci sono discussioni interne se Israele debba espandere le proprie operazioni, ma sospetto che, se proseguiranno su questa strada, la resistenza si farà più forte e agguerrita”, dice Huweil.

Coordinamento della sicurezza palestinese e israeliana

Dirigenti palestinesi e israeliani si sono incontrati due volte quest’anno, a Aqabat in Giordania e a Sharm el Sheikh in Egitto, per discutere dell’economia palestinese, del ridimensionamento della violenza e del ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nel disperdere la resistenza armata in Cisgiordania.

Tuttavia molti palestinesi sono delusi dai colloqui di pace e dalla diplomazia tra dirigenti e denigrano il coordinamento sulla sicurezza tra ANP e Israele per stroncare la resistenza armata, che ha provocato l’insorgere di tensioni in luoghi come Nur Shams.

Il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas non crede nella resistenza armata. Incontra politici israeliani per discutere di situazioni di sicurezza e di economia perché sono fattori che spingono la gente a ribellarsi”, dice Huweil. “Sono spaventati che l’onda del campo di Jenin si allarghi e raggiunga tutta la Cisgiordania, Gaza e il Libano.”

Mohammad dice a MEE che “i colloqui politici non servono a niente. Ci abbiamo provato e sono finiti nel nulla. L’unica strada per riavere la nostra libertà è la forza.”

Sebbene qui l’ANP faccia pressioni sulla resistenza armata, tentando di offrire denaro per abbandonare la resistenza armata ed entrare nella polizia, non concluderà niente”, dice.

L’esercito israeliano non segue le norme internazionali, non segue nessuna regola.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’utilizzo dell’antisemitismo come arma è dannoso per i palestinesi – e per gli ebrei

M Muhannad Ayyash

22 giugno 2023 – Aljazeera

Accuse infondate di antisemitismo rivolte a voci pro-palestinesi e antisioniste stanno ostacolando la lotta per sradicare l’odio antisemita

Il 12 maggio, nel suo discorso in occasione della consegna dei diplomi presso la Facoltà di Giurisprudenza della City University of New York (CUNY), la neolaureata yemenita-americana Fatima Mohammed ha osato parlare in modo onesto e veritiero della difficile situazione dei palestinesi.

La risposta era prevedibile. È stata organizzata e lanciata una campagna per intimidirla, attaccarla e metterla a tacere denunciando il suo acuto discorso come “antisemita”. Piattaforme di destra come il New York Post e Fox News hanno amplificato queste accuse infondate. I politici – sia repubblicani che democratici – si sono uniti all’insensato bullismo verso la giovane laureata e i parlamentari statali repubblicani hanno persino chiesto il ritiro dei fondi dalla CUNY per averle offerto una ribalta.

CUNY ha rapidamente ceduto alla pressione. Il 30 maggio il suo consiglio di amministrazione ha rilasciato una dichiarazione in cui ha condannato le parole di Mohammed come “incitamento all’odio”.

Ovviamente nulla di ciò che Fatima ha detto quel giorno era carico di odio o falso. Tutto ciò che ha detto era basato sui fatti e guidato da un desiderio di giustizia e decolonizzazione. Ogni affermazione fatta nel suo discorso di apertura può essere trovata in articoli di riviste scientifiche specializzate, in libri accademici di esperti di fama mondiale o nella realtà quotidiana di milioni di palestinesi.

Nell’ascoltare il suo discorso ci si accorge che in realtà non ha detto assolutamente nulla sull’identità o sul popolo ebraico. A tale proposito non ha fatto menzione della vita ebraica negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, in Francia o persino in Israele. Il suo discorso ha riguardato lo Stato israeliano, i suoi fondamenti e pratiche coloniali e l’egemonia imperiale degli Stati Uniti di cui Israele è parte.

Anche se non si è d’accordo con le sue opinioni, ci si deve chiedere: cosa ha a che fare una tale critica con l’identità ebraica? Ci viene costantemente detto che non dovremmo mai confondere la vita ebraica, ad esempio, a New York, con lo Stato israeliano. E sono totalmente d’accordo con questo. Assumere che una persona ebrea a New York sia “fedele” ad Israele – o risponda delle sue azioni – è indubbiamente antisemita. Ma sfortunatamente quell’associazione è precisamente ciò che le campagne dei gruppi filo-israeliani e sionisti hanno reso aderente al senso comune all’interno del dibattito pubblico in Occidente. Ora, come risultato diretto di tali campagne, ogni volta che qualcuno osa criticare Israele in pubblico, e specialmente quando quella persona è associata a un’istituzione pubblica come un’università, viene accusato di aver lanciato un attacco antisemita contro la comunità ebraica locale.

La prima conseguenza di ciò è che le voci che parlano dei problemi del popolo palestinese e delle sue aspirazioni alla libertà e alla liberazione sono etichettate come “antisemite” e quindi condannate e censurate. Ciò può avere conseguenze disastrose per la vita e la sussistenza di questi individui e contribuisce notevolmente all’emarginazione delle comunità palestinesi e arabe in Occidente creando la percezione che queste comunità siano intrinsecamente cariche di odio.

Ma adesso, grazie al coraggio di persone come Fatima che continuano a parlare a favore della Palestina nonostante conoscano il pesante tributo che pagheranno, molti negli Stati Uniti e altrove percepiscono le vere intenzioni di queste campagne e riconoscono in tali casi l’infondatezza dell’accusa di antisemitismo. Nel caso del discorso di Fatima, ad esempio, l’enorme applauso che ha ricevuto al termine dimostra da solo che i suoi coetanei, che l’hanno scelta per tenere il discorso per prima, non percepiscono le sue opinioni come antisemite.

C’è però un’altra conseguenza altrettanto preoccupante e dannosa delle infondate accuse di antisemitismo rivolte alle voci filo-palestinesi: esse rendono meno convincenti tutte le accuse di antisemitismo, comprese quelle molto reali.

In effetti, accusare di antisemitismo tutti coloro che criticano gli interventi coloniali di Israele è estremamente pericoloso perché alla fine ciò indurrà, se non è già successo, ad iniziare a mettere in dubbio l’esistenza stessa del male sociale molto reale, dannoso e pervasivo che è l’antisemitismo.

In questo contesto, nonostante pochi difetti, la Strategia Nazionale Statunitense per Contrastare l’Antisemitismo recentemente pubblicata sembra essere un passo nella giusta direzione. La strategia si concentra giustamente su esempi di antisemitismo derivanti dalle teorie del complotto sul “potere e controllo ebraico” e separa persino quello che chiama “antisemitismo domestico” dall’antisemitismo globale. Elenca di sfuggita gli “sforzi per delegittimare lo Stato di Israele” come esempio di antisemitismo globale (un’affermazione con cui sono totalmente in disaccordo per le ragioni sopra esposte) ma a parte ciò menziona a malapena Israele poiché si concentra su veri e propri atti di antisemitismo piuttosto che su accuse politicamente motivate volte a proteggere Israele dalle critiche.

Per questo motivo credo che questa nuova strategia possa effettivamente aiutare a ridurre la nuova e reale ondata di antisemitismo in America.

Oggi, mentre i gruppi filo-israeliani si concentrano sul diffamare qualsiasi critica di sinistra del colonialismo di insediamento come “antisemita”, la destra sta rapidamente normalizzando le vecchie teorie del complotto antisemita sul “potere e controllo ebraico”.

In effetti negli Stati Uniti la politica di destra, sempre più estremista, è ora piena di cospirazioni da parte dei “globalisti” che starebbero conquistando il mondo, gestirebbero vaste cerchie di pedofili, priverebbero la gente comune delle loro libertà, commetterebbero omicidi di massa con vaccini e così via. Ovviamente globalista” per queste persone è solo una parola in codice per ebreo”.

È fondamentale che tali idee pericolose siano adeguatamente etichettate come antisemite e contrastate efficacemente, per la sicurezza e il benessere del popolo ebraico e della società in generale. Ma più la lobby israeliana e altri gruppi sionisti usano come arma l’antisemitismo per permettere allo Stato israeliano di consolidare ed espandere la sua colonizzazione della Palestina, meno efficace diventa la lotta contro il vero antisemitismo.

Oltre a diluire l’accusa di antisemitismo, l’uso dell’antisemitismo come arma ha una terza conseguenza: impedisce un’autentica discussione sull’intersezionalità tra la lotta contro l’antisemitismo e altre lotte antirazziste, comprese quelle contro il razzismo anti-palestinese e l’islamofobia.

In effetti, il discorso di Fatima avrebbe dovuto essere l’occasione per iniziare una discussione in proposito. Dopotutto, il percorso da lei suggerito verso la liberazione palestinese – la caduta dell’impero – è anche l’unico percorso per liberare il nostro mondo dall’odio vile che è l’antisemitismo, che è stato essenziale per la formazione dello stesso impero. In questo contesto, censurare e marchiare come antisemita il discorso di Fatima e di altre voci palestinesi e antisioniste serve a ostacolare non solo la liberazione palestinese, ma anche gli sforzi per contrastare tutte le altre conseguenze interconnesse della modernità coloniale, compreso l’antisemitismo.

Pertanto, tutti gli studiosi, gli attivisti e chiunque altro sia interessato a porre fine a tutte le diverse forme di razzismo e odio che stanno paralizzando vite e mezzi di sussistenza in tutto il mondo dovrebbero vedere l’accusa di antisemitismo rivolta a Fatima per quello che realmente è: un pericoloso attacco alla verità, alla giustizia, all’antirazzismo e alla decolonizzazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

M Muhannad Ayyash

Professore di Sociologia alla Mount Royal University di Calgary, Canada.

Ayyash è l’autore di A Hermeneutics of Violence (UTP, 2019) e analista politico presso Al-Shabaka, il Policy Network Palestinese. È nato e cresciuto a Silwan, Al-Quds (Gerusalemme), prima di immigrare in Canada, dove ora è professore di sociologia alla Mount Royal University. Attualmente sta scrivendo un libro sulla supremazia del colonialismo di insediamento.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)