I media pubblicizzano il rapporto dell’ADL che equipara l’antisionismo all’antisemitismo

Michael Arria

24 marzo 2023 – Mondoweiss

La ricerca annuale dell’ADL sull’antisemitismo negli USA offre una visione distorta del problema perché l’organizzazione conteggia tra le azioni anti-semite le proteste antisioniste contro Israele.

Questa settimana l’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, una delle principali associazioni della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] (ADL) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sugli incidenti di antisemitismo negli Stati Uniti. Secondo i dati nel 2022 essi sarebbero aumentati del 36%, con un totale di 3.697 casi. È il numero più alto dal 1979, quanto l’ADL ha iniziato a raccogliere queste informazioni, e un incremento di circa il 500% negli ultimi dieci anni.

Tuttavia un rapido sguardo alla metodologia dell’associazione rivela immediatamente che le sue conclusioni sono discutibili. L’ADL attribuisce esplicitamente azioni e proteste antisioniste contro Israele all’antisemitismo, perché possono mettere a disagio studenti ebrei.

Dichiarazioni pubbliche di opposizione al sionismo, che spesso sono antisemite, sono incluse nella ricerca quando si può stabilire che esse abbiano avuto un impatto negativo su uno o più individui ebrei o associazioni ebraiche identificabili e localizzate,” spiegano gli autori del rapporto. “Ciò è più frequente nei campus dei college, dove alcuni studi hanno mostrato che l’opposizione accesa a Israele e al sionismo può avere un effetto intimidatorio sulla vita di studenti ebrei e aggrava le pressioni percepite da studenti ebrei in aggiunta agli incidenti di cui diamo conto in questa ricerca.”

Come prevedibile le “raccomandazioni” della ricerca includono l’adozione della controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA, la promozione degli accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, ndt.] e la mobilitazione contro il movimento nonviolento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele, ndt.] (BDS).

Su Twitter la presidentessa della Foundation for Middle East Peace [Fondazione per la Pace in Medio Oriente] Lara Friedman presenta un istruttivo legame che riduce notevolmente i numeri gonfiati: 241 degli incidenti documentati sono relativi a critiche a Israele o al sionismo e di questi l’ADL ne attribuisce 70 a singole persone legate ad associazioni di attivisti antisionisti.

Friedman evidenzia che, anche accettando la distorta visione dell’ antisemitismo da parte dell’ADL, questi incidenti non costituiscono una parte considerevole dei fatti documentati. Ciononostante nel suo rapporto l’ADL dedica più parole a Israele che a qualunque altro argomento e gli concede uno spazio doppio rispetto a quello dedicato dal suprematismo bianco o alle aggressioni antisemite.

Così in sostanza l’ADL continua a utilizzare una definizione politicizzata di antisemitismo che demonizza la libertà di parola che critica Israele o il sionismo, e gonfia questi numeri molto discutibili dedicando uno spazio sproporzionato ad enfatizzare la minaccia rappresentata dalle critiche a Israele e al sionismo,” conclude Friedman.

Il contenuto del rapporto non è affatto sorprendente. Il direttore dell’ADL Jonathan Greenblatt ha ripetutamente dichiarato di considerare antisemita l’antisionismo. “Come ideologia l’antisionismo ha le sue radici nell’odio,” ha detto al pubblico dell’incontro nazionale dei dirigenti dell’ADL nel 2022. “Esso si basa su un concetto: la negazione di un altro popolo, un concetto alieno al discorso contemporaneo quanto il suprematismo bianco. Richiede una negazione deliberata della storia anche superficiale dell’Ebraismo e della lunga storia del popolo ebraico. E, quando un’idea deriva da una tale sconvolgente intolleranza, essa porta ad azioni sconvolgenti.”

L’ho già detto in precedenza e lo ripeto: l’antisionismo è antisemitismo,” ha affermato nel novembre 2021. “Negare il diritto degli ebrei, unico tra tutti i popoli del mondo, ad avere una patria è antisemitismo. Prendere di mira solo lo Stato ebraico per condannarlo ignorandone altri è un pregiudizio.”

I principali media hanno informato del rapporto, ma hanno ampiamente omesso di respingere le sue affermazioni o di fornire il contesto dell’ideologia politica dell’associazione.

Un servizio dell’NPR [principale rete radiofonica pubblica USA, ndt.] sulle conclusioni dell’organizzazione non cita affatto Israele, la Palestina o il sionismo, né lo fa l’informazione della CNN. L’articolo del New York Times sul rapporto menziona semplicemente che “include alcuni incidenti definiti come antisionisti o contro Israele,” ma accetta la (falsa) affermazione dell’ADL secondo cui “non confonde le critiche generali a Israele o l’attivismo anti-israeliano con l’antisemitismo.”

Greenblatt è stato invitato da PBS Newhour [notiziario televisivo serale USA, ndt.] a parlare del rapporto ed ha apertamente calunniato gli antisionisti senza smentite: “Quando vediamo accaniti attivisti antisionisti nei campus dei college intimidire apertamente, aggressivamente e quasi con gioia studenti ebrei, qualcosa di fondamentale si è rotto nella nostra società,” ha detto al conduttore Geoff Bennett.

Poi Bennett ha esplicitamente ripetuto il discorso dell’ADL chiedendo a Greeblatt di spiegare i falsi dati sui campus. “Ha colpito anche me leggere in questo rapporto dell’aumento del 41% di attività antisemite nei campus dei college e delle università,” ha affermato Bennett. “E continuando a leggere sull’argomento quello che ho imparato è che spesso studenti ebrei affermano che gli abusi sono spesso accentuati quando emergono critiche contro Israele. Dimmi qualcosa in più a questo proposito.”

Nella sua risposta Greenblatt è arrivato fino a suggerire che gli antisionisti sono indirettamente responsabili di scritte naziste.

Beh, vedi, non c’è sicuramente niente di sbagliato nel criticare le politiche dello Stato di Israele,” ha sostenuto Greeenblatt. “È una cosa frequente. Vivere in democrazia significa questo. Lo fa anche l’ADL. Ma l’instancabile ossessione contro lo Stato ebraico, le affermazioni secondo cui stia in qualche modo commettendo un genocidio contro i palestinesi o sia responsabile di suprematismo bianco, se pensi che un Paese, l’unico Stato ebraico al mondo, sia in qualche modo suprematismo bianco o stia commettendo un genocidio, ovviamente, tu – noi non dovremmo poi essere sorpresi quando compaiono svastiche sulla sede dell’associazione ebraica o quando le persone pensano che sia giusto prendere di mira e vittimizzare apertamente studenti ebrei.”

Gli attivisti hanno costantemente insistito perché le associazioni per i diritti umani smettano di lavorare con l’ADL a causa della lunga storia di opposizione ai diritti dei palestinesi e di collaborazione con le forze dell’ordine da parte dell’organizzazione. Nel 2020 una coalizione di associazioni (tra cui American Muslims for Palestine [Musulmani Americani per la Palestina], il Palestinian Youth Movement [Movimento Giovanile Palestinese], Adalah Justice Project [Progetto di Giustizia Adalah] e IfNotNow [SeNonOra]) hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo di intervenire.

Benché l’ADL sia integrata nel lavoro di comunità su una serie di problemi, essa ha una storia e un costante comportamento aggressivo contro movimenti per la giustizia sociale guidati da comunità di colore, queer, immigrati, musulmani, arabi e altri gruppi emarginati, schierandosi nel contempo con polizia, dirigenti di destra e perpetratori della violenza di stato,” vi si legge. “Cosa ancora più indignante, spesso ha condotto questi attacchi sotto la bandiera dei ‘diritti civili’.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’esercito israeliano ha condotto un’azione psicologica online rivolta all’opinione pubblica israeliana durante la guerra di Gaza

Hagar Shezafand e Yaniv Kubovich

22 marzo 2023 Haaretz

L’esercito israeliano ha utilizzato falsi account di social media per diffondere il messaggio secondo cui stava “compiendo una dura rappresaglia contro Hamas”. Ha pubblicato decine di video #Gazaregrets [Gaza rimpiange] nei gruppi Facebook di Netanyahu taggando i politici di destra. Un alto ufficiale ha detto: “Questo è illegale, non si deve fare”, e l’esercito ha risposto: “Abbiamo sbagliato.”

Durante l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle mura] nel maggio 2021 a Gaza l’Unità portavoce delle Forze di Difesa israeliane ha condotto un’operazione di guerra psicologica rivolta ai cittadini israeliani con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle manovre offensive dell’esercito israeliano e sul “prezzo” che queste iniziative avrebbero imposto ai palestinesi.

I militari hanno utilizzato falsi account di social media per nascondere l’origine della campagna. Hanno usato Twitter, Facebook, Instagram e TikTok per caricare immagini e clip degli attacchi dell’esercito a Gaza utilizzando l’hashtag #Gazaregrets con didascalie come “Perché mostrano solo Israele che viene attaccato invece dei nostri attacchi a Gaza? Dobbiamo dimostrare a tutti quanto siamo forti!” e “Condividi in modo che tutti possano vedere come reagiamo alla grande” o ” Facciamo in modo che Gaza si penta… Am Israel Chai [La Nazione israeliana è viva]”.

Haaretz ha appreso che questa “campagna di propaganda” è stata lanciata diversi giorni dopo l’inizio dei combattimenti, dopo che l’Unità portavoce dell’esercito israeliano ha ritenuto che l’opinione pubblica israeliana fosse più colpita dagli attacchi missilistici lanciati contro Israele da Gaza che dalle azioni dell’esercito israeliano all’interno della Striscia. Secondo il dibattito interno, l’uso da parte dell’Unità di account falsi – “bot” – aveva lo scopo di impedire che fossero “attribuiti” all’esercito. Questo, sperava l’esercito, li avrebbe fatti sembrare autentici, come se provenissero direttamente dall’opinione pubblica.

Per dare ulteriore voce alla campagna, l’Unità portavoce ha collaborato con discrezione con due popolari account Instagram israeliani – @idftweets e @pazam_gram – che hanno centinaia di migliaia di follower. Il primo giorno di questa campagna, @idftweets ha condiviso post e storie di un attacco dell’esercito israeliano con l’hashtag #Gazaregrets. Il contenuto ha ricevuto centinaia di like e commenti entusiasti come “uccideteli tutti” o “perché ci sono ancora degli edifici in piedi a Gaza?” @pazam_gram ha seguito l’esempio con altre storie sui propri account.

L’Unità portavoce dell’esercito intendeva utilizzare anche gli influencer dei social media per manipolare l’opinione pubblica israeliana.

Non è chiaro se l’esercito abbia pagato i titolari dell’account Instagram per i loro servizi. Secondo una fonte a conoscenza del funzionamento interno dell’Unità, questa non è l’unica volta in cui si è realizzata una simile collaborazione.

L’operazione Guardian of the Walls è stata lanciata il 10 maggio, dopo che Hamas aveva lanciato razzi contro Gerusalemme durante la Marcia delle Bandiere tenutasi in quella giornata di tensione, ed è stata seguita da una raffica di razzi puntati contro il centro di Israele. L’esercito israeliano ha risposto con massicci attacchi a Gaza, che hanno raso al suolo una serie di grattacieli. La campagna è durata 11 giorni e ha visto 4.000 razzi lanciati verso Israele, che hanno provocato la morte di dieci israeliani e tre cittadini stranieri. A seguito degli attacchi dell’esercito israeliano sono stati uccisi 350 abitanti di Gaza, la maggior parte dei quali miliziani di Hamas e della Jihad islamica.

Subito dopo l’inizio dei combattimenti, l’Unità portavoce dell’esercito ha deciso di lanciare la sua campagna di guerra psicologica contro i cittadini israeliani. Il 12 maggio ha aperto un falso account Twitter appartenente a “Moshe Vaknin” con la foto della bandiera israeliana.

Il soldato che gestiva l’account ha twittato 27 volte in sole tre ore. Con l’hashtag #Gazaregrets ogni post conteneva immagini degli attacchi israeliani a Gaza o della distruzione da essi prodotta. Per aumentarne la portata e la visibilità, ogni tweet è stato pubblicato come risposta a popolari account Twitter con decine di migliaia di follower: la maggior parte di questi account apparteneva a persone note per essere sostenitori del primo ministro Benjamin Netanyahu. I tweet hanno taggato anche politici di destra e personalità dei media.

In risposta a un tweet pubblicato dal parlamentare di estrema destra Itamar Ben-Gvir, che chiedeva di “trasformare in parcheggio il quartiere di Gaza con le ville di Hamas”, il soldato che gestiva il falso account ha risposto con l’immagine di un grattacielo crollato a Gaza e la didascalia “Itamar, condividilo subito in modo che tutto Israele possa vedere che #Gazaregrets”.

In risposta al tweet del conduttore televisivo israeliano di destra Yinon Magal, che prendeva in giro l’allora ministro della Difesa Benny Gantz, il falso “Moshe Vaknin” ha risposto con la foto di un attacco dell’esercito e la didascalia “Yinon #Gazaregrets condividi subito in modo che tutti possano vedere”.

Il 12 maggio è stato creato un altro account falso su Facebook con il nome Dana Lock e come immagine del profilo una ragazza drappeggiata con la bandiera israeliana. In due giorni l’account ha pubblicato otto video di attacchi israeliani con la didascalia “Non rimarremo in silenzio! Non siamo fessi! #Gazaregrets! Condividere!!”

Per raggiungere un pubblico più ampio, i video sono stati pubblicati su diversi gruppi Facebook di sostenitori di Netanyahu, per un totale di oltre 100.000 follower collegati.

Altri due falsi account su Instagram e TikTok hanno pubblicato 13 post simili.

Nel complesso, la campagna di propaganda ha coinvolto molto poco l’opinione pubblica israeliana: con l’eccezione di un solo video di TikTok che ha ricevuto alcune decine di like e commenti, il resto dei post sui social media non ha quasi provocato commenti, condivisioni o like. Fallito anche il tentativo di promuovere l’hashtag #Gazaregrets. Solo sei profili organici (cioè autentici) hanno utilizzato l’hashtag su Facebook, ma su altre piattaforme non si è visto alcun uso reale del tag.

Nonostante ciò, Haaretz ha appreso che una volta conclusa la guerra su Gaza del 2021 l’Unità ha ricevuto un premio per la “migliore campagna operativa” durante Guardian of the Walls. Il premio è stato assegnato al tenente colonnello Merav Stollar-Granot, capo del dipartimento media dell’Unità portavoce dell’esercito.

L’Unità Campagne del dipartimento opera come una sorta di ufficio stampa per l’esercito e organizza campagne interne ed esterne per aumentare la conoscenza delle diverse unità dell’esercito e le questioni militari. All’epoca era diretta da Yuval Horowitz, un civile assunto come attivista di marketing che ora lavora per Keshet Media [società di mass media israeliana privata il cui notiziario online è molto seguito, ndt.]. L’Unità è composta da riservisti che lavorano come pubblicitari e designer.

In risposta l’esercito ha dichiarato: “Durante la campagna Guardian of the Walls l’Unità portavoce ha diffuso filmati autentici dei combattimenti dall’interno della Striscia di Gaza, ottenuti dalle piattaforme dei social media. Tutti i contatti dell’esercito con gli influencer israeliani sui social media sono avvenuti a titolo ufficiale. Poiché il filmato è stato girato da palestinesi a Gaza, la sua diffusione non può essere attribuita all’esercito.

L’esercito ha infatti creato un certo numero di account falsi che hanno pubblicato il filmato sui social media al fine di massimizzare l’accesso del pubblico. In retrospettiva, l’uso di quegli account è stato un errore ed è stato limitato a 24 ore. Non vi è stato alcun ulteriore utilizzo negli ultimi due anni. L’Unità portavoce dell’esercito è impegnata nella verità ed esige rapporti affidabili e per quanto possibile accurati al fine di trasmettere informazioni all’opinione pubblica in modo corretto.”

Guerra psicologica

L’esercito ha impiegato per anni la guerra psicologica contro i nemici di Israele nel tentativo di sminuire le loro narrazioni, influenzare la popolazione (per esempio a Gaza, in Libano e in Iran) e pubblicizzare i propri risultati operativi. Un’unità di guerra psicologica è stata costituita nel 2005 sotto l’egida dell’intelligence militare. Come parte delle attività contro il “nemico”, l’intelligence israeliana ha raccolto informazioni che includevano l’opinione pubblica della popolazione nemica e le sue posizioni in quel momento sui governanti e sulla guerra. Ha anche cercato di influenzare il discorso pubblico dei nemici per seminare incertezza, minare la credibilità dei messaggi del potere dominante e incoraggiare la pressione dell’opinione pubblica sulla rispettiva leadership. La maggior parte di queste attività è stata condotta di nascosto e ha diffuso informazioni destinate ad essere utili in un modo o nell’altro a Israele.

Durante l’operazione Guardian of the Walls nel 2021 l’intelligence israeliana ha condotto una campagna sui social media in arabo diretta alla popolazione di Gaza con il titolo “Hamas sta uccidendo la Nazione” e “la colpa è di Hamas “.

L’intelligence militare poteva raggiungere le popolazioni civili a vari livelli. Tuttavia la legge israeliana vieta all’esercito di operare tali attività all’interno, il che significa che una guerra psicologica segreta contro i cittadini israeliani è illegale.

“Quelle competenze sono state sviluppate per identificare la mentalità dei Paesi nemici e per influenzarli dall’esterno – senza che l’esercito compaia – sulla situazione nazionale del popolo con cui Israele sta combattendo una guerra”, ha detto ad Haaretz un alto funzionario della Difesa. “Nessuna operazione di guerra psicologica è stata condotta contro cittadini israeliani. Questo è proibito dalla legge. [È una questione così delicata che] anche durante il COVID-19 l’esercito non è stato autorizzato a impiegare alcune di quelle competenze per individuare i casi conclamati”.

Durante il mandato dell’ex capo di stato maggiore Aviv Kochavi è stata data la massima priorità alla guerra psicologica, principalmente nei confronti dei palestinesi, e il nome dell’Unità è stato cambiato in Impact Division. Sebbene siano stati fatti tentativi per trasferirne l’autorità al portavoce dell’esercito – che si occupa del pubblico israeliano – rimane sotto la competenza dell’intelligence militare.

“Il tentativo è arrivato ai più alti livelli della dirigenza ma è fallito, almeno ufficialmente”, ha detto il funzionario. “Coloro che si sono opposti hanno ritenuto che la cosa potesse essere fatta solo da persone identificate come appartenenti all’esercito e in modo che fosse chiaro che il messaggio proveniva dall’esercito. È stato chiarito a tutti coloro che volevano cambiare la legge esistente che la cosa era inaccettabile”.

Questa fonte non era a conoscenza dell’operazione #Gazaregrets e si è stupita nello scoprire che fosse stata effettivamente condotta agli ordini dell’ex portavoce dell’esercito, il maggiore generale Hidai Zilberman, che Kochavi aveva nominato portavoce dell’esercito nel 2019. Prima di allora Zilberman aveva iniziato la sua carriera nel Corpo di artiglieria, e in seguito era diventato comandante senior nel Comando settentrionale e nella Direzione per la pianificazione dell’esercito. Nel 2021 è stato nominato addetto alla difesa e alle forze armate israeliane per gli Stati Uniti

Il quarto giorno dell’operazione Guardian of the Walls, l’esercito ha lanciato l’operazione Lightning Strike [Colpo di Fulmine], che mirava a utilizzare centinaia di aerei da combattimento per colpire la rete di tunnel di Hamas sulla base del presupposto che al momento la maggior parte del suo braccio armato e gli alti dirigenti di Hamas si trovassero lì.

Il portavoce dell’esercito ha ingannato i media riferendo che le forze di terra avevano iniziato a entrare a Gaza. L’idea era di far entrare rapidamente politici e combattenti di Hamas nei tunnel, dove sarebbero stati poi uccisi. L’operazione è fallita perché Hamas ha riconosciuto l’inganno per quello che era. Nonostante il lancio di centinaia di tonnellate di esplosivo, furono uccisi solo pochi giovani miliziani.

Tuttavia, quando è trapelata la notizia dell’inganno e solo per la stampa estera, la credibilità del portavoce e l’immagine mondiale di Israele sono state gravemente danneggiate.

Zilberman è stato costretto a scusarsi nel tentativo di ripristinare la fiducia dei media stranieri. È arrivato persino a scrivere una lettera al presidente dell’Associazione della stampa estera in cui diceva: “Mi scuso per l’errore. Il portavoce dell’esercito non intraprende guerre psicologiche, il suo ruolo è quello di riferire all’opinione pubblica nient’altro che la verità”.

Ciò che il portavoce dell’esercito non ha detto è che esattamente nello stesso momento i militari che prestavano servizio nell’Unità erano impegnati in un’operazione fraudolenta e senza precedenti nei confronti dell’opinione pubblica israeliana. “Non è meno scandaloso se l’operazione #Gazaregrets è uscita dall’ufficio del portavoce dell’esercito”, ha detto un alto funzionario della difesa quando gli sono state mostrate le prove raccolte da Haaretz. “Una cosa del genere non sarebbe dovuta accadere.”

Nonostante l’assicurazione di Zilberman che l’Unità portavoce dell’esercito non avesse preso parte alla guerra psicologica, tre mesi dopo un’indagine di Haaretz ha scoperto che l’esercito aveva assunto Gilad Cohen – che gestisce il canale Ali Express Telegram [canale di blog informativi, ndt.] – come consulente per la “guerra psicologica” sui social media. La censura militare ha inizialmente vietato la pubblicazione del suo nome, ma dopo diversi giorni ha cambiato la sua decisione.

Ali Express ha più di 100.000 follower ed è diventata negli ultimi anni una delle fonti più influenti in Israele sui temi della difesa e del mondo arabo. Propone servizi esclusivi, video e immagini in cui appare il suo logo, mentre molti giornalisti la usano come fonte citandola direttamente. Più di una volta il portavoce dell’esercito ha indirizzato ad Ali Express i giornalisti che chiedevano cosa stesse succedendo a Gaza, chiarendo che la notizia “non è stata fornita da alcun funzionario militare”.

Cohen ha ricevuto la nomina nel 2019, quando è iniziata la Marcia del Ritorno con gli scontri al confine di Gaza, da Herzl Halevi, che era allora a capo del comando meridionale dell’esercito ed è oggi Capo di Stato Maggiore. Cohen ha continuato a lavorare con il successore di Halevi, Eliez Toledano. Ali Express non conferma che il suo manager funga da consulente retribuito per il comando meridionale dell’esercito. Allo stesso modo l’esercito non riconosce pubblicamente di collaborare con Cohen.

In testi anonimi Ali Express attacca spesso l’affidabilità e la professionalità di eminenti giornalisti israeliani che hanno criticato le politiche dell’esercito nei confronti di Hamas. Attacca anche i politici, tra cui l’ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che aveva annunciato le sue dimissioni dall’incarico dopo un incidente in cui un’unità delle forze speciali dell’esercito era stata scoperta a Khan Yunis, a sud di Gaza. “Davvero non avresti potuto scegliere un momento migliore per dimetterti? Hamas ha regalato ai suoi cittadini un risultato incredibile, un incidente per cui Hamas è riuscito a far dimettere un Ministro della Difesa in carica”, scherza un post anonimo.

All’epoca l’esercito cercò di negare le attività di Cohen. Ma dopo aver saputo del problema creato nei confronti dei cittadini israeliani, l’esercito ha annunciato di aver rescisso il contratto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gas algerino contro ideologia di destra: l’Italia cambierà la sua posizione su Gerusalemme?

Romana Rubeo e Ramzy Baroud

21 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Il 9 marzo, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato Tel Aviv per andare a Roma, è stato portato all’aeroporto Ben Gurion in elicottero perché manifestanti antigovernativi avevano bloccato tutte le strade di accesso.

La visita di Netanyahu non è stata accolta con molto entusiasmo neppure in Italia. Nel centro di Roma è stato organizzato un sit-in di attivisti filo-palestinesi con lo slogan “Non sei il benvenuto”. Anche una traduttrice italiana, Olga Dalia Padoa, si è rifiutata di tradurre il suo discorso nella sinagoga di Roma previsto per il 9 marzo.

Persino la presidentessa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, benché come prevedibile abbia ripetuto il suo amore e sostegno a Israele, ha manifestato le sue preoccupazioni per le istituzioni dello Stato di Israele.

Di ritorno a Tel Aviv il viaggio di Netanyahu in Italia è stato stroncato dal leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid come “un dispendioso e inutile fine settimana a spese dello Stato.” Ma il viaggio di Netanyahu in Italia, oltre a passare un fine settimana a Roma o distogliere l’attenzione dalle continue proteste in Israele, aveva altri scopi.

In un’intervista pubblicata il 9 marzo dal quotidiano italiano La Repubblica il Primo Ministro ha spiegato gli ambiziosi obiettivi che stavano dietro al suo viaggio in Italia: “Vorrei che ci fosse una maggiore cooperazione economica,” ha affermato. “Abbiamo gas naturale, ne abbiamo tanto e vorrei parlare di come portarlo in Italia per contribuire al suo sviluppo economico.”

Nelle scorse settimane la Prima Ministra Giorgia Meloni ha fatto la spola tra vari Paesi alla ricerca di lucrosi contratti per il gas. Meloni non vuole solo garantire al suo Paese le necessarie forniture di energia in seguito alla crisi tra Russia e Ucraina, ma vuole che Roma diventi il principale snodo europeo per l’importazione e l’esportazione di gas. Israele lo sa ed è particolarmente preoccupato che l’importante accordo per il gas dell’Italia con Algeria del 23 gennaio possa minacciare la posizione economica e politica di Israele in Italia, in quanto l’Algeria continua a rappresentare il baluardo della solidarietà con i palestinesi in Medio Oriente e in Africa.

Oltre al gas, Netanyahu aveva altre questioni in mente. “Dal punto di vista strategico parleremo di Iran. Dobbiamo impedirgli di avere l’atomica perché i suoi missili potrebbero raggiungere molti Paesi, compresa l’Europa, e nessuno vuole essere preso in ostaggio da un regime fondamentalista con armi nucleari,” ha detto Netanyahu con il consueto linguaggio allarmistico e stereotipato riguardo ai suoi nemici in Medio Oriente.

Netanyahu ha due principali richieste da fare all’Italia: non votare contro Israele alle Nazioni Unite e, cosa più importante, riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Benché Gerusalemme sia considerata dalla comunità internazionale una città palestinese occupata, Netanyahu vuole che, in base all’inconsistente logica della “forte ed antica tradizione tra Roma e Gerusalemme”, Roma cambi la propria posizione, che è coerente con il diritto internazionale.

In base alla stessa logica di esportazione di materie prime e armi in cambio di fedeltà politica con Israele all’ONU, Netanyahu ha ottenuto grandi successi nel normalizzare i rapporti tra il suo Paese e molte Nazioni africane. Ora sta applicando lo stesso modus operandi in Italia, una potenza europea e la nona economia mondiale.

Che questa strategia sia un risultato della crescente sudditanza dell’Europa nei confronti di Washington e Tel Aviv o dell’incapacità di Netanyahu di comprendere il cambiamento delle dinamiche geopolitiche nel mondo è un’altra questione. Ma è chiaro che Netanyahu ha percepito che l’Italia è un Paese che ha disperatamente bisogno dell’aiuto di Israele. Durante l’incontro con Meloni Netanyahu ha promesso di fare dell’Italia uno snodo del gas per l’Europa e di aiutare Roma a risolvere i suoi problemi idrici, mentre da parte sua Meloni ha insistito che “Israele è un partner fondamentale in Medio Oriente e a livello globale.”

Tuttavia la risposta più entusiastica alla visita di Netanyahu è venuta dal ministro italiano delle Infrastrutture Matteo Salvini, di estrema destra, che ha fortemente appoggiato la richiesta israeliana di riconoscere Gerusalemme come sua capitale “in nome della pace, della storia e della verità.” Per quanto in contraddizione con la politica estera italiana, la sua reazione non è affatto sorprendente. Il capo della Lega in passato è stato spesso criticato per il suo linguaggio razzista. Tuttavia Salvini negli ultimi anni si è “trasformato”, soprattutto dopo una visita nel 2018 in Israele, dove ha dichiarato il suo amore per Israele e ha criticato i palestinesi. È stato allora che Salvini ha iniziato a crescere a livello politico italiano in generale, invece che regionale.

Ma questa non è la posizione solo di Salvini. Il governo italiano ha accolto positivamente la visita di Netanyahu senza alcuna critica nei confronti delle politiche radicali del suo governo di estrema destra portate avanti nella Palestina occupata. Mentre questa posizione è in linea con la politica estera italiana, non c’è da stupirsene neanche da un punto di vista ideologico.

Benché in passato, grazie alle forze rivoluzionarie che hanno avuto un grande impatto nel definire il discorso politico italiano durante la Seconda Guerra Mondiale e la successiva liberazione del Paese dal fascismo, la politica italiana abbia dimostrato una notevole solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la liberazione e il diritto all’autodeterminazione, questa posizione è cambiata nel corso degli anni. Mentre la politica interna italiana arretrava verso destra, l’agenda della sua politica estera in Palestina e Israele si è spostata decisamente verso una posizione filo-israeliana. Ora quanti vengono percepiti come filo-palestinesi nel governo italiano sono pochi e spesso definiti politici radicali.

Tuttavia, nonostante il discorso ufficiale a favore di Israele in Italia, le cose per Netanyahu non sono così facili come possono sembrare, soprattutto quando si tratta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

In effetti Meloni non ha manifestato un sincero impegno verso la richiesta israeliana. Al contrario, lo scorso agosto, in un’intervista con la Reuter [agenzia di stampa inglese, ndt.], ancor prima di diventare prima ministra italiana Meloni era sembrata cauta, affermando solo che si tratta di “una questione diplomatica e dovrebbe essere valutata insieme al ministero degli Esteri.”

C’è una ragione dietro all’esitazione di Meloni. Il riconoscimento italiano di Gerusalemme come capitale di Israele collocherebbe Roma fuori dal diritto internazionale. In una lettera aperta a Meloni la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese ha ricordato al governo italiano che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele rappresenterebbe un’aperta violazione del diritto internazionale.

La politica estera italiana deve anche rendere conto a quella collettiva dell’Unione Europea, di cui Roma è parte integrante. L’UE sostiene la posizione dell’ONU, secondo cui Gerusalemme est è una città palestinese occupata e l’annessione della città nel 1980 da parte di Israele è illegale.

Oltretutto il recente accordo storico dell’Italia con la compagnia statale algerina del gas, Sonatrach, a gennaio, rende particolarmente difficile per Roma prendere una posizione estremista a favore di Israele. Il delicato equilibrio geopolitico risultante dalla crisi del gas, di per sé un risultato diretto della guerra tra Russia e Ucraina, rende ogni cambiamento nella politica estera italiana riguardo a Palestina e Israele simile a un atto di autolesionismo.

Almeno per il momento il gas arabo è per l’Italia molto più importante di quello che potrebbe offrire Netanyahu. Secondo quanto riferito da “BNE Intellinews” il nuovo accordo tra Roma e Algeri garantirà all’Italia 9 miliardi di m3 di gas, oltre alle forniture che già passano per il gasdotto TransMed. Questa infrastruttura vitale connette l’Algeria all’Italia attraverso la Sicilia che, a sua volta, utilizza gasdotti sotto il mar Mediterraneo. “L’espansione di questi percorsi vitali è già stata programmata, al fine di aumentare l’attuale capacità di 33,5 miliardi di m3 all’anno”, aggiunge il sito web di notizie economiche.

Benché sia una figura politica di estrema destra senza una particolare vicinanza o rispetto per le regole stabilite a livello internazionale, Meloni comprende che gli interessi economici prevalgono sull’ideologia. “Oggi l’Algeria è il nostro primo fornitore di gas,” ha affermato Meloni in una conferenza stampa ad Algeri dopo aver firmato l’accordo. Il contratto, ha detto, fornirà al Paese “un mix di energia che difenderà l’Italia dall’attuale crisi energetica.”

Un simile fatto renderebbe impossibile per l’Italia allontanarsi, almeno per ora, dalla sua attuale posizione riguardo a Gerusalemme e all’illegale occupazione israeliana della Palestina. Mentre sarà difficile per Israele convincere l’Italia a cambiare posizione, Algeria, Tunisia e altri Paesi arabi potrebbero alla fine trovare un varco per scoraggiare l’Italia dal suo cieco appoggio a Israele.

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter [Mio padre era un combattente per la libertà] e The Last Earth [L’ultima terra]. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il rapporto sui diritti umani dell’amministrazione Biden ignora l’uccisione di Shireen Abu Akleh

Redazione MEE

21 marzo 2023 – Middle East Eye

Amnesty International denuncia ‘doppi standard’ nel rapporto, afferma che gli USA non attribuiscono responsabilità ai loro principali alleati nella sicurezza

Il rapporto annuale sui diritti umani del Dipartimento di Stato USA fa propria la versione del governo israeliano sugli eventi relativi all’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh e non fa menzione della morte di un cittadino statunitense in seguito al suo arresto da parte delle forze israeliane l’anno scorso.

Il rapporto, diffuso lunedì, non definisce la morte della giornalista come omicidio extragiudiziale o arbitrario, limitandosi a citarla nella sezione relativa alla libertà di espressione.

Lo scorso maggio le forze israeliane spararono e uccisero Abu Akleh nel corso di un raid israeliano nella città di Jenin nella Cisgiordania occupata. La sua morte suscitò l’indignazione palestinese ed una vasta condanna internazionale.

Un’inchiesta dell’esercito israeliano sull’uccisione di Abu Akleh concluse che probabilmente le fu sparato da un soldato israeliano, ma non era stata deliberatamente presa di mira. Invece diverse inchieste indipendenti conclusero che Abu Akleh e i suoi colleghi vennero esplicitamente presi di mira, nonostante fossero identificabili come membri della stampa.

Il rapporto del Dipartimento di Stato inoltre non fa menzione della morte dell’ottantenne palestinese-americano Omar Asaad, che morì dopo essere stato posto sotto custodia israeliana. Il New York Times riferì che ebbe un attacco cardiaco indotto da stress, molto probabilmente provocato dall’essere, stato imbavagliato al gelo in un cantiere, stando ad una relazione del medico legale.

Mentre l’uccisione di Abu Akleh non è stata inclusa nella sezione sulle uccisioni extragiudiziali, il rapporto del Dipartimento di Stato prende di mira le inchieste di Israele sulle sue forze di sicurezza e sui casi di violenza, uccisioni illegali e arbitrarie e restrizioni nei confronti dei palestinesi.

I sistemi giudiziari israeliani militare e civile hanno raramente riscontrato abusi commessi da membri delle forze di sicurezza”, afferma il rapporto del Dipartimento di Stato.

Ci sono diverse relazioni sul fatto che il governo o i suoi agenti hanno commesso uccisioni arbitrarie o illegali”, aggiunge il rapporto, sottolineando che “i cittadini con disabilità mentali sono sottoposti a maggior rischio di subire violenza quando hanno a che fare con la polizia.”

Doppi standard’

Presentando il rapporto lunedì in una conferenza stampa il Segretario di Stato Antony Blinken ha detto: “Non vogliamo entrare in conflitto con nessuno– definiamo le cose come le vediamo.”

Eppure, nonostante il rapporto, gli USA hanno continuato a fornire supporto diplomatico e militare a Israele, che i difensori dei diritti dei palestinesi affermano alimenti la violenza e le violazioni dei diritti contro i palestinesi.

All’inizio di questo mese, dopo che il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha auspicato che la città palestinese di Huwwara “venga spazzata via”, gli USA gli hanno rilasciato un visto nonostante le richieste da parte di associazioni progressiste, organizzazioni per i diritti e associazioni ebraiche che a Smotrich fosse negato l’ingresso nel Paese.

Per anni le associazioni per i diritti hanno criticato l’amministrazione Biden per non aver mantenuto le promesse di porre i diritti umani al centro della sua politica estera.

Quando il Segretario di Stato Blinken ha annunciato la strategia di politica estera USA, ha detto che sarebbe stata incentrata sui diritti umani”, ha dichiarato lunedì Paul O’Brien, direttore esecutivo di Amnesty International USA.

Eppure il rapporto annuale sui diritti umani dimostra che l’amministrazione Biden prosegue in una politica di doppi standard quando si tratta di evitare di richiamare le violazioni dei diritti umani dei principali alleati nella sicurezza.”

O’Brien ha detto che il rapporto dell’amministrazione Biden “non include pienamente la situazione dei diritti umani in peggioramento” nella Cisgiordania occupata da Israele e “offre un riconoscimento de facto del controllo israeliano su Gerusalemme est occupata e le Alture del Golan (siriane, ndtr.).”

E’ ora che l’amministrazione Biden smetta di concedere ai suoi alleati un lasciapassare sui diritti umani.”

Gli alleati USA del Golfo

Il rapporto annuale cita molte violazioni dei diritti umani compiute dai suoi alleati in Medio Oriente, compresi Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.

Il Dipartimento di Stato cita un lungo elenco di violazioni di diritti in Arabia Saudita, comprese uccisioni extragiudiziali, sparizioni forzate, arresti arbitrari e condizioni di detenzione potenzialmente letali.

Il rapporto esce quando l’Arabia Saudita ha rilasciato dal carcere il 72enne cittadino USA Ibrahim Almadi, che era stato condannato a 19 anni per aver postato dei tweet critici verso la monarchia. Almadi resta sottoposto a divieto di viaggiare e non può lasciare il Paese.

Il rapporto di lunedì esce una settimana dopo che i senatori USA Chris Murphy e Mike Lee hanno introdotto una disposizione che richiede al Dipartimento di Stato di presentare un rapporto sulla situazione dei diritti umani in Arabia Saudita, in mancanza del quale tutta l’assistenza al regno per la sicurezza si interromperebbe.

Le armi USA non possono essere nelle mani di chi viola i diritti umani”, ha dichiarato Lee. “Il popolo americano e i suoi rappresentanti eletti hanno il diritto di conoscere i tipi di attività che stiamo tacitamente sostenendo.”

Nonostante l’amministrazione Biden chieda una revisione delle relazioni USA- Sauditi, esperti di diritti umani affermano che Biden deve ancora avviare un nuovo approccio alla propria alleanza con il regno. Il presidente USA quando è entrato in carica ha affermato che avrebbe trattato solo con Re Salman, ma nel rapporto di lunedì si definisce il Principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman “capo di Stato.”

Secondo l’organizzazione umanitaria di assistenza legale “Reprieve” e l’Organizzazione per i diritti umani europea-saudita l’utilizzo della pena di morte in Arabia Saudita è quasi raddoppiato dalla salita al trono del Principe ereditario Mohammed bin Salman nel 2015.

Tra il 2010 e il 2014 nel regno vi era una media di 70,8 esecuzioni all’anno. Poi, dal 2015 – l’anno in cui il principe ereditario divenne il capo de facto del regno – fino al 2022, vi è stata una media di 129,5 esecuzioni all’anno, con un aumento dell’82%.

Anche gli Emirati Arabi Uniti, un altro alleato degli USA, sono stati citati nel rapporto per una serie di abusi, dalla detenzione in isolamento alle restrizioni sui media e la libertà di espressione, come anche per “gravi e irragionevoli restrizioni alla partecipazione politica”. Il rapporto elenca anche violazioni dei diritti in altri Paesi del Medio Oriente, inclusi Egitto, Tunisia e Giordania.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Rachel Corrie venne uccisa a Gaza dall’esercito israeliano. 20 anni dopo i suoi genitori stanno ancora lottando per ottenere giustizia

Andrew Buncombe

17 marzo 2023, The Independent

Esclusivo: nei due decenni trascorsi dalla morte della loro figlia attivista per la pace Cindy e Craig Corrie non sono riusciti ad assicurare i responsabili alla giustizia. Ma non hanno rinunciato alle loro speranze di pace, dichiarano ad Andrew Buncombe

Non poteva esserci un modo adatto per ricevere una simile notizia.

La madre di Rachel Corrie, Cindy, ricorda la chiamata telefonica da parte dell’altra sua altra figlia, Sarah, e del marito. Era ovvio che qualcosa non andava.

Le fu detto che c’era una “notizia molto triste” e riguardava Rachel. La giovane attivista si era recata a Gaza due mesi prima per cercare di proteggere le vite e le case dei palestinesi.

È morta? Chiese subito sua madre. Pose la domanda in modo così lapidario, racconta, nella speranza di poter escludere subito il peggio. Ma non c’era modo di sfuggire alla verità. Sì, credevano che fosse morta. L’avevano visto al telegiornale.

Cindy prese il cordless e lo portò al padre di Rachel, Craig, che stava facendo il bucato in un’altra stanza, impegnato con le faccende quotidiane.

Fecero quindi una raffica di telefonate, principalmente ad altri membri della famiglia di Rachel, volendo rivelare personalmente i dettagli prima che vedessero anche loro le notizie in TV. Parlarono anche con il Dipartimento di Stato. Craig chiamò il suo principale. “Non ho idea di cosa sia successo nella mia vita”, gli disse. “Ma è completamente cambiata.”

Sono passati quasi 20 anni da quel terribile giorno, il 16 marzo 2003, quando seppero che la loro figlia era stata uccisa nel sud di Gaza, schiacciata da un bulldozer D9 da 60 tonnellate costruito da Caterpillar Inc e utilizzato dalle forze di difesa israeliane (IDF). Rachel aveva fatto parte di un gruppo di attivisti palestinesi e internazionali che cercavano di fermare la distruzione di proprietà palestinesi. Quel giorno avevano agito come scudi umani per fermare l’abbattimento di una casa nel campo profughi di Rafah occupata dalle famiglie di due fratelli, Khaled e Samir Nasrallah.

Il fatto che nei due decenni successivi siano morte tantissime migliaia di palestinesi – la maggior parte, sostengono i palestinesi, uccisi illegalmente dalle forze israeliane – ripugna ai genitori di Rachel. Sono consapevoli delle critiche secondo cui la visibilità concessa alla morte della figlia sia stata di gran lunga maggiore rispetto al caso in cui venga ucciso un palestinese. I due fatti aiutano a motivarli a continuare il loro lavoro presso la fondazione che hanno creato a nome della figlia.

In pochi giorni si resero conto che la morte della figlia li aveva portati su una strada diversa. Non si poteva tornare indietro. Non esisteva un trucco per viaggiare nel tempo e riportare indietro la loro “meravigliosa e premurosa” figlia, che aveva sognato di diventare una poetessa o una ballerina.

Era stata uccisa, ma dovevano trovare un modo per continuare a vivere, per il bene degli altri loro figli – Rachel aveva anche un fratello, Chris – per se stessi e per la causa per la quale Rachel aveva dato la vita.

Hanno aderito ad una associazione di cui nessuno vorrebbe far parte: di genitori o parenti di una persona cara persa troppo presto, a causa della violenza della polizia, di una sparatoria a scuola o di una malattia rara di cui il mondo sa poco. Fin da allora diffidavano del discorso super abusato riguardo “l’elaborazione del lutto“. Magari, sembrava loro più appropriato l’accertamento delle responsabilità penali, ma sono ancora lontani dall’ottenerlo.

Proprio come quegli individui che cercano un significato nella campagna per una maggiore regolamentazione delle armi o per la riforma della polizia, i Corrie hanno guadagnato l’attenzione cercando di continuare il lavoro della figlia e raccontando la sua storia. In tal modo, agiscono come la figlia ha loro espressamente richiesto.

Nell’ultima e-mail ai suoi genitori, inviata quattro giorni prima della sua morte, scrisse: Ciao papà, grazie per la tua e-mail. A volte mi sembra di passare tutto il mio tempo a parlare con mamma supponendo che ti riferisca le cose, quindi vieni trascurato. Non preoccuparti troppo per me, in questo momento sono molto preoccupata della nostra scarsa efficacia. Non mi sento ancora particolarmente a rischio. Ultimamente Rafah mi è sembrata più tranquilla”.

Aggiungeva: Grazie anche per aver intensificato il tuo impegno contro la guerra. So che non è facile da sostenere, e probabilmente molto più difficile dove sei tu rispetto a qui, dove mi trovo.

Dopo la sua morte alcuni degli scritti di Corrie furono raccolti dalla famiglia e pubblicati con il titolo Let Me Stand Alone: The Journals of Rachel Corrie [Lasciatemi stare da sola: i diari di Rachel Corrie, ndt.]. (Questi scritti avrebbero anche costituito la base di un’opera teatrale, My Name is Rachel Corrie, scritta dalla giornalista del Guardian Katherine Viner e dall’attore Alan Rickman. Rickman ha diretto l’opera teatrale quando è stata rappresentata a Londra.) Un’e-mail contenuta nella raccolta custodisce una lunga lettera che aveva scritto a sua madre il 27 febbraio 2003: Voglio proprio scrivere a mia madre e dirle che sto assistendo a questo genocidio cronico e strisciante e sono davvero spaventata, e sto mettendo in discussione la mia fede di fondo sulla bontà della natura umana. Questo deve finire. Penso che sia una buona idea per tutti noi lasciare ogni cosa e dedicare le nostre vite a fermare tutto questo. Non penso più che nel fare ciò ci sia qualcosa di estremista”.

I Corrie dicono di aver incontrato molti genitori che affrontano altre tragedie, a volte simili.

“Penso che la cosa più urgente per le famiglie, per i sopravvissuti, sia non sperimentare quel dolore provato da un’altra famiglia”, dice il padre di Corrie.

Il peso della scelta è stato superato dal fatto che la loro figlia ha chiesto loro in modo così inequivocabile di dedicarsi alla sua causa, e dal fatto che essi sono finanziariamente in grado di farlo. Come strumento per questo lavoro hanno istituito la Rachel Corrie Foundation.

In tale lavoro c’è una qualche forma di salvezza”, aggiunge. Devi lavorare su qualcosa. È meglio che non avere alcun senso dopo una perdita così grande.

Rachel Corrie nacque nell’aprile del 1979 ad Olympia, la capitale dello Stato occidentale di Washington. Era la più giovane di tre figli e avrebbe goduto di quelli che i suoi genitori dicevano fossero i vantaggi di uno stile di vita della classe media.

Studiò alla scuola statale e per l’istruzione superiore frequentò l’Evergreen State College, un’istituzione progressista dove gli studenti possono progettare i propri corsi di laurea. Fu lì che divenne politicamente consapevole e si unì agli Olympians for Peace and Solidarity, un gruppo affiliato all’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione guidata dai palestinesi che utilizza azioni non violente per affrontare le tattiche dell’esercito israeliano.

Nel suo ultimo anno Rachel voleva vedere Gaza in prima persona. Anche se non ricevette crediti per i suoi scritti da lì e mentre viaggiava nel tempo libero, i suoi genitori consideravano ciò un’ampliamento della sua educazione.

Prima di partire scriveva: Siamo tutti nati e un giorno moriremo tutti. Molto probabilmente in una certa misura da soli”.

Aggiungeva: E se la nostra solitudine non fosse una tragedia? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di dire la verità senza avere paura? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di avventurarci – di sperimentare il mondo come una presenza dinamica – come qualcosa di mutevole e interattivo?”

Corrie e gli altri volontari accettarono di agire come scudi umani, ponendosi sulla traiettoria dei bulldozer corazzati utilizzati dalle IDF per sgomberare i palestinesi. Ciò accadde sullo sfondo di quella che divenne nota come la Seconda Intifada, una rivolta protrattasi per diversi anni contro ciò che i palestinesi consideravano gravi abusi. Comportò attentati suicidi e attacchi con razzi da parte di palestinesi, uccisioni mirate e bombardamenti aerei da parte delle IDF. Gran parte del mondo distolse lo sguardo. Alla fine di marzo 2003, pochi giorni dopo la morte di Corrie, gli Stati Uniti e il Regno Unito invasero l’Iraq col pretesto della ricerca di armi di distruzione di massa.

Quando Corrie fu uccisa, il 16 marzo 2003, tante altre persone assistettero alla sua morte, tra cui molti altri attivisti per la pace, che in seguito avrebbero testimoniato ciò che avevano visto. Un attivista, l’americano Greg Schnabel, avrebbe detto ai media che Rachel indossava una giacca arancione fluorescente ed era “chiaramente” visibile all’autista del bulldozer e ai soldati nel carro armato.

Rachel cadde sulle sue ginocchia in seguito al movimento del terreno. Il bulldozer andò avanti. Rachel cominciò ad essere ricoperta dalla terra. Eppure [il bulldozer] non si fermò”, ha riferito.

Aggiunge che non appena il bulldozer si allontanò, lui e altri attivisti si precipitarono verso di lei nel tentativo di prestare soccorso.

Era ovviamente in condizioni terribili. Il suo labbro superiore era spaccato e sanguinava”, dice, aggiungendo che chiamarono un’ambulanza. Stava respirando ma stava perdendo conoscenza rapidamente. Entro un minuto non era più in grado di darci il suo nome o parlare. Abbiamo continuato a parlarle, incoraggiandola, respirando con lei e dicendole che l’amavamo”.

Circa venti minuti dopo Rachel Corrie era morta.

L’autopsia è stata condotta dal primario patologo Yehuda Hiss. Il referto non venne reso pubblico ma una copia passata ai genitori di Corrie concludeva che era morta a causa di “una pressione sul torace (asfissia meccanica) con fratture delle costole, delle vertebre dorsali e delle scapole e lacerazioni nel polmone destro con emorragia nelle cavità pleuriche”.

I genitori di Corrie e altri attivisti incolparono subito le IDF. Ma Israele respinse quelle accuse di colpevolezza, dicendo che quanto accaduto era stato un incidente e mettendo persino in discussione i resoconti dei testimoni.

Nell’aprile 2003 un rapporto dell’IDF affermava: Contrariamente alle accuse, la signorina Corrie non è stata investita da un bulldozer, ma ha riportato ferite causate dalla terra e dai detriti caduti su di lei durante l’operazione del bulldozer. Al momento dell’incidente la signorina Corrie si trovava dietro un cumulo di terra e quindi nascosta alla vista dell’equipaggio del bulldozer. Accusava persino Corrie e altri membri dell’International Solidarity Movement di comportamento “illegale, irresponsabile e pericoloso”.

Una parte essenziale e tenace della lotta dei Corrie è stata quella di cercare di garantire i responsabili alla giustizia. Non possono riportare indietro la loro figlia. Ma credono che qualcuno o qualcosa – forse diverse persone, Paesi o organizzazioni – dovrebbero assumersi la responsabilità della morte della figlia. Hanno intentato azioni legali per cercare di incolpare sia i produttori del bulldozer che l’esercito israeliano. Quegli sforzi sono falliti.

Nel 2005 i genitori di Corrie, insieme a quattro famiglie palestinesi i cui parenti erano rimasti uccisi o feriti, intentarono un’azione civile contro la Caterpillar Inc. con sede in Texas. I bulldozer Caterpillar erano stati pagati dai contribuenti statunitensi e forniti a Israele come parte dei 3,3 miliardi di dollari che Israele riceve ogni anno da Washington. Accusarono Caterpillar di una serie di reati, inclusi crimini di guerra e uccisioni extragiudiziali.

Sostenevano che poiché Caterpillar sapeva che l’attrezzatura sarebbe stata utilizzata illegalmente era complice dei crimini per cui era stata utilizzata. Il caso venne archiviato da una corte d’appello nel 2007 senza che se ne esaminasse il merito, poiché la corte affermò di non poterlo prendere in esame senza un’indagine sulla liceità dell’invio da parte del governo di tali apparecchiature in Israele.

“Un tribunale non può dare ragione ai querelanti senza mettere implicitamente in discussione, e persino condannare, la politica estera degli Stati Uniti nei confronti di Israele”, sostenne la corte. “A questo proposito, siamo consapevoli di quale potenziale fonte di imbarazzo internazionale potrebbe costituire un tribunale federale nel caso compromettesse le decisioni di politica estera nel delicato contesto del conflitto israelo-palestinese”.

Caterpillar non ha risposto alle domande di The Independent. Anche le IDF e il ministero degli Esteri israeliano non hanno risposto. Un portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington DC ha detto che le domande di The Independent sarebbero state trasmesse ai funzionari in Israele.

I Corrie hanno fatto cinque viaggi a Gaza per vedere dove è stata uccisa la loro figlia e rimangono in contatto non solo con altri attivisti che conoscevano Rachel, ma anche con la famiglia la cui casa stavano cercando di salvare. Hanno visto dei veicoli Caterpillar utilizzati dalle IDF.

La madre di Corrie dice che ora si sente “un po’ risentita” ogni volta che vede macchinari Caterpillar su una strada americana, non importa quale.

“A causa dell’impiego a cui ho assistito dei veicoli di quell’azienda – pagati dal nostro governo – “, precisa. Ricordo sempre: lo strumento usato per fare questo era un veicolo Caterpillar. E… nel corso degli anni, noi e molti altri abbiamo affrontato la Caterpillar Incorporated… perché hanno continuato a effettuare quelle vendite e probabilmente lo fanno ancora”.

In Israele i genitori ebbero un po’ più di fortuna. Nel 2010 citarono in giudizio le IDF e il ministero della difesa israeliano chiedendo una sentenza e un risarcimento.

L’autista del bulldozer, che il giudice ordinò non fosse identificato pubblicamente e che testimoniò da dietro uno schermo, affermò di non essere stato in grado di vedere la figlia.

Nel 2012 il giudice Oded Gershon si pronunciò contro i genitori, assolvendo l’esercito israeliano e l’autista da qualsiasi illecito. Affermò che la responsabile fu la stessa Corrie poiché si era messa per scelta in un posto così pericoloso. “Non si è allontanata come avrebbe fatto qualsiasi persona ragionevole”, disse il giudice. “Ma ha scelto di mettersi in pericolo… e così ha trovato la sua morte.”

Tale sentenza venne successivamente confermata dalla Corte Suprema della Nazione.

“Siamo delusi e non sorpresi dal verdetto”, disse all’epoca il padre di Corrie alla CNN. In questo verdetto, come in quello dei tribunali di primo grado, è stato del tutto ignorato il diritto umanitario internazionale”.

Ripensando ora alla sentenza i Corrie affermano di non essere riusciti a trovare qualcuno che potesse essere ritenuto responsabile della morte della loro figlia, o di quella che sostengono sia la “violenta occupazione” dei palestinesi da parte di Israele. Dicono di non essere stati nemmeno in grado di influenzare la politica americana nei confronti di Israele, che, con poche eccezioni, gode del sostegno indiscusso dei massimi rappresentanti governativi di entrambe i partiti.

La gente dirà che stavamo cercando di ottenere giustizia. Non so nemmeno più cosa significhi quella parola”, dice il padre di Corrie. “Penso che dovremmo cercare in Sud Africa alcune strade attraverso cui potremmo riuscire a ottenere giustizia”.

Ma dice che avverte come l’incapacità di trovare le responsabilità abbia lasciato il segno: “Tutto questo deve essere riconosciuto, e tra tutta questa violenza ora quello a cui penso stiamo assistendo è l’uccisione della speranza, e la speranza è in assoluto la prima cosa di cui abbiamo bisogno per sopravvivere.

L’anniversario della morte di Corrie giunge mentre le relazioni tra Israele e le autorità palestinesi sono quanto mai tese.

Donald Trump ha dato la priorità al rafforzamento del potere di Israele rispetto alle richieste dei palestinesi. Questa mossa ha portato agli Accordi di Abramo, una serie di intese per normalizzare le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Questi accordi storici sono stati ampiamente accolti. Ma i palestinesi si sentono trascurati e Mahmoud Abbas, presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, è stato ampiamente messo da parte.

La violenza è continuata senza sosta ed è salita a livelli che non si vedevano da anni. L’anno scorso, mentre Israele lanciava l’operazione Breakwater, un’imponente azione repressiva, ha avuto luogo una serie di attacchi da parte dei palestinesi.

A gennaio un giorno ha visto la più letale operazione dell’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata dal 2005. Le truppe hanno ucciso nove palestinesi, tra cui uomini armati e una donna di 61 anni, durante un raid contro dei sospettati nel campo profughi di Jenin. Altre decine di persone sono rimaste ferite.

La continua violenza ha provocato il più alto numero di vittime in Cisgiordania dal 2004. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem l’anno scorso quasi 150 palestinesi sono stati uccisi dalle truppe israeliane. Questa cifra include la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh, anche lei uccisa nel campo profughi di Jenin.

Gli osservatori affermano che la situazione è peggiorata dopo la rielezione lo scorso novembre di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano a capo di un governo di coalizione di destra.

Tra i politici ora al governo che una volta erano considerati persino al di là della frangia estrema della politica israeliana c’è Itamar Ben-Gvir. Ben-Gvir ha chiesto l’espulsione dei palestinesi “sleali” nei confronti di Israele ed è un ex membro del partito fuorilegge Kach, considerato nella Nazione un’organizzazione “terrorista”. Netanyahu lo ha nominato ministro della sicurezza nazionale. La sua visita personale al sito religioso più sensibile di Gerusalemme, il complesso della moschea di Al-Aqsa, ha suscitato proteste e ha preceduto le recenti repressioni nel Paese.

***

I Corrie non hanno mai rivelato dove hanno collocato i resti della figlia. Ma c’è un suo memoriale all’interno dell’Evergreen State College, incentrato su un’opera creata da Matteson, artista internazionale e laureato all’Evergreen Ross. Si intitola Reflecting on Peace and Justice” ed è una rappresentazione in bronzo e acciaio lucido di una colomba sulla punta di una piramide.

All’inaugurazione del memoriale la madre di Corrie ha detto ai presenti che aveva rimandato il momento della visita fino al momento dell’apertura al pubblico.

Ho voluto condividere il mio primo incontro con il memoriale in questo luogo molto speciale con tutti voi, che siete venuti per inaugurare questo ricordo di Rachel e della sua dedizione al vincolo della pace con la giustizia e la compassione”, ha detto. E anche per esaltare l’appello alla consapevolezza e all’azione che il memoriale e la storia di Rachel ci inviano”.

I Corrie organizzano sempre qualche evento per celebrare l’anniversario della morte della figlia e cercano di includervi vari elementi: sia costruire una comunità che educare le persone. Sanno che il 20° anniversario sarà sentito con maggiore intensità.

Penso che per ciascuno dei membri della nostra famiglia sia diverso. Quella che facciamo è una riflessione molto personale”, dice la madre di Corrie. Gli eventi organizzati dalla fondazione forniscono un focus, aggiunge.

Il padre di Corrie dice che nel corso degli anni hanno conosciuto “purtroppo troppe famiglie” colpite dal conflitto israelo-palestinese. Hanno amici tra i palestinesi che hanno perso i propri cari e amici tra gli israeliani che hanno subito un lutto simile.

Afferma che ogni famiglia che conosce vuole impedire ulteriori morti: Ovviamente, se guardiamo all’ultimo mese, abbiamo tutti miseramente fallito in questo sforzo, è vero. Ma si deve provare. Si deve fare tutto il possibile e abbiamo sicuramente incontrato sulla nostra strada brave persone che cercano di farlo. E penso che questo sia ciò che ci unisce.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il sistema carcerario israeliano sta ritardando le cure mediche salvavita di Abdul-Razeq Farraj

KHALED FARAJ

14 MARZO 2023 – Mondoweiss

Il trattamento di Abdul-Razeq Farraj per un tumore maligno è stato ritardato dai servizi penitenziari israeliani, parte di una più ampia politica israeliana di sistematica negligenza delle cure dei prigionieri palestinesi.

Mio fratello, Abdul-Razeq Farraj, che è detenuto nelle carceri israeliane, ha notato per la prima volta delle piaghe nere sul lato sinistro del naso tre mesi fa. Ha informato il medico del carcere e, a seguito di una procedura di screening, l’autorità penitenziaria ha ordinato che fosse trasferito in un ospedale civile per sottoporsi a ulteriori esami. Si è scoperto che questa piaga è un tumore maligno e che è necessario eseguire un’operazione per rimuoverla.

Non sono un medico, ma un semplice confronto tra una foto del tumore che ho visto tre mesi fa e un’altra foto che l’avvocato ha avuto il permesso di scattare questo mese indica cambiamenti visibili per quanto riguarda le sue dimensioni. In effetti, il tumore è cresciuto rapidamente sul lato sinistro del naso di mio fratello.

Un amico chirurgo mi ha in un primo momento informato che il caso non è pericoloso e che una semplice procedura avrebbe rimosso efficacemente il tumore. Questo quando ha visto la prima foto tre mesi fa. Questo mese, tuttavia, dopo aver visto la foto recente e dopo aver consultato altri medici, il mio amico ha notato che è necessaria un’operazione urgente e che l’espansione del tumore è verticale e non solo orizzontale. Qualsiasi ritardo nell’esecuzione dell’operazione porterebbe all’espansione del tumore, ha avvertito. In effetti, quello di cui stiamo parlando qui è un tumore maligno che non deve essere ignorato. L’autorità penitenziaria di Ofer, dove è detenuto mio fratello, ha ritardato la consegna del referto medico al suo avvocato e a un rappresentante di Medici per i Diritti Umani. La relazione è stata finalmente inviata all’avvocato, ma non è altro che un verbale procedurale privo di qualsiasi sostanza.

Il mio amico chirurgo e i suoi colleghi nel Regno Unito sono rimasti sorpresi quando hanno saputo di questo ritardo deliberato nel sottoporre mio fratello all’operazione così necessaria. Infatti era urgente eseguire l’operazione e rimuovere il tumore sin dal dicembre 2022, cioè da quando ha ricevuto per la prima volta la diagnosi. Questo tipo di ritardo da parte delle autorità del servizio penitenziario israeliano nel fornire cure mediche urgenti ai prigionieri palestinesi è chiaramente intenzionale.

Mio fratello Abdul-Razeq è imprigionato da più di tre anni e mezzo. È stato sottoposto a brutali torture nei centri di interrogatorio israeliani durante il suo ultimo arresto nel 2019 ed è attualmente in attesa di processo nei tribunali militari israeliani.

Ma questa non è la prima incarcerazione di mio fratello. Ha trascorso oltre dieci anni della sua vita in prigione secondo la politica arbitraria della detenzione amministrativa, tra il 1995 e il 2018. Ha anche scontato una pena di sei anni tra il 1985 e il 1991. Questi arresti, insieme al suo recente arresto nel 2019, portano a un totale di vent’anni che ha già trascorso nelle carceri israeliane. In particolare, i tribunali militari israeliani hanno sempre ripetuto la stessa accusa di “mettere in pericolo la sicurezza regionale e la sicurezza del pubblico” nella loro lista di imputazioni contro mio fratello, così come nei suoi ordini di detenzione amministrativa che si basano su “fascicoli segreti” a cui né gli avvocati né i loro clienti hanno accesso.

Abdul-Razeq, che ha da poco compiuto sessant’anni, ha passato un terzo della sua vita lontano dalla sua famiglia. Suo figlio, Basil, ha terminato gli studi di dottorato a Ginevra, in Svizzera, e ha iniziato a insegnare alla Birzeit University pochi mesi fa. Suo figlio minore, Wadea, ha terminato gli studi in ingegneria e ha iniziato a lavorare, il tutto mentre il padre era via. La sua compagna di vita, Lamis, ha trascorso metà della sua vita coniugale viaggiando tra prigioni e tribunali militari israeliani cercando di trovare una sorta di temporanea stabilità familiare.

 Sì, Abdul-Razeq è stato punito, in senso letterale, più di una volta, davanti allo stesso tribunale e sotto la stessa accusa. Mentre era fuori di prigione, Abdul-Razeq ha lavorato per molti anni nel giornalismo e nello sviluppo agricolo come parte del suo lavoro nell’ Union of Agricultural Work Committees. Ha impegnato il suo tempo durante il suo primo lavoro a denunciare i crimini israeliani contro i palestinesi, e ha dedicato il secondo a rafforzare la resilienza e la resistenza dei contadini palestinesi sulla loro terra contro le politiche dei coloni israeliani. Abdul-Razeq ha dedicato parte del suo tempo e delle sue energie per porre termine all’occupazione; per la libertà del suo popolo; per la giustizia e i diritti umani.

La preoccupazione che ho per mio fratello questa volta non è simile agli anni precedenti quando era in detenzione amministrativa. Allora l’intera famiglia avrebbe atteso la sua “presunta” data di rilascio; mia madre – che la sua anima riposi in pace – i suoi fratelli e sorelle, moglie e figli sarebbero al solito delusi da un altro rinnovo della detenzione per la seconda, terza, quarta e anche decima volta.

Questa volta è diverso. Mio fratello Abdul-Razeq non è più giovane, né ha la forza che aveva una volta. In secondo luogo, il suo caso riguarda una malattia che si sta rapidamente diffondendo. In terzo luogo, la nostra preoccupazione è aumentata con l’ascesa dell’estrema destra israeliana dato il suo ruolo importante nell’amministrare lo stato colonizzatore, in particolare dato che il colono criminale, condannato ed estremista Itamar Ben-Gvir ha ricevuto l’autorità sul servizio penitenziario israeliano come parte delle competenza del suo ministero di recente costituzione come ministro della sicurezza nazionale. In quarto luogo, la politica israeliana di trascurare le necessità mediche dei nostri prigionieri è diffusa e i nostri prigionieri sono lasciati soli ad affrontare il loro destino.

Fornire cure mediche ai detenuti è uno dei diritti più inalienabili a cui dovrebbero avere accesso. In effetti è noto come l’occupazione israeliana abbia una lunga storia, comprovata dai nomi e dalle testimonianze dei prigionieri, di trascuratezza nelle cure mediche dei prigionieri arabi e palestinesi.

Le organizzazioni mediche e per i diritti umani devono coordinare collettivamente gli sforzi per fare pressione sull’occupazione israeliana affinché fornisca le cure mediche necessarie a tutti i prigionieri malati. Questa è la sua responsabilità legale e “morale”. Infine la nostra richiesta è la libertà e il diritto alle cure mediche per Abdul-Razeq e i suoi compagni nelle prigioni coloniali israeliane.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 




Le proteste in Israele: una rivolta per lo status quo

Ben White

13 marzo 2023 – The New Arab

Le proteste antigovernative israeliane non riguardano un cambiamento “rivoluzionario”, ma il mantenimento dello status quo, sostiene Ben White, uno status quo che include un regime di apartheid per i palestinesi.

“Dov’eri ad Hawara?” Così recita il coro rivolto di recente alla polizia israeliana dai manifestanti [israeliani, ndt] antigovernativi, in seguito all’orrendo attacco dei coloni nella città dell’area di Nablus.

Mentre per alcuni, le accuse ripetute sono da intendersi come un atto d’accusa contro l’impunità dei coloni, hanno anche un messaggio più problematico. L’implicazione è che la polizia fosse assente, un vuoto sfruttato da coloni fanatici. In realtà le forze israeliane erano presenti e hanno accompagnato e protetto i coloni.

Una domanda di gran lunga migliore di “Dov’eri ad Hawara?” sarebbe “Perché siamo ad Hawara?” Ma questo interrogativo non viene posto, figuriamoci dare una risposta. Il movimento di protesta che attanaglia Israele ha un obiettivo semplice: fermare un governo nel suo cammino. Non vuole il cambiamento, vuole che le cose rimangano le stesse.

Questa è la chiave per capire come e perché l’opposizione ai piani del governo abbia mobilitato settori della società, comprese le grandi imprese e l’hi-tech, fino ai riservisti d’élite.

La folla per le strade e le promesse di disobbedienza civile possono sembrare ad alcuni una “rivoluzione”, ma la forza trainante è un appello per la stabilità dello status quo, che include il regime di apartheid sperimentato dai palestinesi.

Legge e ordine coloniale: rendere legale l’illegale

Si è parlato molto delle voci di protesta provenienti da attuali ed ex membri dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani. Haaretz ha recentemente pubblicato un ampio articolo in cui intervista approfonditamente un certo numero di riservisti che si stanno mobilitando contro la revisione del sistema legale, che includerà – tra le altre modifiche – il potere della Knesset di annullare le sentenze della Corte Suprema.

Alcuni sono stati invitati a riflettere sul motivo per cui questi sviluppi li hanno spinti a rifiutare il servizio diversamente da quanto successo in seguito alle esperienze nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Le loro risposte sono istruttive:

Sapevamo molto bene cosa stavamo facendo. Non ci siamo opposti, non ci siamo rifiutati di obbedire agli ordini, perché capivamo che questo è un Paese democratico”.

“Almeno fino ad oggi, potevi dire a te stesso che tutte quelle decisioni, anche quando erano controverse… venivano prese all’interno delle regole del gioco di un paese democratico”.

“Potevi avere dubbi sulla loro moralità, ma erano state prese nel contesto di un conflitto lungo anni tra due parti, una delle quali si comportava come una democrazia”.

Quando ti viene richiesto di compiere azioni nell’area grigia, sull’orlo del nero, specialmente rispetto agli attacchi a Gaza, lo fai come missione ordinata da un governo che agisce nel quadro di regole del gioco chiare e definite”.

L’idea che i propri ordini siano stati legalmente approvati, e la convinzione che Israele sia un “paese democratico”, sono un elemento centrale nell’autogiustificazione per compiere atti che sono, di fatto, illegali (a livello internazionale) e profondamente anti-democratici (mantenimento di un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi).

Un’altra lettera di circa 150 riservisti dell’esercito israeliano che prestano servizio come specialisti informatici ha avvertito che se le modifiche proposte diventeranno legge, “il quadro morale e legale che ci consente di sviluppare e gestire gli strumenti sensibili che utilizziamo sarà danneggiato”.

“Ci consente” di pronunciarci in più di un senso. Il 12 febbraio, il Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset ha ascoltato una discussione sulle “possibili conseguenze” dei nuovi cambiamenti “sui tentativi di Israele di far fronte alla campagna legale internazionale” – vale a dire gli sforzi per portare in giudizio i responsabili dei crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il vice procuratore generale Gilad Noam è stato chiaro: la “percezione del sistema giudiziario israeliano nell’arena internazionale come indipendente, professionale e apolitico” è stata “una barriera molto significativa all’intervento esterno”, paragonata nel suo impatto a “Iron Dome” [il sistema di difesa antimissilistico utilizzato contro i razzi provenienti dalla Striscia di Gaza, ndt].

Indipendentemente dalla realtà di un sistema caratterizzato non solo da una cultura dell’impunità ma anche da “innovazioni” giuridiche per giustificare i crimini di guerra, è la “percezione” dell’indipendenza del sistema giudiziario che conta. Ora, i funzionari israeliani – e i riservisti dell’aeronautica – sono preoccupati di poter essere soggetti ad arresti in altri paesi.

I palestinesi e le proteste: assenti e presenti

Tali discussioni, e la mobilitazione dei riservisti, sono un esempio di come i palestinesi siano sia assenti che presenti nel movimento di protesta israeliano.

Sono assenti nel senso che non c’è riconoscimento della loro realtà di espropriazione, segregazione e violenza. Le poche bandiere palestinesi apparse inizialmente hanno solo stimolato un’ondata di bandiere israeliane. Gli stessi cittadini israeliani palestinesi non si sono presentati in gran numero.

Eppure i palestinesi sono anche “presenti” in quanto fanno parte di questa storia in ogni momento – dalle ragioni della mancanza di una costituzione formale da parte di Israele negli anni successivi alla Nakba, fino alle ambizioni di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir per l’accelerazione dell’espansione coloniale e dell’annessione.

Colpisce che il bulldozer corazzato D9 dell’esercito israeliano sia diventato una metafora popolare per indicare la riforma del sistema giudiziario dell’attuale governo tra i suoi oppositori, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon e l’ex parlamentare del Likud Limor Livnat.

L’allusione senza ironia al D9 – utilizzato per demolire migliaia di case palestinesi – illustra perfettamente i parametri di queste proteste e quale tipo di “democrazia” cercano di preservare.

Un’occupazione ordinata

Una delle ironie delle attuali divisioni politiche che attanagliano la società israeliana, e della situazione in cui si trova Netanyahu, è che la forza dell’opposizione alla legislazione pianificata è, in parte, la testimonianza di quanto successo abbia avuto il leader del Likud nella “gestione del conflitto”. ‘.

Riconfezionata sotto Naftali Bennett come “restringimento dell’occupazione”, il suo nocciolo era facilmente comprensibile: l’economia israeliana è solida, i palestinesi sono sotto controllo e, a poco a poco, la colonizzazione e l’annessione de facto possono procedere in modo incrementale: l'”occupazione invisibile”.

È una adesione a questo status quo che anima il movimento di protesta: un ambiente stabile per gli investimenti e una magistratura indipendente dalla Knesset ma per niente indipendente dalla spinta colonizzatrice in Cisgiordania o dalla discriminazione subita dai cittadini palestinesi.

La furia dei coloni ha reso Hawara una parola d’ordine tra i manifestanti israeliani per la sua caotica incompetenza e fanatismo. Ma l’esperienza di Hawara sotto il governo militare, come per centinaia di altre comunità palestinesi, non è stata di “caos” ma di ordine: un ordine coloniale.

Ben White è uno scrittore, analista e autore di quattro libri, tra cui “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, del suo comitato editoriale o della redazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




A Nablus i palestinesi hanno scioperato contro le uccisioni da parte di forze israeliane

Redazione di The New Arab

12 marzo 2023 – The New Arab

Domenica, dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo con palestinesi a bordo nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus, i negozi sono rimasti chiusi.

Domenica nella città cisgiordana di Nablus i palestinesi hanno scioperato contro l’uccisione di tre palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane all’inizio della giornata.

I negozi sono rimasti chiusi dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo in cui viaggiavano tre palestinesi nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che nell’attacco sono rimasti uccisi tre palestinesi, tra cui un diciottenne. Ha informato che i loro corpi sono stati sequestrati dalle forze israeliane.

Una fonte ha detto al servizio in lingua araba Al-Araby al-Jadeed di The New Arab che durante l’attacco un palestinese, identificato come Ibrahim al-Awartani, è stato arrestato.

Secondo il ministero della Sanità palestinese le morti di domenica hanno portato a 84 il numero totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane da gennaio.

Il coordinatore di una campagna nazionale per la restituzione di corpi palestinesi tenuti da Israele, Hussein Shujaia, ha detto ad Al- Araby Al-Jadeed che il numero dei corpi di palestinesi trattenuti dalle forze di occupazione dal 2015 è ora salito a 133, tra cui 19 trattenuti da gennaio.

Secondo un comunicato citato dall’agenzia di notizie palestinese Wafa, il movimento Fatah ha condannato l’attacco, che afferma essere stato un tentativo del governo israeliano di esacerbare la situazione.

Utilizzando una frase comunemente utilizzata dagli israeliani in riferimento ai palestinesi come “erbaccia” da tagliare, il comunicato afferma che “la cosiddetta politica di ‘falciare il prato’ praticata dalle forze di occupazione non intimidirà il nostro popolo.”

Il presidente del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, ndt.], Ruhi Fattouh, ha affermato che il governo israeliano deve essere chiamato a rispondere dell’uccisione dei palestinesi.

In una dichiarazione trasmessa dalla WAFA Fattouh ha detto: “Le forze di occupazione erigono barriere di morte agli ingressi delle città palestinesi per uccidere a sangue freddo cittadini con false accuse per giustificare le loro quotidiane esecuzioni sul campo.”

Fattouh ha sostenuto che le ripetute esecuzioni ai posti di controllo militari sono una chiara indicazione che le forze di occupazione “hanno istruzioni esplicite di uccidere” da parte del governo israeliano.

La violenza contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata è peggiorata da quando il primo ministro Benjamin Netanyahu è tornato al potere in dicembre con una coalizione di governo insieme a ebrei ultra-ortodossi e alleati di estrema destra.

Associazioni per i diritti umani hanno spesso invitato le autorità di Tel Aviv a interrompere le “uccisioni illegali di palestinesi da parte di forze israeliane”, affermando che esse rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come la Corte Suprema di Israele consente la tortura dei prigionieri palestinesi

10 marzo 2023 – Middle East Eye

Mentre gli israeliani protestano contro la guerra alla magistratura da parte di Netanyahu e Ben-Gvir l’Alta Corte di Israele autorizza l’uso della tortura da parte dello Stato contro i prigionieri palestinesi

Prima della guerra dell’attuale governo di estrema destra contro la magistratura circolava una notizia poco diffusa sulla Corte Suprema israeliana.

Il 29 dicembre 2022 l’alta corte ha nuovamente capitolato di fronte alle richieste dello Stato in merito alla questione delle condizioni carcerarie e in particolare delle dimensioni delle celle. Ha accolto la richiesta dello Stato e prorogato, per la terza volta, il termine per l’ampliamento dello spazio abitativo dei detenuti fino al 31 dicembre 2027.

In risposta a una petizione da parte di organizzazioni israeliane per i diritti umani, tra cui l’Associazione per i diritti civili (ACRI), nel giugno 2017 la Corte Suprema ha emesso un’ordinanza per l’estensione dello spazio vitale dei detenuti a 4,5 mq, assegnando inizialmente al Servizio carcerario israeliano un termine esecutivo di nove mesi (HCJ 1892/14 ACRI contro Ministro della Pubblica Sicurezza).

Nella maggior parte dei Paesi occidentali la dimensione standard delle celle varia dai 6 ai 12 mq, mentre in Israele è inferiore a 3 mq.

La sentenza sembrava riconoscere le condizioni di vita crudeli, umilianti e disumane dei prigionieri. Nella dichiarazione di apertura dell’ordinanza il giudice Yitzhak Amit scriveva che “la società viene valutata … attraverso il trattamento dei prigionieri”. Sottolineava che privarli della libertà attraverso la reclusione non significa privarli del diritto alla dignità, che scaturisce dal diritto del detenuto a determinare lo spazio minimo abitativo”.

Tuttavia, nonostante questa dichiarazione, la corte ha approvato il mantenimento di tali condizioni per ulteriori cinque anni che, dopo la sentenza iniziale, sono poi diventati dieci.

“Inadatte agli esseri umani”

Nel 2014, ACRI, Physicians for Human Rights [Medici per i Diritti Umani, ndt.] (PHR-I) e altre organizzazioni hanno presentato una petizione alla Corte Suprema per affrontare il problema del sovraffollamento nelle celle e nei penitenziari israeliani e costringere lo Stato ad ampliare immediatamente la superficie abitabile dei detenuti a un minimo di 4,5 mq come soluzione temporanea fino a quando non venisse ulteriormente estesa come parte di un piano a lungo termine.

La petizione affermava che i detenuti sono costretti a trascorrere ore della loro giornata a letto, senza la possibilità di muoversi o stare in piedi, e coloro che condividono una cella non sono in grado di stare in piedi o camminare allo stesso tempo a causa dello spazio limitato.

Di conseguenza i detenuti sono spesso costretti a svolgere a letto l’intera routine quotidiana, compresa l’alimentazione. Sosteneva inoltre che il sovraffollamento crea nelle celle mancanza d’aria, danneggia la salute dei prigionieri e provoca un aumento dei conflitti reciproci.

Si è ben lontani dalle dimensioni accettabili in Paesi considerati democratici (8,8 mq) e dal minimo adottato dalle istituzioni internazionali per garantire quelle condizioni di vita ragionevolmente adeguate menzionate in un rapporto del 2012 pubblicato dal Comitato internazionale della Croce Rossa.

Sfortunatamente la situazione nelle carceri israeliane è la stessa da decenni, ma lo Stato non ha fatto nulla per offrire soluzioni o apportare modifiche. Nel suo rapporto annuale 2019-2020 l’amministrazione per la difesa d’ufficio israeliana ha avvertito del sovraffollamento delle carceri e delle violazioni dei diritti dei prigionieri. Il rapporto descrive le attuali condizioni carcerarie come una “grave violazione della dignità umana”. Critica le dimensioni della cella carceraria ridotte a 2,5 mq, affermando che è “troppo piccola anche per un solo recluso”.

Il rapporto ribadisce precedenti appelli a interrompere immediatamente la detenzione di prigionieri in queste celle, sostenendo che sono “inadatte agli esseri umani”. Osserva inoltre che lo spazio di una cella carceraria oggi è meno della metà del minimo approvato dal Servizio penitenziario israeliano, la principale autorità carceraria che ha indicato nella misura di 6 mq uno spazio ragionevole.

Il rapporto dell’amministrazione per la difesa d’ufficio afferma inoltre che questa questione non riguarda solo i diritti dei detenuti, ma viola anche l’obbligo dello Stato di astenersi da punizioni crudeli, disumane e degradanti, uno standard fondamentale del diritto internazionale.

Mancato rispetto

Il 13 giugno 2017 la Corte Suprema ha ordinato allo Stato di aumentare la superficie abitabile carceraria. Per facilitare l’attuazione di queste riforme l’alta corte ha diviso il processo in due fasi: la prima concederebbe allo Stato nove mesi per estendere la superficie abitabile dei detenuti a 3 mq (esclusi servizi igienici e docce). La seconda fase consisterebbe in un ulteriore incremento della superficie abitabile a 4,5 mq entro nove mesi dall’ordinanza del tribunale.

Tuttavia, il 5 marzo 2018, una settimana prima della scadenza del termine per la prima fase delle modifiche, lo Stato ha presentato al tribunale una richiesta di rinvio dell’attuazione di 10 anni dalla sentenza iniziale, al 2027. Lo Stato sosteneva che il rispetto del termine stabilito dal tribunale avrebbe richiesto unascarcerazione di massa” dei prigionieri e “avrebbe messo in pericolo” la popolazione.

I firmatari hanno respinto queste affermazioni sostenendo che lo Stato non avesse intrapreso alcuna azione per costruire nuovi centri di detenzione e riaffermando l’osservazione dell’Alta corte sull’inadeguatezza delle strutture, molte delle quali costruite durante il mandato britannico. Si sono inoltre opposti alle allusioni ad una questione di pubblica sicurezza, definendo queste “oziose minacce volte a intimidire il tribunale”.

La Corte ha criticato aspramente le azioni dello Stato respingendone inizialmente la richiesta. Ciò ha costretto lo Stato a presentare un piano per la costruzione di nuovi bracci per centinaia di prigionieri e per un incremento della scarcerazione di persone in custodia amministrativa che avrebbe comportato l’evacuazione di circa 1000 spazi di reclusione.

Nel giugno 2018 lo Stato ha aggiornato il tribunale sulla sua intenzione di utilizzare la prigione di Saharonim nel deserto del Negev come centro di detenzione per immigrati come parte della prima fase della riforma.

Per quanto riguarda la seconda fase della sentenza – garantire uno spazio abitativo minimo di 4,5 mq per ogni detenuto entro dicembre 2018 – lo Stato non ha compiuto alcun progresso in materia, portando le organizzazioni per i diritti umani a chiedere al tribunale di costringerlo ad aderire alla lettera della sua sentenza.

Una scappatoia per la tortura

In un avviso emesso il 29 luglio 2018 lo Stato ha informato il tribunale del suo piano per istituire entro il 2026 nuovi centri per ospitare i prigionieri sotto interrogatorio dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. Ha anche annunciato la sua intenzione di presentare una petizione all’alta corte per modificare la sua sentenza al fine di esentare le strutture dello Shin Bet dall’ampliamento dello spazio vitale per i prigionieri fino al 2027. Attualmente, la dimensione delle celle dello Shin Bet è di 2 mq o meno.

I firmatari, che rappresentano varie associazioni per i diritti umani, si sono opposti alla richiesta dello Stato sostenendo che questa popolazione dovrebbe in realtà avere la precedenza negli sforzi per adattare le condizioni carcerarie alla sentenza della corte e che il rinvio della data di esecuzione della sentenza di almeno otto anni è irragionevole.

Lo Stato ha quindi sostenuto che l’espansione dello spazio vitale dei prigionieri danneggerebbe la capacità dello Shin Bet di ottenere informazioni e contemporaneamente influirebbe fortemente sul numero di indagini avviate.

Paradossalmente, la sua giustificazione si basava sul pieno riconoscimento che lo spazio abitativo dei detenuti, al di sotto della superficie minima, costituisce chiaramente uno strumento di tortura e pressione per “ottenere informazioni” o confessioni dai detenuti palestinesi.

La maggior parte delle cosiddette indagini di sicurezza prendono di mira i palestinesi, sottoponendoli a condizioni che violano la Convenzione contro la tortura di cui Israele è firmatario.

Nel 2022 una commissione del parlamento israeliano ha approvato per due volte all’unanimità un disegno di legge per modificare il codice penale (Poteri di arresto, Spazio vitale nei centri di detenzione dello Shin Bet), che esonera tra l’altro i centri di detenzione dello Shin Bet dall’ampliamento dello spazio vitale dei detenuti come ordinato dalla Corte Suprema.

A peggiorare le cose, il progetto di legge suggerisce l’implementazione di norme segrete da parte di un funzionario e del direttore dello Shin Bet. Le organizzazioni per i diritti umani hanno espresso preoccupazione per il fatto che queste “norme” non consentirebbero la protezione dei diritti dei prigionieri i quali sarebbero sottoposti a condizioni di tortura in violazione del diritto internazionale.

Come affermato nei chiarimenti sul disegno di legge, la determinazione delle norme e delle leggi riguardanti lo spazio abitativo dei detenuti viene effettuata dal primo ministro, con l’approvazione del ministro della giustizia e del comitato ministeriale dello Shin Bet, nonché l’approvazione di un comitato speciale congiunto delle commissioni per gli affari esteri e per la difesa e la commissione giudiziaria della Knesset [parlamento israeliano, ndt].

Questa proposta è stata accolta con forte opposizione da parte delle organizzazioni per i diritti umani e alcune di esse – il Comitato contro la tortura, il Centro per la difesa dell’individuo (HaMoked) e Medici per i diritti umani – hanno presentato l’8 febbraio 2020 le loro osservazioni sulla proposta di legge al consigliere giudiziario in carica. Hanno affermato che la proposta tenta di eludere la decisione del tribunale e sopratutto continua a violare irragionevolmente i diritti dei detenuti e a discriminare in particolare questi ultimi [quelli detenuti dallo Shin Bet, ndt].

Hanno anche rilevato che qualsiasi legge deve essere soggetta a standard giuridici e che la proposta contravviene a quanto approvato nella Legge fondamentale israeliana: Dignità umana e libertà.

Hanno sottolineato che queste sedi speciali dello Shin Bet dovrebbero ricevere maggiore attenzione per quanto riguarda la garanzia di uno spazio abitativo, poiché nella maggior parte dei casi sono nascoste agli occhi del pubblico e persino alla supervisione ufficiale. Inoltre in queste strutture ai detenuti è generalmente vietato incontrare avvocati.

La richiesta dello Stato di ritardare l’attuazione dei nuovi requisiti di spazio ha messo in difficoltà la corte. Sebbene essa abbia il potere di prorogare le scadenze, può farlo solo in rare occasioni.

Come rilevato nella decisione del tribunale, “la proroga dei termini, a sua volta, potrebbe portare a una situazione in cui l’illegittimità esistente continuerebbe a ledere le aspettative delle parti nell’affidarsi alla corte e a nuocere alla chiusura dell’arbitrato. Inoltre, le proroghe in casi non necessari porteranno a ledere il principio dello stato di diritto”.

Questa decisione significa che i detenuti e i prigionieri delle carceri israeliane continueranno a vivere in condizioni dure e disumane per altri cinque anni.

Secondo il rapporto dell’amministrazione per la difesa dufficio, tali condizioni “sono considerate un grave abuso dei diritti dei detenuti, della loro dignità, della loro salute e della loro privacy, aggravato dalle dure condizioni di vita”.

La cosa preoccupante è che queste dure condizioni, sommate al trattamento disumano, equivalgono a torture, specialmente nei centri di detenzione dello Shin Bet – esentati dall’ordinanza del tribunale – dove prevalgono freddo intenso, rumore assordante, privazione del sonno, restrizioni di movimento, divieto di uscire nel cortile, cibo scadente, mancanza di letti e coperte, scarsa igiene e altre condizioni di tortura.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Janan Abdu è un’avvocata e attivista per i diritti umani che vive ad Haifa. È impegnata nella sensibilizzazione e nella mobilitazione del sostegno internazionale per i prigionieri politici palestinesi. I suoi articoli sono apparsi sul Journal of Palestine Studies; il trimestrale del Women’s Studies Center della Birzeit University; al-Ra’ida (AUB); The Other Front (Centro di informazione alternativo); Jadal (Mada al-Carmel). Tra le sue pubblicazioni, Palestine Women and Feminist Organizations in 1948 Areas (Mada al-Carmel, 2008).

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)