La simbolica commemorazione della Nakba alle Nazioni Unite ha messo in luce il disprezzo di Israele per la verità

Ramona Wadi

16 maggio 2023 – MiddleEastMonitor

“L’idea che un’organizzazione internazionale possa definire la fondazione di uno dei suoi Stati membri come una catastrofe o una sciagura è sia scioccante che rivoltante”, ha scritto l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan chiedendo ai diplomatici delle Nazioni Unite di astenersi dal partecipare alla inedita commemorazione della Nakba del 1948 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. A dire il vero l’azione più disgustosa è stata l’accettazione nel 1948 da parte delle Nazioni Unite del progetto coloniale israeliano come Stato membro a spese della popolazione palestinese sottoposta a pulizia etnica, la cui terra era (e continua ad essere) usurpata e il cui legittimo diritto al ritorno alla propria terra è una condizione ancora non soddisfatta dell’adesione di Israele alle Nazioni Unite.

La commemorazione della Nakba, sebbene sia significativa, non è nulla in confronto alla complicità delle Nazioni Unite nel permettere a Israele di prosperare. Come possono le Nazioni Unite, potremmo chiederci, permettersi di commemorare la memoria storica palestinese quando non vi fanno alcun riferimento in termini di diritti politici del popolo palestinese, o del legittimo diritto di resistere con ogni mezzo all’occupazione militare israeliana?

“Questa è un’occasione per sottolineare come i nobili obiettivi di giustizia e pace richiedano il riconoscimento della realtà e della storia delle peripezie del popolo palestinese e la garanzia del rispetto dei suoi diritti inalienabili” afferma il sito web dell’ONU, senza il minimo disagio alla consapevolezza che l’Organizzazione internazionale garantisce l’esatto contrario.

E tuttavia la commemorazione, nonostante l’imperante ipocrisia dei padroni di casa, è stata sufficiente a gettare nel panico Israele manifestandone la paranoia che possa aumentare la generale consapevolezza di come il popolo palestinese stia subendo da decenni un abuso politico che sarebbe in realtà reversibile. Basterebbe un’opposizione politica sufficiente allo status quo della normalizzazione di uno stato coloniale di insediamento e il sostegno al moribondo compromesso dei due Stati.

Secondo il Times of Israel 32 paesi hanno dichiarato che avrebbero boicottato l’evento, dieci dei quali membri dell’UE. Il peso diplomatico che Israele esercita a livello internazionale è considerevole; non solo un certo numero di paesi ha ascoltato l’appello di Erdan, ma è anche riuscito a convincere altri paesi di una narrativa filo-palestinese alle Nazioni Unite che non esiste. La narrativa sulla Palestina dell’Organizzazione è sia errata che totalmente filo-israeliana. Che gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada avrebbero boicottato l’evento era prevedibile; sia gli Stati Uniti che il Canada sono essi stessi Stati coloniali e la Gran Bretagna è un’ex potenza coloniale, quindi la loro fedeltà allo Stato di apartheid è profonda. Inoltre l’assenza di qualsiasi condanna di Israele come entità coloniale che priva i palestinesi della loro terra ha incoraggiato la normalizzazione del colonialismo e della violenza dei coloni.

Il che vuol dire che il significato che una tale manifestazione avrebbe potuto avere è andato perduto a causa della complicità delle stesse Nazioni Unite nel dare una certa credibilità alla falsa narrazione di Israele. Una singola commemorazione della Nakba non può competere con decenni di sostegno al colonialismo. Va ricordato che le Nazioni Unite danno molta importanza al simbolismo e hanno costretto i palestinesi in questa stessa narrativa. Tuttavia, la memoria collettiva dei palestinesi non è simbolica, è una realtà vissuta che l’Onu preferisce ignorare.

Eppure Israele si sente ancora minacciato al pensiero che le sue atrocità vengano smascherate. Erdan ha fatto un sacco di rumore per il simbolico evento sulla Nakba alle Nazioni Unite, ma la verità è che Israele è riluttante a qualsiasi disvelamento della memoria legata alla Nakba. La riluttanza a concedere i propri archivi alla ricerca accademica ne è un esempio calzante. Ciò che l’evento delle Nazioni Unite ha messo in luce è che Israele avrà sempre più difficoltà a nascondere la violenza della propria istituzione in Palestina su terra usurpata, nonostante la riluttanza della comunità internazionale a porre fine al colonialismo e alla violenza di Stato.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Settantacinque anni dopo la Nakba i palestinesi di Gaza conservano la loro tradizione attraverso le canzoni

Tareq S. Hajjaj

15 maggio 2023 – Mondoweiss

A 75 anni dalla loro espulsione i rifugiati di Gaza conservano la loro eredità culturale attraverso il folklore e le canzoni che raccontano una storia di resistenza e nostalgia della Palestina

In cerchio, con le mani che battono continuamente il ritmo, si uniscono tutte ai versi di una canzone mentre una donna al centro del cerchio suona un tamburo che tiene appoggiato a un fianco, dando loro il ritmo e le battute. In occasioni simili le donne anziane guidano l’esibizione, trovando un’occasione d’oro non solo per rivivere la tradizione vissuta nella terra d’origine prima del 1948, ma anche per trasmetterla alle generazioni più giovani in modo che non venga mai dimenticata.

Con vestiti colorati e con specchietti, in genere anche poche anziane sono in grado di trascinare con sé le giovani, facendo ripetere loro i versi varie volte, finché non si divertono a ripeterli e li hanno memorizzati, sempre più desiderose che le anziane insegnino loro i versi successivi.

Safia Jawad, 71 anni, veste il costume tipico del suo villaggio d’origine, Isdud (ribattezzato Ashdod dallo Stato di Israele), pieno di ricami fatti a mano e magnificamente intessuti. Inizia lentamente e abilmente con un tono basso a recitare questi versi:

“Veniamo dalla valle per la ragazza con i fianchi attraenti.

Veniamo dal mare per la ragazza con la vita come una ghirlanda di fiori.”

Queste parole risalgono a molti anni prima della Nakba, quando il popolo palestinese era solito celebrare gli avvenimenti con una canzone. Utilizzando solo mezzi semplici, le loro voci o strumenti come il “rebab” [strumento ad arco, antenato del violino, ndt.], creavano nuove canzoni adatte a specifici momenti e contesti.

Safia ha memorizzato una lunga lista di canzoni e versi per i matrimoni, benché non fossero le uniche occasioni a cui venivano riservati canti popolari. Ogni avvenimento, felice o triste, ha una canzone specifica. Esistevano in tutta la Palestina prima della Nakba, dopo la quale questa parte della tradizione palestinese venne trasformata. Le persone che scapparono dalle loro case e giunsero a Gaza come rifugiati portarono con sé le proprie tradizioni. Le conservarono e ripresero durante ogni matrimonio e funerale, fino al punto di tentare persino di diffonderle tra gli abitanti originari di Gaza. In seguito nacquero nuove forme di canzone.

Conservare la tradizione a Gaza

Nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, Samira Ahmed, 69 anni, e la sua figlia sposata, Sujoud, 36 anni, siedono una vicino all’altra su un divano nel soggiorno. Samira ha difficoltà a ricordare tutte le canzoni che le sono state insegnate dalla defunta madre, sopravvissuta alla Nakba.

Ogni tanto Sujoud ricorda a sua madre qualche canzone, e quando Samira dimentica una parte sua figlia finisce la strofa per lei.

“Nelle occasioni di famiglia come i matrimoni insisto perché ci sia un giorno intero di canzoni tradizionali,” dice Samira. “Ho un tamburo e canto tutte le canzoni che ho imparato. A volte le giovani presenti apprezzano le canzoni e le ripetono con me, altre volte chiedono canzoni moderne,” dice.

Trova che all’inizio le nuove generazioni di ragazze fanno fatica a seguire le canzoni perché sono abituate a quelle moderne, più veloci e con effetti musicali, in altre parole opposte al fluire di quelle tradizionali, che sono lente e prive di ogni altra musica che non sia quella del tamburo.

“Non sono solo canzoni che ripetiamo. Esse rappresentano il nostro orgoglio per la cultura e il folklore con cui i nostri nonni ci hanno cresciuti,” dice Samira a Mondoweiss. “Finché le facciamo rivivere e le rendiamo presenti durante i nostri eventi manterremo sempre la nostra eredità e cultura. Ed è così che conserviamo la nostra patria su ogni altra cosa.”

Samira è cresciuta amando questi canti fin da bambina, quando ascoltava sua madre cantarli durante i matrimoni, dimostrando precocemente un interesse personale. Quando ha avuto una famiglia sua li ha trasmessi ai suoi figli. Ora sua figlia Sujoud sta facendo altrettanto.

Ciononostante Samira teme che questa parte importante della storia della Palestina possa presto andare perduta, in quanto le nuove generazioni si orientano più verso la musica ritmata e moderna. “Difficilmente le persone giovani dimostrano interesse per queste canzoni, ma finché vive anche un solo rifugiato palestinese, non verranno dimenticate,” afferma.

Da parte sua Samira cerca di raccontare aneddoti divertenti riguardo a queste canzoni per avvicinare a loro i giovani, come la storia di una canzone per invocare la pioggia.

“La gente si metteva i vestiti al contrario, usciva nei campi e prendeva con sé un boccale di metallo su cui picchiare e chiedere a Dio la pioggia,” dice.

Questa è la canzone:

“Portaci la pioggia, portaci la pioggia, mio Signore,

per innaffiare le nostre piante rivolte a ovest.

Per favore, bagna le nostre sciarpe, mio Signore,

in modo che abbiamo pane a sazietà.

Per favore, bagna i nostri logori vestiti, mio Signore.

Siamo poveri e non abbiamo nessun luogo in cui andare.

Prima e dopo la Nakba

Per lo più nessuna particolare regione della Palestina è nota esclusivamente per una sua specifica canzone. Piuttosto, alcune canzoni hanno viaggiato in molti luoghi diversi all’interno della Palestina, e poi in ogni luogo le persone vi hanno aggiunto un proprio particolare specifico, rappresentandola attraverso accenti, intonazioni e modifiche del testo caratteristici del luogo. E’ così con molte delle canzoni folkloriche palestinesi.

Haidar Eid, professore di arte e letteratura all’università Al Aqsa di Gaza, raccoglie anche il patrimonio tradizionale che documenta il folklore palestinese e produce musica basata su canzoni tradizionali palestinesi. Un esempio è una canzone sul suo villaggio d’origine, Zarnuqa:

“Se solo la barca mi ha portato qui fosse stata piena di dolci

e avesse attraversato il mare e mi avesse riportato a Zarnuqa.”

Come ricercatore Eid ha scoperto che questa stessa canzone si è diffusa in diverse zone della Palestina, e ognuna di esse ha aggiunto qualcosa di specificamente regionale.

“Ci sono diversi tipi di canzoni e sono cantate in modo diverso nella tradizione palestinese delle canzoni. C’è la zajal, una poesia destinata ad essere cantata in lunghi poemi locali, e il mawwal, un canto prolungato con una voce molto lunga, adatta ad ogni occasione. Ci sono canti nunziali e il tarwidah, di quattro strofe, che comincia come un mawwal e poi inizia la canzone. E ci sono anche canzoni di cordoglio,” spiega Eid.

Una delle canzoni più popolari nei campi profughi di Gaza riguarda un innamorato che si lamenta e piange la sua amata con una strofa e la ripete nella successiva con lo stesso ritmo:

“Sono entrato in un bosco e ho cercato una pera – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Ho trovato la mia amata con un scialle in testa – Oh il mio occhio, oh la mia anima.

Fortunato chi può baciare quello scialle – Oh il mio occhio, oh la mia anima.”

Le donne di Gaza cantano questi versi nella stessa tonalità per 20 volte, mentre la cantante solista dice la prima parte il resto delle donne presenti ripete la seconda. I versi vengono detti nel dialetto locale dei palestinesi che hanno vissuto nella loro terra per centinaia di anni prima che gli israeliani li prendessero e uccidessero o espellessero con la forza.

Resistenza e nostalgia per la Palestina

Dopo la Nakba la vita della gente cambiò, e altrettanto fece il loro patrimonio culturale. E come la musica passò a riflettere la situazione della gente di una specifica regione, così ha fatto con i cambiamenti epocali nella lotta e nel modo di vita del popolo palestinese. Dopo la Nakba molte di quelle canzoni iniziarono a mostrare la natura della lotta dei palestinesi dopo il trauma del 1948, compresa la nostalgia per le loro case e terre e il loro diritto al ritorno. Le canzoni che i profughi palestinesi di Gaza iniziarono a diffondere dopo essere fuggiti dalle proprie case e scoprire che si sarebbero stabiliti a Gaza per un periodo imprecisato di tempo esaltarono le virtù dell’eroismo, del sacrificio e della resistenza.

Haidar Eid lo conferma: “Dopo la Nakba le canzoni palestinesi riguardarono la resistenza e il diritto al ritorno. Dopo l’occupazione e la seconda guerra israeliana nel 1967, che portò all’occupazione del resto della Palestina, le canzoni della resistenza si diffusero in tutta la Palestina. La nostalgia per la Palestina produsse sempre più canzoni,” afferma.

Una delle prime canzoni che si diffuse a Gaza dopo la Nakba riguarda un combattente della resistenza che fa una proposta a una ragazza. La canzone viene cantata con la voce della ragazza che chiede alla sua famiglia di accettarlo, anche se lui non ha di che pagare la dote. Nella canzone la ragazza dice:

“Mamma, dammi al combattente anche per niente – Egli entra nel territorio occupato

portando il suo mitra.

Mamma, dammi al combattente anche solo per un braccialetto – Egli entra nel territorio occupato e in ogni contrada.

Mamma, dammi al combattente anche solo per due soldi – Egli entra nel territorio occupato con il suo kalashnikov.

In tutte le canzoni il ritmo è lo stesso.

Tuttavia quella che forse è la canzone palestinese più nota è “Ya Zarif al-Tul”, diffusa in tutta la Palestina storica e nelle comunità palestinesi della diaspora. La canzone è precedente alla Nakba e si diffuse durante il periodo del mandato britannico. Originariamente cantata in riferimento a un anonimo palestinese “alto e bello” (zarif al-tul) che resiste con successo agli attacchi delle forze sioniste contro un villaggio, la canzone si trasformò e prese significati diversi nei decenni successivi alla Nakba.

La storia racconta di un palestinese che era universalmente visto dagli abitanti di un anonimo villaggio palestinese come una brava persona benché fosse uno straniero, e che lavorava come falegname in cambio di un compenso. Poi, quando un giorno una milizia sionista fece irruzione nel villaggio, con i suoi soldi comprò cinque fucili e li distribuì tra i giovani del villaggio che respinsero con successo l’attacco. Quando la milizia sionista tornò per vendicarsi scoppiò una grande battaglia in cui zarif al-tul sarebbe stato ucciso come un martire.

Un articolo di Khalil al-Ali spiega come si trasformò in seguito la leggenda di zarif al-tul:

“Quando la gente del villaggio raccolse i corpi dei martiri non trovò tra loro zarif al-tul, ed egli non era neppure tra i vivi, come se se ne fosse andato. Gli abitanti del villaggio convennero unanimemente che aveva combattuto coraggiosamente e ucciso più di 20 miliziani sionisti, salvando nel contempo alcuni giovani del villaggio. Con il passare dei giorni zafir al-tul divenne la canzone del villaggio: ‘ya zarif al-tul, dove sei andato…il cuore del tuo Paese è pieno di ferite. Ya zarif al-tul, stammi a sentire: hai lasciato il tuo Paese, eppure per te è meglio la Palestina.’”

Questa canzone si è poi trasformata nei versi con cui oggi è nota a molti:

Ya zarif al-tul, stammi a sentire.

Te ne sei andato in terra straniera, ma per te è meglio il tuo Paese.

Temo che te ne andrai, ya zarif, e troverai un’altra casa

Che incontrerai altre persone e mi dimenticherai.”

Nel corso degli anni il significato storico della canzone è stato per lo più dimenticato e oggi molti la intendono semplicemente una canzone che sottolinea l’importanza della propria casa e patria, soprattutto alla luce dell’espulsione provocata dalla Nakba.

Tuttavia ciò che la canzone di zarif al-tul ci dice è la storia della resistenza all’espulsione e all’oppressione. Al-Ali lo spiega bene:

“La storia racconta che negli anni successivi (alla presunta morte dell’anonimo palestinese) egli venne visto tra i rivoluzionari palestinesi (che resistevano alle forze sioniste) a Giaffa (nel 1948). E molte persone giurarono di averlo visto dietro a Jamal Abdul Nasser a Porto Said, ed altri a Gaza, e altri ancora dissero che era a Beirut prima dell’invasione israeliana del 1982… finché è risultato chiaro che zarif al-tul è ogni combattente della resistenza palestinese, e la canzone continua ad essere ripetuta fino ad oggi, con parole diverse da una versione all’altra.”

Questa storia di resistenza è più antica della Nakba, e le è sopravvissuta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I bambini di Gaza subiscono dei “traumi oltre ogni limite”

Maram Humaid

12 maggio 2023 – Aljazeera

I genitori dicono di non riuscire ad affrontare il trauma dei loro figli che dovrebbero giocare, non soffrire.

Gaza City, Gaza – Toqa al-Dalo piange senza sosta sotto shock dopo aver saputo della morte della sua migliore amica martedì, nel corso del primo attacco aereo israeliano sulla Striscia di Gaza.

Quella mattina, mentre si preparava per la scuola, la bambina di 10 anni ha visto i suoi genitori piangere sommessamente. Avevano saputo che Mayar Ezz El-Din, 10 anni, era stata uccisa insieme a suo fratello Ali, 7 anni, e al padre Tariq Ezz El-Din nel bombardamento della sua casa nel centro della Striscia di Gaza.

“Non riesco quasi a credere a quello che è successo”, ha detto ad Al Jazeera una Toqa in lacrime mentre abbracciava un regalo che Mayar le aveva fatto di recente dopo che lei si era fratturata una mano in un incidente. “È stata molto gentile e mi è stata di aiuto durante il mio infortunio. Che colpa avevano lei e il suo fratellino? Perché l’hanno uccisa?

Toqa ricorda i loro incontri nelle reciproche case e lo scambio continuo di messaggi.

Conoscevo Mayar da quando eravamo al primo anno di asilo e abbiamo continuato la nostra amicizia come compagne di classe a scuola. Lei era la mia migliore amica. Siamo sempre state in contatto”.

Venerdì Israele ha continuato i suoi attacchi aerei su Gaza con il bilancio di vittime palestinesi salito ora a 31, di cui sei minori e quattro donne. Al quarto giorno di attacchi più di 100 persone risultano ferite. Sono stati anche lanciati dei razzi da Gaza verso Israele.

Crescere prima del tempo

Alaa e Mohammad al-Dalo, i genitori di Toqa, hanno cercato di calmarla nonostante il loro stesso dolore.

“È molto difficile vedere la tua bambina soffrire cosi tanto in questa tenera età, quando dovrebbe giocare con gli amici e non ricevere la notizia della loro orribile uccisione nel sonno coi familiari”, ha detto Alaa ad Al Jazeera.

I nostri bambini a Gaza stanno crescendo prima del tempo e sono esposti a grandi traumi che vanno oltre la loro età e capacità di sopportazione.

“Noi genitori siamo confusi su come affrontarli insieme a loro, aggiunge mentre asciuga le lacrime di sua figlia.

I genitori di Toqa sono preoccupati per il suo intenso dolore ma soprattutto temono il suo ritorno a scuola dove non troverà Mayar accanto a lei.

“Questo peggiorerà notevolmente il suo stato d’animo”, dice Mohammad.

Toqa trascorreva la maggior parte del suo tempo a scuola con Mayar e suo fratello Ali, con cui giocava e chiacchierava costantemente per la sua gentilezza e simpatia. Ora ritorna a scuola con il cuore pesante “, aggiunge.

Incubo senza fine

Sempre martedì Hajar al-Bahtini, cinque anni, è stata uccisa insieme al padre Khalil Al-Bahtini, 45 anni, e alla madre, Laila, 43 anni, in un bombardamento israeliano sulla loro casa nel quartiere Tofah nella parte est di Gaza City.

Stavamo dormendo tranquillamente. All’improvviso ci siamo svegliati in mezzo alla distruzione, al rumore dei bombardamenti e alla polvere. Non potevo muovermi perché un muro era crollato sui miei piedi”, ha detto la sorella quattordicenne di Hajar, Sara al-Bahtini, dopo essere stata dimessa dall’ospedale con una steccatura sul piede fratturato.

I miei fratelli urlavano vicino alla stanza dei miei genitori in fiamme,” riferisce ad Al Jazeera.

Quando mi hanno portato nell’ambulanza ho visto i miei fratelli urlare e piangere. Cercavo di negare col pensiero la possibilità che i miei genitori fossero stati uccisi, ma sono rimasto scioccata quando ho saputo che anche Hajar era rimasta uccisa con loro”.

Sara dice che a volte “invidia” Hajar perché è con i suoi genitori e non piangerà più la loro perdita.

Hajar era la gioia della casa. Tutti l’amavano per la sua intelligenza e arguzia, e perché era la più giovane. Quale è stata la sua colpa per essere uccisa nel sonno?

Mi sembra di vivere una catastrofe e un incubo senza fine. In pochi istanti ho perso mia madre, mio padre e la mia sorella minore. Come continueremo la vita io e i miei sei fratelli? aggiunge scoppiando in lacrime.

Mohammad Daoud, 41 anni, è sotto shock, ancora sconvolto dalla morte del figlio di quattro anni, Tamim, che soffriva di un disturbo cardiaco.

Tamim si è svegliato terrorizzato a causa dei pesanti bombardamenti. È corso in grembo a sua madre piangendo e tremando di paura “, ha detto il padre di due figli nel ricordare l’attacco.

Per un momento non mi sono reso conto che il cuore di Tamim non poteva sostenere la paura. Ho provato a calmarlo, ma il suo cuore batteva così forte, come se stesse per cedere.

Ha portato d’urgenza Tamim all’ospedale pediatrico per la rianimazione cardiopolmonare, ma i medici hanno detto che le condizioni del bambino erano già peggiorate.

“Tamim è rimasto per ore in terapia intensiva fino a quando non è morto a fine giornata”, dice Daoud.

“Era il mio unico figlio con un sorriso dolce. Molto intelligente e vivace. È troppo per noi. È vero che mio figlio soffriva di una malattia cardiaca cronica, ma i terrificanti attacchi israeliani sulla Striscia sono oltre i limiti del sopportabile”, afferma.

Perché i nostri figli dovrebbero subire tutto questo? Una persona normale trema per la paura dell’atrocità del bombardamento, che dire allora dei bambini e dei malati?

L’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia ha condannato i continui attacchi da parte di Israele rilevando che finora sono stati uccisi sei bambini.

“Questo non è accettabile. Tutti i minori devono essere protetti, ovunque, da ogni forma di violenza e violazione grave, secondo il diritto umanitario internazionale”, ha affermato l’UNICEF in una nota.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gaza: i nomi dei bambini uccisi nell’attacco di Israele

Redazione Middle East Eye

11 maggio 2023 –  Middle East Eye

In cinque giorni di bombardamenti sono morti almeno sette minori palestinesi

Strazianti immagini sono giunte dalla Striscia di Gaza da quando il 9 maggio è iniziata l’offensiva di Israele nell’enclave assediata.

Edifici residenziali sono stati rasi al suolo mentre continuava il bombardamento israeliano con le famiglie costrette sulla strada.

I bambini sono stati i più colpiti, con almeno sette minori fra i 33 palestinesi uccisi.

In alcuni video che circolano online si vedono bambini che piangono di paura mentre sopra di loro continua il bombardamento, mentre altri cercano tra le macerie delle proprie case i loro cari e i loro beni.

Finora sono state danneggiate più di 500 unità abitative e i civili descrivono il terrore per la terra che trema sotto i loro piedi.

Ora diamo uno sguardo ai bambini uccisi nell’offensiva:

Mayar Tariq Ibrahim Ezz el-Din, 11 anni

Mayar Tariq Ibrahim Ezz el-Din è stata uccisa il 9 maggio 2023 a Gaza City. Aveva 11 anni.

Mayar e suo fratello Ali sono figli di Tareq Ibrahim Ezz el-Din, un comandante militare della Jihad islamica palestinese (PIJ).

La famiglia stava dormendo quando un jet da combattimento israeliano ha preso di mira l’intero piano del loro edificio residenziale nel quartiere di al-Remal nel centro di Gaza City.

Nell’attacco sono stati uccisi 15 palestinesi, compresi tre membri della PIJ, quattro bambini e quattro donne.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza altre 20 persone sono state ferite, compresi tre bambini e sette donne, alcuni dei quali sono in gravi e critiche condizioni.

Ali Tariq Ibrahim Ezz el-Din, nove anni


Ali Tariq Ibrahim Ezz al-Din è stato ucciso insieme a sua sorella Mayar il 9 maggio 2023 a Gaza City. Aveva 9 anni.

Ali, prima di essere ucciso, con sua sorella aveva comprato dei dolci e preparato i vestiti, eccitato per il giorno seguente, in cui doveva partire in gita scolastica.

Gli utenti dei social media hanno condiviso online fotografie dei fratelli durante gli allegri festeggiamenti e hanno pianto la loro perdita.

L’attacco ha distrutto completamente la casa della famiglia ed anche le abitazioni circostanti.

Hajar Khalil Salah el-Bahtini, cinque anni

Hajar Khalil Salah el-Bahtini, di cinque anni, è stata uccisa il 9 maggio 2023 a Gaza City insieme a sua madre di 44 anni, Layla el-Bahtini. E’ la figlia del comandante delle brigate Al-Quds Khalil al-Bahtini, anch’egli ucciso nel raid che ha colpito la loro casa.

Molti hanno condiviso foto di Hajar a scuola e hanno condannato Israele per aver preso di mira dei bambini negli attacchi.

Testimoni oculari che hanno parlato con Middle East Eye hanno descritto una sensazione di paura tra i bambini, che mostrano anche segni di disordine da stress post traumatico (PTSD).

Le scuole sono state chiuse mentre i ragazzi piangono i loro compagni e molti edifici hanno subito gravi danni.

Layan Bilal Maddoukh, otto anni

Layan Bilal Maddoukh, di otto anni, è stata uccisa il 10 maggio 2023 in un raid israeliano che ha colpito edifici residenziali nella via al-Sahaba a Gaza City.

Tamim Mohamed Dawoud, quattro anni

Tamim Mohamed Daoud, di quattro anni, è morto per un attacco di panico in seguito ad un attacco aereo israeliano sul suo quartiere a Gaza il 10 maggio 2023, ha detto suo padre a Middle East Eye.

Iman Adas, 17 anni 

Iman è stata uccisa insieme a sua sorella maggiore Dania, che si sarebbe sposata dopo pochi giorni.

Le sorelle sono state uccise in un attacco aereo che ha preso di mira la casa del loro vicino nelle prime ore del mattino.

I muri della loro casa sono diventati un mucchio di macerie mentre i loro beni si intravvedevano tra i frammenti di vetri e pietre.

Yazan Jawdat Elayyan, 16 anni

Centinaia di persone hanno partecipato ad un corteo funebre per l’adolescente, in cui hanno pianto la sua morte.

Testimoni hanno detto ai notiziari locali che dormivano quando è esploso il rumore assordante degli attacchi aerei e la casa di Elayyan si è sgretolata.

Io e mia moglie stavamo dormendo quando abbiamo sentito il rumore e i bambini sono saltati in piedi”, ha raccontato un testimone ai media locali.

Abbiamo guardato fuori e abbiamo visto l’edificio coperto di fumo e completamente distrutto. Tutto tremava…non vi è stato un preventivo avviso perché le persone se ne andassero.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele prosegue gli attacchi a Gaza, i palestinesi rispondono con i razzi

Redazione Al Jazeera

10 maggio 2023- Al Jazeera

Almeno cinque palestinesi sono stati uccisi e un altro ferito, mentre gli attacchi israeliani continuano tra il lancio di razzi per rappresaglia.

Secondo i funzionari della sanità palestinese almeno cinque palestinesi sono stati uccisi negli attacchi aerei israeliani che hanno colpito la Striscia di Gaza per il secondo giorno consecutivo.

La ripresa mercoledì dei bombardamenti ha provocato una raffica di razzi di rappresaglia dall’enclave assediata verso il sud di Israele.

I raid aerei israeliani hanno colpito diverse località dell’enclave assediata, sia a sud che a nord, e una serie di siti appartenenti al movimento della Jihad islamica palestinese (PIJ).

I media locali hanno riferito che almeno un altro palestinese è stato ferito a est di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza. Il PIJ non ha confermato che le vittime fossero membri del suo gruppo.

In un reportage da Gaza City, Youmna El Sayed di Al Jazeera afferma che la gente del posto è in “massima allerta” ed estremamente preoccupata: a seguito della serie di attacchi di martedì che hanno ucciso almeno 15 persone, tra cui diversi civili, le scuole e le strutture pubbliche e private hanno chiuso e le persone cercano di rimanere in casa.

Aggiunge: “C’è un altissimo senso di tensione e preoccupazione tra i residenti di Gaza dopo gli attacchi israeliani di ieri. Tutto a Gaza è chiuso e le persone sono rimaste nelle loro case”.

I media arabi hanno riferito che Hamas, il gruppo che gestisce la Striscia di Gaza, ha detto che i razzi lanciati da lì erano una risposta al “massacro commesso dall’occupazione israeliana”, dato che i media palestinesi hanno riferito che i razzi di rappresaglia erano “a nome del coordinamento delle fazioni [di Gaza]’” che comprende Hamas e altri gruppi armati con sede a Gaza.

Il giornalista israeliano Barak Ravid cita il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari che afferma non esservi alcuna indicazione immediata che Hamas sia coinvolta nei combattimenti.

Da parte israeliana le autorità hanno detto ai cittadini che vivono nelle città lungo la barriera di Gaza di evacuare o rimanere nei rifugi.

In un reportage da Ashkelon, nel sud di Israele, Willem Marx di Al Jazeera ha affermato che l’esercito israeliano era in massima allerta quando sono state avviate le sirene. Il sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome ha anche intercettato dei razzi.

“Negli ultimi istanti, ci sono state istruzioni [dalle autorità] alle persone di rimanere all’interno dei rifugi a causa di questi lanci”, ha detto. “Molte comunità sono state incoraggiate ad allontanarsi da qui”.

Il bombardamento arriva il giorno dopo che le forze israeliane hanno attaccato Gaza City e i suoi dintorni, uccidendo 15 persone, tra cui quattro minori, in quella che hanno definito un’operazione contro tre comandanti della PIJ.

In un attacco notturno, le forze israeliane hanno anche ucciso due persone nella città occupata di Qabatiya, in Cisgiordania, a sud di Jenin. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa palestinese WAFA il ministero della salute li ha identificati come Ahmad Jamal Assaf, 19 anni, e Warani Walid Qatanat, 24. Un palestinese di 17 anni è stato colpito al petto e portato in ospedale.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La Gran Bretagna e la Nakba: storia di un tradimento

Avi Shlaim

10 maggio 2023 – Middle East Eye

Un ininterrotto filo conduttore di doppiezza, menzogne e inganni lega la politica estera britannica da Balfour alla Nakba fino a nostri giorni.

La Gran Bretagna creò le condizioni che resero possibile la Nakba palestinese.

Nel 1948 i palestinesi sperimentarono una catastrofe collettiva di dimensioni enormi: circa 530 villaggi vennero distrutti, più di 62.000 case furono demolite, circa 13.000 palestinesi uccisi e 750.000, due terzi della popolazione araba del Paese, furono cacciati dalle proprie case e divennero rifugiati.

Questo fu il momento culminante della pulizia etnica sionista della Palestina.

Nella sua essenza il sionismo è sempre stato un movimento colonialista di insediamento. Il suo fine ultimo era la costruzione di uno Stato ebraico indipendente in Palestina sulla maggior quantità possibile di terra e con quanti meno arabi possibile all’interno dei suoi confini. I portavoce sionisti insistettero costantemente di non avere cattive intenzioni nei confronti degli abitanti arabi del Paese, di volerlo sviluppare a beneficio delle due comunità.

Ma si trattava in buona misura di retorica, kalam fadi in arabo, discorsi vuoti.

Il movimento sionista era spinto dalla logica del colonialismo di insediamento, una modalità di dominazione caratterizzata da quello che lo storico Patrick Wolfe ha denominato “una logica di eliminazione”. I regimi coloniali di insediamento intendono annientare la popolazione nativa, o quantomeno evitarne l’autonomia politica. L’eliminazione della popolazione autoctona è una precondizione per l’espropriazione della terra e delle sue risorse naturali.

Il movimento sionista era assolutamente spietato. Non prevedeva di collaborare con la popolazione araba nativa per il bene comune. Al contrario, intendeva sostituirla. L’unico modo in cui il progetto sionista avrebbe potuto essere realizzato e conservato era l’espulsione di un gran numero di arabi dalle loro case e l’appropriazione della loro terra.

Nel gergo sionista tali sgomberi ed espulsioni vennero ingannevolmente definiti e occultati con un termine meno brutale: “trasferimenti”.

Il cammino verso la statualità

Il colonialismo d’insediamento sionista era intrinsecamente legato alla Gran Bretagna, il principale potere coloniale europeo dell’epoca. Senza l’appoggio della Gran Bretagna il movimento sionista non avrebbe potuto raggiungere il livello di successo che ebbe nella sua impresa di costruire uno Stato.

La Gran Bretagna consentì al suo giovane alleato di lanciarsi nella sistematica appropriazione del Paese. Tuttavia il cammino verso la statualità era tutt’altro che agevole. Dalla sua nascita alla fine del XIX° secolo il movimento sionista incontrò un grande ostacolo sul suo cammino: la terra dei suoi sogni era già abitata da un altro popolo. La Gran Bretagna consentì ai sionisti di superare questo ostacolo.

Il 2 novembre 1917 la Gran Bretagna emanò la nota Dichiarazione Balfour. Prese il nome dal ministro degli Esteri Arthur Balfour e prometteva l’appoggio britannico alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”.

Lo scopo della dichiarazione era il ricorso all’aiuto dell’ebraismo mondiale nell’impegno bellico contro la Germania e l’Impero Ottomano. Venne aggiunto un ammonimento, in base al quale “non sarà fatto nulla che possa danneggiare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina”. Mentre la promessa venne pienamente rispettata, l’ammonimento venne lasciato cadere e dimenticato.

Nel 1917 la zona in precedenza chiamata Palestina era ancora sotto il dominio ottomano. Gli arabi rappresentavano il 90% della popolazione del Paese, mentre gli ebrei erano il 10% e possedevano solo il 2% della terra. La Dichiarazione Balfour era un classico documento coloniale perché accordava diritti nazionali a una piccola minoranza, ma semplici “diritti civili e religiosi” alla maggioranza.

Aggiungendo danno alla beffa, faceva rifermento agli arabi, la grande maggioranza della popolazione, come “comunità non-ebraiche della Palestina”. La resistenza araba al potere britannico fu inevitabile fin dall’inizio.

C’è un detto arabo secondo cui qualcosa che inizia storto tale rimane. In questo caso, in ogni modo, è difficile vedere come l’amministrazione britannica della Palestina avrebbe potuto essere raddrizzata senza incorrere nell’ira dei suoi beneficiari sionisti.

L’11 agosto 1919 Balfour scrisse in un memorandum spesso citato: “Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in tradizioni secolari, in necessità attuali, in speranze future, di importanza molto maggiore dei desideri e pregiudizi dei 700.000 arabi che ora vivono in quella antica terra.”

In altre parole, gli arabi non venivano presi in considerazione, mentre i loro diritti, compreso il diritto naturale all’autodeterminazione nazionale, erano liquidati come nient’altro che “desideri e pregiudizi”.

Nello stesso memorandum Balfour affermò anche che “per quanto riguarda la Palestina, le potenze non hanno fatto alcuna constatazione che non sia evidentemente sbagliata, e nessuna dichiarazione politica che, almeno alla lettera, non abbiano sempre inteso violare.” Non ci potrebbe essere un’ammissione più decisa della duplicità britannica.

Sacra fiducia nella civiltà”

Nel luglio 1922 la Lega delle Nazioni diede alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina. Il compito del potere mandatario era preparare la popolazione locale all’auto-governo e lasciare il potere quando fosse stata in grado di governarsi da sola.

Nella Convenzione della Lega i mandati erano descritti come “una sacra fiducia nella civiltà”. I loro scopi dichiarati erano lo sviluppo del territorio a beneficio della sua popolazione nativa e la trasformazione delle ex-province arabe dello sconfitto Impero Ottomano in moderni Stati-Nazione. In realtà erano poco più di una copertura del neo-colonialismo.

Forti pressioni sioniste indussero la Gran Bretagna a insistere per l’incorporazione della Dichiarazione Balfour nel mandato per la Palestina. Spesso è stato detto che ciò trasformò una vaga promessa britannica in un obbligo legale vincolante. Non è così per due importanti ragioni.

Primo, il mandato contraddiceva l’articolo 22 della Convenzione che richiedeva che la popolazione dell’area coinvolta venisse consultata riguardo alla scelta del potere mandatario. Balfour si rifiutò di consultare gli arabi perché sapeva troppo bene che, se avesse potuto dire la loro, avrebbero veementemente rifiutato il potere britannico.

Secondo, la Gran Bretagna non avrebbe potuto assumere il mandato perché nel 1922 non aveva sovranità sulla Palestina. La potenza sovrana fino al 1924 era la Turchia, erede dell’Impero Ottomano. Questo argomento è stato energicamente proposto dal giurista statunitense John Quigley in un articolo non pubblicato intitolato “Il fallimento britannico nell’attribuire valore giuridico alla Dichiarazione Balfour.” Nel sommario egli riassume il ragionamento nel modo seguente:

Il documento che la Gran Bretagna redasse per governare la Palestina (mandato sulla Palestina) chiedeva la creazione del focolare nazionale ebraico citato nella Dichiarazione Balfour. Tuttavia il governo della Gran Bretagna sulla Palestina, presumibilmente soggetto allo schema mandatario della Lega delle Nazioni, non ebbe mai basi legali. Secondo la sua Convenzione, la Lega delle Nazioni non aveva il potere di attribuire valore giuridico al Mandato sulla Palestina o di dare alla Gran Bretagna il diritto di governarla.

La Gran Bretagna non riuscì a ottenere la sovranità, che era un prerequisito per governare la Palestina o per detenere il mandato. La Gran Bretagna diede spiegazioni diverse in momenti diversi nel tentativo di dimostrare di detenere la sovranità. Le Nazioni Unite non misero in discussione la posizione giuridica della Gran Bretagna in Palestina, ma accettarono la legittimità del mandato sulla Palestina come base per la divisione del Paese. Fino ad oggi il problema dei diritti territoriali nella Palestina storica rimane irrisolto.”

Secondo Quigley la Gran Bretagna non andò mai oltre lo status di occupante belligerante. Nel suo libro del 2022 Britain and its Mandate Over Palestine: Legal Chicanery on a World Stage [La Gran Bretagna e il suo mandato sulla Palestina: inganno giuridico sulla scena mondiale] sviluppa questo argomento con una grande quantità di prove schiaccianti. Inganno non è una parola troppo forte per descrivere il modo in cui la Gran Bretagna manipolò la Lega delle Nazioni per ottenere il potere sulla Palestina o in cui abusò di questo potere per trasformare la Palestina da uno Stato a maggioranza araba a uno a maggioranza ebraica.

L’obbligo di proteggere i diritti degli arabi

L’importanza di includere l’impegno per un focolare nazionale ebraico non può essere sottovalutato. È ciò che differenziò fondamentalmente il mandato sulla Palestina dagli altri mandati per le province mediorientali dell’Impero Ottomano.

Il mandato britannico per l’Iraq, quello francese per Siria e Libano riguardavano tutti la preparazione della popolazione locale all’autogoverno. Il mandato sulla Palestina riguardava il fatto di consentire a stranieri, ebrei da ogni parte del mondo, ma soprattutto dall’Europa, di unirsi ai loro correligionari in Palestina e trasformare il Paese in un’entità nazionale controllata da ebrei.

Il mandato includeva un obbligo esplicito di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi, le “comunità non ebraiche in Palestina”. La Gran Bretagna non protesse affatto questi diritti. Il primo alto commissario britannico per la Palestina, sir Herbert Samuel, era sia ebreo che fervente sionista.

Durante il suo incarico la Gran Bretagna introdusse una serie di ordinanze che consentirono un’illimitata immigrazione ebraica in Palestina e l’acquisizione da parte degli ebrei di terre coltivate per generazioni da palestinesi.

Gli arabi chiesero delle restrizioni all’immigrazione e all’acquisizione di terre da parte degli ebrei. Chiesero anche un’assemblea nazionale democraticamente eletta che sarebbe stata un riflesso della situazione demografica. La Gran Bretagna resistette a tutte queste richieste e impedì l’introduzione di istituzioni democratiche. Le linee guida fondamentali della politica mandataria erano di non concedere elezioni finché gli ebrei non fossero diventati maggioranza.

Nel 1936 scoppiò una rivolta araba contro il dominio britannico sulla Palestina. Fu una rivolta nazionalista che durò fino al 1939. Per reprimerla venne schierato l’esercito britannico, che agì con la massima brutalità e spesso in violazione delle leggi di guerra. I suoi metodi includevano tortura, uso di scudi umani, detenzioni senza processo, draconiane norme d’emergenza, esecuzioni sommarie, punizioni collettive, demolizioni di case, villaggi dati alle fiamme e bombardamenti aerei.

Buona parte di questa violenza non venne diretta solo contro i ribelli, ma contro contadini sospettati di aiutarli e di essere loro complici. La repressione dell’insurrezione da parte dei britannici indebolì gravemente la società palestinese: circa 5.000 palestinesi vennero uccisi, 15.000 feriti e 5.500 incarcerati.

Il tradimento finale dei britannici

L’eminente storico palestinese Rashid Khalidi ha sostenuto, a mio parere in modo convincente, che la Palestina non venne persa alla fine degli anni ’40, come si crede comunemente, ma alla fine degli anni ’30. La principale ragione che fornisce dal suo punto di vista è il danno devastante che la Gran Bretagna inflisse alla società palestinese e alle sue forze paramilitari durante la rivolta araba. Questo argomento viene proposto nel capitolo di Khalidi in un libro co-curato da Eugene Rogan e da me: The War for Palestine: Rewriting the History of 1948 [La guerra per la Palestina: riscrivere la storia del 1948].  

Il tradimento finale dei britannici nei confronti dei palestinesi avvenne mentre la lotta per la Palestina entrava nella sua fase cruciale in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. All’epoca la Gran Bretagna si scontrò con i suoi protetti, i sionisti, e gli estremisti tra loro condussero una campagna di terrore destinata a cacciare le forze inglesi dal Paese. L’episodio più noto di questa violenta campagna fu l’attentato nel luglio 1946 contro l’hotel King David a Gerusalemme, che ospitava gli uffici amministrativi britannici, da parte dell’Irgun, l’Organizzazione Militare Nazionale.

In seguito a questo e altri attacchi il governo britannico sotto attacco decise di rimettere unilateralmente il mandato. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono una risoluzione per la partizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo.

Gli ebrei accettarono la partizione e gli arabi la rifiutarono. Di conseguenza la Gran Bretagna rifiutò di realizzare il piano di partizione dell’ONU in quanto esso non godeva del supporto di entrambe le parti.

Tuttavia c’era un’altra ragione: l’ostilità nei confronti della causa nazionale palestinese. Il movimento nazionalista palestinese era guidato da Hajj Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme, che era in dissenso con i britannici e aveva lasciato il Paese durante la rivolta araba.

Agli occhi degli inglesi uno Stato palestinese era sinonimo di uno Stato del muftì. L’ostilità verso i dirigenti palestinesi e uno Stato palestinese fu pertanto una costante e un fattore caratterizzante nella politica estera britannica dal 1947 al 1949.

Il mandato terminò alla mezzanotte del 14 maggio 1948. L’uscita britannica dalle difficoltà fu incoraggiare un suo sottoposto, re Abdullah di Giordania, a invadere la Palestina allo spirare del mandato, e di conquistare la Cisgiordania, che l’ONU aveva destinato allo Stato arabo. Nel frattempo l’astuto re aveva raggiunto un tacito accordo con l’Agenzia Ebraica per dividere la Palestina tra loro a spese dei palestinesi.

Il tacito accordo era che gli ebrei avrebbero fondato uno Stato ebraico nella loro parte di Palestina, mentre Abdullah avrebbe conquistato il controllo sulla parte araba, e che avrebbero fatto la pace dopo che si fossero calmate le acque.

Falsa neutralità

Durante la guerra civile scoppiata in Palestina nel periodo precedente al 14 maggio, la Gran Bretagna rimase defilata, abdicando alla sua responsabilità di mantenere la legge e l’ordine. La sua falsa neutralità aiutò inevitabilmente la parte sionista, più forte. Durante gli ultimi mesi del mandato, le forze paramilitari sioniste passarono all’offensiva e intensificarono la pulizia etnica del Paese.

La prima grande ondata di rifugiati palestinesi avvenne sotto gli occhi dei britannici. La Gran Bretagna di fatto abbandonò i nativi palestinesi alla mercé dei colonialisti d’insediamento sionisti. In breve la Gran Bretagna creò attivamente le condizioni della fine del suo stesso egocentrismo imperialista, in cui potesse svolgersi la catastrofe palestinese, la “Nakba”. Un filo mai spezzato di doppiezza, menzogne, inganni e imbrogli unisce la politica estera britannica dall’inizio del suo mandato fino alla Nakba.

Il modo in cui il mandato finì fu la peggiore vergogna dell’intera esperienza britannica come principale potenza al governo della Palestina. Dimostrò quanto poco importasse alla Gran Bretagna del popolo che avrebbe dovuto proteggere e preparare all’autogoverno.

Quando la situazione si fece difficile il potere mandatario semplicemente se la diede a gambe. Non ci fu nessun passaggio ordinato del potere a un’entità locale. La “sacra fiducia nella civiltà” venne definitivamente, irreversibilmente e imperdonabilmente brutalizzata e tradita.

Il sogno di lord Balfour diventò un incubo per i palestinesi. Nella coscienza collettiva dei palestinesi la Nakba non è un evento isolato, ma un processo storico continuo. Oggi oltre 5,9 milioni di rifugiati sono registrati dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Hanan Ashrawi ha coniato il termine “Nakba continua” per denotare la persistente esperienza palestinese di violenza e spoliazione per mano del colonialismo d’insediamento sionista. In un discorso alla conferenza dell’ONU del 2001 si riferì al popolo palestinese come “una nazione in cattività tenuta in ostaggio da una continua Nakba in quanto la più articolata e pervasiva espressione dell’apartheid, del razzismo e della vittimizzazione persistenti.”

Contraddizioni nella politica britannica

È triste dover aggiungere che nessun governo britannico ha mai chiesto scusa per la parte giocata dalla Gran Bretagna nella castrazione della Palestina storica. Gli ultimi cinque primi ministri conservatori, a cominciare da David Cameron, sono stati tutti accaniti sostenitori di Israele.

Nel 2017, nel centenario della Dichiarazione Balfour, l’allora prima ministra Theresa May affermò che fu “una delle lettere più importanti della storia. Dimostra il ruolo fondamentale della Gran Bretagna nella creazione di una patria per il popolo ebraico. Ed è un anniversario che celebreremo con orgoglio.” Non menzionò affatto le vittime palestinesi di questa importante lettera.

Nel suo libro del 2014 The Churchill Factor [Il Fattore Churchill] Boris Johnson descrive la Dichiarazione Balfour come “bizzarra”, “un documento tragicamente incoerente” e “una squisita opera indicibile del ministero degli Esteri”. Ma nel 2015 in un viaggio in Israele come sindaco di Londra Johnson celebrò la Dichiarazione Balfour come “un’ottima cosa”.

Nell’ottobre 2017, nel suo ruolo di ministro degli Esteri, Johnson avviò una discussione sulla Dichiarazione Balfour alla Camera dei Comuni. Ribadì l’orgoglio britannico per la parte giocata nella creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Nonostante una larga maggioranza per il riconoscimento della Palestina come Stato, si rifiutò di farlo, affermando che non era il momento.

Ciò evidenziò una fondamentale contraddizione al cuore della politica britannica: sostenere la soluzione a due Stati ma riconoscerne solo uno.

Toccò a chi sostituì Johnson, Liz Truss, dimostrare la profonda indifferenza dei politici conservatori inglesi nei confronti della sensibilità palestinese e fino a che punto essi sarebbero arrivati per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori acritici in quel Paese. Durante la sua campagna per l’elezione a leader del partito Conservatore, ventilò l’idea di spostare l’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme.

Fortunatamente durante i suoi 49 giorni come prima ministra Truss non riuscì a dare seguito a questa idea idiota.

L’attuale politica estera britannica non si è scusata per la Nakba ed è spudoratamente filosionista. Il 21 marzo 2023 un documento programmatico stilato dal governo è stato intitolato “Percorso per le relazioni bilaterali tra Regno Unito e Israele fino al 2030”. Questo documento tratta di commercio e cooperazione in una vasta gamma di settori.

Ma include anche l’impegno britannico a opporsi al deferimento del conflitto israelo-palestinese alla Corte Internazionale di Giustizia, al movimento globale, di base e non violento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per porre fine all’occupazione israeliana e a lavorare per ridurre la supervisione all’ONU su Israele.

In breve, il documento programmatico concede a Israele l’intera gamma di immunità per le sue azioni illegali e i suoi veri e propri crimini contro il popolo palestinese. Come tale, è un fedele riflesso della parzialità filosionista della politica estera britannica nel corso degli ultimi 100 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito di Relazioni Internazionali all’università di Oxford e autore di “The Iron Wall: Israel and the Arab World” [Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo, Il Ponte editore] (2014) e di “Israel and Palestine: Reappraisals, Revisiones, Refutations” [Israele e Palestina: ripensamenti, revisioni, refutazioni] (2009).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una parlamentare statunitense reintroduce un disegno di legge per ridurre gli aiuti a Israele

Redazione di Middle East Eye

8 maggio 2023 – Middle East Eye

Presentato per la prima volta nel 2021, il disegno di legge chiede a Israele di smettere di utilizzare il denaro dei contribuenti per fare del male ai bambini palestinesi.

La parlamentare USA Betty McCollum ha ripresentato il suo disegno di legge per vietare al governo israeliano di usare i dollari dei contribuenti americani per commettere violenze sui bambini palestinesi.

Il disegno di legge denominato “Legge per difendere i diritti umani dei bambini palestinesi e delle famiglie che vivono sotto occupazione militare israeliana”, è stato presentato una prima volta nel 2021 e ripresentato venerdì scorso.

In una dichiarazione McCollum ha affermato che il Congresso ha la responsabilità di non ignorare “i maltrattamenti ampiamente documentati dei bambini e delle famiglie palestinesi” sotto occupazione israeliana.

Non 1 dollaro degli Stati Uniti deve essere impiegato per commettere violazioni dei diritti umani, demolire le case delle famiglie o annettere permanentemente terre palestinesi”, ha detto McCollum.

Ogni anno gli Stati Uniti forniscono miliardi di aiuti al governo israeliano e quei dollari devono essere indirizzati alla sicurezza di Israele, non ad azioni che violano il diritto internazionale e provocano danni.”

Il progetto di legge riporta una descrizione degli abusi israeliani contro i palestinesi sotto occupazione, inclusa l’incriminazione di minori in tribunali militari.

Il progetto di legge sostiene che “Nella Cisgiordania occupata da Israele ci sono due sistemi giuridici separati e diseguali, in cui ai palestinesi viene imposto il diritto militare, mentre ai coloni israeliani si applica il diritto civile israeliano”.

Il governo di Israele ed il suo esercito detengono ogni anno dai 500 ai 700 minori palestinesi di età tra i 12 e i 17 anni e li processano dinanzi a un sistema di tribunali militari che manca delle fondamentali e basilari garanzie del giusto processo, in violazione degli standard internazionali.”

Inoltre il disegno di legge chiede al governo israeliano di smettere di usare il denaro statunitense per sequestrare e distruggere le proprietà e le case palestinesi in violazione del diritto internazionale e di non usare denaro statunitense per agevolare l’annessione unilaterale delle terre palestinesi.

Attualmente vi sono 16 copresentatori del progetto di legge, incluse: Alexandra Ocasio Cortez, Rashida Tlaib, Ilhan Omar, Ayanna Pressley, Cory Bush e Barbara Lee.

Il progetto è appoggiato anche da più di 76 organizzazioni, comprese: Human Rights Watch, Amnesty International, Jewish Voice for Peace Action, J Street, US Campaign for Palestinian Rights e Ifnotnow Movement.

Importanti associazioni della società civile, come anche organizzazioni cristiane, ebraiche e musulmane, hanno firmato in appoggio a questo disegno di legge – perché noi tutti concordiamo che nessun bambino palestinese o ebreo debba andare a dormire la notte con la paura di continue violenze”, ha detto McCollum. 

Esiste una strada per un futuro di pace e richiede di seguire i nostri valori statunitensi di democrazia e giustizia uguale per tutti.”

Se il numero di copresentatori del progetto è scarso, l’iniziativa gode di grande appoggio da parte della base elettorale democratica.

Nel 2021 la società di sondaggi ‘Data for Progress’ riportava che il 72% dei democratici approvava il progetto legislativo.

McCollum è stata una convinta fautrice dei diritti dei palestinesi nel Congresso, ha sostenuto le leggi per commemorare la Nakba e limitare gli aiuti USA a Israele ed ha condannato le violazioni israeliane dei diritti umani, comprese le demolizioni di case e la detenzione di minori palestinesi.

E’stata anche spesso attaccata dalle associazioni lobbistiche filoisraeliane come Aipac.

Nel 2020 a McCollum è stato assegnato il premio ‘Campione dei diritti dei palestinesi’ da parte dei Musulmani Americani per la Palestina, per la sua proposta legislativa riguardo alla detenzione di minori palestinesi

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




CPJ: Israele “non si assume alcuna responsabilità” per l’uccisione di giornalisti

AL JAZEERA

9 maggio 2023 – Aljazeera

L’impunità dell’esercito israeliano nell’uccisione di almeno 20 giornalisti negli ultimi 20 anni mina “gravemente” la libertà di stampa, afferma il rapporto del CPJ.

Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) afferma in un nuovo duro rapporto che l’esercito israeliano non si è assunto alcuna responsabilità per l’uccisione di almeno 20 giornalisti, 18 dei quali palestinesi, negli ultimi 20 anni.

Nel suo rapporto, Deadly Pattern, pubblicato martedì, questa organizzazione a tutela della libertà di stampa dichiara di aver riscontrato “uno schema sistematico nelle uccisioni di giornalisti da parte [dell’esercito israeliano]”.

“Nessuno è mai stato accusato o ritenuto responsabile di queste morti… minando con ciò gravemente la libertà di stampa”, aggiunge.

Il CPJ afferma che i palestinesi costituiscono l’80% dei giornalisti e degli operatori dei media uccisi dall’esercito israeliano.

Queste cifre riflettono in parte l’andamento generale del conflitto israelo-palestinese; secondo i dati delle Nazioni Unite negli ultimi 15 anni i sono stati uccisi 21 volte più palestinesi che israeliani, aggiunge il rapporto.

Inoltre il rapporto evidenzia che “gli ufficiali israeliani sminuiscono le prove e le affermazioni dei testimoni, e spesso sembrano scagionare i soldati per le uccisioni mentre le indagini sono ancora in corso”, e aggiunge che le indagini dell’esercito israeliano sulle uccisioni sono una “scatola nera”, con risultati tenuti segreti.

Nello svolgimento delle indagini l’esercito israeliano spesso impiega mesi o anni per investigare sugli omicidi, e le famiglie dei giornalisti, per lo più palestinesi, hanno poche risorse all’interno di Israele per perseguire la giustizia”, afferma il CPJ.

Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, afferma nel rapporto che l’esame da parte di Israele delle azioni dei suoi soldati è meno seria di una “rappresentazione teatrale di un’indagine”.

Vogliono renderla credibile. Eseguono gli atti, le procedure richiedono molto tempo, molte scartoffie”, riferisce a CPJ. “Ma alla fine … è l’impunità quasi totale per le forze di sicurezza”.

Il rapporto afferma che le organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente sollevato preoccupazioni circa “la… lentezza di queste valutazioni totalmente riservate, che possono trascinarsi per mesi o anni”, durante le quali “i ricordi dei testimoni svaniscono, le prove possono scomparire o essere distrutte e i soldati coinvolti possono far coincidere le testimonianze”.

L’uccisione di Shireen Abu Akleh

Il rapporto arriva due giorni prima del primo anniversario dell’uccisione della giornalista veterana di Al Jazeera Shireen Abu Akleh da parte di un proiettile israeliano alla testa mentre l’11 maggio 2022 conduceva un reportage su un raid militare israeliano nella città occupata di Jenin in Cisgiordania.

Nel settembre 2022 un’indagine congiunta di Forensic Architecture, organizzazione di ricerca multidisciplinare, e dell’organizzazione per i diritti dei palestinesi Al-Haq ha rivelato che le prove confutavano la versione di Israele secondo cui Abu Akleh sarebbe stata uccisa per “errore”.

L’inchiesta ha esaminato l’angolo di tiro del cecchino israeliano e ha concluso che era in grado di vedere chiaramente che in quel luogo c’erano i giornalisti. Ha anche escluso la possibilità che in quel momento ci fossero degli scontri tra forze israeliane e palestinesi, che avrebbero potuto dar luogo ad un fuoco incrociato.

Secondo l’inchiesta, per la quale Al Jazeera ha fornito del materiale, il cecchino israeliano ha sparato per due minuti e ha preso di mira coloro che cercavano di soccorrere Abu Akleh.

I risultati sono arrivati lo stesso giorno in cui la famiglia della giornalista palestinese americana di 51 anni ha formalmente presentato una denuncia ufficiale alla Corte Penale Internazionale (CPI) chiedendo giustizia per la sua uccisione.

Israele ha dichiarato a settembre che c’era una “alta possibilità” che Abu Akleh fosse stata “accidentalmente colpita” dal fuoco dell’esercito israeliano, ma ha aggiunto che non avrebbe avviato un’indagine penale.

“Mancato rispetto” della stampa cercando di imporre false narrazioni

Come Abu Akleh, che quando è stata uccisa indossava un casco e un giubbotto protettivo blu con la scritta “Press”, la maggior parte dei 20 giornalisti uccisi al momento della loro morte erano “chiaramente identificabili come membri dei media o si trovavano all’interno di veicoli con insegne della stampa, si legge nel rapporto.

Il rapporto afferma anche che dopo che un giornalista viene ucciso dalle forze di sicurezza israeliane gli ufficiali israeliani “spesso inviano ai media una contro-narrazione” nel tentativo di allontanare ogni responsabilità dai loro soldati.

Il CPJ ha sottolineato che nel caso di Abu Akleh gli ufficiali israeliani hanno iniziato a incolpare dei palestinesi nonostante i testimoni e il ministero della salute palestinese affermassero che era stata uccisa dalle truppe israeliane. Israele ha anche accusato alcuni giornalisti palestinesi uccisi dai suoi sodati di “attività terroristica e militante”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele demolisce la scuola elementare palestinese di un villaggio cisgiordano vicino a Betlemme

Hagar Shezaf

8 maggio 2023 Haaretz

L’Unione Europea e il Ministero degli Esteri tedesco condannano la demolizione fatta da Israele di una scuola in Cisgiordania frequentata da decine di alunni palestinesi

Domenica l’amministrazione civile israeliana in Cisgiordania ha demolito una scuola elementare palestinese vicino a Betlemme, frequentata da molti studenti, a seguito della sentenza del tribunale distrettuale su una petizione presentata dalla ONG di destra Regavim [ONG israeliana pro-coloni ndt.], co-fondata dal Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich.

La scuola, situata nel villaggio beduino di Jubbet ad-Dib, è stata costruita sei anni fa e accoglieva studenti sia di Jubbet ad-Dib che di Beit Ta’mir. Prima che fosse costruita i bambini della zona dovevano percorrere ogni giorno circa tre chilometri per raggiungere la scuola più vicina. Dopo la demolizione, gli abitanti hanno allestito una tenda nello stesso punto dove programmano di tenere le lezioni.

L’UE, che ha contribuito a finanziare la costruzione della scuola, ha condannato la demolizione definendola una violazione del diritto dei bambini all’istruzione e dicendo di “aver seguito da vicino questo caso e chiesto alle autorità israeliane di non eseguire la demolizione”.

La dichiarazione ha sottolineato inoltre che tali demolizioni sono “illegali ai sensi del diritto internazionale, e il diritto dei bambini all’istruzione deve essere rispettato. L’UE invita Israele a fermare tutte le demolizioni e gli sgomberi, che non faranno che aumentare le sofferenze della popolazione palestinese e rischiano di infiammare le tensioni nel territorio.”

Anche il portavoce del Ministero degli Esteri tedesco ha condannato la demolizione, affermando che la distruzione della scuola “mina” il processo di pace e “sarà discussa con le autorità israeliane”.

Poiché la scuola è stata costruita senza un permesso formale da parte di Israele, il tribunale aveva ordinato l’interruzione dei lavori durante la sua costruzione. Il tentativo di ricevere retroattivamente un permesso per la scuola è stato successivamente respinto. L’avvocato Haytham Khatib della Society of St. Yves, un gruppo cattolico per i diritti umani, ha presentato una petizione contro il rifiuto, ma Regavim ha insistito per la demolizione della scuola.

Il tribunale alla fine si è pronunciato a favore di Regavim, basando la sua decisione su un parere ufficiale emesso nel 2018 in cui si affermava che la scuola aveva problemi di sicurezza e poteva crollare in caso di terremoto.

“Ci dicono che la scuola non è sicura per i bambini, ma non ci permettono di fare nulla. [Non possiamo] ripararla o intervenire su di essa”, dice Halin Musa Sabah, residente a Beit Ta’mir, uno dei proprietari del sito in cui è stata costruita la scuola e zio di uno degli studenti. Secondo Sabah, la scuola “è stata costruita in modo che i nostri figli possano ricevere un’istruzione, che è un diritto di ogni bambino”.

L’attivista Hassan Brijia, membro del comitato contro la barriera di separazione israeliana e gli insediamenti nell’area di Betlemme, afferma che Israele non rilascia permessi di costruzione ai beduini e che la scuola era “essenziale per la vita in questa zona.”

E chiede ” Gli studenti più grandi hanno dieci anni. Rappresentano davvero un tale pericolo per Israele?”.

“L’organizzazione di Bezalel Smotrich [Ministro delle Finanze] ha presentato la petizione contro la scuola e ora Smotrich ne esegue la demolizione”, afferma Brijia – una constatazione con cui Sabah è d’accordo.

“Smotrich ha detto che Huwara deve essere spazzata via e ora ha spazzato via la nostra scuola”, aggiunge Sabah. “Come puoi guardare i bambini che piangono? Come puoi guardare un bambino di sei anni che singhiozza? Come puoi spiegarglielo? Che specie di persona puoi aspettarti cresca in una realtà del genere?”

Dopo che domenica la notizia della demolizione è stata resa pubblica, Regavim ha pubblicato la seguente dichiarazione: “Questo edificio è solo una delle centinaia di scuole illegali costruite in Giudea e Samaria come parte del metodo palestinese di prendere il controllo della terra”.

L’organizzazione ha anche pubblicato un rapporto sull’argomento come elemento della sua guerra in corso contro quelle che dice essere scuole palestinesi illegali nella regione.

Shlomo Ne’eman, capo sia del Consiglio Yesha, organizzazione ombrello che rappresenta gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, che del Consiglio regionale di Gush Etzion ha accolto con favore la demolizione, definendola “un altro passo nella nostra continua battaglia per i territori della nostra nazione. Abbiamo ancora molto lavoro da fare”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




La continua sorveglianza israeliana dei palestinesi ha un ‘effetto dissuasivo’

Usaid Siddiqui

7 maggio 2023Al Jazeera

Attivisti palestinesi dicono che il nuovo programma israeliano di riconoscimento facciale, denunciato da Amnesty International, contribuisce a rafforzare ulteriormente l’occupazione

L’ultima rivelazione dell’organizzazione per i diritti umani Amnesty International sull’utilizzo sempre crescente della tecnologia di riconoscimento facciale da parte di Israele contro i palestinesi non è stata una sorpresa per l’attivista Issa Amro.

Lo vivo, lo sento, ne soffro, il mio popolo ne soffre,” dice ad Al Jazeera da Hebron.

Il 2 maggio Amnesty ha pubblicato un rapporto intitolato Automated Apartheid [Apartheid automatizzato], in cui si descrive nei dettagli il funzionamento del programma israeliano Red Wolf [Lupo Rosso], una tecnologia di riconoscimento facciale usata dall’anno scorso per tracciare i palestinesi e che sembrerebbe collegata a simili programmi precedenti, noti come Blue Wolf e Wolf Pack [Lupo blu, Branco di lupi].

La tecnologia è stata utilizzata ai posti di blocco nella città di Hebron e in altre parti della Cisgiordania occupata scansionando i volti dei palestinesi e confrontandoli con i database esistenti.

Amnesty ha rivelato che, se nei database esistenti non si trovano informazioni sull’individuo, lo si registra nel Red Wolf automaticamente e senza consenso e potrebbe persino essere negato il passaggio attraverso il checkpoint.

In una dichiarazione a The New York Times l’esercito israeliano ha detto che si eseguono “necessarie operazioni di sicurezza e intelligence, con sforzi notevoli per minimizzare i danni alle normali attività quotidiane della popolazione palestinese’’.

Lo scrittore palestinese Jalal Abukhater ha affermato che i sistemi di sorveglianza sono utilizzati per far capire ai palestinesi di non avere diritti.

La gente sente questo effetto dissuasivo, non socializza o non si sposta così liberamente come vorrebbe, non vive normalmente come vorrebbe,” ci ha detto Abukhater dalla Gerusalemme Est occupata.

Questa forma di sistema di sorveglianza è utilizzata proprio per rafforzare l’occupazione… vogliono preservare l’apartheid.”

Secondo Amnesty la rete di sorveglianza con riconoscimento facciale è stata rafforzata anche a Gerusalemme Est, anche nelle vicinanze di luoghi di interesse culturale come la Porta di Damasco, il più ampio ingresso alla Città Vecchia e luogo di frequenti proteste contro le forze di occupazione.

L’anno scorso a febbraio Amnesty ha detto che Israele sta imponendo l’apartheid contro i palestinesi, trattandoli come “un gruppo razziale inferiore”. Altre organizzazioni, fra cui Human Rights Watch, con sede negli USA, e l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, sono arrivate a conclusioni simili.

Hebron, occupata da Israele nel 1967, è divisa in due parti: H1, amministrata dall’Autorità Palestinese, e H2, amministrata da Israele in base all’accordo su Hebron del 1997.

Ci sono circa 200.000 palestinesi che vivono in entrambe le parti e parecchie centinaia di coloni israeliani che sono fortemente protetti dall’esercito israeliano.

I palestinesi sono regolarmente costretti a passare tramite i checkpoint e a loro viene impedito di servirsi di parecchie strade importanti e autostrade.

Un laboratorio’

L’attivista Amro dice che i palestinesi che vivono a Hebron sono diventati meri “oggetti” di quelli che lui chiama “esperimenti israeliani”.

Per le loro aziende per soluzioni di sicurezza Hebron è diventato un laboratorio per fare simulazioni, per identificare e risolvere problemi usandoci e commercializzare le loro tecnologie,” dice. “Noi non abbiamo voce in capitolo.”

Israele è annoverato fra i maggiori esportatori di tecnologie cibernetiche di monitoraggio di civili in vari Paesi, tra cui Colombia, India e Messico.

L’azienda di cibersicurezza israeliana NSO Group è stata molto criticata per Pegasus, il suo software di punta, un sistema di spionaggio usato da decine di Paesi per hackerare i telefonini.

Sono stati presi di mira centinaia di giornalisti, attivisti e persino capi di Stato.

Inoltre, aggiunge lo scrittore Abukhater, Israele ha bisogno dei programmi di cibersicurezza come Red Wolf per mantenere i suoi progetti di colonie illegali che si stanno espandendo nei territori occupati.

Tecnologie di sorveglianza come questa [riconoscimento facciale] sono importanti, specialmente dove Israele sta introducendo coloni nel cuore delle cittadine palestinesi. Il fatto che [le colonie] si addentrino profondamente nei quartieri palestinesi in posti come Gerusalemme Est e Hebron crea un sacco di problemi,” dice.

È [la tecnologia di sorveglianza] un modo per controllare i palestinesi e far sì che l’espansione delle colonie continui senza essere ostacolata dalla resistenza palestinese.”

Secondo le Nazioni Unite le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali e in “flagrante violazione” del diritto internazionale.

Sempre osservati’

Secondo Amro gli apparati di sorveglianza hanno avuto un effetto significativo sui movimenti quotidiani dei palestinesi, lui incluso.

Mi sento sempre osservato. Mi sento sempre monitorato … inclusi i miei social media, quando entro e esco da casa mia,” dice.

Delle donne mi hanno chiesto se loro possono vederle nelle camere da letto… è straziante sentire che le donne sono preoccupate per la loro intimità con i mariti, per i loro cari,” aggiunge.

Secondo l’ingegnere elettronico, 43enne, le famiglie sono state costrette ad andarsene da Hebron, massicciamente sorvegliata, in quartieri meno controllati.

Non ti sfrattano direttamente da casa tua. Ma ti rendono impossibile restarci… e molto dipende da queste tecnologie [di sorveglianza] e telecamere ovunque,” dice Amro.

Ori Givati, direttore di advocacy di Breaking The Silence [Rompere il Silenzio] un’organizzazione per i diritti umani di ex soldati israeliani e lui stesso un ex soldato israeliano, dice che i palestinesi “non hanno più spazio privato”.

Se nel passato alcuni pensavano che almeno le loro informazioni private erano sotto il loro controllo, noi abbiamo tolto loro anche quello.”

Per parecchi anni Amnesty ha invocato la proibizione dell’uso della tecnologia di riconoscimento facciale per la sorveglianza di massa, dicendo che era usata per “soffocare le proteste” e “tormentare le minoranze”.

Negli Stati Uniti il riconoscimento facciale ha finito per prendere ingiustamente di mira persone di razza mista. Molte città come Portland e San Francisco hanno proibito il suo utilizzo da parte delle forze di polizia locali, mentre altre stanno discutendo misure simili.

L’utilizzo del riconoscimento facciale ha accelerato il passo in India, dove le autorità l’hanno usato per monitorare raduni politici e proteste contro il partito di governo di estrema destra, il Bharatiya Janata Party, sollevando i timori di un giro di vite contro il dissenso e la libertà di espressione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)