Dispaccio dalla Cisgiordania: lo stato di guerra dei coloni sionisti

Mondoweiss Ufficio Palestina

10 aprile 2023, Mondoweiss

I recenti attacchi ad Al-Aqsa, i continui arresti e omicidi di combattenti della resistenza e la marcia dei coloni sul monte Sbeih indicano un rinnovato impegno all’etica sionista delle origini. Ciò porterà inevitabilmente a uno scontro di ampia portata.

Principali sviluppi (7–10 aprile)

All’alba di lunedì mattina 10 aprile le forze israeliane hanno invaso il campo profughi di Aqbat Jabr e ucciso il diciottenne Mohammad Fayez Mohammad Oweidat. Durante l’invasione militare sono stati anche arrestati Yasin Omar Izzat Hunaifa e Mohammad Eid Abu Dahouk. Il mese scorso, le forze israeliane hanno invaso Aqbat Jabr e ucciso sei palestinesi.

Lunedì mattina 10 aprile a dir poco sette ministri israeliani hanno guidato migliaia di coloni in una manifestazione sul monte Sbeih nella città di Beita, 13 chilometri a sud-est di Nablus. Almeno un giornalista palestinese è rimasto ferito secondo i giornalisti locali presenti sulla scena, mentre secondo la Mezzaluna Rossa nelle prime due ore più di 121 palestinesi sono stati feriti. Dal 2021 i coloni israeliani hanno cercato di impossessarsi con la forza delle terre nell’area, ma sono stati ostacolati dall’opposizione organizzata dei palestinesi.

Durante il fine settimana l’aviazione israeliana ha lanciato attacchi aerei sulla Siria sostenendo di mirare ad agenti militari iraniani e ad un gruppo armato palestinese assadista [corrente politica del Partito Ba’th che sostiene le politiche di Àsad, ndt.] 

Nonostante gli accordi del comunicato congiunto mediato il mese scorso da Giordania ed Egitto, Israele ha approvato sei nuovi insediamenti in Cisgiordania.

Centinaia di coloni israeliani continuano nel quinto giorno della pasqua ebraica le incursioni armate nel sacro spazio di culto musulmano, il complesso di Al-Aqsa.

A seguito dello speronamento di un’auto venerdì che ha provocato la morte di un italiano e il ferimento di almeno altre quattro persone, la famiglia del palestinese ucciso ha negato la versione della polizia che si sia trattato di un attacco e afferma che si è trattato di un incidente automobilistico.

Approfondimento

La scorsa settimana l’assalto israeliano ai luoghi del Ramadan in Gerusalemme ha minacciato di trasformarsi nel corso della settimana in una guerra a tutto campo, con razzi lanciati dal Libano sulle zone settentrionali ai confini dello Stato israeliano in risposta alle provocazioni israeliane ad Al-Aqsa. Molti avrebbero potuto definire prevedibile questo sviluppo, poiché offre a Netanyahu una comoda scusa per sfuggire alla crisi interna sulla revisione giudiziaria proposta dal suo governo, forzando Israele all’unità di fronte a una minaccia esterna. La gente di Gaza lo prevedeva già da settimane, temendo che la striscia assediata sarebbe stata usata ancora una volta come pedina nelle battaglie interne del regime israeliano. Questo è ciò che ha portato alcuni a credere che la brutale repressione dei fedeli ad Al-Aqsa la scorsa settimana sia stata una deliberata provocazione israeliana per spingere Gaza a rispondere con il lancio di razzi. Quello che nessuno si aspettava era che i razzi provenissero dal Libano.

La direzione della sicurezza israeliana ha insistito sul fatto che non sia stato Hezbollah a lanciare i razzi, ma che ne fossero invece responsabili gli agenti di Hamas – qualsiasi cosa pur di evitare uno scontro diretto con il gruppo politico libanese dominante da cui Israele aveva subito una sconfitta militare durante l’invasione del Libano nel 2006. Gli analisti della sicurezza israeliani hanno fatto eco a questa opinione cauta anche se venata di isteria, ritenendo che l’incidente rappresenti la “situazione più pericolosa e complessa della sicurezza che Israele abbia dovuto affrontare sul suo confine settentrionale dalla seconda guerra del Libano nell’agosto 2006”.

L’esercito israeliano ha bombardato le aree circoscritte da cui erano stati lanciati i razzi; giorni dopo, l’8 e il 9 aprile, altri razzi sono stati lanciati dalla Siria sulle alture del Golan da un gruppo palestinese assadista. Come prima Israele ha risposto in modo insolitamente moderato sparando contro il punto da cui erano stati lanciati i razzi. Gaza, d’altra parte, è stata colpita più duramente poiché un fuoco di fila israeliano ha squarciato i siti di resistenza in diverse parti della Striscia di Gaza e ha alimentato i timori dello scoppio di un’altra guerra su Gaza – che rimane il paravento più conveniente per Israele, il deus ex machina delle crisi politiche israeliane.

Nonostante i disordini nella regione sono continuati gli assalti congiunti dell’esercito israeliano e del movimento dei coloni di destra contro le comunità palestinesi. L’esercito israeliano ha invaso il campo profughi di Aqbat Jabr a Gerico e il campo profughi di al-Ain a Nablus, uccidendo un combattente della resistenza e arrestandone molti, mentre nel villaggio di Beita migliaia di coloni israeliani guidati da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich hanno marciato verso l’insediamento illegale di Evyatar evacuato (per rioccuparlo), e l’esercito israeliano ha ferito centinaia di contro-manifestanti palestinesi abitanti di Beita.

Il fatto che questo assalto di coloni e militari sia ostinatamente continuato senza badare alla minaccia di guerra dimostra due cose: in primo luogo che la presa da parte dei coloni sul governo israeliano ha reso il regime sionista più audace e più fedele all’ethos liberale sionista delle origini (“massimo di terra con un minimo di arabi”) rispetto a qualsiasi governo lo abbia preceduto, e in secondo luogo che questo impegno preventivo all’espansione coloniale a tutti i costi, privo della razionalità pragmatica della generazione sionista fondatrice – che, in certi momenti, si accontentò di limitare temporaneamente i progetti territoriali a favore del mantenimento della “purezza demografica” anche come tacita concessione alla resistenza armata palestinese – lancerà inevitabilmente e inesorabilmente Israele in uno scontro diretto non solo con i palestinesi ma con chiunque altro tenti di difenderli.

Questa eccezionale circostanza ha solo reso più reale la probabilità di uno scontro militare più ampio. Anche se né il governo israeliano né Hezbollah vogliono veramente tale conflitto, le forze sociali in gioco all’interno di Israele continueranno a creare le condizioni che lo rendono sempre più verosimile.

Tutto ciò è stato reso possibile da un unico filo rosso che passa dalla repressione ad al-Aqsa agli attacchi alla resistenza armata e alle marce dei coloni sul monte Sbeih: il sionismo ha raddoppiato il proprio sforzo verso il suo originale imperativo coloniale, e questo rinnovato impegno significa che l’imminente confronto, indipendentemente dalla forma che prenderà, è più vicino che mai.

Dati importanti

• Dall’inizio dell’anno, nel corso di 100 giorni, più di 98 palestinesi sono stati uccisi dalle forze armate e dai coloni israeliani. A marzo sono stati uccisi 14 israeliani.

• Nel primo trimestre del 2023 Israele ha rinnovato circa 800 ordini di detenzione amministrativa (AD – senza imputazione né processo, ndt.), raggiungendo il record più alto di arresti arbitrari da parte di Israele dal 2003.

• Dal 2021 più di 32.089 palestinesi sono stati feriti dalle forze e dai coloni israeliani, il 92% dei quali in Cisgiordania.

Da gennaio e fino al 30 marzo più di 413 palestinesi sono stati sfollati a seguito delle demolizioni israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

• Dall’inizio dell’anno circa 100 palestinesi sono stati arrestati nella sola Gerico, la maggior parte degli arresti concentrati nel campo profughi di Aqbat Jabr – inclusa l’incarcerazione di parenti stretti dei palestinesi uccisi durante gli omicidi extragiudiziali israeliani.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: un morto in seguito a una presunta aggressione con un auto a Tel Aviv

Redazione di MEE

7 aprile 2023 – Middle East Eye

La polizia uccide il guidatore che ha investito la folla, ma la famiglia nega sia stato un attacco

Secondo la polizia e i medici israeliani una persona è stata uccisa e sette altre sono state ferite venerdì a Tel Aviv dopo che un’auto si è schiantata sulla folla.

Le immagini mostrano una macchina che si lancia a tutta velocità verso i pedoni che camminano sul lungomare a Tel Aviv e poi si ribalta. Poliziotti e ispettori civili hanno poi sparato e ucciso il conducente. 

In una dichiarazione la polizia ha comunicato di aver fatto fuoco perché sembrava che l’autista stesse afferrando un “oggetto simile a un fucile”.

La polizia israeliana, che spesso fotografa e pubblica molto rapidamente armi usate negli attacchi, non ha postato alcuna prova dell’oggetto menzionato nel comunicato.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz una fonte della polizia ha detto che nell’auto è stata trovata una pistola giocattolo, non una pistola.

L’autista è stato identificato come Yousef Abu Jaber, 45 anni, un cittadino palestinese israeliano di Kafr Qasim, padre di cinque figlie. 

La sua famiglia ha detto ai media locali di dubitare che l’incidente sia stato un attacco premeditato. 

“Non crediamo che Yousef abbia potuto fare una cosa simile ed escludiamo che questo sia un attacco per motivi nazionalistici,” ha aggiunto un familiare.  

“Yousef aveva una famiglia, una moglie e cinque figlie da mantenere, era un buon padre, esemplare, e molti lo conoscevano per la sua gentilezza.”

Chi sono i cittadini palestinesi in Israele?

L’uomo ucciso nel presunto investimento è un italiano, il trentenne Alessandro Parini. Le altre sette persone ferite sono cittadini italiani o britannici. Tre sono in condizioni abbastanza serie e quattro sono feriti lievemente.  

Inizialmente la polizia israeliana ha definito l’incidente un “attacco terroristico” con “una sparatoria e uno speronamento da parte di un’auto”. Tuttavia Haaretz ha riferito che la polizia e lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, stanno esaminando la possibilità che non si sia trattato di un attacco terroristico. 

L’incidente è avvenuto dopo l’uccisione in mattinata di due israeliane in una sparatoria nella valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

La tensione in Israele e Palestina è molto alta dopo i ripetuti attacchi israeliani contro fedeli palestinesi nella moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme. 

Giovedì sono stati sparati razzi da Gaza e dal Libano verso Israele, a quanto pare come risposta agli attacchi contro i fedeli. A sua volta Israele ha lanciato un limitato numero di attacchi aerei. 

In seguito agli attacchi contro Al-Aqsa anche in Cisgiordania c’è stata un’impennata di attacchi con armi da fuoco da parte di palestinesi contro bersagli israeliani. Due soldati sono stati feriti in sparatorie separate mercoledì e giovedì a Hebron e Gerusalemme. 

Anche in vari paesi e città palestinesi in Israele, fra cui Umm Al-Fahm, Nazareth e Sakhnin, si sono svolte manifestazioni.

Temendo una ripetizione delle proteste di massa del 2021, la polizia israeliana ha stroncato violentemente le proteste e arrestato almeno 17 palestinesi cittadini in Israele. 

In precedenza il capo dell’esercito israeliano aveva affermato che, a causa dell’accrescere delle tensioni, sarebbero stati richiamati i riservisti. 

Kobi Shabtai, capo della polizia, ha anche chiesto che chi ha il porto d’armi cominci a portarle con sé.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché Israele attacca i fedeli nella moschea di Al-Aqsa?

Redazione di Middle East Eye

7 aprile 2023 MiddleEastEye

Le forze israeliane cacciano i fedeli palestinesi e incolpano i “rivoltosi” spianando la strada alle incursioni dei coloni

Questa settimana le forze israeliane hanno preso d’assalto per due notti consecutive la moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, aggredendo e arrestando i fedeli e scatenando una condanna globale.

Martedì notte decine di militari pesantemente armati hanno fatto irruzione nell’area, lanciando granate stordenti e sparando gas lacrimogeni nella sala di preghiera Qibli dove centinaia di fedeli si erano fermati per pregare durante la notte.

Le truppe israeliane hanno picchiato i fedeli con manganelli e pistole antisommossa, ferendone decine per poi arrestarne diverse centinaia.

Ventiquattro ore dopo militari armati hanno nuovamente preso d’assalto la moschea mentre circa 20.000 fedeli palestinesi stavano recitando le preghiere notturne Taraweeh del Ramadan [speciali preghiere che durante il Ramadan seguono la preghiera serale, ndt.].

Hanno sparato proiettili rivestiti di gomma, gas lacrimogeni e granate stordenti per liberare la moschea e hanno poi inseguito le persone per picchiarle con i manganelli.

Quale giustificazione hanno fornito le autorità israeliane per azioni così violente e brutali nel terzo luogo più sacro dell’Islam durante il mese più sacro della fede musulmana?

Giro di vite sulla devozione del Ramadan

Martedì, dopo le preghiere notturne di Taraweeh, decine di fedeli sono rimasti ad Al-Aqsa per praticare l’Itikaf, atto religioso non obbligatorio comune durante il Ramadan che prevede il pernottamento all’interno delle moschee per pregare, riflettere e recitare il Corano durante la notte.

Le autorità israeliane non consentono ai fedeli di praticare l’Itikaf se non negli ultimi dieci giorni del Ramadan, un divieto che i palestinesi si rifiutano di rispettare.

Inizialmente gli agenti israeliani sono stati avvistati intorno alle 22 mentre entravano nella moschea di Al-Aqsa, dove hanno iniziato ad allontanare le persone dai cortili.

Mentre quelli seduti nei cortili venivano cacciati, molti altri fedeli si sono rinchiusi all’interno della sala di preghiera Qibli per sfuggire alla repressione israeliana.

La polizia ha detto di essere entrata nel complesso perché “centinaia di rivoltosi e dissacratori della moschea si erano barricati” all’interno della moschea.

“Quando la polizia è entrata è stata accolta da lanci di pietre, e fuochi d’artificio sono stati sparati dall’interno della moschea da un folto gruppo di agitatori”, si legge in un comunicato.

Il controllo israeliano sulla Gerusalemme Est occupata, inclusa la Città Vecchia, viola diversi principi del diritto internazionale che stabiliscono che una potenza occupante non ha sovranità sul territorio che occupa e non può apportare cambiamenti permanenti in tale territorio.

Dopo i raid di martedì il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha detto: “Israele non vuole imparare dalla storia che al-Aqsa è per i palestinesi e per tutti gli arabi e i musulmani, e che l’assalto ha scatenato una rivoluzione contro l’occupazione”.

Strada spianata alle incursioni dei coloni

Mercoledì mattina presto le forze israeliane hanno nuovamente disperso i fedeli costringendoli a uscire dalla moschea.

Questa volta è stata un’azione delle forze armate per poter spianare la strada alle incursioni dei coloni israeliani, iniziate alle 7 del mattino.

Per facilitare queste quotidiane incursioni le truppe israeliane svuotano regolarmente la moschea dai palestinesi – fatte salve le cinque preghiere quotidiane.

Le associazioni del Temple Movement [movimento ebraico ortodosso estremista che vuole ricostruire il Terzo Tempio al posto della moschea Al-Aqsa e ripristinare la pratica del sacrificio rituale, ndt.] che sostengono la distruzione di Al-Aqsa hanno invocato attacchi di massa per tutta la settimana delle vacanze pasquali, iniziate giovedì.

La moschea di Al-Aqsa è un luogo islamico in cui sono vietate visite non sollecitate e preghiere e rituali da parte di non musulmani, secondo accordi internazionali pluridecennali.

Le associazioni israeliane, in coordinamento con le autorità, hanno da tempo violato il delicato assetto e agevolato irruzioni nel sito per officiare preghiere e riti religiosi.

Questa settimana gruppi ultranazionalisti ebraici hanno offerto ricompense in denaro a chiunque sacrifichi una capra all’interno di Al-Aqsa, atto proibito e altamente provocatorio.

Najeh Bkeirat, vicedirettore del Waqf islamico presso la moschea Al-Aqsa, ha affermato che la condotta della polizia di questa settimana sembra essere premeditata.

“Il governo israeliano sembra aver preso la decisione quest’anno di svuotare la moschea al-Aqsa e Gerusalemme dai palestinesi “, ha detto. “Vogliono solo ebrei in città. Non vogliono palestinesi e musulmani qui”.

I palestinesi temono che le restrizioni su quando loro possano entrare e l’apertura del sito ai coloni stiano gettando le basi per una divisione della moschea tra musulmani ed ebrei analoga alla divisione della moschea Ibrahimi a Hebron negli anni ’90.

Le violente aggressioni israeliane ai fedeli palestinesi in particolare durante il mese del Ramadan sono ormai all’ordine del giorno.

L’anno scorso nei raid israeliani nella moschea durante il mese sacro sono stati feriti oltre 170 palestinesi e più di 300 sono stati arrestati.

Nel maggio 2021 durante il Ramadan centinaia di palestinesi erano rimasti feriti quando le forze israeliane avevano preso d’assalto il complesso e attaccato i fedeli con gas lacrimogeni, proiettili d’acciaio rivestiti di gomma e granate stordenti.

Quegli attacchi, come le incursioni israeliane nel quartiere occupato di Gerusalemme Est di Sheikh Jarrah, erano stati la prima scintilla del grande attacco israeliano alla Striscia di Gaza assediata.

Almeno 256 palestinesi erano stati uccisi a Gaza, compresi 66 minori, mentre 13 persone erano state uccise in Israele.

(tradotto dall’inglese da Luciana Galliano)




La violenza israeliana è palesemente terrorista, smettiamo di chiamarla “scontri”

Belén Fernández

7 aprile 2023 – Al Jazeera

Fedeli aggrediti ad Al-Aqsa, Gaza di nuovo bombardata, ma i media occidentali continuano ancora a equiparare il collo e la ghigliottina.

Ci risiamo. Lo Stato di Israele sta commettendo una barbarie fuori controllo contro i palestinesi e i grandi media occidentali hanno deciso che tutto ciò si riduce a “scontri”.

L’ultima tornata dei cosiddetti “scontri”, scoppiati quando la polizia israeliana ha deciso di celebrare il mese sacro musulmano del Ramadan aggredendo ripetutamente i fedeli palestinesi nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, ha provocato come prevedibile un numero spropositato di vittime.

Centinaia di palestinesi sono stati arrestati e feriti quando le forze israeliane hanno ancora una volta ostentato la loro abilità con proiettili ricoperti di gomma, manganelli, granate stordenti e lacrimogeni. In cambio la polizia ha subito danni minimi, mentre si è impegnata anche ad accompagnare coloni israeliani illegali nel complesso della moschea.

Evidentemente non soddisfatto della violenza scatenata a Gerusalemme, Israele ha anche lanciato bombardamenti contro la Striscia di Gaza e il sud del Libano in seguito a un presunto lancio di razzi.

Come nel caso di tutti i precedenti esempi di “scontri” tra israeliani e palestinesi, la scelta dei media di utilizzare tale terminologia serve a nascondere il monopolio israeliano della violenza e il fatto che Israele uccide, ferisce e mutila a un ritmo astronomicamente superiore della sua presunta controparte negli “scontri”.

Ciò nasconde anche la realtà del fatto che la violenza palestinese è una risposta a una politica israeliana ormai da quasi 75 anni caratterizzata dalla pulizia etnica dei palestinesi, dall’occupazione della terra palestinese e dalla periodica perpetrazione di massacri – scusate, “scontri”.

Scegliete tra gli attacchi militari israeliani contemporanei e troverete iniziative come l’operazione Margine protettivo, un eufemismo per definire il massacro nella Striscia di Gaza nel 2014 di 2.251 persone, tra cui 551 minorenni. Durante un periodo di 22 giorni iniziati nel dicembre 2008, l’operazione Piombo Fuso è costata la vita a circa 1.400 palestinesi a Gaza, con tre civili israeliani morti.

Ci furono molti “scontri” anche nel 2018 quando, in risposta a proteste sul confine di Gaza, l’esercito israeliano uccise centinaia di palestinesi e ne ferì migliaia. E nel maggio 2021 un massacro israeliano durato 11 giorni, denominato operazione Guardiano delle Mura, uccise più di 260 palestinesi, circa un quarto dei quali minorenni. Si dà il caso che quest’ultima operazione sia stata innescata da, che altro, “scontri” nella moschea di Al-Aqsa.

Quel poco di curiosità ha spinto alcuni mezzi di comunicazione a preoccuparsi di ciò che l’attuale “vertiginoso aumento degli spargimenti di sangue” tra israeliani e palestinesi possa far presagire, un ulteriore altro slogan dei media che alla fine maschera il ruolo predominante di Israele nei massacri.

Ovviamente è difficile trovare una qualche equivalenza linguistica o etica all’ossessione dei media nel raccontare la spietatezza israeliana come “scontri”. Non si penserebbe a un alce che si “scontri” con il fucile di un cacciatore proprio come non si percepirebbe uno “scontro” tra il collo di un essere umano e una ghigliottina. Né si descriverebbe il bombardamento letale di un ospedale a Kunduz, in Afghanistan, da parte degli Stati Uniti come uno “scontro” tra una struttura sanitaria e un aereo da guerra AC-130.

Ma, benché chiaramente immorale, la deferenza dei media occidentali nei confronti della narrazione israeliana non è per niente nuova. Molto di questo riguarda il fervido appoggio, in particolare da parte degli USA, al punto di vista israeliano che descrive i persecutori come vittime e i massacri come autodifesa.

Forse la stessa fondazione dello Stato di Israele nel 1948, che vide migliaia di palestinesi massacrati e più di 500 villaggi palestinesi distrutti, in definitiva non fu altro che un grande “scontro”. Di certo la campagna propagandistica israeliana di lungo termine per confondere i palestinesi con il terrorismo continua a garantire considerevoli vantaggi.

È così persino tra i mezzi di informazione più chiaramente progressisti che sono disposti a denunciare i crimini israeliani ma che non riescono ancora a mettere i palestinesi sullo stesso piano di umanità degli israeliani. Per esempio, a febbraio di quest’anno Lawrence Wright, della rivista The New Yorker, ha twittato un video di soldati israeliani che spintonano e picchiano il pacifista palestinese Issa Amro mentre Wright lo sta intervistando a Hebron, città occupata della Cisgiordania. Il commento del giornalista del New Yorker: “Non posso smettere di pensare a quanto sia disumanizzante l’occupazione per i giovani soldati incaricati di imporla.”

In altre parole: i soldati israeliani sono vittime della degradazione morale e della disumanizzazione, mentre i palestinesi non arrivano mai ad essere realmente in primo luogo umani.

Ora, mentre le forze di sicurezza israeliane continuano a disumanizzare e ad essere disumanizzate a Gerusalemme e a Gaza, tutto il discorso relativo agli “scontri” non fa che confermare l’idea che la violenza israeliana, descritta come una semplice parte di una corretta competizione di azioni e reazioni tra due parti equivalenti, sia in fondo giustificata.

Nell’agosto 2022 un attacco di tre giorni dell’esercito israeliano contro Gaza uccise almeno 44 palestinesi, tra cui 16 minorenni, l’episodio più sanguinoso dall’operazione Guardiano delle Mura del 2021. Nessun israeliano venne ucciso in seguito agli eventi di agosto, eppure i media occidentali sono stati ancora diligentemente pronti senza alcun dubbio a raccontare affannosamente di “scontri”.

Come ho sottolineato all’epoca in un articolo su Al Jazeera la versione in rete del Cambridge Dictionary definisce il terrorismo come “(minacce di) un’azione violenta per fini politici”. E tanto più spesso ricordiamo a noi stessi che Israele sta letteralmente terrorizzando i palestinesi tanto prima, forse, potremo porre fine a tutto questo discorso sugli “scontri”.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Belen Fernandez è autrice di Exile: Rejecting America and Finding the World [Esilio: rifiutare l’America e trovare il mondo”] e di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro]. È una collaboratrice di “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele esporta le sue tecnologie di disinformazione

Shir Hever

31 marzo 2023, Orient XXI

Una rete internazionale di giornalisti investigativi, Forbidden Stories, sta attualmente conducendo un’indagine globale sui “mercenari della disinformazione”. Israele, il principale esportatore di servizi in campagne diffamatorie, notizie false e brogli elettorali, sta incassando ingenti profitti, ma la responsabilità legale di questi crimini contro la democrazia rischia di esserle addossata a lungo termine.

Nel febbraio 2023, i giornalisti investigativi dell’associazione Forbidden Stories hanno pubblicato un nuovo capitolo del loro progetto “Story Killers” [1], rivelando una rete di società israeliane che forniscono servizi di disinformazione ai migliori offerenti. Questi servizi, che portano la guerra informatica a un altro livello, includono campagne diffamatorie, diffusione di notizie false e brogli elettorali e referendum.

La consapevolezza di come i social media, la sorveglianza e il data mining possono influenzare le elezioni è arrivata dopo che lo scandalo Cambridge Analytica è stato reso pubblico nel 2018 [2]. Cambridge Analytica ha influenzato più di 200 elezioni in tutto il mondo e uno dei suoi principali fornitori di tecnologia è stato Archimedes Group, una società israeliana. Quando uno dei suoi alti dirigenti Brittany Kaiser è comparso davanti al parlamento britannico per denunciare i crimini, ha affermato di non ricordare i nomi dei dipendenti israeliani di Archimedes Group con cui aveva lavorato.

La guerra informatica in generale e la disinformazione in particolare sono armi molto pericolose. Minano il processo democratico se usati per influenzare le elezioni diffondendo voci e disinformazione e possono anche essere mortali. Così, la giornalista indiana Gauri Lankesh è stata assassinata nel settembre 2017, pochi giorni prima di pubblicare un articolo sulla disinformazione e i suoi pericoli. Lei stessa è stata oggetto di una campagna di calunnie. Dopo il suo omicidio si è scoperto che le persone che l’avevano aggredita sui social non erano mai esistite. I loro account sono stati successivamente cancellati, oscurando le tracce di coloro che avevano orchestrato la campagna.

Un “esercito” di avatar sui social network

Cinque anni dopo, Forbidden Stories ha tentato di capire come funziona questa industria della disinformazione. La collaborazione di giornalisti di diversi paesi li ha portati nella città israeliana di Modi’in, dove si sono atteggiati a clienti desiderosi di acquistare servizi per truccare un’elezione. Hanno incontrato diverse aziende, tutte israeliane, pronte a lanciare per loro conto una campagna di disinformazione per la modica cifra di 6 milioni di euro.

Forbidden Stories, in collaborazione con Amnesty International e Citizen Lab, ha rivelato nel luglio 2021 come alcune aziende israeliane stiano vendendo spyware per hackerare telefoni e computer di giornalisti, attivisti per i diritti umani, avvocati e poliziotti [3]. Il “Progetto Pegasus” ha dimostrato come la tecnologia testata sui civili palestinesi sia stata utilizzata per rafforzare la repressione e gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo [4].

Un altro aspetto dello spionaggio mercenario israeliano è venuto alla luce. Le aziende di questo settore sono uno sportello unico che vende sia spyware, servizi di spionaggio, hacking di e-mail, in particolare Gmail e Hotmail, sia software di messaggistica, in particolare Telegram, notizie false e distruzione della credibilità dei candidati politici. Lo fanno principalmente utilizzando profili falsi, degli avatar. Lo fanno rubando foto di persone reali e assegnando loro nomi diversi, account di social media e persino portafogli elettronici con denaro reale. Assumono anche agenti nei paesi di destinazione in modo che possano verificare numeri di telefono e indirizzi durante lo sviluppo di questi avatar. Il “Team Jorge”, uno di questi uffici dell’industria della disinformazione israeliana, dispone anche di un “esercito” di 40.000 avatar di questo tipo, creati utilizzando l’intelligenza artificiale. L’elenco delle società di disinformazione israeliane citate nella recente indagine di Story Killers comprende anche Voyager Labs, Percepto, Cognyte, Verint, S2T Cyberspace e Demoman.

Nessuna di queste tecnologie è esclusiva dell’intelligence israeliana. Anche i governi statunitense, europeo e cinese hanno accesso a spyware e tecnologia di disinformazione. Eppure tutte le compagnie che sono state smascherate sono compagnie israeliane, composte da unità di intelligence che hanno esercitato le loro abilità nel monitorare i Palestinesi, ricattandoli e organizzando campagne di disinformazione per seminare discordia tra di loro.

“Diplomazia spyware”

In ogni caso, il monopolio israeliano su questo settore è effettivamente il risultato di una politica governativa. Mentre ogni paese del mondo con accesso a strumenti di disinformazione li tiene per sé, le società private israeliane offrono i propri servizi e tecnologie ai clienti di tutto il mondo. L’indagine di Story Killers ha rivelato che tali società hanno operato in Angola, Burkina Faso, Colombia, Francia, Indonesia, Malesia, Messico, Nigeria, Senegal, Singapore, Sri Lanka, Tunisia e in altri paesi ancora.

Secondo la legge israeliana, alle aziende è vietato esportare tecnologia di sicurezza militare senza l’approvazione del Ministero della Difesa, anche se queste società non sono registrate in Israele. Nonostante questo, Tal Hanan del “Team Jorge” ha detto ai giornalisti sotto copertura di Forbidden Stories che poteva fare quello che voleva senza essere controllato dalle autorità israeliane. Ha nominato solo tre paesi con i quali si rifiuta di collaborare: Russia, Stati Uniti e Israele. Questa è ovviamente una bugia. Il Ministero della Difesa israeliano ha una speciale unità di controspionaggio, il Malmab, incaricata di monitorare gli agenti delle organizzazioni di sicurezza israeliane. All’inizio di marzo, Malmab ha soppresso la società israeliana di spyware NFV per aver venduto spyware non autorizzato.

Tal Hanan afferma di occuparsi di notizie false dal 1997 e di operare fuori da Israele. È chiaro che il Ministero della Difesa israeliano ha le sue ragioni per autorizzarlo. L’affermazione secondo cui l’industria della disinformazione non è regolamentata in Israele ha lo scopo di placare le preoccupazioni dei potenziali clienti. Ma il governo consente agli ex ufficiali di esportare tecnologia militare per guadagnarsi la loro lealtà, stabilendo allo stesso tempo legami non ufficiali con paesi con i quali non ha relazioni diplomatiche. Questa si chiama “diplomazia dello spyware”.

Esportare il modello di dominio coloniale

Le industrie israeliane di disinformazione, spyware e spionaggio aziendale tentano di replicare l’esperienza militare israeliana nella manipolazione delle informazioni per i clienti di tutto il mondo. Nella maggior parte dei casi, finora, è stato un fallimento. L’agenzia di intelligence privata israeliana Black Cube è stata infatti smascherata a più riprese dalle sue vittime. L’industria dello spyware ha finito per offuscare le relazioni estere di Israele, e persino il “Team Jorge” è stato individuato per aver fornito informazioni false al conduttore francese della BFMTV Rachid M’Barki, che è stato licenziato per aver trasmesso senza verificare la fonte.

Incoraggiate dal governo israeliano e armate della loro esperienza nel dominare i palestinesi, le società di disinformazione operano con pochi o nessun scrupolo. Tal Hanan ha detto ai giornalisti sotto copertura di Forbidden Stories che, a parte il timore di rappresaglie da parte delle autorità russe o americane, o di andare contro la propria lealtà sionista operando in Israele – “Non caghiamo dove mangiamo”, ha detto ai giornalisti – lui non pone limiti al caos e alla sofferenza che i suoi servizi possono causare, se valutati correttamente. Ad esempio, si è vantato di aver usato un avatar per convincere la moglie di un candidato politico che suo marito aveva una relazione per sabotare il loro matrimonio e neutralizzare il candidato.

Un’altra società, la Percepto, guidata da Lior Chorev, consigliere politico di Ariel Sharon e Ehud Olmert, non ha esitato ad assumere i servizi di un noto antisemita per diffondere calunnie contro la Croce Rossa al servizio di un cliente in Burkina Faso, proprio poiché non ha esitato a lavorare per dei criminali di guerra israeliani. Tra i suoi clienti c’è anche il milionario messicano Tomás Zerón, ricercato in Messico con l’accusa di sequestro e tortura. Il miliardario israeliano Dan Gertler, che possiede un controverso impero minerario nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) ed è accusato di saccheggiare le risorse naturali del paese e di utilizzare campagne di disinformazione per proteggersi dalle critiche, ha assunto Lior Chorev per garantire la sua comunicazione, mentre le autorità americane indagano sulle sue operazioni nella RDC.

I criminali di guerra e la “cupola di ferro legale”

I giganti Facebook e Twitter sono complici dei crimini commessi dalle società di disinformazione. Meta, precedentemente noto come Facebook, vende i dati degli utenti delle sue società [6]. Facebook e Twitter fanno soldi diffondendo notizie false, ma censurano gli attivisti per i diritti umani, specialmente i palestinesi. Inoltre, quando viene alla luce uno scandalo, rimuovono rapidamente gli avatar. Sostengono di farlo per proteggere gli utenti, ma in realtà aiutano a coprire le loro tracce.

Ultimamente, le proteste in Israele contro le politiche del governo di estrema destra hanno ricevuto molta attenzione. I manifestanti includono ufficiali in pensione, soprattutto di unità di intelligence, impiegati del settore high-tech, compresi i settori della sicurezza, ex membri dello Shin Bet e del Mossad, esperti di armi nucleari e persino soldati spyware. Queste persone stanno partecipando alle proteste perché le riforme giudiziarie attuate dal governo israeliano di estrema destra minacciano le loro carriere e persino la loro libertà.

Mentre l’Israele dell’apartheid sta diventando uno Stato paria e i suoi tribunali non possono più nemmeno fingere di monitorare in modo indipendente le azioni delle forze militari e di sicurezza e di ritenerle responsabili, i profittatori della sorveglianza israeliana si rendono conto che non potranno più agire impunemente. Rischiano di essere incriminati dalla Corte Penale Internazionale (CPI), subire sanzioni dagli Stati Uniti e diventare sempre più isolati a livello internazionale. I criminali di guerra israeliani stanno perdendo la loro “cupola di ferro legale” [7].

I successivi governi israeliani hanno permesso all’industria della disinformazione di prosperare per due decenni come parte di una politica deliberata. I vantaggi di queste esportazioni sono a breve termine e irresponsabili a lungo termine. E mentre la ricerca condotta da Forbidden Stories è molto importante per rivelare il danno fatto, non è sufficiente.

Poiché l’industria della disinformazione influenza i risultati delle elezioni, è quasi impossibile rintracciarla ed esporla senza l’accesso a documenti riservati, in particolare le autorizzazioni rilasciate dal Ministero della Difesa israeliano per ogni vendita di servizi di disinformazione da parte di società israeliane a ciascuno dei loro clienti. Fino a quando il governo israeliano non rilascerà questi documenti, la responsabilità legale di questi crimini ricadrà esclusivamente sul governo israeliano e solo i governi statali e le organizzazioni internazionali (come le Nazioni Unite e i tribunali internazionali) possono costringere Israele a renderne conto.

Shir Hever, Economista indipendente laureato alla Libera Università di Berlino, conduce ricerche sugli aspetti economici dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Il suo ultimo libro, basato sulla sua tesi, è The Privatization of Israeli Security (Pluto Press, 2017).

[1] « Story killers : au cœur de l’industrie mortelle de la désinformation », forbiddenstories.org.

[2] NDLR. Cette société britannique de « conseil en gestion autre que la gestion financière » a été accusée d’avoir organisé l’« aspiration » des données personnelles de 87 millions d’utilisateurs de Facebook dans le but de cibler des messages favorables au Brexit au Royaume-Uni et à l’élection de Donald Trump aux États-Unis en 2016. Ce scandale a provoqué en mai 2018 sa mise en faillite.

[3« Projet Pegasus. Comment Amnesty Tech a révélé le scandale du logiciel espion », Amnesty International, 23 mars 2022.

[4« Devices of Palestinian Human Rights Defenders Hacked with NSO Group’s Pegasus Spyware », Amnesty International, 8 novembre 2021.

[5Stephanie Kirchgaessner, « How undercover reporters caught ‘Team Jorge’ disinformation operatives on camera », The Guardian, 15 février 2023.

[6NDLR. Facebook, Instagram, WhatsApp, Oculus VR.

[7Michael Starr, Dershowitz : High Court an ’Iron Dome’ that protects IDF soldiers from ICC, The Jerusalem Post, 12 janvier 2023.

Traduzione dal francese di Angelo Stefanini




Crisi israeliana: non si tratta di democrazia, si tratta di supremazia liberale sionista

Sai Englert

28 marzo 2023 – Middle East Eye

Israele è uno Stato di apartheid basato sull’espropriazione palestinese, con metà delle persone che vivono sotto il suo dominio diretto private del diritto al voto. Altro che preziosa democrazia liberale dei manifestanti

Dopo tre mesi di mobilitazione in tutta la società israeliana, che ha visto centinaia di migliaia di manifestanti scendere in piazza, i blocchi ripetuti delle principali autostrade, il rifiuto di massa dei riservisti di presentarsi per il servizio militare e un insieme di azioni di sciopero e di serrate da parte dei datori di lavoro, il governo di Benjamin Netanyahu sembra – nel momento in cui scriviamo – essere stato costretto a cedere almeno in parte alle istanze del movimento di protesta sociale.

Lunedì sera Netanyahu ha annunciato che era in procinto di rinviare la controversa riforma dei tribunali nazionali da parte del suo governo.

“Per senso di responsabilità nazionale, per volontà di prevenire una spaccatura tra la nostra gente, ho deciso di sospendere la seconda e la terza lettura del disegno di legge”, ha dichiarato al parlamento.

Dopo aver licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, a causa degli appelli di quest’ultimo per la sospensione della riforma giudiziaria del governo, Netanyahu ha mostrato di aver perso il controllo su una situazione già caotica. Le organizzazioni dei datori di lavoro e l’Histadrut – la più grande federazione sindacale israeliana e pilastro storico del movimento coloniale sionista – hanno annunciato congiuntamente che avrebbero bloccato l’economia. Centri commerciali, università, ospedali e fabbriche, così come l’unico aeroporto di Israele, sono stati chiusi, insieme ad asili e scuole.

L’attuale crisi politica è emersa alla fine dello scorso anno, quando Netanyahu è stato rieletto primo ministro a capo di una coalizione di destra, che andava dal suo stesso partito Likud e dai suoi abituali alleati ultraortodossi all’organizzazione della destra più radicale dei coloni.

Aggressivamente anti-palestinese e favorevole a un’espansione ancora più rapida degli insediamenti coloniali a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, la coalizione ha promesso un ulteriore giro di vite nei confronti dei palestinesi: violenze, furti e omicidi, ma all’ennesima potenza, da parte della colonizzazione israeliana.

Allo stesso tempo, la coalizione ha messo al centro della sua argomentazione l’idea che la sinistra israeliana avesse controllato per troppo tempo le leve del potere dello Stato e il proposito di porre fine a tutto ciò il più rapidamente possibile. Al centro di questo programma c’è una proposta di riforma giudiziaria che limiterebbe il potere dell’Alta Corte israeliana e la porrebbe sotto il controllo del parlamento, cioè della coalizione di governo.

Assalto a tutto campo alla democrazia

In base a queste riforme, la nomina dei giudici sarebbe di competenza parlamentare, mentre le decisioni prese dalla Corte potrebbero essere ribaltate da una maggioranza parlamentare. Questo, sostengono i critici della riforma, è un assalto a tutto campo alla democrazia israeliana e inaugurerebbe la fine di un tanto acclamato ordine democratico liberale israeliano.

Gettando benzina sul fuoco, il governo ha anche proposto e accelerato una serie di altre leggi che sono state ampiamente percepite – anche da commentatori di destra e da sostenitori del governo – come palesemente auto-centrate. Dalla legalizzazione dei “regali” ai dipendenti pubblici e dalla revoca del divieto di prestare servizio nel governo per i politici condannati, alla limitazione della possibilità per i giornalisti di pubblicare registrazioni di [discorsi] di politici, la lista dei desideri del governo ha fatto infuriare un’opposizione già ostile.

Il fiore all’occhiello di questo pacchetto di riforme è stato il disegno di legge approvato con successo la scorsa settimana che rende così difficile l’impeachment di un primo ministro in carica da concedere a Netanyahu l’immunità di fatto, proteggendolo dai potenziali esiti del suo processo per corruzione in corso.

Lo scenario era perfetto per uno scontro frontale nella società israeliana tra i campi pro e contro Netanyahu.

In effetti, i fronti pro e contro Netanyahu – o pro e anti-coalizione – costituiscono il modo migliore per comprendere l’attuale lotta in Israele. Le idee tradizionali di destra e sinistra non colgono del tutto le divisioni politiche in Israele in generale, e nel momento attuale in particolare.

Come accennato in precedenza, i principali protagonisti dell’opposizione alle riforme del governo sono state le organizzazioni dei datori di lavoro e i riservisti delle unità militari, considerati in Israele “d’élite”, cioè veterani.

Un ruolo centrale lo hanno avuto i piloti di caccia – gli stessi piloti che hanno acquisito una fama mondiale bombardando regolarmente a tappeto gli abitanti della Striscia di Gaza con le orrende conseguenze che sono così ben documentate.

Benny Gantz, leader dell’opposizione e figura chiave del movimento, ha costruito la sua carriera politica sulla scia del massacro di Gaza del 2014, che ha gestito come capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. A febbraio ha detto ai manifestanti che dovevano difendere l’Alta Corte perché: “per decenni, io vi ho protetto. E mentre io vi proteggevo il tribunale proteggeva me”.

Nessuna di queste componenti può essere considerata di sinistra.

Orrore diffuso

Allo stesso modo, le organizzazioni tradizionali del movimento operaio israeliano, come l’Histadrut o il Partito laburista, sono state storicamente gli artefici chiave dell’espropriazione dei palestinesi.

Vale la pena ribadire, nel pieno dei dibattiti in corso, che è stato il movimento operaio israeliano – attraverso la sua federazione sindacale, i suoi kibbutz (fattorie collettive), le sue milizie e il suo partito politico – a battersi per l’esclusione dei palestinesi dallo Stato e dal mercato del lavoro, e ha imposto un regime militare ai cittadini palestinesi dello Stato fino al 1966 e ai palestinesi nei Territori occupati dopo il 1967.

Sono stati questi stessi attori che hanno espulso oltre 700.000 palestinesi dalle loro case, raso al suolo più di 500 villaggi e centri urbani e impedito a qualsiasi rifugiato di tornare successivamente alle proprie case, in diretta violazione del diritto internazionale. Ancora una volta è difficile considerare queste organizzazioni come particolarmente progressiste, figuriamoci come paladine della democrazia.

Questa tensione è stata resa ben chiara dal recente clamore che hanno suscitato le dichiarazioni di Bezalel Smotrich in una conferenza in Francia, in cui ha affermato: Non esiste una nazione palestinese. Non c’è una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.

Smotrich è l’attuale ministro delle Finanze, un colono in Cisgiordania e il primo politico civile (e non funzionario militare) ad essere stato incaricato del controllo illegale israeliano sui territori palestinesi occupati.

Le sue dichiarazioni hanno generato un orrore diffuso – come dovrebbero – per la loro palese negazione razzista anche del fatto più basilare dell’esistenza dei palestinesi. Anche gli Stati del Golfo, normalmente così felici di collaborare con Israele, hanno ritenuto necessario chiedere l’intervento degli Stati Uniti.

Democrazia – per chi?

Tuttavia, i sentimenti espressi da Smotrich non sono né nuovi né sorprendenti.

Anzi, sono l’ovvio presupposto ideologico per la colonizzazione in corso della Palestina da parte di Israele. Come diceva il vecchio slogan sionista: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. L’episodio più famoso è quello in cui Golda Meir – una fedele sostenitrice dell’Histadrut e del partito laburista, che è stata la prima e unica primo ministro donna di Israele – dichiarò nel 1969 che “i palestinesi non esistono”.

Perciò riguardo a tutte le accuse nei confronti della destra israeliana, sarebbe bene ricordare che la sinistra israeliana ha sempre condiviso idee simili. Il problema, a quanto pare, è il sionismo.

Riaffermare questi fatti storici di base è importante perché ci permette di dare un senso alla composizione – e ai limiti – dell’attuale movimento sociale in Israele.

Mentre una parte della copertura internazionale riguardo alle riforme si è concentrata sui loro potenziali effetti per i palestinesi – ad esempio sul consenso alla legalizzazione degli avamposti dei coloni contro le sentenze dell’Alta Corte – queste stesse questioni sono state praticamente assenti sia nella protesta che nel dibattito pubblico.

Invece i manifestanti si sono drappeggiati con le bandiere israeliane e si sono presentati come difensori dello Stato e delle sue istituzioni contro intrusi illegittimi – le stesse istituzioni che hanno sviluppato e istituzionalizzato il regime di apartheid israeliano contro i palestinesi.

I pochi cittadini palestinesi dello Stato che hanno tentato, per convinzione ideologica, di intervenire nelle proteste, si sono trovati esclusi, messi a tacere o censurati. Reem Hazzan, ad esempio, è stata invitata a parlare a una manifestazione anti-Netanyahu ad Haifa. È stata costretta a presentare il suo discorso in anticipo agli organizzatori, che poi le hanno chiesto di modificarlo.

Hazzan aveva pianificato di dire ai manifestanti che esiste un collegamento diretto tra il ritiro delle istituzioni democratiche israeliane e l’occupazione militare pluridecennale in corso e la discriminazione razziale contro i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e i Paesi arabi confinanti, ndt.]. Di questo, a quanto pare, la lotta del movimento per la “democrazia” non si occupa.

“Supremazia ebraica”

Hazzan non è sola. E’ talmente eclatante l’esclusione sistematica dei palestinesi, e così totale è il rifiuto di esaminare quale sia stata la realtà della “democrazia” israeliana per i milioni di palestinesi che vivono sotto il suo governo, o come cittadini di seconda classe o come sudditi del suo regime militare che il Tajammu (Balad), che un importante partito politico palestinese che opera all’interno di Israele ha rilasciato una dichiarazione che afferma:

Il mancato riconoscimento della stretta connessione tra la continua violazione dei diritti del popolo palestinese su entrambi i lati della Linea Verde e il colpo di stato giudiziario ci fanno capire che non è per una vera democrazia e una cittadinanza sostanziale che le masse stanno attualmente scendendo in piazza, ma per la conservazione dell’equazione ebraico e democratico”, che si concentra su una democrazia procedurale fondata sul concetto di supremazia ebraica… Pretendere che il popolo arabo-palestinese si mobiliti per questa lotta è più che infondato, è anche indice di sfrontatezza”.

L’esclusione dei palestinesi e delle loro richieste è tanto più eclatante dal momento che l’elezione del governo Netanyahu è stata interpretata – giustamente – dal settore militare e dei coloni come un’indicazione che essi hanno completa libertà d’azione in Cisgiordania. Dall’inizio dell’anno sono stati uccisi oltre 80 palestinesi con attacchi militari che si sono intensificati in frequenza e violenza, in particolare nelle città di Jenin e Nablus.

L’esempio più eclatante dell’accresciuto appoggio del governo ai coloni è stato il pogrom nella città di Huwwara, dove centinaia di coloni hanno imperversato per ore, attaccando gli abitanti, bruciando auto e distruggendo negozi e case.

Quasi 400 palestinesi sono stati feriti e uno ucciso. L’intero attacco si è svolto sotto l’occhio vigile dei militari. In risposta, Smotrich ha dichiarato: “Huwwara deve essere spazzata via. Penso che lo Stato di Israele dovrebbe farlo”.

È a dir poco inquietante che in un tale contesto centinaia di migliaia di persone scendano in piazza per salvare la separazione dei poteri rifiutandosi persino di ascoltare le vittime del regime “liberal democratico” di Israele.

Quale democrazia liberale?

L’attuale movimento di protesta in Israele non è un movimento per trasformare la politica israeliana. Non è nemmeno un movimento per la democrazia. È un movimento che lotta per mantenere lo status quo israeliano: una società costruita su una terra rubata e la continua esclusione dei palestinesi, che sancisce il suo dominio coloniale attraverso un sistema legale che solo lei riconosce.

Le organizzazioni sociali e le istituzioni che partecipano al movimento lo confermano ripetutamente, e lo confermano ulteriormente i rapporti di forza che ripropongono al suo interno. Sarebbe lecito chiedersi se una società coloniale che legalizza le sue politiche espansionistiche attraverso la sua Alta Corte sia migliore, o più democratica, nel vero senso della parola, di una che lo fa attraverso il suo parlamento.

Cosa significa parlare di Israele come di una democrazia liberale, quando le sue istituzioni mantengono il blocco mortale su Gaza, continuano ad espandere gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, a Gerusalemme e sulle Alture del Golan e mantengono oltre 65 leggi che prendono di mira specificamente i palestinesi di entrambe le parti della Linea Verde?

Ha senso discutere di democrazia liberale a proposito di uno Stato che non solo ha espulso centinaia di migliaia di suoi futuri cittadini ma continua a rifiutare a loro e ai loro discendenti il diritto al ritorno? Che tipo di democrazia – liberale o meno – si basa sulla negazione del fondamentale diritto di voto a più o meno la metà della popolazione – circa sei milioni di persone – che vive sotto il suo dominio diretto?

Vale la pena ricordare che tutte queste decisioni sono state prese e messe in pratica sotto l’occhio vigile dell’Alta Corte israeliana.

La verità è che non può esserci democrazia sotto una supremazia razziale. Un regime di apartheid è per definizione illiberale. Un dominio coloniale richiede il solido dominio di un gruppo su un altro. La coalizione di Netanyahu potrebbe cadere. O potrebbe resistere alla tempesta.

In ogni caso, la democrazia non emergerà vittoriosa tra il fiume e il mare [Il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ndt.].

Sarebbe necessario sfidare le idee più basilari del sionismo per raggiungere un tale risultato: che uno Stato democratico debba essere per e di tutti i suoi abitanti.

Questa battaglia non viene condotta nelle strade attorno alla Knesset [parlamento israeliano, ndt.] né portata avanti da sindacati, soldati e datori di lavoro israeliani. La sua vittoria dipende da sempre dal soddisfacimento delle richieste formulate tanto tempo fa dal movimento nazionale palestinese: liberazione e ritorno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sai Englert è docente di economia politica del Medio Oriente all’Università di Leida. È l’autore di Settler Colonialism: an Introduction [Colonialismo da insediamento: un’introduzione]. La sua ricerca si concentra sulle conseguenze del neoliberismo sul movimento operaio in Israele. È impegnato anche sul colonialismo di insediamento, sulla trasformazione del lavoro e sull’antisemitismo. È membro del comitato editoriale sia della rivista Historical Materialism [Materialismo Storico, ndt.] che di Notes from Below [Note a piè di pagina, ndt.].

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sale la tensione in Cisgiordania a causa di una campagna di arresti lanciata dalle forze di occupazione israeliane

Redazione di Palestine Chronicle

28 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Middle East Monitor ha riferito che lunedì notte hanno avuto luogo scontri tra le forze di occupazione israeliane e i palestinesi mentre le truppe effettuavano alcuni arresti in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

Scontri hanno avuto luogo anche a Jenin, dove le forze israeliane hanno arrestato palestinesi accusati di prendere parte ad azioni di resistenza popolare contro le forze di occupazione e i coloni ebrei illegali.

Le incursioni sono state concentrate nei governatorati di Hebron (Al-Khalil), Nablus, Jenin e Betlemme. Sono state fatte irruzioni in decine di case e beni personali sono stati confiscati. Alcuni abitanti sono stati interrogati per molte ore.

Due dei palestinesi arrestati erano gli ex-prigionieri Ammar Jawabreh e Wael Al-Badawi. Le loro case nel campo di Al-Aroub a nord di Hebron sono state prese d’assalto dalle forze di occupazione israeliane.

Le truppe israeliane hanno anche arrestato Ismail Al-Hawamdeh di Al-Samou’, a sud di Hebron, dopo aver fatto incursione nella sua casa e confiscato i suoi beni.

Quando le forze di occupazione hanno preso d’assalto un’altra casa ad Al-Aroub, hanno arrestato un giovane mentre altri hanno tirato pietre ai veicoli blindati usati dalle truppe.

Scontri sono scoppiati anche tra un gruppo di palestinesi e le forze di occupazione al posto di controllo di Salem, ad ovest di Jenin. Non è stata riferita la presenza di vittime.

Nel governatorato di Gerusalemme, le forze di occupazione hanno fatto un’incursione nella casa di famiglia del ragazzo palestinese Muhammad Al-Zaliani nel campo di Shuafat. Esse hanno preso le misure della casa in previsione di una successiva demolizione.

Secondo le autorità israeliane, il ragazzo ha provato ad effettuare un accoltellamento al posto di controllo di Shuafat alcuni mesi fa.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Le chiusure israeliane a Huwwara soffocano le imprese e gli spostamenti dei palestinesi

Fayha Shalash , Ramallah Palestina occupata

27 marzo 2023 – Middle East Eye

La gioia del Ramadan nella città della Cisgiordania è sconvolta dai blocchi stradali dell’esercito e dalla chiusura dei negozi

Lunedì l’esercito israeliano, in quella che i palestinesi hanno definito una punizione collettiva, ha continuato a imporre chiusure intorno a Huwwara, nel nord della Cisgiordania occupata.

Le strade in entrata e in uscita da Nablus e Huwwara sono state bloccate e ai negozi della città è stato ordinato di chiudere fino a nuovo ordine.

Le chiusure sono state imposte nella tarda serata di sabato dopo che colpi esplosi da un’auto da parte di palestinesi avevano ferito due soldati israeliani.

Gli imprenditori affermano di essere stati i più colpiti.

“Quando i soldati sono venuti a chiudere i nostri negozi non ci hanno permesso di salvare la merce e nemmeno di coprirla, altrimenti avrebbero rotto il vetro e le avrebbero sparato”, ha detto a Middle East Eye Mazen al-Aker, proprietario di un negozio di dolciumi.

Secondo al-Aker le chiusure hanno reso questo Ramadan il peggiore che la città abbia visto da anni.

Diversi proprietari di negozi domenica hanno cercato di riaprire per gli affari sfidando le misure israeliane, ma sono stati dispersi dall’esercito con gas lacrimogeni e granate assordanti.

I video pubblicati sui media locali mostrano la sera [nel momento in cui cessa il digiuno prescritto nel mese di Ramadan, ndt] decine di palestinesi diretti a Huwwara bloccati in lunghe code ai posti di blocco israeliani, il che ha costretto molti a rompere il digiuno del Ramadan sui loro veicoli.

Nel frattempo domenica i coloni israeliani hanno preso d’assalto la città per protestare contro le sparatorie palestinesi.

Alla folla si sono uniti Yossi Dagan, capo del consiglio per gli insediamenti nel nord della Cisgiordania, e il deputato israeliano di estrema destra Zvi Sukkot.

Dagan ha allestito un ufficio improvvisato sulla strada principale per protestare contro quello che ha definito “l’incapacità dell’esercito israeliano di proteggere i coloni”.

Il periodo ‘più difficile’

La sparatoria di sabato è stata la terza contro israeliani in meno di un mese a Huwwara, che si trova sulla principale autostrada nord-sud della West Bank Route 60 utilizzata dai coloni.

Dopo ogni incidente, l’esercito pone la città sotto rigide restrizioni.

Ghaleb Odeh, proprietario di un fast food, ha detto che i suoi negozi sono stati chiusi dall’esercito israeliano per un totale di 12 giorni nel solo mese di marzo.

“L’altro ieri ho preparato 200-300 chilogrammi di carne e pollo da vendere, insieme a centinaia di contenitori di insalate diverse, ma quando è stata emessa la decisione militare israeliana di chiudere i negozi ho dovuto distruggere tutto, il che mi ha causato grandi perdite”, ha detto Odeh a MEE.

“Per la prima volta nella mia vita, ho accumulato un debito di 80.000 shekel [$ 22.437] con i macellai”.

Secondo Odeh, questo è il periodo “più difficile” che Huwwara abbia vissuto da quando ha aperto il suo negozio nel 1995.

Anche quando il ristorante è aperto, ha aggiunto, i continui attacchi dei coloni in città causano pesanti perdite agli esercii commerciali poiché la circolazione dei veicoli è quasi completamente paralizzata.

Huwwara è stata teatro di ripetute violenze da parte dei coloni negli ultimi mesi.

La cittàdina, situata strategicamente al centro dei villaggi a sud di Nablus, ospita 7.000 palestinesi ed è circondata da colonie israeliane.

Il mese scorso è stata al centro di una distruzione senza precedenti da parte dei coloni israeliani dopo che centinaia di essi, con l’appoggio dei soldati, hanno attaccato la città.

Un palestinese è stato ucciso e quasi 400 feriti negli attacchi.

Quasi 700.000 coloni vivono in più di 250 insediamenti e avamposti in Cisgiordania e Gerusalemme est in violazione del diritto internazionale.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’economia israeliana era il fiore all’occhiello di Netanyahu. L’apartheid può sopravvivere senza?

Nimrod Flaschenberg

27 marzo 2023 – +972 Magazine

Il primo ministro non prevedeva che il colpo di stato giudiziario avrebbe minato uno degli elementi fondamentali a tutela del regime di apartheid israeliano.

La combinazione finora riuscita di neoliberismo e apartheid in Israele sta finalmente incontrando degli ostacoli interni.

Dopo mesi di proteste e pressioni economiche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato lunedì che avrebbe temporaneamente interrotto la fase successiva della sua riforma giudiziaria. L’annuncio è arrivato di notte, dopo che centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il Paese in seguito al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu, e dopo un’azione congiunta – lunedì mattina – delle grandi imprese e dell’Histadrut, il più grande sindacato israeliano, che era stato riluttante ad aderire alla protesta contro la riforma giudiziaria.

Questa crisi rappresenta il culmine di diversi mesi di guerra economica intrapresa contro il governo da ampie fasce della società israeliana, e in particolare dalle sue élite. E questo scontro interno sta mettendo in luce una sorprendente debolezza nell’economia israeliana guidata dalla tecnologia, seppure in forte espansione. Ora resta la domanda: questa debolezza potrebbe anche segnare una breccia nella lotta contro l’occupazione e l’apartheid?

In tutti gli anni trascorsi nella veste di primo ministro israeliano, il risultato più significativo di Benjamin Netanyahu è stato quello di far sembrare l’occupazione indolore, o almeno senza costi. Sotto il suo regno, l’economia israeliana è esplosa, in gran parte grazie al fiorente settore dell’high-tech. Lo Stato ha migliorato e ampliato le sue relazioni diplomatiche, aprendo nuovi mercati per l’esportazione di software e sicurezza informatica, sviluppando legami di sicurezza con partner regionali e rendendo la sua tecnologia militare indispensabile per molti Paesi in tutto il mondo.

Il modello economico israeliano dall’inizio degli anni 2000 è stato interpretato dallo storico economico Arie Krampf come un neoliberismo isolazionista. Questo è il progetto di Netanyahu: un’economia orientata all’esportazione che dovrebbe costruire resilienza geopolitica attraverso una strategia di commercio diversificato, un basso rapporto debito/PIL e grandi riserve di valuta estera. Questo modello richiede anche una deregolamentazione aggressiva e tagli alla spesa sociale, che portano a sconcertanti disuguaglianze e ad un aumento della povertà. Il sistema di welfare si è sgretolato ma sono aumentati gli investimenti esteri; le nuove ricchezze di Israele non sono state divise equamente, ma l’élite economica è soddisfatta.

Attraverso questo modello Israele ha potuto diversificare i suoi rischi e interessi economici in tutto il mondo e diminuire in qualche modo la sua dipendenza dagli Stati Uniti. Le relazioni di Netanyahu con leader mondiali come Vladimir Putin e Narendra Modi si sono basate non solo sulla predilezione per nazionalisti aggressivi che la pensano allo stesso modo, ma su una strategia di riequilibrio della posizione di Israele nella sfera globale, che lo ha reso un ambìto partner commerciale e militare.

Sebbene la campagna internazionale per la liberazione della Palestina abbia avuto un impatto sull’opinione pubblica globale, non è stata in grado di sfidare veramente questo modello economico. Il movimento BDS ha in gran parte fallito nel far crescere il costo economico per il governo e la popolazione israeliana nel sostenere e radicare l’occupazione, ed è invece diventato un parafulmine per la delegittimazione delle voci pro-palestinesi da parte di ben finanziate organizzazioni di hasbara [propaganda per la diffusione di una immagine positiva di Israele all’estero, ndt.].

L’Autorità Nazionale Palestinese, da parte sua, non ha promosso misure economiche contro Israele a causa della dipendenza della Cisgiordania dall’economia israeliana e della morsa dell’occupazione militare israeliana. Quindi, mentre i governi israeliani si sono spostati nell’arco dei decenni verso destra, intensificando l’occupazione e consolidando il regime di apartheid, lo Stato non è stato danneggiato economicamente e la sua posizione diplomatica si è solo rafforzata.

Ironia della sorte, ciò che la campagna del BDS finora non è riuscita a ottenere è ora promosso dagli ebrei israeliani: le élite che si stanno rapidamente radicalizzando nello scontro contro il tentativo di revisione giuridica del governo israeliano. Gli inevitabili impatti economici della riforma minacciano il modello neoliberista isolazionista, che è stato a lungo basato su una forte industria di esportazione e sull’impunità internazionale. Netanyahu ha vaccinato con successo l’economia israeliana contro le pressioni esterne, ma nemmeno lui è in grado di affrontare l’attuale conflitto interno.

Pericoli reali

Martedì scorso Shira Greenberg, capo economista del ministero delle Finanze israeliano, ha pubblicato un rapporto in cui suggerisce che se la riforma legale venisse approvata nella sua interezza il PIL di Israele potrebbe diminuire fino a 270 miliardi di shekel [69 miliardi di euro, ndt.] nei prossimi cinque anni. Altre stime di funzionari dello stesso ministero, presentate al ministro delle finanze Bezalel Smotrich all’inizio di questa settimana, accennavano ad una perdita annua di 100 miliardi di shekel [26 miliardi di euro, ndt.]. Smotrich ha cercato di confondere i dati dicendo che nell’incontro sono stati presentati sia opportunità che rischi, ma fonti del ministero lo hanno contraddetto, dichiarando a Calcalist [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.]: Non è chiaro di quali opportunità stia parlando il ministro. C’era accordo fra i convenuti sul fatto che queste iniziative potrebbero causare gravi danni all’economia israeliana”.

Da mesi le istituzioni finanziarie internazionali suonano campanelli d’allarme sulla proposta di riforma. L’agenzia di rating del credito Moody’s ha avvertito che la riforma potrebbe impedire l’aumento del rating del credito di Israele, indicando che i cambiamenti pianificati “potrebbero anche comportare rischi a lungo termine per le prospettive economiche di Israele, in particolare l’afflusso di capitali nell’importante settore high-tech”. The Economist, il principale quotidiano economico mondiale e barometro per le posizioni dell’élite degli affari globali, ha recentemente pubblicato una notizia di copertina intitolata: “Bibi distruggerà Israele?” Sta emergendo un consenso internazionale sul fatto che il nuovo governo potrebbe alterare in modo significativo la traiettoria del capitalismo israeliano.

Il presupposto alla base del ministero delle Finanze israeliano, di Moody’s e dell’Economist è che gli Stati non democratici non sono in grado di fare buoni affari. Questo, tuttavia, è un mito liberista: molti Paesi non democratici sono enormi poli commerciali. I migliori esempi sono i nuovi alleati di Israele nel Golfo; per molti aspetti, l’autoritarismo può servire bene il capitalismo.

Inoltre, lo stesso Israele non può attualmente essere definito una democrazia in quanto tiene milioni di persone sotto controllo militare negando loro i diritti fondamentali. Ma gli investitori non hanno mai dimostrato di avere problemi reali con l’occupazione. L’atteso rallentamento economico, quindi, non sarà una semplice reazione al restringimento dello spazio democratico in Israele ma piuttosto il risultato di una profonda lotta sociale all’interno di Israele che espone il rischio economico allo sguardo degli osservatori esterni.

L’evoluzione del panico negli ultimi mesi è una profezia che si autoavvera. Molti membri dell’élite israeliana sono pronti a combattere, e in testa c’è il settore dell’alta tecnologia. I lavoratori della tecnologia, dai manager e dipendenti agli investitori, sono profondamente coinvolti nelle proteste contro il governo. Parlano di fine della democrazia israeliana e sono disposti a fare di tutto per fermare i piani del governo.

Allo stesso tempo, si stanno salvaguardando dai rischi prendendo in considerazione destinazioni dove migrare o la possibilità di spostare i loro soldi all’estero. Rapporti recenti suggeriscono un esodo di aziende high-tech in Grecia, Cipro o Albania, dove la scorsa settimana 80 aziende tecnologiche israeliane hanno tenuto un incontro per esaminare un possibile trasloco. Ricchi lavoratori high-tech stanno acquistando proprietà in Portogallo, temendo che la riforma vada a buon fine. Questi movimenti interni inviano al sistema finanziario internazionale un messaggio secondo cui la crisi è reale e Israele non costituisce una piazza sicura.

Gli investitori capitalisti non hanno necessariamente bisogno della democrazia. Hanno bisogno di stabilità e prevedibilità, beni che in Israele sono attualmente molto scarsi.

È anche l’occupazione

La prevista revisione giuridica fa parte di un più ampio passaggio al dominio dell’estrema destra nella politica israeliana. Tra le altre cose, la riforma è progettata per legalizzare l’annessione della Cisgiordania e consentire l’ulteriore persecuzione dei cittadini palestinesi, così come degli israeliani di sinistra. Una strategia politica più calcolata per il governo di Netanyahu sarebbe stata quella di raffreddare il più possibile la questione palestinese mentre veniva portato avanti il progetto giuridico. Separando le questioni della democrazia interna” israeliana dalla questione palestinese forse sarebbe stato più facile contrastare il movimento di protesta e la pressione internazionale.

Ma i membri della coalizione di Netanyahu si rifiutano di separare questi temi: stanno chiarendo che la loro preoccupazione principale nel portare avanti la riforma è perseguire i palestinesi in modo più brutale, lamentandosi del fatto che la Corte Suprema renda troppo difficile demolire le case o deportare i palestinesi. La retorica razzista pronunciata ogni giorno dai ministri del governo, l’intensificarsi della violenza di Stato in Cisgiordania che ha ucciso circa 80 palestinesi dall’inizio dell’anno, e il pogrom dei coloni a Huwara elogiato dai ministri del governo sono tutti segnali che questo è un governo di fanatici, determinato a dare fuoco alla regione. Questo, a sua volta, sminuisce la reputazione di Netanyahu come efficace leader neoliberista orientato al business. Non ha il controllo e le forze destabilizzanti su tutti i fronti – economico, sociale e militare – sembrano inarrestabili.

Sembra che le proteste interne e la pressione internazionale siano riuscite a congelare, anche se solo temporaneamente, l’ondata di modifiche nel campo giudiziario. Tuttavia, secondo molti analisti economici, gran parte del danno è già stato fatto. L’instabilità degli ultimi mesi e l’estremismo del governo hanno già spaventato molti investitori qualificando come rischiosa l’economia israeliana. Anche se la riforma è sospesa, Israele è sulla buona strada per una significativa recessione economica.

In pratica, stiamo assistendo alla frattura dell’alleanza egemonica tra il neoliberismo in stile Netanyahu e il capitale israeliano. Per anni, il progetto di neoliberismo isolazionista di Netanyahu si è basato sul fatto che Israele fosse un investimento troppo buono per mancarlo. La potenza economica e strategica di Israele avrebbe dovuto contrastare il consenso internazionale contro gli insediamenti coloniali e a favore di una soluzione a due Stati. Quindi Il capitale globale che ha permesso all’economia israeliana di prosperare è stato un elemento centrale nella lotta diplomatica contro la causa palestinese e per lungo tempo ha avuto successo.

Se l’economia dovesse subire una grave recessione, ciò potrebbe avere ripercussioni sull’apartheid israeliano. Con il conseguente caos sociale ed economico, potremmo assistere alla formazione delle prime crepe nell’impunità di Israele sulla scena mondiale.

Nimrod Flaschenberg è ex consigliere parlamentare del partito Hadash [partito politico israeliano di sinistra, ndt.]. Ora studia storia a Berlino.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Nelle prigioni israeliane il numero di palestinesi sottoposti a detenzione senza processo è duplicato

Hagar Shezaf

27 marzo 2023 – Haaretz

In base a nuovi dati, le prigioni israeliane contano 971 detenuti amministrativi, il numero più alto di prigionieri senza processo in 20 anni

Alla data del primo marzo le carceri israeliane contano 971 detenuti amministrativi, il numero più alto di prigionieri senza processo in 20 anni: dati del Servizio Penitenziario Israeliano forniti al Centro per la Difesa dell’Individuo (Hamoked).

Le cifre mostrano che a parte quattro tutti i detenuti sono palestinesi della Cisgiordania, residenti di Gerusalemme est o arabi israeliani. Gli altri quattro sono ebrei israeliani.

Secondo Honenu, un’organizzazione no profit israeliana che fornisce appoggio legale a sospettati di terrorismo ebrei, i quattro ebrei israeliani sottoposti a detenzione amministrativa rappresentano il numero più alto dal 1994.

I dati forniti a Haaretz dall’esercito israeliano mostrano che nel corso del 2022 i tribunali militari hanno approvato il 90% di tutti i mandati di arresto; solo l’1% è stato completamente respinto.

In passato il Servizio Penitenziario Israeliano forniva informazione sul numero totale dei detenuti amministrativi, ma questa volta ha rifiutato di comunicare i suoi dati relativi a minori, donne e cittadini e residenti israeliani.

La prigione di Ofer. Foto Olivier Fitoussi

I detenuti amministrativi sono trattenuti nelle carceri israeliane senza un’accusa, essendo gli arresti considerati una misura preventiva. In tribunale non si svolge nessun procedimento probatorio. Agli avvocati degli imputati non viene fornito nulla tranne un compendio di diverse sentenze da tempo noto come “parafrasi” che cita le imputazioni contro di loro.

I mandati di arresto sono approvati da giudici ai quali viene consegnato un ordine firmato dal capo del Comando Centrale dell’esercito israeliano e classificato informazione segreta sul detenuto. Le udienze sulle detenzioni amministrative non sono aperte al pubblico.

Gli Stati occidentali applicano raramente la detenzione amministrativa e in alcuni Paesi questa pratica non esiste affatto. Israele la utilizza soprattutto in Cisgiordania contro i palestinesi, mentre viene raramente utilizzata nei confronti di cittadini israeliani, in particolare ebrei.

Eli Bahar, un ex consulente legale del servizio di sicurezza Shin Bet, ha detto di ritenere che l’aumento del numero di detenuti amministrativi sia legato alla crescente impotenza dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Se ci fosse un’efficace forza di polizia,  si dovrebbe occupare dei crimini che vengono considerati terroristici, ma in fondo rientrano nell’applicazione del diritto penale”, dice.

Perciò non sorprende che a fronte di una debole ANP, che dovrebbe come proprio ruolo garantire questo genere di applicazione della legge e impedire l’escalation, lo Stato di Israele deve agire con sempre maggiore aggressività, sicuramente se si vuole mantenere un livello ragionevole di deterrenza antiterrorismo”, aggiunge Bahar.

L’esercito israeliano dice di aver emesso nello scorso anno 2.076 ordini di detenzione amministrativa contro palestinesi. 2.016 di essi sono stati portati davanti al tribunale militare, che ne ha approvato il 90%. Nel 7% dei casi il tribunale ha ordinato una detenzione più breve di quella richiesta.

L’anno scorso il deputato Ahmad Tibi del partito Hadash-Ta’al (partito arabo) ha impugnato i dati sui detenuti amministrativi trattenuti negli anni precedenti per contestare l’allora Ministro della Difesa Benny Gantz.

I dati non registravano un’analisi dettagliata tra i mandati di arresto emessi e quelli portati effettivamente in giudizio. Tuttavia includevano il numero di mandati revocati o abbreviati, mostrando che la proporzione dei mandati che la corte aveva rigettato nell’anno precedente era bassa in rapporto agli anni precedenti.

L’arresto di un palestinese nel 2022. Foto : Uff. Stampa IDF

Nel 2021 il 13% dei mandati è stato respinto o abbreviato – il dato più basso nel periodo 2017-2021. Nel 2022 solo l’8% dei mandati è stato respinto dal tribunale, con un evidente calo.

Jessica Montell, direttrice esecutiva di Hamoked che monitora i diritti dei detenuti amministrativi, attribuisce il basso grado di interventi, tra le altre cose, al boicottaggio dei tribunali da parte dei detenuti da gennaio a luglio 2022. I loro avvocati non si sono presentati in tribunale, riducendo la possibilità dei detenuti di influenzare l’esito delle udienze.

Montell sottolinea che, mentre il numero dei detenuti amministrativi è duplicato dal 2020, il numero totale di prigionieri è rimasto più o meno lo stesso. “E’ semplicemente un abuso di ciò che dovrebbe essere l’eccezione all’eccezione”, dice.

I dati forniti a Hamoked dal Servizio Penitenziario Israeliano mostrano che all’inizio di marzo di quest’anno nelle carceri israeliane c’erano 4.765 prigionieri, di cui 971 erano detenuti amministrativi. In paragone, nel marzo 2020 c’erano 4.634 prigionieri, di cui 434 erano detenuti amministrativi.

Bahar dice che i tribunali militari e civili tendenzialmente non contestano le informative su un detenuto presentate. “E’ difficile per loro occuparsi di questo. L’intero processo di detenzione amministrativa differisce dal sistema giudiziario in cui entrambe le parti perorano la propria causa. Qui solo una parte espone la sua causa e l’altra riceve la ‘parafrasi’, per cui qui c’è quasi un pregiudizio strutturale che rende difficile al giudice analizzare ciò che sta avvenendo come farebbe in una procedura legale ordinaria”, spiega.

Nel suo libro “Shin Bet sotto esame: sicurezza, giustizia e valori democratici”, Bahar scrive che è difficile determinare il momento in cui la minaccia attribuita ad un detenuto viene meno. “I casi in cui disponiamo di informazioni attendibili che suggeriscono che il detenuto si è allontanato dalla sua strada pericolosa sono rari”, scrive nel libro.

Bahar aggiunge che i tribunali preferiscono non emettere sentenze contrarie all’apparato della sicurezza perché si assumerebbero il rischio di rilasciare un detenuto che in seguito potrebbe compiere un attacco terroristico. Comunque resta convinto che questo sistema debba continuare ad essere applicato nei territori (occupati).

E’ uno strumento molto importante”, dice Bahar, riassumendo la propria posizione. “Il sistema di intelligence e di giustizia che è stato creato dovrebbe fornire una risposta alla natura intrinsecamente problematica della detenzione amministrativa garantendo che gli arresti non siano arbitrari.”

La detenzione amministrativa di regola dura dai tre ai sei mesi. Tuttavia non c’è limite al numero di volte in cui può essere estesa, il che significa che la detenzione in alcuni casi può durare anni.

In linea di principio i mandati di arresto sono firmati dal capo del Comando Centrale, anche se in pratica per la maggior parte sono firmati da ufficiali col grado di colonnello. In Israele il Ministro della Difesa è responsabile della firma degli ordini di detenzione amministrativa e le autorità hanno solo 48 ore di tempo per presentarli all’esame del presidente del tribunale distrettuale. In Cisgiordania un giudice militare, normalmente di grado relativamente inferiore, ha otto giorni di tempo per esaminare l’ordine.

Ci sono anche altre differenze relativamente al riesame giurisdizionale. In Israele la legge stabilisce che l’ordine debba essere consegnato per ulteriore esame entro tre mesi dall’arresto. Invece in Cisgiordania la legge richiede che una revisione possa avvenire solo due volte all’anno per ogni ordine, il che significa che in pratica normalmente non vi è alcun procedimento di riesame.

Un’altra differenza sta nel fatto che in Israele presenziano all’udienza dei rappresentanti dello Shin Bet, per cui il giudice può porre domande riguardo al materiale informativo relativo all’arresto. In Cisgiordania si è stabilita la prassi per cui il materiale informativo è presentato in forma scritta dal procuratore senza la presenza in tribunale dello Shin Bet. Inoltre i giudici possono esaminare informazioni presentate come prova, comprese quelle per sentito dire, che non sarebbero ammissibili in un processo penale.

In linea di principio un’udienza amministrativa dovrebbe essere completamente diversa da una penale – non dovrebbe essere un mezzo per punire una persona per ciò che ha fatto, ma per impedire un danno che non si possa impedire in altro modo”, dice Montell.

E’ ovvio che non è così che Israele fa uso della detenzione amministrativa perché questa funziona come una catena di montaggio. Viene emesso un mandato di tre o sei mesi per volta– non è commisurato allo specifico pericolo rappresentato da una particolare persona”, dice.

Montell aggiunge che nel corso degli anni si è imbattuta in cause penali in cui le autorità non hanno ottenuto un prolungamento dell’incarcerazione ed hanno risolto il problema ordinando una detenzione amministrativa.

Questa prassi non è stata utilizzata solo contro palestinesi: il mese scorso è stata applicata al caso di due ebrei arrestati per i disordini a Hawara. Dopo che il tribunale ha disposto il loro rilascio sono stati sottoposti a detenzione amministrativa.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)