Mentre Israele è scossa dalle proteste un centro culturale cisgiordano cerca di ‘rappresentare la lotta palestinese’

Charlotte Jansen

5 giugno 2023 – The Art Newspaper

L’istituzione artistica Dar Jacir è stata fondata dall’artista Emily Jacir, nata a Betlemme, per dare una sede ai creativi palestinesi

Il Dar Yusuf Nasri Jacir per l’arte e la ricerca (Dar Jacir) in via Al Khalil a Betlemme è uno dei pochi spazi culturali ancora aperti e attivi in Cisgiordania ed è facile capire perché. 

Il caratteristico edificio sanasil [con muri a secco, ndt.] con un giardino ombreggiato da olivi si affaccia sulla barriera di separazione in cemento costruita dall’esercito israeliano durante la Seconda Intifada (2000-05). Nelle vicinanze si trova un checkpoint israeliano con polizia militare, parte di una rete di centinaia di posti di blocco attraverso cui gli abitanti della Cisgiordania devono passare ogni giorno. 

Dar Jacir è spesso sulla linea del fronte negli scontri fra i giovani e l’esercito israeliano,” dice la sua direttrice, l’artista Emily Jacir. Ma Jacir è abituata a lavorare in tale contesto e dice che le recenti e storiche proteste israeliane contro i piani del governo di coalizione di Benjamin Netanyahu per la riforma della magistratura hanno avuto un “impatto zero” sul loro lavoro.

Jacir, artista, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2007, e sua sorella, la regista Annemarie Jacir, dal 2018 gestiscono Dar Jacir, dove ospitano workshop di artisti, tengono corsi, proiezioni e residenze.

La proprietà fu originalmente costruita come una grandiosa casa di famiglia dall’antenato di Jacir, al Mukhtar Yusuf Jacir, archivista della cittadina, alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento durante il periodo ottomano della Palestina (un dominio durato 402 anni, fino al 1918). Nella sua posizione è stato testimone di un paesaggio politico in drammatico mutamento in Cisgiordania. Nel 1918 le forze britanniche presero il controllo della Palestina dando inizio a una nuova era di occupazione. Questo mese segna i 75 anni dalla fine del mandato britannico sulla Palestina terminato nel 1948. Lo Stato della Palestina fu diviso in tre, in base alle disposizioni della risoluzione ONU, e i leader ebraici dichiararono lo Stato indipendente di Israele.

Storia di sopravvivenza

Nella lunga storia di occupazione di Betlemme anche Dar Jacir è passato di mano. Fra il 1929 e il 1980 è stato usato come prigione, base militare e scuola. Ma alla fine è stato riacquistato dalla famiglia Jacir e, nel 2014, il padre di Emily Jacir, Yusuf Nasri Jacir, è diventato il solo proprietario e ha deciso di aprire l’edificio al pubblico come centro culturale. La notevole storia di sopravvivenza, trasformazione e resistenza dell’edificio ne fa una sede significativa per attività culturali che promuovono l’educazione diadica e gli scambi all’interno della Cisgiordania e con il resto del mondo. 

Oggi Dar Jacir è una sineddoche. “Rappresenta la lotta palestinese locale e generale, funge da promemoria importante che i palestinesi sono attivi e continuano a produrre e essere coinvolti in processi creativi anche nella più grave delle situazioni,” dice Jacir.

Il programma di workshop e residenze di Dar Jacir spazia dai laboratori visuali e residenze di arte, cinema, danza, letteratura e agricoltura ed è completamente gestito dagli artisti. È finanziato da donazioni di numerosi sostenitori privati e i suoi partecipanti e leader dei programmi arrivano da tutto il mondo: è l’unico spazio nella Cisgiordania meridionale a offrire educazione alle arti e programmi di residenze sia a palestinesi che a studenti e professionisti internazionali.

Dar Jacir è un “modello pedagogico alternativo”, dice Jacir, risponde “alle necessità della nostra comunità, inclusi i nostri vicini nei campi profughi e a coloro che altrimenti non potrebbero avere accesso a opportunità creative e artistiche”. Anche le necessità domestiche del centro ne improntano il programma: insieme i partecipanti cucinano e si occupano del giardino. “Noi ospitiamo persone,” dice Jacir. “L’importanza del nostro diritto a ospitare è cruciale ed è qualcosa che le forze di occupazione cercano di sottrarci.” 

L’artista palestinese Vivien Sansour, ex residente, ha disegnato per Dar Jacir un terrazzamento dove ha piantato della juta, una pianta usata nello stufato mloukheyeh, un piatto tipico della cucina palestinese associato a consolazione e conforto. Durante un workshop sono state raccolte le piante e con esse preparato il mloukheyeh distribuito da un food truck. “Noi incoraggiamo gli altri a condividere le loro storie di famiglia” dice Jacir.

Il programma di Dar Jacir è condotto da artiste donne, fatto importante, dice Jacir, perché esse capiscono l’oppressione di altre donne, particolarmente quelle che vivono nei territori occupati. “Noi condividiamo così tanto con altre donne che fronteggiano l’occupazione, dal Kurdistan al Sahara occidentale,” dice. “Abbiamo già offerto residenze ed eventi pubblici organizzati a parecchie artiste palestinesi a cui prima non erano mai state date opportunità simili.” Possono offrire una piattaforma e visibilità a una rete internazionale di artiste che vivono in condizioni simili, aggiunge. 

Noi viviamo in un ambiente molto patriarcale, quindi avere uno spazio guidato da donne offre loro opportunità e modi di lavorare che portano a dei cambiamenti. Noi cerchiamo di dare un esempio alla generazione di artiste più giovani e di incoraggiarle a diventare leader che possano mediare in questo conflitto.” dice Jacir.

Per lei, nata e cresciuta a Betlemme, non è stata una conquista facile. “Ho avuto un’infanzia molto dura, ero estremamente timida e spesso bullizzata dagli altri bambini,” ricorda. “Ero troppo spaventata per aprire bocca in classe e rispondere alle domande anche quando sapevo la risposta. Non riuscivo a farmi sentire, amavo l’arte che era l’unico mezzo con cui sentivo di poter esprimere me stessa.” Le cose sono cambiate quando ha vinto una borsa di studio per la migliore artista: “All’epoca è stato veramente significativo per me.”

Negli anni ’90 Jacir era impegnata in progetti importanti che hanno formato in modo significativo la scena artistica a Ramallah, che è ancora il centro culturale della Cisgiordania. È stata fra i fondatori dell’International Academy of Art Palestine e vi ha lavorato come docente a tempo pieno per oltre un decennio. È anche stata la co-curatrice del Video Festival Internazionale della Palestina, lanciato nel 2002, il primo del suo genere in Palestina. 

La manifestazione, dice Jacir, è nata dalla necessità di avere “uno scambio bidirezionale” e non focalizzarsi solo su “noi e le nostre sofferenze. Ci stava portando a una visione miope e volevo porvi fine.” 

Ciò è anche parte della motivazione dietro alla pratica di Dar Jacir in quanto istituzione. Aggiunge che deve affrontare anche un altro problema: “Oggi gli artisti sono troppo spesso dipendenti da istituzioni che non hanno fiducia in loro o non se ne prendono cura,” fa notare.

Dar Jacir è un modello istituzionale radicale in un contesto complesso che spera di ispirare altre istituzioni nel resto del mondo. Ma, insiste Jacir, coloro che vogliano capire il lavoro che fa e i problemi che affronta “devono venire e vedere cosa sta succedendo qui con i propri occhi”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La definizione di antisemitismo dell’IHRA “reprime il sostegno ai palestinesi in Europa”

Areeb Ullah

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Uno studio dell’European Legal Support Centre ha scoperto che le persone di colore e gli ebrei che appoggiano la Palestina sono stati colpiti in modo sproporzionato da una definizione “errata”.

Un’organizzazione europea per i diritti umani ha denunciato che la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa cui aderiscono 34 Paesi, per lo più europei, ndt.] (IHRA) ha avuto un impatto sproporzionato sulle persone di colore e sugli ebrei che appoggiano la Palestina, facendo sì che alcuni perdessero il lavoro oppure affrontassero la censura o azioni giudiziarie per presunti reati.

Basandosi su 53 casi in Austria, Germania e Regno Unito, l’European Legal Support Centre [Centro Europeo per il Sostegno Legale, che si occupa di appoggiare i gruppi filopalestinesi in Europa, ndt.] (ELSC) afferma che tutti e tre i Paesi hanno applicato la discussa definizione “come se fosse una legge”, nonostante essa sia definita come “non giuridicamente vincolante”.

L’ELSC critica anche la Commissione Europea per aver ignorato le crescenti preoccupazioni riguardo alla definizione.

In seguito alla pubblicazione martedì di un rapporto intitolato Suppressing Palestinian Rights Advocacy through the IHRA Working Definition of Antisemitism [Repressione del sostegno ai diritti dei palestinesi attraverso la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA], l’ELSC afferma in un comunicato che “tutti gli imputati sono stati presi di mira per il sostegno ai palestinesi e la denuncia delle prassi e delle politiche israeliane e/o per le critiche al sionismo come ideologia politica”.  

Quando sono state portate in tribunale, la maggior parte di queste accuse di antisemitismo sono state respinte in quanto senza fondamento.”

Il rapporto evidenzia casi di accademici, studenti e attivisti per i diritti dei palestinesi che sono stati penalizzati per aver espresso critiche a Israele.

Accuse di antisemitismo che fanno riferimento alla definizione operativa dell’IHRA nei casi documentati hanno colpito in modo assolutamente preponderante palestinesi, persone e organizzazioni ebraiche che sostengono i diritti dei palestinesi, suggerendo che la definizione dell’IHRA viene messa in pratica in modo discriminatorio,” segnala l’ELSC.

Sebbene la stragrande maggioranza dei ricorsi riguardanti la messa in pratica della definizione dell’IHRA abbia successo, le procedure disciplinari e le vertenze derivanti da false accuse di antisemitismo hanno prodotto un “effetto dissuasivo” sulla libertà di espressione e di riunione.”

L’ELSC afferma che tra le 53 persone intervistate per il rapporto 42 casi hanno preso di mira associazioni con “membri che sono di colore o individui che sono persone di colore, tra cui 19 palestinesi.

In 11 episodi sono stati presi di mira associazioni che si identificano come ebraiche o singoli ebrei, in particolare con opinioni antisioniste o simpatie nei confronti della lotta dei palestinesi per i diritti umani. Tutti i singoli individui e i gruppi che sono stati colpiti in questi episodi hanno manifestato simpatia per i diritti umani dei palestinesi,” nota l’ELSC.

Questi dati mostrano una potenziale discriminazione nel modo in cui la definizione dell’IHRA viene messa in pratica, suggerendo che i palestinesi e i loro alleati, ebrei, persone di colore o altri, sono i principali obiettivi di quanti utilizzano la definizione dell’IHRA per delegittimarli, calunniarli o sanzionarli.”

Aggiunge che alcuni dei partecipanti [alla ricerca] hanno perso offerte di lavoro o l’impiego e alcuni sono stati citati in giudizio da governi locali perché avrebbero violato la definizione dell’IHRA.

Eventi studenteschi legati all’Israeli Apartheid Week [Settimana contro l’Apartheid Israeliano] sono stati annullati per presunte violazioni della definizione dell’IHRA, compresa la conferenza di un sopravvissuto all’Olocausto presso l’università di Manchester.

La politica della Commissione Europea “dannosa per i diritti fondamentali”

Giovanni Fassina, direttore dell’ELSC, ha denunciato la Commissione Europea che ha promosso la definizione dell’IHRA attraverso un manuale sull’antisemitismo del 2021, affermando che l’ente ha “sistematicamente ignorato e respinto le crescenti preoccupazioni riguardo ai diritti umani relativi alla definizione dell’IHRA e non ha preso misure per impedire ogni suo impatto negativo su diritti fondamentali.

È tempo che la Commissione Europea riconosca e prenda in considerazione il fatto che la politica che ha promosso e implementato sulla base della definizione dell’IHRA, sia a livello di Unione Europea che di Stati membri, è estremamente dannosa per i diritti fondamentali e sta promuovendo il razzismo antipalestinese,” afferma Fassina in un comunicato.

La definizione dell’IHRA è stata formulata nel 2004 dall’esperto di antisemitismo Kenneth Stern in collaborazione con altri accademici per l’American Jewish Committee, un’organizzazione a favore degli ebrei fondata all’inizio del XX secolo e con sede a New York.

Stern ha affermato di aver formulato la definizione specificamente per ricercatori europei in modo da aiutarli a monitorare l’antisemitismo.

Ma chi la critica afferma che alcuni degli esempi che l’accompagnano confondono l’antisemitismo con l’antisionismo, o la critica a politiche del passato o attuali che portarono alla creazione dello Stato di Israele nel 1948, all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle proprie case nell’attuale Israele e alle continue violazioni dei diritti umani contro i palestinesi e l’occupazione delle terre palestinesi da parte di Israele.

Il Regno Unito è stato il primo Paese europeo ad adottare la definizione dell’IHRA nel 2016, seguito dall’Austria nell’aprile 2017. Nel settembre 2017 il governo federale tedesco, allora una coalizione tra i conservatori della CDU-CSU e i socialdemocratici della SPD, appoggiò la definizione dell’IHRA per decisione del consiglio dei ministri. Anche istituzioni locali e organizzazioni associative hanno adottato o votato per adottare in modo indipendente la definizione dell’IHRA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Proposta di legge israeliana per impedire ai cittadini palestinesi di vivere in ‘zone ebraiche’

Elis Gjievori

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Associazioni per i diritti umani si sono impegnate a combattere contro la proposta di legge che vedrebbe molte altre città israeliane impedire ai palestinesi di comprare o affittare appartamenti

Il governo israeliano propone una legge per “ebraizzare” la Galilea, una regione nel nord di Israele con una considerevole popolazione palestinese. 

La mossa fa parte di un accordo concluso lo scorso anno per formare il nuovo governo israeliano con i politici di estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che vogliono espandere la colonizzazione ebraica nella regione.

In quanto parte del piano per “salvare la colonizzazione ebraica in Galilea,” il primo ministro Benjamin Netanyahu progetta di rafforzare significativamente la controversa legge del 2011 che darebbe a piccole comunità il potere di esaminare (e scartare) i potenziali nuovi arrivati.

Quando la legge fu approvata lo scopo era di aggirare una sentenza della Corte Suprema che proibisce alle comunità residenziali di affittare le terre solo ad ebrei.

Suhad Bishara di Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele, sostiene che le leggi danno “una discrezionalità quasi completa” a queste piccole comunità di scegliere chi ci vive.

“In pratica questa disposizione è principalmente un mezzo per scartare i cittadini palestinesi e impedire loro di risiedere in queste comunità e costituisce un meccanismo giuridico per la segregazione residenziale in molte località dello Stato di Israele,” ha detto Bishara a Middle East Eye.

All’inizio di questo mese il ministro della Giustizia Yariv Levin [del partito di Netanyahu, il Likud, ndt.] ha detto che in Israele l’acquisto di case da parte di palestinesi in paesi e cittadine sta spingendo gli ebrei a andarsene da queste zone.

“Gli arabi comprono appartamenti in comunità ebraiche in Galilea e ciò costringe gli ebrei ad abbandonare queste città perché non sono disposti a vivere con gli arabi,” dice Levin.

Ora il governo israeliano “vuole espandere e rafforzare questo sistema,” dice Bishara.

Il governo si è impegnato ad aumentare il numero di città che possono selezionare i nuovi arrivati estendendolo da quelle con 400 nuclei familiari a quelle con un massimo di 1000.

L’estensione della legge è sostenuta anche da alcuni parlamentari dell’opposizione. La prima versione della legge, che avrebbe permesso a cittadine con un massimo di 600 case di esaminare chi vi si trasferisce è stata approvata dal governo precedente.

Ufficialmente la legge non permette ai comitati di accettazione di respingere candidati alla residenza per motivi di razza, religione, genere, nazionalità, disabilità, classe, età, parentela, orientamento sessuale, Paese di origine, opinioni o affiliazione a un partito politico.

Tuttavia il testo della legge del 2011 permette ai comitati di respingere candidati che essi ritengono “inadatti al tessuto sociale e culturale” della comunità.

Sfacciata violazione della legge per i diritti umani’

All’inizio di questo mese il governo israeliano ha anche discusso una nuova proposta per imporre “valori sionisti ” in politiche governative che i critici sostengono potrebbero permettere agli ebrei israeliani di ricevere un trattamento preferenziale nella definizione dei piani regolatori e nella costruzione di case.

Cittadini palestinesi di Israele che vivono nella regione del Negev (Naqab) hanno da tempo accusato il governo israeliano di tentare con varie tattiche di sradicarli.

Queste includono la confisca di terre ai palestinesi trasformando i proprietari in affittuari. Inoltre il governo israeliano è stato accusato di impedire l’espansione dei villaggi palestinesi circondandoli con nuove colonie ebraiche.

Si intende espandere la nuova legge anche alla Cisgiordania occupata in zone dove Israele ha annesso territori in cui vivono anche palestinesi.

Bishara ha aggiunto che, se la proposta di legge passasse così com’è, potrebbe “essere soggetta a una verifica di costituzionalità in relazione alla sua applicabilità in Israele.”

“Questa è una sfacciata violazione del diritto internazionale umanitario e delle leggi per i diritti umani che si applicano alla Cisgiordania in quanto territorio occupato,” ha segnalato Bishara.

“Se approvata rafforzerebbe il meccanismo dell’annessione de facto di territori occupati e potrebbe essere considerato parte di un processo di annessione de jure, in totale violazione delle leggi relative a territori occupati,” aggiunge.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“L’anno più difficile della mia vita”: i pastori di Masafer Yatta soffrono sotto la minaccia di espulsione

Hamdan Mohammed Al-Huraini,

5 giugno 2023 – +972 Magazine

L’escalation della repressione da parte di Israele dopo la sentenza dell’Alta Corte dello scorso anno ha avuto un grave impatto sui pastori palestinesi, un pilastro della sopravvivenza delle loro comunità.

Per quanto ne ho memoria qui a Masafer Yatta, nella regione delle colline a sud di Hebron nella Cisgiordania occupata, i pastori hanno pascolato liberamente le loro pecore ogni primavera per migliaia di dunam [1 dunum equivale a 1000 mq, ndt.] di terra. Si spostavano tra pascoli abbondanti, senza bisogno di acquistare acqua o foraggio per i loro animali, perché l’approvvigionamento era abbondante. Fintanto che i nostri villaggi dipenderanno dall’agricoltura e dal bestiame [la pastorizia] è qualcosa di più di una forma di sussistenza: è il nostro modo di vivere tradizionale.

Ma un anno fa, tutto è cambiato. Nel maggio 2022 l’Alta Corte dell’occupazione israeliana si è pronunciata contro gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta e a favore dell’esercito israeliano che ha trasformato l’area in una “zona di tiro” per l’addestramento militare. In conseguenza della sentenza della corte, l’esercito ha intensificato la sua repressione contro i palestinesi della zona per cercare di espellerci con la forza dalla terra in cui i nostri antenati hanno vissuto per secoli. E queste politiche hanno avuto un impatto particolarmente grave sui pastori.

Tutto è proibito con il pretesto che viviamo in una zona di addestramento di tiro, anche pascolare le pecore”, spiega Issa Makhamra del villaggio di Jinba, accanto al quale in seguito alla decisione della corte l’esercito israeliano ha stabilito una nuova base. Ogni volta che andiamo da qualche parte istituiscono un posto di blocco. Quando voglio andare in città devo attraversare questo posto di blocco e vengo fermato e trattenuto per lunghe ore. Te lo giuro, se l’esercito riuscisse a tenerci lontano dalla luce del sole e dall’aria, lo farebbe.»

Muhammad Ayoub Abu Subha, un altro pastore del villaggio di Al-Fakheit, era solito pascolare il suo gregge di pecore attraverso i pascoli della sua terra. Ma nell’ultimo anno l’accesso a quella terra è diventato impossibile. “L’esercito ha chiuso le strade e istituito posti di blocco”, dice. I nostri raccolti agricoli sono stati distrutti da carri armati, bulldozer e veicoli militari, e ci è stato impedito di raggiungere i nostri pascoli con il pretesto che questa zona era diventata proprietà dell’esercito. Non avrei mai immaginato che la mia casa, che è di mia proprietà, sarebbe diventata un’area chiusa. Mi sento come se stessi impazzendo e perdendo la testa.

Poiché migliaia di dunam di pascoli naturali sono andati perduti i pastori di Masafer Yatta devono ora acquistare il foraggio da città vicine come Yatta e poi trasportarlo a prezzi esorbitanti. Sempre che siano in grado di trasportarlo, dato il forte dispiegamento dell’esercito in tutta l’area e il fatto che i soldati spesso confiscano le auto dei palestinesi e arrestano i conducenti con il pretesto che si trovano all’interno di una zona di addestramento militare.

Lo scorso inverno Makhamra è stato trattenuto presso un posto di blocco eretto dall’esercito all’ingresso di Jinba. Avevo bisogno di comprare il foraggio per le mie pecore, quindi sono andato con un trattore. Quando ho raggiunto il posto di blocco non hanno permesso all’autista di entrare e l’hanno costretto a mettere il foraggio a terra vicino al posto di blocco. Avevo paura che piovesse e che il foraggio si deteriorasse, così ho prelevato dal villaggio mio figlio insieme ad un gruppo per trasportare il foraggio sugli asini per oltre 500 metri. Questo è un semplice esempio di ciò che ci accade quotidianamente a causa del divieto di raggiungere i nostri pascoli, della confisca della nostra terra, della distruzione delle strade e dell’uso dei posti di blocco”.

“Volevo urlare e piangere”

La vita a Masafer Yatta non era certo facile prima della sentenza della corte dello scorso anno. I residenti sono stati a lungo esposti alla medesima violenza da parte dei coloni israeliani e alle restrizioni dell’esercito che hanno lo scopo di cacciare i palestinesi dalle loro case in gran parte delle zone agricole della Cisgiordania, in modo che la loro terra possa essere espropriata per ulteriori insediamenti coloniali ebraici.

Abu Subha, ad esempio, ha visto demolire la sua casa dall’esercito in quattro diverse occasioni perché l’aveva costruita senza permessi, che Israele rende per i palestinesi quasi impossibile da ottenere. Ora però l’intensificarsi della presenza dell’esercito sta causando ai pastori della regione gravi difficoltà economiche.

“Abbiamo sempre nutrito le nostre pecore grazie alla nostra terra, sia attraverso il pascolo diretto sia alimentandole con colture coltivate sulla nostra terra, a seconda della stagione”, spiega Abu Subha. A volte poteva capitare che comprassimo un po’ di foraggio in caso di carenza. Ho guadagnato abbastanza soldi per me e la mia famiglia. Ma poi la Corte dell’occupazione ha deciso di dare il via libera all’esercito per l’addestramento militare nel mezzo del nostro villaggio, proprio nel cuore della nostra terra e dei nostri pascoli naturali.

“Questo è stato l’anno più difficile della mia vita”, continua. Ho una famiglia e dei figli, alcuni dei quali vanno a scuola e alcuni sono ancora troppo piccoli. Ma hanno tutti delle necessità, come vestiti, cibo e materiale scolastico di base. Prima non mi preoccupavo di questi bisogni perché ero in grado di soddisfarli facilmente, ma oggi non posso.

Le difficoltà finanziarie hanno avuto un impatto profondamente emotivo su Abu Subha. Un giorno stavo uscendo per andare in città a comprare delle cose per la casa, e mio figlio, che non ha nemmeno quattro anni, mi ha detto: ‘Papà, ho bisogno di scarpe nuove, le mie scarpe sono rotte,’ e ho dovuto dirgli che non c’erano abbastanza soldi. Cosa dovrei fare? Volevo piangere. Volevo urlare. Cerco il più possibile di stare calmo di fronte alla mia famiglia in modo che possano trarre forza da me. Ma in realtà avrei voglia di piangere.

Un anno dopo la terribile sentenza è evidente quanto devastante sia già stato l’impatto sulla vita dei pastori palestinesi a Masafer Yatta, dove il bestiame è considerato un pilastro della vita e da cui dipende la stabilità economica delle famiglie. I cambiamenti che hanno avuto luogo nell’area, concedendo all’esercito israeliano il diritto di fare tutto ciò che vuole in mezzo ai nostri villaggi, sono una condanna a morte di civili. Rendono le nostre vite insostenibili; sono un crimine contro l’umanità. Questa sentenza deve essere abrogata e ai palestinesi deve essere concesso il diritto di vivere in sicurezza sulla loro terra e nelle loro case.

Hamdan Mohammed Al-Huraini è un attivista e difensore dei diritti umani di Susiya. Documenta gli abusi dell’occupazione contro i palestinesi a Masafer Yatta ed è membro del progetto Humans of Masafer Yatta. E’anche impegnato come ricercatore volontario sul campo con B’Tselem e altre organizzazioni per i diritti umani.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele ha bombardato questa casa, riducendo in polvere un’antica collezione

Maram Humaid

5 giugno 2023 – Al Jazeera

Un abitante di Gaza ritorna nella sua casa distrutta da un bombardamento israeliano, sperando di recuperare la sua antica collezione di oggetti che risalgono a centinaia di anni addietro.

Gaza City – Da quando il 12 maggio la sua casa è stata distrutta da un bombardamento israeliano Hazem Mohanna vi si reca ogni giorno cercando tra le macerie per ritrovare la sua antica preziosa collezione.

Il sessantaduenne ha passatp 40 anni della sua vita collezionando, come hobby, antiche monete d’argento, pietre preziose e pezzi legati al patrimonio palestinese. La sua casa di quattro piani nel quartiere al-Sahaba, nella parte orientale di Gaza City è diventata “uno straordinario museo archeologico,” dice Mohanna.

Il 12 maggio, il terzo giorno dell’ultimo attacco militare contro Gaza, mentre se ne stava in casa con la sua famiglia, Mohanna ha ricevuto una telefonata dai servizi israeliani. “Mi hanno dato solo cinque minuti per lasciare la casa”, dice a Al Jazeera.

Ero sconvolto. Mia moglie, i miei figli sposati e i miei nipoti sono immediatamente corsi fuori dall’edificio di quattro piani”, dice il padre di quattro figli.

Ho potuto salvare me e la mia famiglia, ma non ho potuto salvare i miei beni, che ho collezionato e custodito per tutta la vita”, dice con volto visibilmente triste.

Nei diversi recenti attacchi Israele ha bombardato centinaia di case a Gaza, concedendo dovunque agli abitanti da qualche ora a solo pochi minuti di preavviso per uscire, suscitando le critiche delle organizzazioni per i diritti umani.

Nel maggio 2021 Israele ha bombardato un edificio di 11 piani che ospitava il nuovo ufficio di Al Jazeera, dopo aver dato un preavviso di circa un’ora. In 11 giorni di incessanti bombardamenti israeliani sono stati uccisi circa 250 palestinesi.

La mia antica collezione significava molto per me. Vi sono pezzi preziosi che datano centinaia di anni”, dice Mohanna, funzionario della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese in pensione.

Ci sono documenti di certificazione di molti Paesi, pezzi legati alla tradizione palestinese, come vestiti ricamati, valigie e manufatti in rame”, dice.

Ci sono oggetti e memorie che non possono essere risarciti da alcuna somma di denaro, per via del nostro attaccamento ad essi. Vorrei che i miei figli ereditassero il mio piccolo museo archeologico, ma l’occupazione israeliana perseguita ogni cosa, anche le nostre memorie e i nostri hobby.”

Il vecchio collezionista non riesce ancora a trovare una ragione o una giustificazione del bombardamento della sua casa. “Siamo tutti dei semplici civili”, dice Mohanna, che ora vive in un piccolo appartamento di due stanze in affitto con i 16 membri della sua famiglia, compresi i suoi figli sposati.

Insieme ad altre centinaia di persone, è preoccupato per la ricostruzione della sua casa. Secondo il Ministero dei Lavori Pubblici almeno 20 edifici, per un totale di 56 unità abitative, sono stati completamene distrutti e 940 unità abitative sono state danneggiate durante l’escalation militare israeliana.

Finora nessuno mi ha contattato per una compensazione o almeno per pagare l’affitto dell’appartamento”, dice Mohanna. “Ci sono case distrutte nelle precedenti offensive israeliane che non sono state ancora ricostruite, perciò quando arriverà il nostro turno?”

Basta guerre’

Sabah Abu Khater, di 60 anni, dice che l’ultima escalation militare israeliana ha tolto l’allegria a suo figlio, che si sarebbe sposato dopo un mese e mezzo.

Nel pomeriggio dell’11 maggio la sua famiglia di 10 persone stava guardando le notizie nella sua casa di Beit Hanoun nel nord della Striscia di Gaza quando ha ricevuto una telefonata che ordinava di lasciare la casa perché stava per essere bombardata.

Israele ha giustificato il bombardamento di case civili affermando che venivano utilizzate da gruppi armati –un’affermazione respinta dai palestinesi.

Ho sentito i vicini gridare ‘Uscite di casa! Stanno per bombardarla!’” dice Khater.

Siamo tutti usciti immediatamente. I miei figli, le loro mogli e i miei nipotini. Siamo corsi in strada con solo i vestiti che avevamo addosso”, dice cercando le sue cose tra le macerie della sua casa di due piani.

Abbiamo concordato la dote per la sposa di mio figlio e ci stavamo apprestando a completare l’accordo dopo che la situazione si fosse calmata, ma adesso siamo nuovamente daccapo”, dice Khater riferendosi alla cifra che uno sposo deve pagare alla moglie al momento delle nozze, in base alla legge islamica.

Sono triste e col cuore spezzato per mio figlio, che ha speso un sacco di soldi e di sforzi per mettere insieme la dote e costruire la sua casa”, dice.

La gente qui a Gaza è stufa di guerre e disgrazie.”

Il figlio 26enne di Khater, Bilal Abu Khater, che sta seduto demoralizzato sulle macerie della casa della sua famiglia, racconta di aver faticosamente raccolto la dote della sua promessa sposa e preparato una modesta casa per il matrimonio.

Sono stato costretto a fare lavoro straordinario per una paga bassa, non più di 20 shekel al giorno e anche meno, che corrispondono a circa 5 euro, in aggiunta all’aiuto inviato dai miei zii e parenti all’estero”, dice.

Oggi ho dovuto lavorare di più per aiutare a costruire una nuova casa e anche a sostenere le spese dei miei famigliari, rimasti tutti senza casa”, dice Bilal Abu Khater.

I giovani della Striscia di Gaza vivono condizioni difficili a causa della mancanza di opportunità di lavoro e del perdurante blocco”, dice riferendosi al blocco terrestre, aereo e marittimo dell’enclave palestinese imposto da Israele dal 2007.

Le guerre peggiorano le cose”, dice Bilal Abu Khater.

Ci sono voluti anni per costruire la nostra casa ed ora ci vorrà molto tempo per ricostruirla”, dice con la voce spezzata, per poi ringraziare dio che la sua famiglia sia salva. “I soldi si rimediano. La cosa importante è che nessuno di noi è stato ferito.”

Nell’attacco militare israeliano iniziato il 9 maggio gli aerei da guerra israeliani hanno preso di mira case e appartamenti in tutta la Striscia di Gaza. Hanno sostenuto che il bombardamento era diretto contro il movimento della Jihad islamica, ma i palestinesi e le organizzazioni per i diritti hanno affermato che nei cinque giorni di aggressione sono stati uccisi soprattutto civili. Le fazioni palestinesi hanno lanciato razzi su Israele, uccidendo un israeliano.

Al momento in cui è entrato in vigore un cessate il fuoco mediato dall’Egitto, il 12 maggio, erano stati uccisi almeno 33 palestinesi, compresi sei minori, e feriti 190, con perdite economiche stimate in 5 milioni di dollari.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Campo di Aqbat Jabr ultimo obiettivo dei micidiali raid israeliani in Cisgiordania

Leila Warah, campo profughi Aqbat Jabr

MiddleEastEye – 4 giugno 2023

I ripetuti attacchi di Israele al campo profughi di Gerico trasformano una destinazione turistica palestinese in “zona di guerra”

Fidah Muqbil ha dovuto rivivere la notte più traumatica della sua vita quando l’esercito israeliano ha nuovamente fatto irruzione nel suo quartiere il 25 maggio.

Con la copertura della notte, le truppe hanno iniziato un’operazione su larga scala nel campo profughi di Aqbat Jabr nella Cisgiordania occupata dove vive Fidah.

L’accampamento, situato a sud-ovest di Gerico, è stato circondato da ogni parte e di fatto messo sotto assedio.

Decine di veicoli militari corazzati hanno chiuso i vicoli, accompagnati da soldati e cecchini appostati sui tetti.

Muqbil, 19 anni, e i suoi fratelli più piccoli erano soli e rannicchiati in casa mentre per ore si svolgevano le operazioni militari.

Unico conforto era la voce del padre al telefono, in videochiamata da una stanza d’ospedale a Ramallah mentre si prendeva cura della madre ferita in un simile raid israeliano poche settimane prima.

“Ogni rumore forte mi riporta a quella notte”, ha detto Muqbil a Middle East Eye, riferendosi alla mattina del 1° maggio. Quel giorno, circa 20 soldati israeliani hanno piazzato una bomba alla porta e fatto brutalmente irruzione in casa, ferendo la madre di Muqbil.

“Dormivamo tutti. Erano le 6:00. Ho sentito qualcosa esplodere, ho pensato che fosse la nostra bombola del gas. E sentivo mia madre gridare”, dice l’adolescente, ricordando il momento in cui sua madre è stata colpita dalle schegge.

Prima che potesse capire ciò che stava accadendo, un soldato l’ha spinta in soggiorno.

“Ero terrorizzata. Tutto quello che potevo vedere era la distruzione. Riuscivo a malapena a stare in piedi. Pensavo di stare per vomitare”, ha aggiunto.

I soldati hanno poi trascinato i vicini qui in casa, dice Muqbil, costringendo tutti a nasconderci sotto il tavolo da pranzo al buio, circondati da sedie, nuvole di polvere e frastuono. Non riuscivamo nemmeno a vederci in tutto quel caos”, racconta.

Per due ore e mezza sono rimasti tutti fermi così. Durante quel lasso di tempo un cecchino israeliano piazzato alla finestra della sua camera da letto ha sparato e ferito almeno tre palestinesi, tra cui il diciassettenne Jibril Muhammad al-Lada’a, che è stato colpito alla testa ed è poi morto in ospedale.

Circa un mese dopo Muqbil ha dovuto patire altri due raid israeliani su larga scala nel suo quartiere.

Il trauma che lei e i suoi fratelli hanno vissuto li ferisce ancora, dice, e ha portato la loro vita alla paralisi.

Il suo matrimonio, originariamente previsto per il 27 maggio, è stato annullato, mentre suo fratello Karam Muqbil, di sette anni, ha tuttora bisogno di costanti rassicurazioni e sostegno. Guardando la sorella che dorme nel pomeriggio, aggiunge che riescono a dormire solo quando c’è il sole.

Traumi e disabilità permanenti

Negli ultimi mesi, Aqabat Jabr è stata costantemente presa di mira da letali operazioni militari israeliane che hanno portato morte e distruzione a Gerico, una città turistica solitamente meno soggetta alla violenza israeliana rispetto ad altri luoghi della Cisgiordania.

Il campo di Aqabat Jabr è stato istituito nel 1948 per ospitare i rifugiati espulsi dalle loro case dalla milizia sionista per far spazio alla costituzione dello Stato di Israele.

Oggi ospita 30.000 persone ed è considerato il più grande campo profughi della Cisgiordania quanto ad estensione.

Le recenti incursioni nel campo seguono la crescente tendenza ad assalti mortali alle città della Cisgiordania da parte delle truppe israeliane, accanto a una ripresa della resistenza armata da parte dei palestinesi.

Proprio come a Nablus, Jenin, Tulkarem e Tubas, nel 2022 è sorto a Gerico un nuovo gruppo di resistenza chiamato Brigata Aqbat Jabr.

La Brigata e il campo sono saliti alla ribalta a febbraio, quando i soldati israeliani hanno ucciso cinque membri della Brigata in un “raid di 15 minuti”.

Nel campo da allora sono stati uccisi dalle forze israeliane altri quattro palestinesi tra cui due minori: al-Lada’a di 17 anni e Mohamed Faiz Balhan di 15 anni.

La gente del posto afferma che questi raid, che hanno portato all’arresto di oltre 100 palestinesi, stanno avendo effetti duraturi sui residenti.

Molte vittime di armi da fuoco si ritrovano con disabilità a vita e i bambini del campo sono traumatizzati.

Durante l’ultimo raid, i proiettili israeliani hanno ferito 13 persone e altre 14 sono state arrestate. I soldati hanno anche sfondato porte, saccheggiato e distrutto case e usato granate assordanti, provocando il panico nei quartieri.

“I cecchini hanno sparato a chiunque si muovesse per le strade”, ha detto a MEE Jamal Aweidat, capo del comitato popolare di Aqbat Jaber.

“Nessuno sapeva cosa fare; molti bambini erano così spaventati che durante il raid hanno bagnato i pantaloni “.

Complessivamente, quest’anno il fuoco israeliano ha ucciso almeno 118 palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, tra cui 18 minori. Altre 34 persone sono state uccise nella Striscia di Gaza, di cui sei minori.

Nello stesso periodo i palestinesi hanno ucciso almeno 19 israeliani.

Se si mantenesse l’attuale tasso di uccisioni entro la fine del 2023 il bilancio delle vittime palestinesi in Cisgiordania potrebbe risultare ben superiore alle 280 vittime, il che segnerebbe un aumento del 67% rispetto al conteggio dello scorso anno di 167, che era già il più alto registrato in quasi due decenni.

Incursioni controproducenti

I media israeliani affermano che le operazioni ad Aqbat Jabr mirano a reprimere una ripresa della resistenza nel campo.

Tuttavia Saleh Sanhourie, attivista politico e sociale, ha affermato che invece di soffocare la crescita dei gruppi armati, l’intensità e la frequenza delle operazioni militari stanno avendo l’effetto contrario.

“Questa quarta generazione di rifugiati non vede un futuro per sé sotto l’occupazione e, nonostante gli attacchi in corso, non hanno nessun altro posto dove andare. Quindi si stanno orientando verso la resistenza armata”, ha detto Sanhourie a MEE.

“Non appartengono a nessun partito politico e non sono finanziati da nessuno”, ha aggiunto.

Sanhourie e Aweidat sottolineano che i media occidentali omettono di mostrare lo squilibrio di potere tra l’equipaggiatissimo esercito israeliano che attacca un piccolo gruppo di giovani che spendono i pochi soldi che hanno per comprarsi le armi.

“È così che giustificano le uccisioni e gli attacchi quando in realtà hanno trasformato le nostre case in zona di guerra”, dice Sanhourie.

“Usano contro di noi bulldozer, razzi, aerei da combattimento, droni e un grande dispiego di soldati armati “.

Misure punitive

Oltre all’incremento di violenza militare nel campo Israele decreta regolarmente misure punitive contro i civili, come la revoca dei permessi di lavoro ai residenti del campo.

“Chiunque abbia un parente che sia stato ucciso o messo in prigione viene punito”, dice Sanhourie.

“Ci stanno punendo tutti, il che sta affossando la nostra economia”, aggiunge l’attivista, sostenendo che Israele vuole suscitare nella comunità del risentimento verso coloro che resistono.

Tuttavia ad Aqbat Jabr sta ottenendo l’effetto opposto, poiché tutti nel campo sono consci che “Insieme restiamo forti, in sintonia “. 

La politica delle punizioni collettive è estesa anche a Gerico, popolare meta turistica attraversata dai viaggiatori in visita in Cisgiordania.

Quest’anno le forze israeliane hanno messo Gerico sotto assedio due volte per settimane, sottraendo al settore del turismo decine di milioni di dollari secondo le stime ufficiali palestinesi.

La situazione nel campo profughi di Aqbat Jabr non è unica.

Le forze israeliane prendono sempre più di mira i campi profughi in tutta la Cisgiordania occupata, come si è visto nel campo profughi di Jenin, nel campo profughi di Nur Shams a Tulkarem e nel campo profughi di Shuafat a Gerusalemme.

Ma mentre i raid diventano sempre più letali e intensi sembrano emergere sempre più gruppi armati, che sfidano l’occupazione israeliana e probabilmente affronteranno ulteriori violenze da parte dei militari.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un uomo senza strategia: come Netanyahu sta provocando un’Intifada armata in Cisgiordania

RamzyBaroud

30 maggio 2023 – Middle East Monitor

Dopo aver firmato il 18 maggio un decreto militare che consente ai coloni ebrei israeliani illegali di reclamare l’insediamento abbandonato di Homesh situato nella Cisgiordania occupata settentrionale il governo israeliano ha informato l’amministrazione americana Biden che non trasformerà l’area in un nuovo insediamento.

Quest’ultima rivelazione è stata riportata da Axios il 23 maggio. Questa contraddizione non sorprende. Mentre i ministri di estrema destra israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, sanno esattamente cosa vogliono, Netanyahu sta cercando di compiere un atto politico impossibile: vuole esaudire tutti i desideri di Ben-Gvir e Smotrich, ma senza deviare dall’agenda politica degli Stati Uniti in Medio Oriente, e senza creare le circostanze che potrebbero alla fine rovesciare l’Autorità Nazionale Palestinese.

Inoltre, Netanyahu vuole normalizzare i rapporti con i governi arabi, pur continuando a colonizzare la Palestina, espandere gli insediamenti e avere il controllo completo sulla moschea di Al-Aqsa e su altri luoghi sacri musulmani e cristiani palestinesi.

Peggio ancora, vuole, su insistenza di Ben-Gvir e del suo collegio elettorale religioso estremista, ripopolare Homesh e creare nuovi avamposti, evitando una ribellione armata generalizzata in Cisgiordania.

Allo stesso tempo Netanyahu vuole buoni rapporti con arabi e musulmani, mentre costantemente umilia, opprime e uccide arabi e musulmani; in effetti un’impresa del genere è praticamente impossibile.

Netanyahu non è un politico alle prime armi che non riesce a soddisfare contemporaneamente tutti i suoi sostenitori. È un ideologo di destra che usa l’ideologia e la religione sioniste come fondamento della sua agenda politica. In qualsiasi altro posto, specialmente nel mondo occidentale, Netanyahu sarebbe stato percepito come un politico di estrema destra.

Uno dei motivi per cui l’Occidente deve ancora etichettare Netanyahu come tale è che se esistesse un accordo generale sul fatto che Netanyahu sia un affronto alla democrazia sarebbe difficile dialogare con lui diplomaticamente. Mentre il governo di estrema destra italiano di Giorgia Meloni ha ospitato Netanyahu lo scorso marzo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden deve ancora incontrare di persona il leader israeliano, mesi dopo che quest’ultimo ha varato il suo ultimo governo di religiosi di estrema destra.

Netanyahu è consapevole di tutte queste sfide e che la reputazione del suo paese, anche tra gli alleati, è a brandelli. Il leader israeliano, tuttavia, è determinato a perseverare, per il proprio interesse.

Ci sono volute cinque elezioni in quattro anni perché Netanyahu mettesse insieme un governo relativamente stabile. Nuove elezioni comporterebbero dei rischi, poiché se si tenesse una sesta elezione il leader dell’opposizione, Yair Lapid, dovrebbe ottenere la maggioranza dei seggi.

Ma soddisfare Ben-Gvir e altri sta trasformando Israele in un paese governato da leader populisti e nazionalisti determinati a dar vita ad una guerra di religione. A giudicare dalla situazione sul campo, potrebbero ottenere quello che vogliono.

La verità è che né Ben-Gvir né Smotrich hanno il buon senso o l’esperienza politica di Netanyahu. Piuttosto sono l’equivalente politico dei tori in un negozio di porcellane cinesi. Vogliono gettare i semi del caos e usare il caos per portare avanti la loro agenda: più insediamenti illegali, più pulizia etnica dei palestinesi e, in ultima analisi, una guerra di religione

A causa di queste pressioni, Netanyahu, con un proprio programma espansionista, non è in grado di seguire un progetto chiaro su come annettere completamente ampie parti della Cisgiordania e rendere i palestinesi permanentemente apolidi. Non può sviluppare e mantenere una strategia coerente perché i suoi alleati hanno una loro strategia. E, a differenza di Netanyahu, a loro importa poco di oltrepassare i limiti con Washington, Bruxelles, Il Cairo o Amman.

Questo deve essere frustrante per Netanyahu che in oltre 15 anni di governo ha sviluppato una strategia efficace basata su diversi equilibri. Mentre colonizzava lentamente la Cisgiordania e sosteneva un assedio e ricorrenti guerre a Gaza, ha imparato anche a fingere il linguaggio della pace e della riconciliazione a livello internazionale. Anche se in passato ha avuto i suoi problemi con Washington, Netanyahu ha spesso prevalso, con il sostegno del Congresso degli Stati Uniti. E sebbene abbia provocato in numerose occasioni paesi arabi, musulmani e africani, è comunque riuscito a normalizzare i rapporti con molti di loro.

La sua è stata una strategia vincente, di cui si è vantato spudoratamente a ogni campagna elettorale. Ma sembra che la festa sia infine terminata.

La nuova agenda politica di Netanyahu è ora motivata da un unico obiettivo: la sua stessa sopravvivenza o, meglio, quella della sua famiglia, diversi membri della quale sono coinvolti in accuse di corruzione e nepotismo. Se l’attuale governo israeliano dovesse crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni e del suo estremismo, sarebbe quasi impossibile per Netanyahu recuperare la sua posizione. Se i partiti di estrema destra abbandonano il Likud di Netanyahu Israele sprofonderà ancora di più in una crisi politica e in uno scontro sociale di cui non si intravede la fine.

Per ora Netanyahu dovrà mantenere la rotta – quella delle guerre non provocate, delle incursioni mortali in Cisgiordania, degli attacchi ai luoghi sacri, del ripopolamento o della creazione di nuovi insediamenti coloniali illegali, del permettere ai coloni armati di scatenare la violenza quotidiana contro i palestinesi e così via, indipendentemente dalle conseguenze di queste azioni.

Una di queste conseguenze è l’allargamento della ribellione armata a tutta la Cisgiordania occupata.

Da qualche anno il fenomeno della lotta armata sta crescendo in tutta la Cisgiordania. In aree come Nablus e Jenin i gruppi della Resistenza armata si sono rinforzati al punto che l’Autorità Nazionale Palestinese ha poco controllo su queste regioni.

Questo fenomeno è anche il risultato della mancanza di una vera leadership palestinese che investa di più nel rappresentare e proteggere i palestinesi dalla violenza israeliana, piuttosto che impegnarsi nel “coordinamento della sicurezza” con l’esercito israeliano.

Ora che i seguaci di Ben-Gvir e Smotrich stanno seminando il caos in Cisgiordania in assenza di qualsiasi protezione per i civili palestinesi i combattenti palestinesi stanno assumendo il ruolo di difensori. La “Fossa dei Leoni” è una manifestazione diretta di questa realtà.

Per i palestinesi la resistenza armata è una risposta naturale all’occupazione militare, all’apartheid e alla violenza dei coloni. Non è una strategia politica di per sé. Per Israele, invece, la violenza è una strategia.

Per Netanyahu le frequenti incursioni mortali nelle città palestinesi e nei campi profughi si traducono in risorse politiche che gli consentono di far contenti i suoi sostenitori estremisti. Ma questo è pensare a breve termine. Se la violenza incontrollata di Israele continua la Cisgiordania potrebbe presto ritrovarsi in una rivolta militare a tutto campo contro Israele e in una ribellione aperta contro l’Autorità Nazionale Palestinese.

Quindi, nessun trucco magico o equilibrismo da parte di Netanyahu può controllare i risultati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rientrano necessariamente nella linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Gli attacchi contro Roger Waters mettono in ridicolo la lotta contro l’antisemitismo

Yves Engler

29 maggio 2023 – Mondoweiss

I recenti attacchi contro Roger Waters sono l’ultimo esempio di false accuse di antisemitismo utilizzate come arma per difendere l’apartheid israeliano.

Di recente alcuni politici del fascistoide e apertamente suprematista ebraico governo israeliano hanno attaccato l’esibizione a Berlino del famoso musicista rock Roger Waters. In molti Paesi agenti antipalestinesi di Israele hanno amplificato l’imbarazzante delirio secondo cui Waters sarebbe un antisemita per aver inserito il nome di Anna Frank su un grande schermo vicino alla giornalista palestinese assassinata Shireen Abu Akleh. Lo spettacolo di Waters ha semplicemente messo a confronto i due nomi e questo non sarebbe stato improprio, ma di fatto i nomi di circa una decina di persone uccise da forze di sicurezza, come George Floyd negli USA, hanno lampeggiato sullo schermo durante l’esibizione. Il secondo elemento della loro cinica follia è stato lamentare che Waters abbia indossato un’uniforme fascista, modello SS. Ma Waters ha esibito per decenni delle varianti di questa parodia antifascista e antinazista.

Infine qualcuno ha sostenuto che lo spettacolo ha incluso un maiale con una stella di David, il che è assolutamente falso. In un comunicato Waters ha risposto:

“La mia recente esibizione a Berlino ha attirato attacchi in malafede da quanti vogliono calunniarmi e mettermi a tacere perché dissentono dalle mie opinioni politiche e dai miei principi morali. Gli elementi del mio spettacolo che sono stati messi in discussione sono molto chiaramente una presa di posizione contro il fascismo, l’ingiustizia e il fanatismo in ogni loro manifestazione. Il tentativo di ritrarli come qualcos’altro sono ipocriti e motivati politicamente. La rappresentazione di un folle demagogo fascista è stata una caratteristica dei miei spettacoli fin da The Wall dei Pink Floyd nel 1980.

Ho passato tutta la mia vita a denunciare l’autoritarismo e l’oppressione ovunque li abbia visti. Quando ero un bambino dopo la guerra il nome di Anna Frank veniva spesso citato in casa nostra, divenne un ricordo permanente di ciò che accade quando viene consentito al fascismo di scatenarsi. I miei genitori lottarono contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, e ciò costò la vita a mio padre. Indipendentemente dalle conseguenze degli attacchi contro di me, continuerò a condannare l’ingiustizia e tutti quelli che la perpetrano.”

Facendo seguito ai politici israeliani, i lobbysti canadesi a favore dell’apartheid hanno amplificato gli allarmi sull’antisemitismo. Su Twitter l’inviato speciale di Justin Trudeau [primo ministro canadese, ndt.] per la lotta contro l’antisemitismo Irwin Cotler, la parlamentare liberale Ya’ra Saks, l’ex presidente del Congresso Ebraico Canadese Bernie Farber e l’ex deputato Michael Leavitt hanno gridato all’antisemitismo. Così hanno fatto gli Amici del Centro Simon Wiesenthal, Honest Reporting Canada [ong che monitora i media alla ricerca di pregiudizi contro Israele, ndt.] e il Centro per gli Affari di Israele ed Ebraici, che ha twittato: “Siamo disgustati dalle azioni di Roger Waters nel concerto di ieri a Berlino. È già abbastanza grave tracciare paralleli scorretti con Anna Frank (soprattutto a Berlino), ma comparire sul palco vestito come un soldato nazista delle SS? E’ palese antisemitismo.”

Il finto scandalo è poco più che una cinica calunnia contro un personaggio importante che si rifiuta di ritirare il proprio appoggio ai palestinesi. Non sono riusciti a far annullare il recente concerto di Waters a Francoforte che nonostante i costanti attacchi continua ad organizzare concerti molto politicizzati in strutture di grandi dimensioni in tutto il mondo. Ora c’è un tentativo di annullare i suoi prossimi concerti e la polizia tedesca ha avviato un’indagine contro Waters per l’uniforme in stile nazista che ha indossato durante il concerto di Berlino.

Gli attacchi contro Waters sono l’ultimo esempio della continua utilizzazione dell’antisemitismo come arma da parte dei nazionalisti israeliani. Nel caso più nefasto, è stato messo in crisi il segretario di sinistra del partito Laburista Britannico Jeremy Corbyn, come ha accuratamente spiegato Asa Winstanley in un suo recente libro [2022, Weaponising Anti-Semitism – Usare l’antisemitismo come arma, ndt.]. I nazionalisti israeliani hanno talmente abusato del termine [antisemitismo] nella loro difesa dell’apartheid e delle violazioni del diritto internazionale che ogni accusa di antisemitismo è diventata sospetta persino quando potrebbe essere appropriata.

Nel 2016, prima di questi episodi, scrissi: “In Canada ‘antisemitismo’ è forse il termine più inflazionato. Quasi del tutto separato dalla sua definizione nel dizionario – ‘discriminazione o pregiudizio o ostilità contro gli ebrei’ – ora è invocato principalmente per difendere i privilegi degli ebrei e dei bianchi.” Aggiunsi che, se non ci sarà un intervento di qualche genere, i futuri dizionari potrebbero definire l’“antisemitismo” come “un movimento per la giustizia e l’uguaglianza”.

Sette anni fa, quando lo scrissi, venni violentemente attaccato, ma il recente scandalo costruito ad arte contro Roger Waters suggerisce che oggi questa affermazione è ancora più vera.

Che la lobby antipalestinese si vergogni per questo stato di cose.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dopo proteste una conferenza rinuncia alla presenza di un archeologo israeliano per i legami della sua università con una colonia illegale

Oren Ziv

28 maggio 2023 – +972 Magazine

Data l’illegalità degli scavi in un territorio occupato, alcuni archeologi hanno criticato la partecipazione a un evento internazionale di due studiosi dell’Università di Ariel.

La scorsa settimana, in seguito alle pressioni di altri colleghi ricercatori, un convegno internazionale ha annullato la conferenza di un archeologo israeliano dell’università di Ariel, nella Cisgiordania occupata, mentre la presentazione di un dottorando della stessa università si è tenuta come previsto.

Diversamente da altri conferenzieri, la cui appartenenza a un’istituzione era elencata accanto ai loro nomi nel programma, il prof. David Ben Shlomo e Yair Elmakias, entrambi del Dipartimento del Territorio di Studi israeliani e archeologia, non avevano citato il loro rapporto con l’università di Ariel.

Il biennale Congresso Internazionale sull’Archeologia del Vicino Oriente Antico (ICAANE), considerato uno dei due simposi più prestigiosi sul tema, si è tenuto a Copenaghen dal 22 al 26 maggio. L’edizione di quest’anno, la tredicesima, vedeva circa 20 partecipanti di Israele, provenienti dall’Università ebraica di Gerusalemme, l’Università di Haifa, l’Università di Tel Aviv e l’Università Ben-Gurion nel Negev.

Il fatto che due studiosi dell’università-colonia fossero stati invitati è significativo sia perché l’istituzione è situata nel territorio occupato e sia perché scavare in aree occupate è considerata una violazione ai sensi del diritto internazionale.

Uno degli studiosi che si è opposto alla partecipazione di Ben Shlomo e Elmakias è Brian Boyd, co-direttore del Centro di Studi Palestinesi presso la Columbia University a New York. Boyd, in un post su Facebook, ha citato la decisione del 2013 del Congresso Archeologico Mondiale, secondo cui “non è etico per archeologi professionisti e istituzioni accademiche condurre lavori archeologici e scavi in aree occupate e governate con la forza.”

Sottolineando che “le attività delle colonie israeliane costituiscono un crimine di guerra per il diritto internazionale,” Boyd ha scritto che l’omissione dell’affiliazione istituzionale nel programma della conferenza di Ben Shlomo e Elmakias “sembra suggerire che erano bene al corrente della loro situazione legale e che l’hanno fatto per evitare critiche internazionali da parte della comunità archeologica.” Ha poi aggiornato il post con la notizia che l’intervento di Ben Shlomo era stato annullato. Boyd ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo.

Secondo il programma originario della conferenza, Ben Shlomo avrebbe dovuto presentare la sua ricerca sui ritrovamenti dell’età del ferro nel sud della valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata. Dopo la cancellazione della sua presentazione, i dettagli del suo intervento sono stati rimossi dal sito web del simposio.

Violando gli accordi di Oslo e il diritto internazionale, Ben Shlomo ha confermato a +972 la sequenza degli eventi. Ha scritto che “(gli organizzatori della conferenza) hanno cancellato la mia conferenza sugli scavi a Khirbet ‘Aujah el-Foqa vicino a Gerico nell’Area C (che è sotto il completo controllo israeliano). All’inizio l’avevano confermata, ma poi varie persone hanno protestato, in Europa il tema è delicato. Immagino specialmente perché uno degli organizzatori del simposio proviene dall’Istituto di Archeologia a Damasco.”

Nell’aprile del 2022 Elmakias, che ha comunque fatto il suo intervento, ha partecipato a un progetto che ha rimosso cumuli di terra dal monte Ebal vicino a Nablus, dove era stato rinvenuto un amuleto con un’iscrizione in ebraico, apparentemente del XIII secolo a.C., la più antica mai scoperta, anche se altri ricercatori hanno messo in dubbio tale datazione.

Il terreno era stato asportato da un sito in Cisgiordania nell’Area B, su cui Israele ha il controllo della sicurezza e l’Autorità Palestinese il controllo amministrativo. In base agli accordi di Oslo e al diritto internazionale Israele non può rilasciare permessi di scavo in questo sito e non può asportare ritrovamenti senza tale permesso.

Come riferito da Nir Hasson ad Haaretz, nel 2019 un gruppo di ricercatori americani e israeliani è arrivato al sito del monte Ebal per collaborare con la Associates for Biblical Research [organizzazione di Ricerca Biblica, ente americano che opera per dimostrare la verità storica della Bibbia, ndt.] e sotto gli auspici del consiglio regionale di Samaria, un ente della colonizzazione [israeliana]. Con l’aiuto di volontari hanno rimosso dal sito tre grandi cumuli di terra che erano stati lasciati dopo gli scavi condotti negli anni ’80, e li hanno spostati per setacciarli nel centro accademico diretto da Elmakias, dove poi hanno scoperto l’amuleto.

Rispondendo a +972 Elmakias sostiene che la sua partecipazione a Copenaghen “non fa notizia”.

Dopotutto gli organizzatori hanno accettato tutte le nostre richieste, incluso che noi apparissimo con il nome dell’università di Ariel e che presentassimo le ricerche condotte in Samaria e nella valle del Giordano.” Elmakias non ha spiegato chi aveva chiesto che la sua affiliazione istituzionale fosse omessa dal programma e se ha ricevuto una richiesta degli organizzatori in seguito alle proteste contro la sua inclusione e quella di Ben Shlomo.

Una grave erosione”

Da parte loro gli organizzatori di ICAANE hanno comunicato a +972 che essi “non discutono con esterni le situazioni individuali,” ma che il congresso “rispetta le convenzioni dell’UNESCO e che, se avesse scoperto che una presentazione avrebbe violato convenzioni, l’avrebbe esclusa dalle presentazioni o dalle pubblicazioni. Ciò può avvenire prima o dopo il congresso.”

Gli organizzatori hanno inoltre dichiarato che non sono loro a invitare i ricercatori alla conferenza, ma sono piuttosto “gli studiosi a sottomettere un estratto e un comitato decide se rientra fra i temi del congresso.” A proposito dell’omissione nel programma dell’università di Ariel hanno detto: “Se alcuni studiosi non hanno affiliazione è molto probabilmente un errore. Normalmente gli studiosi sono ben conosciuti solo per via del loro nome.”

Un rapporto pubblicato nel 2017 da Emek Shaveh e Yesh Din, gruppi per i diritti umani israeliani, afferma: “Dal punto di vista del diritto internazionale i siti archeologici e le antichità sono risorse culturali e di conseguenza appartengono ai territori occupati.” Come tali, continua il rapporto, “le attività permesse al Comandante Militare e a coloro che agiscono in suo nome sono limitate ad azioni intese a salvare o preservare antichità. Israele però interpreta in senso ampio i suoi obblighi di proteggere il patrimonio archeologico, e le sue attività archeologiche si discostano dalle restrizioni su di esso imposte in quanto potenza occupante, determinando violazioni del diritto internazionale.”

Al momento l’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) è tecnicamente responsabile degli scavi nelle zone entro i confini ufficiali di Israele, mentre gli scavi in Cisgiordania sono sotto la responsabilità della Divisione delle Antichità dell’Amministrazione Civile. Tuttavia l’attuale governo di Israele vuole trasferire la responsabilità degli scavi in Cisgiordania alla IAA, sotto l’autorità del Ministero degli Affari e del Patrimonio di Gerusalemme ora guidato da Amichai Eliyahu, del partito di estrema destra Otzma Yehudit.

Alon Arad, direttore di Emek Shaveh, [un gruppo di archeologi di sinistra che criticano gli scavi, ndt.] ha detto a +972 che “se i membri della comunità archeologica di Israele vogliono far parte della comunità professionale internazionale devono farlo secondo le regole e l’etica dell’archeologia. Sfortunatamente assistiamo a una grave erosione di tutto ciò che è relativo all’idea di Israele che la Cisgiordania non è un sito legittimo per le attività accademiche di archeologia israeliana.”

Arad ha aggiunto che in anni recenti c’è stato crescente numero di casi in cui Israele sta tentando di “applicare la sua sovranità indirettamente tramite scavi condotti da università israeliane, o più direttamente tramite IAA.” Ha avvertito che se Israele continua a ignorare il diritto internazionale a questo riguardo, “I’archeologia israeliana sarà danneggiata e gli archeologi israeliani saranno emarginati dalla comunità mondiale.”

Oren Ziv è fotogiornalista, reporter di Local Call e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Dobbiamo smetterla di confutare la propaganda israeliana nei termini di Israele

TOM SUAREZ  

27 maggio 2023  – Mondoweiss

Nelle nazioni occidentali tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche mentre combattiamo per la causa palestinese. Invece, dobbiamo rispedire le accuse israeliane a chi le formula

La battaglia per la giustizia in Palestina è una battaglia di linguaggi. È una battaglia non solo di informazioni, ma del contesto in cui vengono presentati gli ipotetici fatti, cioè di narrazione. Così Israele settantenne utilizza una narrazione “nazionale” che inizia con l’Antico Testamento e profitta dei nostri stessi media e governi come co-cospiratori. Se i media occidentali riportassero invece la realtà israelo-palestinese, da un giorno all’altro l’intero progetto sionista si farebbe insostenibile.

La narrazione palestinese è sempre più considerata vitale nella lotta per la giustizia. Eppure viene in gran parte estromessa. Come osserva la professoressa dell’Università di Exeter Nadia Naser Najjab, non ci sarà giustizia per la Palestina “fintanto che la comunità internazionale continuerà a ignorare la narrazione palestinese”.

Perché, allora, viene ignorata? Che cosa le è contro? Contro cosa si scontra la (vera) storia di una terra rubata, la sua gente sottoposta a pulizia etnica o rinchiusa in bantustan sotto uno Stato di apartheid?

Si scontra con una mitologia elaborata e sfaccettata, radicata nell’iconografia biblica e messianica culturalmente inculcata nel suo pubblico. Si scontra con la favola di un popolo in alleanza con Dio che ritorna nel proprio “paese” che risale a cinquemila anni fa. Si scontra con uno Stato il cui nome è stato scelto per farci credere che lo abbiamo letto nella Bibbia e funge cinicamente da fiaccola per il peso morale dell’Olocausto e da rifugio per gli ebrei dal flagello dell’antisemitismo. Si scontra con il fondamentalismo sionista cristiano e un pubblico ulteriormente predisposto attraverso la sistematica disumanizzazione dei palestinesi.

E oltre a tutto ciò la Narrazione Palestinese si scontra con la precondizione che perfino per ridicolizzare la mitologia di Israele i palestinesi devono prima pienamente accettarla.

Come ha affermato Jeremy Ben-Ami del “progressita” J Street [forum statunitense che promuove la leadership americana per una soluzione pacifica e diplomatica ai conflitti arabo-israeliano e israelo-palestinese, ndt.] nel suo articolo per commemorare il 75° anniversario dello Stato israeliano (tutti i corsivi sono miei):

Credo che coloro che sottolineano la Nakba dovrebbero anche riconoscere la legittimità del legame ebraico con la terra di Israele e che anche il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione. […] se mai dovessimo risolvere questo tragico conflitto tra ebrei e palestinesi, entrambi i popoli dovranno comprendere la narrazione dell’altro, la loro storia di dolore e il loro legame con la stessa terra…”

Si noti che “conflitto” è anch’esso una narrazione a beneficio di Israele.

“… e tutti gli ebrei, spero, un giorno riconosceranno il legame dei palestinesi con questa terra e capiranno perché essi considerano il 1948 una catastrofe…”

I palestinesi devono accettare la narrazione israeliana subito, ma il riconoscimento reciproco? Forse “un giorno”, spera l’autore. Il “legame palestinese” con la propria terra è presentato come un concetto vago, valido solo se “tutti gli ebrei” lo accettano, mentre il legame dei coloni stranieri con quella terra è così naturale da non meritare spiegazioni. E infine, nello stereotipo antisemita, gli “ebrei” sono considerati così chiusi e concentrati su di sé da non arrivare a capire perché altre persone potrebbero considerare una “catastrofe” il totale furto e la pulizia etnica del loro paese – davvero così difficile che:

È improbabile che israeliani e palestinesi si accordino mai su una versione comune della storia

Svilendo ciò che è realmente accaduto ai palestinesi come “versione” – sostituto peggiorativo di “narrazione” – si può rimuoverlo. In effetti, una ricerca su Internet di “Narrazione palestinese” può occupare tutto il giorno, ma ogni volta che viene esposta una Narrazione per mostrare il crimine secolare contro i palestinesi, i propagandisti israeliani se ne impadroniscono per definirla una sorta di credenza, di invenzione nostalgica – nient’altro che “quello che dicono i palestinesi”.

In risposta agli sforzi del professor Rashid Khalidi per impedire agli Stati Uniti di costruire la propria ambasciata a Gerusalemme su terra rubata a palestinesi, tra cui la sua famiglia, un velenoso articolo sul Jerusalem Post affermava che “quello che sta accadendo qui non è tanto una battaglia sulla storia di Gerusalemme quanto una battaglia sulle narrazioni della storia.” Una recensione sullo stesso giornale dell’eccellente The Hundred Years’ War on Palestine [La guerra di cent’anni per la Palestina] del prof. Khalidi inizia proprio col titolo: “Controllare la narrazione palestinese”. Il recensore contrasta la “narrazione” di Khalidi con una litania di invenzioni israeliane la cui stessa logica sarebbe giustamente condannata come incitamento all’odio se le “parti” fossero invertite. Ed è nel contrastare tale razzismo – disumanizzazione – che la narrazione è così cruciale, per assicurare il fallimento della infame congettura di Ben-Gurion secondo cui “i giovani dimenticheranno”.

Riappropriarsi dei termini del dibattito

Solo i palestinesi possono riferire la narrazione palestinese collettiva e individuale. Ma per quelli di noi i cui paesi hanno causato il crimine secolare contro di loro – in particolare il Regno Unito e gli Stati Uniti – la fondamentale responsabilità di porre fine all’eterna complicità dei nostri paesi ricade su di noi. È nostro compito porre fine alla giungla di bugie su cui fa affidamento Israele.

A tal fine propongo un’osservazione generale. Nelle nazioni occidentali che si sono nutrite della mitologia di Israele tendiamo inconsapevolmente a permettere a Israele di controllare i termini del dibattito anche se combattiamo per la causa palestinese. Di una miriade di esempi forse il più semplice con cui illustrare il mio punto è come trattiamo l’uso da parte di Israele dell’accusa di antisemitismo per metterci a tacere.

Quando sul nostro petto viene scarabocchiata la “A” scarlatta di antisemita , la nostra tipica risposta è negare l’accusa: no, non sono antisemita. L’antisionismo non è antisemitismo. Questa risposta è totalmente nei termini di Israele: i suoi propagandisti, non tu, mantengono il controllo e tu rimani “colpevole”.

La risposta deve respingere correttamente l’accusa e includere le parole che la calunnia vorrebbe mettere a tacere: No, non cercare di coprire/nascondere l’apartheid israeliano. Sei sionista. Questo è antisemitismo! Oppure: sto difendendo dei fondamentali diritti umani. Stai insultando gli ebrei come oppositori dei diritti? O ancora: l’unico antisemitismo qui è da parte dei sionisti che in nome degli ebrei difendono l’apartheid israeliano contro la Palestina.

Cito questo come modello, suggerito per ripensarci e liberare tutti i nostri ragionamenti da un contesto ereditato. In questo momento la presa di Israele sull’opinione pubblica sta vacillando, Israele stesso è nel caos politico, le tre sillabe “apartheid” diventano ogni giorno più salde e la realtà che Tel Aviv abbia rubato tutta la Palestina storica non è più negabile . Il pubblico è più aperto alla verità dell’esperienza collettiva e individuale dei palestinesi – e il resto di noi deve fare sempre più pressioni per “delegittimare” lo stato razziale che è causa dell’intera catastrofe.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)