Israele intende autorizzare nove insediamenti “selvaggi” in Cisgiordania

Agenzia France-Presse in Gerusalemme

15 febbraio 2023 The Guardian

Dopo una serie di attentati a Gerusalemme est il consiglio di sicurezza israeliano annuncia il riconoscimento delle aree costruite senza autorizzazione

Il consiglio di sicurezza israeliano ha annunciato che autorizzerà nove insediamenti nella Cisgiordania occupata dopo una serie di attacchi a Gerusalemme est, tra cui uno in cui sono morti tre israeliani.

“In risposta agli attacchi terroristici omicidi a Gerusalemme, il consiglio di sicurezza ha deciso all’unanimità di autorizzare nove comunità in Giudea e Samaria”, ha dichiarato l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu in una dichiarazione di domenica che utilizza il nome che Israele usa per la Cisgiordania.

“Queste comunità esistono da molti anni, alcune da decenni”, ha affermato.

I cosiddetti insediamenti “selvaggi” sono stati costruiti senza l’autorizzazione del governo israeliano.

“Il comitato di pianificazione superiore dell’amministrazione civile sarà convocato nei prossimi giorni per approvare la costruzione di nuove unità residenziali nelle comunità esistenti in Giudea e Samaria”, si legge nella nota.

Vi si dice che “Il consiglio di sicurezza ha preso una serie di decisioni ulteriori nel quadro di una risoluta lotta contro il terrorismo”, incluso il rafforzamento delle forze di sicurezza a Gerusalemme.

Domenica scorsa durante una riunione del suo governo Netanyahu ha detto che voleva “rafforzare gli insediamenti”, illegali secondo il diritto internazionale.

Più di 475.000 israeliani vivono in insediamenti coloniali in Cisgiordania, dove abitano 2,8 milioni di palestinesi.

Netanyahu ha anche annunciato che questa settimana il suo governo intende presentare al parlamento una legge per revocare la cttadinanza israeliana ai “terroristi”.

Le misure si applicano agli arabi israeliani e ai palestinesi residenti a Gerusalemme est, parte della città annessa da Israele.

Gli annunci arrivano nel pieno di un’esplosione di violenza israelo-palestinese.

Venerdì un palestinese ha ucciso tre israeliani, tra cui due bambini, in un attacco a Ramot, un quartiere di insediamenti ebraici a Gerusalemme est, e domenica le forze israeliane hanno ucciso un adolescente palestinese in un raid nel nord della Cisgiordania.

Dall’inizio dell’anno il conflitto ha provocato la morte di almeno 46 palestinesi sia combattenti che civili, nove civili israeliani e una donna ucraina, secondo un conteggio dell’Agenzia France Press basato su fonti ufficiali israeliane e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Tre palestinesi uccisi in 3 giorni durante l’escalation militare israeliana

Mariam Barghouti

13 Febbraio 2023 – Mondoweiss

Le forze israeliane e i coloni israeliani hanno ucciso 3 palestinesi in tre giorni poco dopo che Itamar Ben Gvir aveva chiesto una “Operazione Scudo difensivo 2″*  in risposta all’attacco ai coloni israeliani. *[operazione militare condotta in Cisgiordania nel 2002 ndt]

I coloni israeliani e l’esercito israeliano hanno ucciso tre palestinesi in tre giorni di seguito. Ciò avviene poco dopo che il Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano, Itamar Ben Gvir, ha chiesto di invadere la Cisgiordania in risposta all’uccisione di coloni israeliani, una “Operazione Scudo difensivo 2”.

Sabato 11 febbraio, Mithqal Rayyan, 27 anni, è stato ucciso da un colono israeliano a Qarawa Bani Husan, vicino a Salfit; domenica 12 febbraio le forze israeliane hanno invaso il campo profughi di Jenin e ucciso il quattordicenne Qusai Radwan e lunedì 13 febbraio le forze israeliane hanno fatto irruzione a Nablus in un’operazione militare contro i combattenti della resistenza palestinese durante la quale Ameer Bustami, 21 anni, è stato colpito e ucciso dall’esercito.

Nel fine settimana: l’uccisione di un padre e di un adolescente

Due palestinesi sono stati uccisi durante il fine settimana: sabato 11 febbraio il 27enne Mithqal Rayyan a Qarawat Bani Husan vicino a Salfit e domenica 12 febbraio il quattordicenne Qusai Radwan nel campo profughi di Jenin.

Sabato pomeriggio Mithqal Rayyan è stato ucciso da un colono israeliano con una pallottola alla testa durante un attacco di coloni contro contadini palestinesi e i loro campi.

Rayyan era padre di tre figli. Suo figlio maggiore ha solo 4 anni e ha una figlia di 2 anni e un neonato di meno di un mese.

Durante il suo funerale la madre di Rayyan è stata vista tenergli la testa e baciarlo in lacrime.

Ha detto alla Maan News Agency: “È partito la mattina senza salutare sua moglie e i suoi figli solo per tornare da loro come martire”.

Il giorno successivo, 12 febbraio, l’adolescente Qusai Radwan è stato ucciso durante un’incursione israeliana a Jenin – un evento quasi quotidiano – che aveva lo scopo di arrestare il fratello del detenuto politico palestinese Zakaria Zubeidi, uno dei sei palestinesi che sono fuggiti dalla prigione di Gilboa nel settembre 2021.

Gibril Zubeidi ed altri due sono stati arrestati durante il raid. Nel maggio dello scorso anno, Daoud Zubeidi, il fratello maggiore di Zakaria e Gibril, è stato arrestato dalle forze israeliane pochi giorni dopo l’uccisione di Shireen Abu Akleh, e sarebbe poi morto per le ferite riportate durante il suo arresto.

Qusai Radwan è stato sepolto nel suo villaggio natale di Arqah più tardi domenica sera.

A Nablus continuano gli scontri

Dopo la mezzanotte di lunedì, intorno all’una di notte, le forze speciali israeliane sotto copertura hanno attaccato Nablus vicino al campo profughi di Al-Ain.

Entro la prima mezz’ora dell’incursione le forze israeliane sono riuscite a circondare e ad assediare un edificio vicino alla Città Vecchia che si credeva ospitasse un combattente della resistenza. I combattenti della resistenza circondati si sono rifiutati di consegnarsi, ne è seguito un lungo scontro a fuoco che è durato quasi quattro ore.

Due palestinesi sono stati infine arrestati, Osama Al-Tawil e Abed Al-Kamel Jury, con l’accusa di essere sospettati di aver effettuato nell’ottobre dello scorso anno una sparatoria nei pressi dell’insediamento illegale di Shavei Shomron durante la quale un ufficiale israeliano che stava proteggendo una marcia di coloni è stato ucciso.

Durante l’assalto notturno a Nablus sette persone sono state ferite con proiettili veri, ma le forze israeliane hanno negato l’accesso al personale medico per raggiungere i feriti. Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese anche tre medici volontari sono stati trattenuti per diverse ore in un edificio ed è stato loro impedito di fornire cure di emergenza. Secondo la Mezzaluna Rossa nella Città Vecchia a un ferito con proiettili veri alla coscia è stato impedito di raggiungere l’ospedale.

“I soldati della Fossa dei Leoni sono attualmente impegnati nella battaglia per la dignità”, ha affermato lunedì un comunicato stampa rilasciato dal gruppo di resistenza armata la Fossa dei Leoni. “Una battaglia per gli stessi valori di Al-Azizi, Al-Nabulsi e Al-Wadee”, riferendosi ai combattenti caduti che erano figure di spicco del gruppo di resistenza armata. La dichiarazione prosegue invitando i palestinesi ad affrontare le incursioni israeliane.

Vicino all’ingresso occidentale della città le forze israeliane hanno circondato un edificio e lo hanno attaccato con una serie di esplosivi, come mostrano filmati condivisi con Mondoweiss da abitanti e giornalisti locali.

Alle 2:30 del mattino le moschee della città hanno dato l’allarme avvertendo dell’incursione con suoni acuti, mentre nel centro della città sono seguiti scontri armati. In concomitanza con la Fossa dei leoni, anche le Brigate Quds-Battaglione Nablus, un gruppo di resistenza armata affiliato alla Jihad islamica palestinese (PIJ), si sono unite agli scontri.

Il Battaglione Nablus delle Brigate Al-Quds, secondo una dichiarazione sul suo account Telegram, ha riferito che il suo gruppo si è unito agli scontri contro le forze di invasione israeliane e ha sparato ordigni esplosivi da diverse posizioni.

L’assalto è stato così brutale che testimoni oculari lo hanno definito un “vero campo di battaglia”. Riprese video e reportage di giornalisti locali mostrano continue e consecutive sparatorie con munizioni vere. Queste si sono ulteriormente intensificate quando un veicolo dell’esercito si è fermato vicino a una scuola a Nablus, mentre i combattenti della resistenza hanno continuato a sparare contro l’esercito mentre si ritirava intorno alle 4:00 del mattino.

Alle 4:25, la Mezzaluna Rossa ha riferito che Ameer Bustami è stato dichiarato morto dopo diversi tentativi di rianimazione da parte dei medici dell’ospedale Rafidia vicino a Nablus.

Secondo locali fonti di notizie di Jenin, durante l’incursione di domenica al campo profughi di Jenin per arrestare Gibril Zubeid i combattenti della resistenza palestinese hanno impiegato un drone volante per monitorare il movimento dei veicoli militari israeliani che invadevano il campo. Questo è considerato un nuovo sviluppo della resistenza palestinese che, fino allo scorso anno, si era limitata a lanciare pietre e bombe molotov contro le forze israeliane d’invasione.

Con l’uccisione di Bustami, il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania è salito a 48 in meno di due mesi dall’inizio del nuovo anno, compresi dieci minori.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La bolla dell’hasbara israeliana sta per scoppiare? [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt]

Meron Rapoport

13 febbraio 2023 – +972 Magazine

Per decenni gli alleati occidentali di Israele hanno hanno annuito quando si autodefiniva “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Cosa succederà se ci ripensano?

“Perché le nostre nazioni condividono un’alleanza così stretta?” si è chiesto ad alta voce il primo ministro Benjamin Netanyahu davanti al presidente francese Emmanuel Macron a Parigi nel 2018, durante un evento in occasione dei 70 anni dalla fondazione di Israele. “Suppongo che la risposta possa essere riassunta in tre parole – parole che tutti voi conoscete: Libertè, egalitè, fraternitè!” Netanyahu ha continuato. Come la Francia, Israele è una democrazia orgogliosa, orgogliosa del nostro primato nel preservare la libertà nel cuore del Medio Oriente. Questo è davvero un risultato notevole perché in questi 70 anni non c’è stato un solo momento, nemmeno un secondo, in cui la democrazia di Israele sia stata messa in discussione».

Eppure per Macron sembra essere arrivato il momento in cui potrebbe porre in discussione la democrazia di Israele. Secondo “Le Monde”, durante il loro ultimo incontro a Parigi all’inizio di questo mese Macron ha detto a Netanyahu che se il programma del governo di estrema destra sulla revisione del sistema giudiziario andrà a buon fine la Francia sarà “costretta a concludere che Israele ha abbandonato il concetto dominante di democrazia”. Cioè, se Netanyahu ha propagandato Israele come un bastione della “libertà in Medio Oriente” per dimostrare a Paesi come la Francia di avere “valori condivisi”, sembra che oggi meno persone stiano abboccando a quanto il primo ministro sta spacciando.

Naturalmente, per quanto riguarda i palestinesi Israele non è mai stato una democrazia – dall’espulsione di 750.000 palestinesi durante la Nakba e la negazione del loro diritto al ritorno, attraverso il governo militare sui cittadini palestinesi di Israele durato fino al 1966, all’occupazione del 1967 e la sua sistematica violazione dei diritti dei palestinesi fino ad oggi. Macron, come altri leader mondiali, ne è sicuramente consapevole. Ma fintanto che lo Stato di Israele operava più o meno con tutti gli orpelli della democrazia era conveniente per il leader francese e altri nel cosiddetto mondo occidentale chiudere un occhio su ciò che stava accadendo oltre la Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 ndt] e vedere l’occupazione israeliana e l’apartheid nei territori come un’anomalia, piuttosto che una caratteristica della democrazia israeliana.

La sua sedicente immagine di “unica democrazia in Medio Oriente” è stata per decenni, non solo durante l’era Netanyahu, la risorsa strategica di Israele, ed è una delle numerose ragioni che spiegano come Israele abbia goduto dell’immunità internazionale rispetto all’occupazione. Il suo sistema giudiziario relativamente indipendente, l’immagine di una stampa libera, le politiche apparentemente liberali nei confronti della sua comunità LGBTQ e il marketing aggressivo di Tel Aviv come una delle città più alla moda del mondo sono tutti serviti a questa immagine. Anche il concetto di “Start-Up Nation” ha contribuito a dipingere Israele come un Paese libero e creativo, parte integrante dell’Occidente.

Subito dopo il rapporto di Le Monde una fonte vicina a Netanyahu si è affrettata a chiarire ai giornalisti israeliani che Netanyahu ha avuto l’impressione che Macron non conoscesse tutti i dettagli della riforma. Ma si tratta di un’affermazione discutibile, dato che la riforma – la cui prima parte è stata approvata lunedì dalla Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] e la prossima settimana potrebbe approdare alla Knesset in seduta plenaria per un voto preliminare – non è così complessa.

Quando un mese fa il ministro della Giustizia Yariv Levin l’ha annunciata ha impiegato esattamente tre minuti e mezzo per spiegarla: una clausola di annullamento che consentirebbe a 61 membri della Knesset di ribaltare le sentenze della Corte Suprema, accentuando il ruolo dei membri della Knesset nella proclamazione dei giudici della Corte Suprema, in modo tale che sia il governo a nominare i giudici, e rendendo le nomine dei consulenti legali “ad personam”. Sono convinto che la riforma avrebbe potuto essere spiegata a Macron in ancor meno tempo con una semplice frase: d’ora in poi il governo israeliano farà quello che vuole e nessun tribunale potrà fermarlo.

Macron è stato uno dei leader europei più importanti a parlare contro la rivoluzione antidemocratica di Viktor Orbán in Ungheria. Quando la Francia ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione europea nel 2022 Macron ha spiegato che il suo compito principale sarebbe stato promuovere lo “stato di diritto” in Europa. “Siamo una generazione che sta scoprendo di nuovo come la democrazia e lo stato di diritto possono essere resi fragili”, ha affermato. Lo stato di diritto, ha aggiunto Macron, non è una “invenzione di Bruxelles”, ma parte della storia europea. “La fine dello stato di diritto è l’inizio dell’autoritarismo”.

Sebbene non esplicitamente menzionato, il governo ungherese ha capito molto bene di chi stesse parlando il presidente. “Ci aspettiamo che la presidenza francese di turno del Consiglio (europeo) smetta di applicare doppi standard e ricatti politici”, ha dichiarato Tamás Deutsch, membro del Parlamento europeo per il partito Fidesz di Orbán, in risposta al blocco dell’UE sul trasferimento di miliardi di euro all’Ungheria, non essendo riuscita ad attuare le riforme democratiche. Nel dicembre 2022 l’UE ha accettato di sbloccare parte del denaro, ma questi pagamenti sono ancora subordinati a ulteriori riforme.

Israele non è un membro dell’UE, e quindi Macron non può esercitare su Netanyahu lo stesso tipo di pressione che esercita su Orbán. Ma questo confronto in corso tra Macron in particolare, e l’Unione Europea in generale, da un lato, e l’Ungheria dall’altro, mostra l’importanza di quelli che un tempo erano considerati affari strettamente interni, come lo stato di diritto o la qualità della democrazia in un determinato Paese, in Paesi che apparentemente hanno “valori condivisi”.

“La prima linea dell’Occidente in Oriente”

Come altre colonie di insediamento, come gli Stati Uniti, il Canada e il Sud Africa, il sionismo si è vantata di aver stabilito in Palestina una “società modello” – per i coloni, ovviamente, non per la popolazione indigena. Una delle manifestazioni di questa società modello” è stata la democrazia interna che il movimento sionista ha stabilito tra il fiume e il mare [tra il Giordano e il Mediterraneo, ndt.]. Incluse procedure democratiche all’interno dei partiti sionisti, elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti, l’organo legislativo che ha preceduto la Knesset e ha rappresentato la comunità dei coloni ebrei in Palestina durante il mandato britannico, elezioni nell’Organizzazione sionista mondiale e, naturalmente, elezioni per la Knesset dopo il 1948. Lo Stato di dirittoe l’indipendenza della corte erano, e sono rimaste, parte di questo pacchettodemocratico per gli ebrei.

Questa “società modello” è stata uno strumento importante per creare una coesione tra i coloni ebrei sotto il mandato britannico, e successivamente in Israele. Ma fin dal primo momento fu di enorme importanza anche per le relazioni tra la comunità ebraica in Israele e l'”Occidente”. Il fatto che il sionismo abbia stabilito una società libera e democratica nella Terra d’Israele è servito come prova che essa fa parte dell’Occidente, che rappresenta l’Occidente e che è portatrice di “libertà, uguaglianza, fratellanza” nel selvaggio e pericoloso Medio Oriente, come ha spiegato Netanyahu a Macron.

Questa visione è particolarmente profonda nella famiglia Netanayhu. Il sionismo è sempre stato la prima linea dell’Occidente in Oriente, ha detto Benzion Netanyahu, padre del primo ministro, in un’intervista ad Haaretz nel 1998. “Oggi è lo stesso: ha contrastato le tendenze naturali dell’Est a penetrare l’Occidente e schiavizzarlo”. Suo figlio Benjamin ha detto cose sorprendentemente simili nel 2017 durante un incontro con i capi del Gruppo Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. L’Europa finisce in Israele. A est di Israele, non c’è più Europa”, avrebbe detto Netanyahu durante una conversazione a porte chiuse con i leader.

Una delle affermazioni centrali degli oppositori dell’attuale tentativo di riforma giudiziaria è che la comunità degli affari non può operare in un Paese in cui il governo è forte e i tribunali sono deboli, e quindi le società lasceranno Israele e gli investitori saranno cauti nel mettere i loro soldi nell’economia israeliana. D’altra parte, i sostenitori della riforma affermano che in realtà essa incoraggerà la “libertà economica” – e non hanno necessariamente torto; in Cile il capitalismo è fiorito dopo che la democrazia è stata uccisa dal regime di Pinochet, mentre in Cina il capitalismo prospera anche in mancanza di un minimo di democrazia. Quando il governo non ha limiti può sopprimere i sindacati e far prosperare il capitale senza fastidiose questioni come i diritti umani o la libertà di sciopero.

Ma i valori condivisi, in nome dei quali Paesi come Francia e Stati Uniti hanno chiuso un occhio davanti all’occupazione israeliana e alla sistematica violazione dei diritti dei palestinesi, vanno ben oltre il liberalismo economico. Riguardano la capacità stessa dei Paesi occidentali di vedere Israele come uno di loro. Quando il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha incontrato Netanyahu durante la sua visita nel Paese a fine gennaio ha spiegato quali sono gli interessi e valori condivisidi Israele e Stati Uniti: Il rispetto dei diritti umani, l’eguale amministrazione della giustizia per tutti, la parità di diritti delle minoranze, lo stato di diritto, la libertà di stampa e una solida società civile”.

È vero che sia le osservazioni di Blinken che quelle di Macron dovrebbero essere prese con le pinze. Gli Stati Uniti mantengono la loro “relazione speciale” con Israele, anche se non c’è stato quasi un solo giorno nella storia di Israele in cui abbia rispettato i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato anche citato dopo l’incontro con Macron per aver detto che le lamentele sulla mancanza di democrazia in Israele diventeranno un “mantra” come le lamentele su Israele che non riesce a portare avanti una soluzione a due Stati.

Ci troviamo in un momento senza precedenti, in cui Levin, Netanyahu e il Presidente del Comitato per la costituzione, il diritto e la giustizia della Knesset, Simcha Rothman, sono determinati ad approvare la riforma ad ogni costo, mentre centinaia di migliaia di manifestanti, il procuratore generale, il presidente e [tutta, ndt.] la Corte Suprema sono determinati a opporsi. Se la Corte Suprema dovesse dichiarare incostituzionali le riforme potremmo andare incontro a uno scontro violento con dichiarazione di uno stato di emergenza, chiusura per decreto della Corte Suprema e arresto in massa dei leader della protesta.

Se questo accadesse, e il governo andasse contro i tribunali e i pochi rimasugli di valori liberali che ancora esistono in Israele, forse allora i Paesi occidentali farebbero un ulteriore passo avanti nelle loro critiche. E se lo facessero anche l’immunità dalle critiche all’occupazione di cui Israele ha goduto per decenni potrebbe cominciare a incrinarsi. Dopodiché, si giocherebbe una partita completamente nuova.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ai palestinesi di Gerusalemme serve molto di più che le condanne arabe

Jalal Abukhater

12 febbraio 2023 – Al Jazeera

I gerosolomitani affrontano occupazione e apartheid. Né forti dichiarazioni né promesse di denaro possono aiutarli.

Il 12 febbraio la Lega Araba ha tenuto una conferenza su Gerusalemme per dimostrare il sostegno degli arabi alla città occupata, suscitando grandi speranze dell’Autorità Palestinese (ANP). Il Presidente Mahmoud Abbas ha parlato delle sofferenze del popolo palestinese di Gerusalemme, dei loro diritti e della loro resilienza.

In vista dell’evento Fadi al-Hidmi, il ministro dell’AP per gli Affari di Gerusalemme, ha dichiarato che questa conferenza sarebbe stata “diversa” dalle precedenti, che avrebbe causato interventi che sarebbero stati avvertiti sul posto e che l’evento avrebbe messo la città occupata in cima all’“agenda araba”.

Ma questa nuova iniziativa della Lega Araba ha suscitato in molti gerosolomitani più che altro scetticismo. L’ultima volta che Gerusalemme è stata inclusa nel titolo di una loro riunione, il cosiddetto summit di Gerusalemme del 2018, per noi non è cambiato molto.

Il summit aveva rilasciato un comunicato dai toni forti in cui si respingeva il riconoscimento USA di Gerusalemme quale capitale di Israele e il trasferimento della sua ambasciata nella città occupata. Ciononostante solo due anni dopo parecchie nazioni arabe hanno firmato accordi di normalizzazione con quello stesso Israele sponsorizzato da quegli stessi USA.

Quei cosiddetti “Accordi di Abramo” danneggiano irrevocabilmente la causa palestinese e di riflesso Gerusalemme. Negli ultimi cinque anni successivi governi israeliani hanno accelerato l’ebraizzazione della città occupata con il deciso sostegno degli USA e la garanzia della normalizzazione con gli Stati arabi.

A Gerusalemme alcuni dei più brutali mezzi di pulizia etnica sono stati lo sfratto forzato e le demolizioni delle case, perpetrati contro gli abitanti palestinesi in violazione del diritto internazionale. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ci sono circa mille palestinesi che rischiano l’imminente minaccia di sfratto con vari pretesti giuridici. Le loro case saranno occupate da coloni israeliani o demolite.

Solo a gennaio sono state demolite dalle autorità israeliane 39 case e altri edifici civili palestinesi, spossessando circa 50 persone.

La spiegazione che il governo israeliano dà più spesso per questi atti criminosi è che gli edifici palestinesi non hanno i permessi rilasciati dallo Stato israeliano. Secondo le Nazioni Unite un terzo delle case palestinesi non ha queste autorizzazioni, il che mette a rischio di sfratto forzato in qualunque momento circa 100.000 abitanti.

Inutile dire il Comune di Gerusalemme raramente rilascia permessi ai palestinesi, mentre li rilascia prontamente agli ebrei israeliani e ai coloni ebrei. Dal 1967 sono state costruite oltre 55.000 unità abitative per ebrei nella Gerusalemme Est occupata.

L’anno scorso le autorità locali hanno approvato la costruzione di una nuova colonia illegale di 1.400 unità abitative in mezzo a due quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, Beit Safafa e Sur Baher, separandoli l’uno dall’altro. Questo è uno dei molti esempi di come Israele stia deliberatamente interrompendo la continuità territoriale palestinese ed eliminando ogni possibilità di realizzare la cosiddetta di soluzione dei due Stati che la Lega Araba continua a richiedere.

Lo Stato israeliano ha anche accelerato l’espansione delle infrastrutture che forniscono servizi alle colonie ebraiche illegali a Gerusalemme a scapito dei palestinesi.

Prendiamo per esempio la cosiddetta ‘Strada Americana’, un progetto di superstrada per collegare colonie illegali a sud, est e nord della Gerusalemme Est occupata. Attraverserà parecchi quartieri palestinesi come Jabal Al-Mukabber e causerà la demolizione di decine di case palestinesi.

Mentre sta intensificando lo sfratto forzato dei palestinesi nella Gerusalemme occupata, Israele sta anche facendo di tutto per rendere la vita invivibile a chi resta. In qualità di potenza occupante lo Stato israeliano ha l’obbligo, ai sensi del diritto internazionale umanitario e delle leggi per i diritti umani, di garantire il benessere della popolazione, ma non lo sta facendo.

Sebbene i palestinesi, proprio come gli israeliani, paghino le tasse allo Stato di Israele, essi non ottengono la stessa qualità di servizi. Infrastrutture e forniture essenziali in quartieri palestinesi sono trascurate poiché il comune israeliano di Gerusalemme alloca meno del 10% del suo budget agli abitanti palestinesi, che rappresentano più del 37% della popolazione della città.

Nel 2001 la Corte Suprema israeliana ha rilevato che a Gerusalemme Est le autorità israeliane stanno violando i loro obblighi giuridici di garantire un adeguato accesso all’istruzione ai palestinesi. Prevedibilmente nel ventennio successivo il problema non ha fatto che peggiorare e oggi, a causa della sistematica incuria israeliana, nelle scuole palestinesi mancano 3.517 aule.

Naturalmente i palestinesi non hanno strumenti legali per accertare la responsabilità delle violazioni da parte delle autorità israeliane. A loro non è permesso di votare alle elezioni politiche israeliane e di scegliere i propri rappresentanti. Al contempo il governo israeliano sta cercando di impedire loro di partecipare alla politica palestinese. Nel 2021, quando avrebbero dovuto tenersi le elezioni legislative palestinesi, Israele ha detto chiaramente che non avrebbe permesso agli abitanti palestinesi di Gerusalemme di votare.

I partiti politici palestinesi non possono agire liberamente a Gerusalemme. Si fa irruzione e si blocca ogni evento che si sospetti abbia dei legami con l’AP. Agli inizi di gennaio, per esempio, la polizia israeliana ha fatto un raid nel quartiere di Issawiya contro un comitato di genitori che si erano riuniti per discutere la carenza di insegnanti. Gli agenti israeliani li hanno informati che stavano interrompendo la riunione perché era “un summit terroristico”.

Peggio ancora, il governo israeliano ha anche ribadito che non è in alcun modo impegnato a rispettare lo status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme. Recentemente l’ambasciatore giordano è stato espulso con violenza dal complesso di Al-Aqsa dalla polizia israeliana, che ha deciso che non era autorizzato alla visita, nonostante il fatto che in base a un accordo riconosciuto a livello internazionale la Giordania abbia il diritto di amministrare quello stesso complesso e altri luoghi a Gerusalemme.

Secondo le norme della fondazione del waqf di Gerusalemme gestita dalla Giordania, ai non musulmani è permessa la visita ad Al-Aqsa solo in alcuni orari e solo se rispettano il luogo sacro. Ma negli ultimi anni si è assistito a un aumento di fedeli ebrei autorizzati dalla polizia israeliana a pregare ad Al-Aqsa, in violazione di tali norme. Contemporaneamente ai palestinesi musulmani provenienti da fuori Gerusalemme è regolarmente impedito di far visita ai loro luoghi sacri e di pregarvi.

Non sorprende neppure che, mentre si privano i palestinesi delle loro abitazioni, dei servizi e persino dell’accesso ai loro luoghi sacri, Israele stia anche inasprendo l’oppressione economica del popolo palestinese a Gerusalemme.

I gerosolomitani palestinesi sono afflitti da alti livelli di povertà e di insicurezza economica che si stanno solo aggravando. Si stima che a Gerusalemme Est il 77% dei palestinesi viva al di sotto della soglia di povertà a confronto del 23% degli abitanti ebrei di Gerusalemme Ovest.

A Gerusalemme le attività economiche palestinesi sono soffocate, poiché Israele aggrava il nostro isolamento dal resto della Palestina. Un sistema di muri e posti di blocco militari nega l’accesso a Gerusalemme a visitatori e clienti dalle vicine città gerosolomitane come Abu Dis, Al-Ram e Hizma così come dalla Cisgiordania e Gaza. Questo isolamento danneggia l’economia locale.

Inoltre i proprietari di attività palestinesi devono affrontare tasse esorbitanti senza alcun supporto dallo Stato israeliano o dall’AP. Secondo i media locali ciò ha causato in anni recenti la chiusura di almeno 250 negozi di proprietà palestinese.

In effetti Gerusalemme ha bisogno di aiuto anche finanziario. L’AP spera che la conferenza al Cairo aiuti a raccogliere fondi di cui c’è gran bisogno per sostenere i settori dell’istruzione, della salute e per dare all’economia locale una spinta essenziale con investimenti dall’estero.

Ma qualsiasi sostegno, se mai si materializzasse, porterebbe ai gerosolomitani solo un sollievo limitato e temporaneo. La nostra città soffre per la disoccupazione e l’apartheid. Abbiamo bisogno di iniziative sul fronte politico e ne abbiamo bisogno immediatamente. Forti condanne e comunicati non bastano.

È vero che noi gerosolomitani siamo famosi per la nostrasumud” (resilienza) e che, come durante la riunione della Lega Araba, essa dovrebbe essere celebrata in contesti internazionali. Ma sotto l’oppressione di uno spietato occupante stiamo raggiungendo i limiti della nostra sopportazione.

Jalal Abukhater, gerosolomitano, ha conseguito la laurea in Politica e Relazioni Internazionali presso l’università di Dundee.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione di Mirella Alessio)




Vera emancipazione: un incontro con le donne pugili di Gaza

Salsabeel M.A. Abu Loghod

27 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Dopo aver lottato negli ultimi 5 anni senza nessun tipo di appoggio e allenandosi in un piccolo luogo sotto la casa del capitano Osama Ayoub, nel dicembre 2022 è stato finalmente aperto il Palestinian Women’s Boxing Center [Centro Pugilistico delle Donne Palestinesi].

Ma sicuramente ci sono delle difficoltà. Il Centro è la prima società pugilistica femminile di Gaza City. Con le sue 30 associate intende migliorare le capacità di autodifesa, forma fisica e perdita di peso delle donne palestinesi attraverso l’integrazione delle donne nel mondo pugilistico palestinese.

La società affronta diverse sfide dovute all’ermetico assedio israeliano imposto alla Striscia così come al rifiuto da parte della società palestinese di insegnare alle ragazze tale sport. Nonostante rispetti le tradizioni e costumi della società, compresa una sala coperta, e con una donna per allenare le allieve, nonostante gli appelli di oltre 90 mezzi di comunicazione arabi, locali e internazionali non ci sono trasporti per le ragazze e non è stato fornito alcun sostegno finanziario.

Sui nostri account nelle reti sociali abbiamo ricevuto alcuni commenti negativi, in cui si sostiene che le donne non dovrebbero allenarsi ma stare a casa accanto ai loro mariti. Altri affermano di non volere donne in grado di picchiare gli uomini,” sostiene Ayoub.

Tuttavia è comparso anche qualche commento positivo, che invita Ayoub a continuare con la sua idea di rafforzare le donne in una società maschilista.

Abbiamo ragazze di talento che possono rappresentare la Palestina in tornei pugilistici all’estero,” osserva Ayoub.

Tra le giovani atlete c’è la quindicenne Farah Abu Al-Qumsan. Cinque anni fa, durante una vacanza scolastica, Al-Qumsan ha parlato con un’amica dello sport. Ha saputo di Ayoub da un’amica parente del capitano, che le ha raccontato del club pugilistico aperto da poco. Farah ha deciso di andarci. I suoi genitori sono stati d’accordo a consentirle di iscriversi per prima. Ha iniziato a boxare all’età di 11 anni, nel novembre 2020 ha partecipato a un torneo locale presso il King’s Club di Gaza e ha vinto il premio come migliore pugile.

Fin da bambina sono sempre stata affascinata dal pugilato e sognavo di diventare una campionessa come Muhammad Alì o Mike Tyson,” afferma Al-Qumsan.

Spesso le viene detto che si tratta di uno sport solo per ragazzi. Tuttavia molte persone la lodano e ciò l’aiuta ad affrontare le critiche. “In genere rispondevo alle osservazioni negative dicendo che ogni ragazza dovrebbe praticare il pugilato,” afferma Al-Qumsan. Sua madre, la trentanovenne Umm Sufyan, l’ha incoraggiata a fare pugilato. “Se dio vuole continuerò ad appoggiarla fino in fondo e lei terrà alto il nome della Palestina in tutti i Paesi arabi e all’estero,” afferma la madre di Farah.

Come Al-Qumsan, Malak Tariq Ziyad Musleh è stata spesso criticata perché pratica il pugilato.

Musleh è pugile nel Palestinian Women’s Boxing Center. Ha iniziato a boxare a 12 anni, cinque anni fa. Anche lei ha partecipato al torneo del King’s Club nel 2020. “Dato che ero solita vedere la boxe su YouTube, mi sono sempre chiesta perché non abbiamo uno sport come questo. Quindi quando alla fine ne abbiamo avuto la possibilità, ho voluto provare,” mi dice Musleh.

Mio padre mi ha molto appoggiata, dato che la mia famiglia sapeva che ero molto timida. L’ho scelto perché mi piace pensare fuori dagli schemi. Si è rivelata una bellissima esperienza,” dice Musleh. Molte persone che hanno assistito al torneo hanno incoraggiato le ragazze con slogan e cori. Ciò ha dato loro la forza di andare avanti, mentre qualcuno è rimasto critico.

Le mie amiche si sono vergognate e hanno pianto quando hanno ricevuto commenti negativi. Quindi, dato che sono la più vecchia della squadra, sono stata dalla loro parte e le ho incoraggiate,” afferma Musleh.

In seguito ai commenti negativi alcune ragazze non hanno boxato per un po’, ma grazie all’appoggio di Ayoub hanno superato ogni difficoltà.

Sviluppano le loro capacità guardando su internet gli allenamenti della boxe femminile internazionale.

Il mio sogno è quello di rappresentare la bandiera palestinese, partecipare a competizioni locali e internazionali e far vedere al mondo che in Palestina c’è un popolo che ha incredibili capacità,” mi dice Musleh.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano per mettere dietro le sbarre un israeliano antisionista

Oren Ziv

9 febbraio 2023 – +972 Magazine

La collusione tra la polizia e le organizzazioni di destra per incriminare lo storico attivista Jonathan Pollak è un allarmante inasprimento che minaccia tutti gli ebrei dissidenti.

Venerdì scorso i palestinesi della città cisgiordana di Beita, vicino Nablus, hanno fatto la loro manifestazione settimanale contro un avamposto di coloni israeliani costruito sulla loro terra circa due anni fa. In un clima tempestoso, mentre alcuni manifestanti bruciavano copertoni, altri esibivano le foto di un prigioniero politico, una scena consueta nelle proteste palestinesi. Ma questa volta l’immagine sui poster non era quella di un palestinese, ma di Jonathan Pollak, un attivista ebreo israeliano antisionista che è stato arrestato dai soldati israeliani durante la protesta della settimana precedente.

Pollak è stato attivo nella lotta palestinese per gran parte della sua vita ed è uno dei pochi israeliani che si unisce regolarmente alle manifestazioni popolari settimanali guidate dai palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e in Israele. Il quarantenne è stato arrestato una decina di volte nel passato e per quattro volte condannato; di norma si rifiuta di collaborare con i procedimenti giudiziari relativi alle denunce penali e alle accuse contro di lui, considerandole illegittime.

Ora Pollak si trova in un carcere israeliano da quasi due settimane. Il 27 gennaio, quattro giorni dopo il suo arresto, è stato incriminato con l’accusa di aver lanciato pietre contro una jeep della polizia di frontiera. A parte un piccolo numero di attivisti che appoggiano Pollak, e le organizzazioni di destra che hanno colto l’occasione per rafforzare la loro campagna contro gli attivisti israeliani anti-apartheid, il suo arresto non ha provocato molta sensazione – nonostante il fatto che la polizia abbia chiesto la sua detenzione fino al termine del processo, cosa molto rara quando si tratta di attivisti israeliani.

Ma il recente arresto di Pollak dovrebbe interessare ad ogni attivista, compresi quelli che sono scesi in piazza ogni sabato sera nell’ultimo mese per protestare contro il governo di estrema destra. La possibilità che quei manifestanti siano continuamente arrestati e subiscano false accuse può essere minima, ma c’è comunque molto da imparare da questa vicenda.

Persecuzione politica’

I palestinesi manifestano regolarmente nella cittadina di Beita dal maggio 2021, quando i coloni hanno insediato l’avamposto di Eviatar sul Monte Sabih con l’appoggio dello Stato che ha preso possesso delle terre appartenenti a palestinesi a Beita, Qabalan e Yatma. Beita è diventata il fulcro della resistenza all’ avamposto, con gli abitanti e gli attivisti accampati sul Monte Sabih per oltre 100 giorni consecutivi, prima che le manifestazioni divenissero settimanali. Dall’inizio delle proteste sono stati uccisi dall’esercito israeliano 10 palestinesi, e più di mille sono stati feriti da proiettili di metallo ricoperti di gomma, in spugna, di piccolo calibro e proiettili veri. Migliaia hanno anche inalato gas lacrimogeni.

Il 27 gennaio, il giorno in cui Pollak è stato arrestato, la protesta a Beita si è svolta non solo di fronte a Eviatar, ma anche all’ingresso della città vicino all’autostrada 60. A mezzogiorno una jeep della polizia di frontiera ha caricato i manifestanti e i poliziotti hanno arrestato Pollak. In tribunale la sua avvocata, Riham Nasra, ha detto che Pollak aveva sentito due poliziotti che concordavano la loro versione della vicenda del suo arresto.

Pollak è stato anche interrogato in merito ad una denuncia sporta contro di lui dall’organizzazione di destra Ad Kan, che ha precedentemente avviato un’azione legale contro Pollak; la denuncia lo accusava di aver intralciato un poliziotto durante il suo servizio e di uso pericoloso del fuoco (copertoni in fiamme) durante una manifestazione nel villaggio di Burqa, sempre vicino a Nablus, nel 2019. Il 30 gennaio Ad Kan si è vantata su Twitter del fatto che la polizia l’aveva contattata dopo l’arresto di Pollak, a quanto pare per richiedere prove incriminanti.

La polizia non lo ha negato e ha detto a +972: “La polizia di Israele ha condotto un’indagine nei confronti di parecchi sospettati in seguito a disturbo dell’ordine pubblico pubblico avvenuto nell’area della Samaria (Cisgiordania settentrionale). Al termine dell’indagine è stato deciso dall’ufficio del procuratore di inoltrare un esposto del procuratore contro uno dei sospettati.” Questo strumento legale consente alla polizia di tenere un indiziato in custodia per parecchi giorni dopo la conclusione di un’indagine e prima che venga formulata un’incriminazione. Solo Pollak è stato arrestato in quell’occasione.

In seguito Liran Baruch del ‘Disabled Forum for Israel’s Security’ dell’esercito (collegato con l’organizzazione di destra Im Tirtzu) ha inoltrato alla polizia un’altra denuncia contro Pollak per un discorso da lui tenuto quando ha ricevuto il Premio Yeshayahu Leibowitz nel 2021 – un premio assegnato ogni anno dal movimento di obiettori di coscienza Yesh Gvul ad un attivista israeliano per il suo impegno contro l’occupazione. Nel suo discorso di accettazione Pollak ha ripetuto le parole che aveva scritto in un articolo su Haaretz dopo il suo arresto nel 2020, che invitavano gli israeliani a “marciare accanto ai ragazzi delle pietre e delle bottiglie molotov.” Pollak è già stato interrogato a questo proposito quando è stato arrestato nel 2021 e non è ancora chiaro se verrà incriminato per questo fatto.

Giovedì scorso, circa 24 ore dopo la denuncia di Baruch, Pollak è stato portato in una cella ed interrogato dalla polizia distrettuale di Tel Aviv. “La polizia mi ha assicurato che rimarrà sotto custodia fino alla fine del procedimento”, ha poi affermato Baruch su Twitter, aggiungendo: “Le accuse consistevano nell’attacco e lancio di pietre contro le forze di sicurezza, anche venerdì scorso, e nell’incitamento all’uccisione di ebrei nel suo famoso discorso ‘Unitevi ai ragazzi della generazione delle pietre e delle bottiglie molotov.’ Facciamo in modo che ogni anarchico che alzi la mano contro le forze di sicurezza e lo Stato di Israele sappia che prima o poi faremo i conti con lui.” La polizia non ha negato quanto riferito da Baruch.

Questa è persecuzione politica”, ha affermato Nasra, avvocata di Pollak. “In passato sono state sporte denunce contro Pollak, ma chiedere la detenzione fino al termine del processo è una nuova escalation. Non vediamo molte richieste come questa in casi riguardanti attivisti di sinistra ebrei”.

Le autorità sanno (che manifesta là ogni settimana) e non ha condanne per incidenti violenti”, continua Nasra. “Quando hanno arrestato Pollak uno dei poliziotti gli ha detto: ‘Ti conosco, sei qui per provocare’. La denuncia è debole e basata su tre testimonianze di poliziotti che, secondo Pollak, fin dall’inizio dell’indagine erano concordate.” A parte questo, Pollak ha rivendicato il suo diritto a non rispondere.

Un vero sostenitore della lotta palestinese’

Storico attivista antisionista, Pollak all’inizio degli anni 2000 fu co-fondatore di ‘Una sola lotta’, un gruppo anarchico che sottolineava i legami tra i diritti degli animali e altre forme di oppressione, compresa l’occupazione. E’ anche membro fondatore di ‘Anarchici contro il muro’, i cui attivisti si unirono alla lotta popolare nei villaggi palestinesi, tra cui Mas’ha, Budrus, Bil’in, Nil’in e decine di altri in Cisgiordania, contro la costruzione della barriera di separazione di Israele sulle loro terre da quasi dieci anni. Nel 2005 fu ricoverato in ospedale dopo essere stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato da un soldato israeliano durante una protesta a Bil’in.

Dopo il completamento da parte di Israele del muro nelle aree rurali palestinesi della Cisgiordania, Pollak fu tra i pochi attivisti israeliani che si unirono alle proteste nel villaggio di Nabi Saleh, dove i palestinesi facevano manifestazioni fin dal 2009 contro l’appropriazione di una sorgente del villaggio da parte di coloni israeliani. Partecipa anche regolarmente alle dimostrazioni contro le appropriazioni dei coloni nel quartiere di Gerusalemme di Sheikh Jarrah e contro la gentrificazione che spinge gli abitanti palestinesi fuori dalle loro case a Giaffa. Nell’ultimo anno e mezzo si è recato quasi ogni settimana a Beita.

Pollak, che non si copre il volto durante le manifestazioni a cui partecipa, da parecchi anni è diventato un bersaglio delle organizzazioni israeliane di destra. Esse hanno pubblicato un filmato in cui partecipa alle manifestazioni, aiuta a bloccare le strade per impedire le incursioni dell’esercito, porta ai palestinesi copertoni da bruciare – ma non hanno mai prodotto prove che sia ricorso ad alcun tipo di violenza. Nel 2019 fu aggredito da due israeliani mentre lasciava gli uffici del quotidiano Haaretz, dove lavora. Uno di loro cercò di accoltellarlo e lo ferì al viso; un altro gridò anche che lui era un “pazzo sinistrorso”.

Nel 2018 Ad Kan sporse una denuncia penale contro Pollak e altri due attivisti israeliani, Kobi Snitz e Ilan Shalif, per la loro partecipazione ad una manifestazione contro il muro in Cisgiordania. Nel processo, il primo del genere contro attivisti anti-occupazione, Ad Kan sostenne che “insieme ad altri rivoltosi essi hanno attaccato illegalmente soldati dell’esercito israeliano e agenti della polizia di frontiera.” Le diverse autorità non ritennero opportuno incriminare i tre attivisti.

Pollak rifiutò di assistere al procedimento giudiziario e in seguito fu raggiunto da un mandato di arresto. Dopo essere riuscito ad evitare numerosi tentativi di detenzione, fu arrestato nel gennaio 2020 e incarcerato per un mese e mezzo, fino a quando il pubblico ministero comunicò che stava rinviando le procedure nel processo di denuncia penale. Così facendo la causa contro Pollak e i due altri attivisti fu di fatto chiusa.

L’ultima condanna per Pollak è stata nel 2021: è stato accusato di intralcio ad un agente di polizia in servizio durante una manifestazione vicino al muro a Betlemme nel 2017. È stato condannato a 30 giorni di prigione e altri due mesi di libertà condizionale nei due anni seguenti. Come nel procedimento per la denuncia fatta da Ad Kan, Pollak ha scelto ancora una volta di non collaborare. Il giudice, Eitan Cohen, ha scritto nella sentenza che il rifiuto di Pollak di collaborare ha contribuito alla decisione di condannarlo. Il giudice ha deliberato che la risposta di Pollak nelle udienze relative all’accusa di aver intralciato un agente di polizia – “Non li ho intralciati abbastanza” – si configurava come “ammissione di colpevolezza”.

Khaled Abu-Qare, un attivista che ha partecipato all’ultima protesta di venerdì a Beita, ha detto a +972: “I palestinesi a Beita la scorsa settimana hanno esibito orgogliosamente la foto di Jonathan Pollak per esprimere il loro sostegno alla sua causa, che è direttamente legata alla causa palestinese. Il suo caso è stato citato dall’imam durante le preghiere del venerdì di fronte a centinaia di persone, perché lui è un vero sostenitore della lotta palestinese per la decolonizzazione dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo). La presenza di Jonathan sul campo è ciò che lo pone nel cuore dei palestinesi. Lui chiama le cose con il loro nome: apartheid. È stato leale con la lotta palestinese, perciò i suoi compagni sono leali verso di lui e noi chiediamo il suo immediato rilascio.”

Pagare il prezzo

Dal momento in cui la polizia ha arrestato Pollak, molte istituzioni israeliane – compresa la polizia, l’ufficio del procuratore e le organizzazioni di destra – si sono mobilitate per fargli pagare un alto prezzo per le sue attività politiche. Perché per loro sia facile farlo non è un mistero: alla luce delle sue esplicite opinioni politiche e della documentazione delle sue proteste (che l’esercito e la destra amano definire “terrorismo popolare”), il suo arresto non provocherà proteste nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] come nel caso degli arresti di coloni del movimento “hilltop youth” [I giovani della cima della collina] che aggrediscono i palestinesi.

La velocità e l’efficienza con cui le incriminazioni, che comprendono gravi accuse, sono state disposte contro di lui meno di una settimana dopo il suo arresto e la collaborazione tra la polizia e i gruppi di destra dovrebbero mettere in allarme chiunque scenda in strada per protestare – anche se ha opinioni opposte a quelle di Pollak. Fatta eccezione per le testimonianze dei tre agenti e un rapporto segreto, la polizia non ha presentato finora alcuna prova reale. Ma in tribunale è la loro parola contro quella di Pollak. E su loro richiesta, salvo una nuova decisione, non verrà rilasciato fino alla prossima udienza il 13 febbraio.

Gli arresti arbitrari durante le proteste e la rapida formulazione di incriminazioni basate su scarse prove, mentre sono un’anomalia per gli israeliani, sono la realtà per migliaia di palestinesi ogni anno, oltre alle centinaia di prigionieri in detenzione amministrativa senza accuse. I pochi attivisti israeliani che si sono uniti alle proteste in Cisgiordania negli ultimi anni sono stati normalmente protetti rispetto a queste prassi perché erano ebrei; anche quando sono stati arrestati sono stati rilasciati entro un giorno e di norma non vi è stata alcuna incriminazione nei loro confronti. Ma con il nuovo governo di estrema destra e l’attuale clima politico anche questo potrebbe cambiare – e non solo per i pochi che vanno a manifestare a Masafer Yatta, Sheikh Jarrah o nella Valle del Giordano, che da anni subiscono violenze e aggressioni da parte dei soldati e dei coloni.

Durante le manifestazioni “Balfour” [dal nome della via in cui risiede il premier, ndt.] contro il precedente governo di Benjamin Netanyahu, che si sono svolte per gran parte del 2020 fino all’inizio del 2021, la polizia israeliana ha arrestato centinaia di manifestanti e in seguito ha elevato denunce contro parecchi di loro. Ed è stato là che, per la prima volta, ha usato misure che fino ad allora erano state largamente riservate ai palestinesi, agli haredim [ultraortodossi, ndt.] e agli ebrei etiopi che protestavano. Se le manifestazioni di massa contro l’attuale governo e la sua proposta di riforma giudiziaria diventerà la “disobbedienza civile” che i leader della protesta invocano, i manifestanti di centro sinistra potrebbero trovarsi anch’essi a subire arresti arbitrari e incriminazioni come Pollak.

Nel suo discorso di accettazione nel ricevere il Premio Yeshayahu Leibowitz nel 2021, Pollak ha detto: “Tra il fiume e il mare c’è un solo regime colonialista che è del tutto illegittimo. E quando il regime è illegittimo qual è il ruolo dei membri della società coloniale che lo rifiutano? Qual è il nostro ruolo?”

La lotta per la liberazione deve essere condotta da coloro che cercano di liberarsi, non da noi”, ha continuato. “Quando i sudafricani bianchi si opposero all’apartheid…si unirono come minoranza all’ANC [African National Congress, il partito di Mandela, ndt.] – alcuni di loro hanno anche imbracciato le armi – nella lotta per cacciare il regime di apartheid e il colonialismo. È lo stesso qui in Palestina: per unirsi davvero alla lotta per eliminare l’apartheid i pochi coloni ebrei che sono interessati a questo devono levarsi contro l’essenza del regime coloniale, non contro questa o quella manifestazione di esso.”

Ed ha concluso: “Dobbiamo cercare e trovare la nostra strada all’interno del movimento di liberazione palestinese, tenendo conto che gli ebrei devono essere una minoranza (in esso) e che solo in questo modo…attraverso un ribaltamento consistente degli equilibri di potere, possiamo lavorare per la vera uguaglianza e la liberazione.”

Oren Ziv è un fotoreporter, corrispondente di Local Call [versione in ebraico di +972], e membro fondatore del collettivo di fotografi Activestills.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Barcellona interrompe i rapporti con Israele e sospende il gemellaggio con la città di Tel Aviv

Marc Rovira

8 febbraio 2023 – El País

Ada Colau invia al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu una lettera in cui lo accusa di imporre al popolo palestinese un sistema di apartheid

Barcellona rompe i rapporti con Israele. Il gesto vuol essere una ritorsione contro l’azione del suo governo, non un rimprovero contro “un popolo, una comunità, né contro una religione”. Così si è giustificata la sindaca Ada Colau in una audizione che lei stessa ha presentato come “eccezionale”. L’annuncio ha provocato reazioni a catena e per il momento il PSC [Partito Socialista Catalano], partito alleato dei comunes [membri del gruppo politico della Colau Barcelona en Comú, ndt.] nel governo municipale, ha definito un “gravissimo errore” la decisione “unilaterale” della sindaca. L’annuncio intende rappresentare una protesta contro il regime di dominazione ai danni della Palestina e il consiglio comunale di Barcellona ha deciso di troncare ogni rapporto con lo Stato di Israele.

È stato sospeso anche il gemellaggio che da 25 anni ha stabilito un rapporto fraterno tra Barcellona e la città di Tel Aviv. “Speriamo che sia provvisorio”, ha cercato di smussare le polemiche Colau, mentre lanciava una dura critica contro il governo guidato da Benjamin Netanyahu: “Questa situazione di apartheid è intollerabile.”

La sindaca ha affermato che la decisione – “complicata e difficile”, ha detto – è appoggiata da più di un centinaio di organizzazioni e dalle firme di 4.000 cittadini. Ha informato di aver mandato al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu una lettera in cui gli espone i motivi dell’iniziativa presa dal consiglio comunale. Il contenuto della lettera allude alla “violenza che subisce il popolo palestinese” e gli rimprovera il fatto che le vessazioni durano “da oltre 70 anni”.

Laia Bonet, vice-sindaca del PSC, ha evidenziato il disaccordo dei socialisti riguardo alla risoluzione ed ha criticato duramente la sindaca. “Quello che è successo oggi è molto grave,” ha detto, ed ha avvertito che avrà l’effetto indesiderato di “indebolire il ruolo di Barcellona nel mondo.” Il gruppo municipale del PSC nel Comune di Barcellona presenterà al consiglio comunale di questo mese di febbraio una proposta per ristabilire i rapporti della capitale catalana con Tel Aviv.

Da parte sua il candidato a sindaco di Junts [per Catalunya, partito indipendentista di centro destra, all’opposizione, ndt.], Xavier Trias, ha definito un “grave errore” questa sospensione temporanea dei rapporti. In una nota sul suo account di Twitter ha sostenuto che è “uno dei motivi, tra molti altri, per cui è necessario un cambiamento nel Comune” ed ha aggiunto che “Barcellona deve lavorare per la concordia, senza settarismo, evitando lo scontro, puntando al dialogo e alla comprensione.” L’Associazione Catalana degli Amici di Israele ha affermato che Colau ha preso la decisione “per decreto e senza passare per il consiglio comunale” e ha definito un “atto xenofobo” il rifiuto nei confronti di Israele. Lior Haiat, portavoce del ministero degli Esteri di Israele, ha reagito affermando che Barcellona ha preso “una decisione sventurata” che alimenta l’antisemitismo.

Colau, che aspira a ottenere un terzo mandato nelle elezioni municipali di maggio, ha censurato Israele perché pratica da decenni “violazioni sistematiche dei diritti umani” senza rispettare le risoluzioni e i dettami delle Nazioni Unite. In varie occasioni la sindaca ha utilizzato il termine apartheid per denunciare la pressione israeliana sui palestinesi ed ha giustificato il rifiuto di Barcellona con la tradizione di solidarietà della città “con i popoli oppressi”. In questo senso ha detto di sperare che esso “inviti alla riflessione e all’azione”. Nella lettera inviata a Netanyahu menziona la volontà di dare un esempio: “La storia ci ha insegnato che le città devono prendere posizione e avere un ruolo attivo nella costruzione della pace e nella difesa dei diritti umani.”

Alla fine dello scorso anno David Bondia, il Síndic de Greuges di Barcellona, il difensore del popolo della città, aveva sollecitato il Comune a revocare l’accordo di “amicizia e cooperazione” tra la capitale catalana e le città di Gaza e Tel Aviv sottoscritto nel 1998. Dopo aver studiato quell’accordo aveva stabilito che il gemellaggio ha perso validità. “Non ha tenuto in considerazione il cambiamento delle circostanze che si è prodotto dopo la sua stipula, non garantisce l’impegno nei confronti dei diritti umani e non favorisce relazioni internazionali che promuovano la giustizia globale,” aveva affermato.

Secondo quanto si evince dal sito del Comune, da gennaio del 2000 Barcellona continua ad avere un “protocollo di amicizia e cooperazione” con la città iraniana di Isfahan. “L’obiettivo del gemellaggio è promuovere la cooperazione reciproca tra le due città,” evidenzia il consiglio di Barcellona. Nel marzo dello scorso anno il Comune ha annunciato che, come reazione contro l’invasione russa dell’Ucraina, sono stati sospesi i rapporti con la città di San Pietroburgo e tutte le attività che si potrebbero realizzare nel contesto dell’accordo di gemellaggio che dal 1985 unisce la capitale catalana alla città russa.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Il direttore della CIA paragona la crescente violenza in Palestina alla seconda Intifada

Redazione di MEMO

7 febbraio 2023 – Middle East Monitor

Il direttore della CIA William Burns che è stato un diplomatico di lungo corso durante la seconda intifada, ha affermato che le condizioni nella Cisgiordania occupata hanno una ‘infelice somiglianza’ con la sollevazione palestinese degli anni 2000-2005. Le sue osservazioni arrivano alcuni giorni dopo il suo viaggio nella regione, dove ha incontrato alti dirigenti israeliani e palestinesi.

La crescente violenza in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate è stata paragonata alla seconda Intifada dal direttore della CIA William Burns in seguito alla sua recente visita nella regione.

Venti anni fa sono stato un importante diplomatico statunitense durante la seconda Intifada e sono preoccupato – come lo sono i miei colleghi della comunità dell’intelligence – che molto di quanto stiamo vedendo oggi abbia una spiacevole somiglianza con alcune delle realtà che abbiamo visto anche allora,” ha detto Burns la settimana scorsa in una intervista alla Georgetown School of Foreign Service a Washington.

La seconda Intifada iniziò il 28 settembre 2000, quando l’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon entrò nella moschea di Al-Aqsa con un contingente pesantemente armato delle forze di sicurezza israeliane. L’incursione provocò una forte risposta palestinese. La successiva insurrezione durò cinque anni e lasciò sul terreno più di 3000 vittime palestinesi e 1000 israeliane.

Le conversazioni che ho avuto con i dirigenti israeliani e palestinesi mi hanno lasciato abbastanza preoccupato riguardo alle prospettive anche a causa di una maggior fragilità e una maggior violenza tra israeliani e palestinesi” ha aggiunto Burns. “Parte della responsabilità della mia agenzia è di lavorare il più strettamente possibile con entrambi i servizi di sicurezza palestinesi e israeliani per prevenire il tipo di esplosioni di violenza che abbiamo visto nelle scorse settimane. Questa sta diventando una grande sfida e sono anche preoccupato riguardo a questo aspetto del quadro mediorientale.”

I commenti del direttore della CIA sono stati fatti a fronte della crescente tensione in tutti i territori palestinesi occupati in seguito ad una operazione militare israeliana la scorsa settimana nella città di Jenin in Cisgiordania, durante la quale dieci palestinesi sono stati uccisi, inclusa una donna di 67 anni. Sette israeliani sono stati uccisi successivamente in una sparatoria a Gerusalemme Est occupata.

Inoltre le forze israeliane hanno ucciso cinque uomini palestinesi e ne hanno feriti sei domenica notte durante una incursione a Gerico, nella parte orientale della Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Esperimento fallito: tre motivi per cui Israele teme un ampio conflitto contro Gaza 

Ramzy Baroud

6 febbraio 2023 Middle East Monitor

Sebbene le precedenti guerre di Israele contro Gaza siano spesso state giustificate da Tel Aviv come risposta ai razzi palestinesi o generalmente come azioni di autodifesa, la verità è diversa. Storicamente la relazione di Israele con Gaza è stata determinata dalla necessità di Tel Aviv di creare diversivi alla propria complicata politica, per mostrare i muscoli ai suoi nemici nella regione e per testare le sue innovazioni belliche.

Sebbene la Cisgiordania occupata, e in effetti anche altri Paesi arabi, siano stati usati come campi di prova per la macchina militare israeliana, nessun altro luogo ha permesso a Israele di sperimentare le proprie armi così a lungo come Gaza, facendo di Israele nel 2022 il decimo esportatore globale di armi.

C’è un motivo per cui Gaza è ideale per tali grandiosi, seppur tragici, esperimenti.

Gaza è il posto perfetto per raccogliere informazioni dopo che le nuove armi sono state schierate e usate sul campo di battaglia. Nella Striscia abitano, ammassati in 365 km², due milioni di palestinesi che vivono una misera esistenza, praticamente senza acqua potabile e poco cibo. Infatti, grazie alle cosiddette ‘cinture di sicurezza’ di Israele, gran parte del terreno coltivabile di Gaza che confina con Israele è off limits. I contadini sono spesso uccisi da cecchini israeliani quasi con la stessa frequenza con cui anche i pescatori di Gaza sono presi di mira se si avventurano oltre le tre miglia nautiche a loro assegnate dalla marina israeliana.

The Lab“, [Il laboratorio, N.d.T.], un premiato documentario israeliano uscito nel 2013, descrive con angosciosi dettagli come Israele abbia trasformato milioni di palestinesi in un vero e proprio laboratorio umano per testare nuove armi. Anche prima, ma soprattutto da allora, Gaza è il principale campo di prova per usare questi armamenti.

Gaza è stato ‘ il laboratorio’ anche per esperimenti politici israeliani.

Dal dicembre 2008 al gennaio 2009, quando l’allora prima ministra israeliana pro-tempore Tzipi Livni decise, parole sue, di ” andarci giù pesante”, lanciò contro Gaza una delle guerre più letali sperando che la sua avventura militare l’avrebbe aiutata a consolidare il sostegno al suo partito nella Knesset.

All’epoca Livni era a capo di Kadima [partito politico israeliano centrista, N.d.T.], fondato nel 2005 dall’ex leader del Likud Ariel Sharon. Subentratagli, Livni volle dimostrare il suo valore di personalità forte capace di dare una lezione ai palestinesi.

Sebbene il suo esperimento le avesse guadagnato un certo consenso nelle elezioni del febbraio 2009, dopo la guerra del novembre 2012 le si ritorse contro, nelle elezioni del gennaio 2013 Kadima fu quasi annientata e alla fine scomparve completamente dalla mappa politica israeliana.

Quella non è stata né la prima né l’ultima volta in cui i politici israeliani hanno cercato di usare Gaza e distrarre dalle proprie sventure politiche o per dimostrare le loro credenziali come protettori di Israele uccidendo palestinesi.

Tuttavia nessuno ha perfezionato l’uso della violenza per guadagnare consensi politici quanto l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu. Ritornando a capo del governo più estremista nella storia di Israele, Netanyahu è ansioso di restare al potere, soprattutto perché la sua coalizione di destra ha un sostegno più solido nella Knesset di tutti gli altri cinque governi degli ultimi tre anni.

Con un elettorato di destra a favore della guerra che è molto più interessato all’espansione illegale delle colonie e alla ‘sicurezza’ che alla crescita economica o all’uguaglianza socioeconomica, Netanyahu dovrebbe, almeno tecnicamente, essere in una posizione più forte per lanciare un’altra guerra contro Gaza. Allora perché sta esitando?

Il primo febbraio un gruppo palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele causando una risposta israeliana intenzionalmente limitata.

Secondo le fazioni palestinesi della Striscia assediata il razzo fa parte della continua ribellione armata dei palestinesi della Cisgiordania. Doveva servire a dimostrare l’unità politica fra Gaza, Gerusalemme e la Cisgiordania.

La Cisgiordania sta vivendo i suoi giorni più cupi. Solo a gennaio sono stati uccisi dall’esercito israeliano 35 palestinesi, dieci dei quali sono morti a Jenin in un solo raid israeliano. Un palestinese che ha agito da solo ha reagito uccidendo sette coloni ebrei nella Gerusalemme Est occupata, la scintilla perfetta di quella che normalmente avrebbe causato una massiccia risposta israeliana.

Ma tale risposta per ora è stata limitata alla demolizione di case, arresti e tortura dei famigliari degli aggressori, assedio militare di varie città palestinesi e centinaia di attacchi individuali di coloni ebrei contro i palestinesi.

Una guerra vera e propria, specialmente a Gaza, non si è ancora concretizzata. Ma perché?

Primo, i rischi politici di attaccare Gaza con una lunga guerra, almeno per ora, prevalgono sui vantaggi. Sebbene la coalizione di Netanyahu sia relativamente stabile, le aspettative degli alleati estremisti del primo ministro sono molto alte. Una guerra con un esito incerto potrebbe essere considerato dai palestinesi come una vittoria, un’idea che da sola potrebbe mandare in pezzi la coalizione. Anche se Netanyahu potrebbe scatenare una guerra come ultima risorsa, al momento non ha bisogno di un’alternativa così rischiosa.

Secondo, la resistenza palestinese è più forte che mai. Il 26 gennaio Hamas ha dichiarato di aver usato missili terra-aria per respingere un attacco israeliano contro Gaza. Sebbene l’arsenale militare del gruppo di Gaza sia piuttosto rudimentale, quasi tutto prodotto in loco, è molto più avanzato e sofisticato se confrontato con le armi usate durante la cosiddetta “Operazione [israeliana] Piombo fuso ” nel 2008.

E infine le riserve di munizioni israeliane devono essere al loro punto più basso da molto tempo. Ora che gli USA, il maggiore fornitore di armi a Israele, ha attinto alla sua riserva di armi strategiche a causa della guerra Russia-Ucraina, Washington non sarà in grado di rifornire gli arsenali israeliani con costanti forniture di armamenti come aveva fatto l’amministrazione Obama durante la guerra del 2014. Persino più preoccupante per l’esercito israeliano, a gennaio il New York Times ha rivelato che “il Pentagono sta attingendo a una vasta, ma poco nota, scorta di forniture militari americane in Israele per andare incontro alla disperata necessità di proiettili di artiglieria in Ucraina …”

Sebbene ci sia un maggiore rischio di guerre israeliane contro Gaza rispetto al passato, un Netanyahu intrappolato e messo in difficoltà potrebbe ancora far ricorso a un tale scenario se avesse la sensazione che la sua leadership fosse in pericolo. Infatti nel maggio 2021 il leader israeliano ha fatto proprio questo. Eppure anche allora non ha potuto salvare sé stesso o il proprio governo da una sconfitta umiliante.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’esercito israeliano uccide 5 palestinesi durante l’incursione nel campo profughi di Aqbat Jabr

MARIAM BARGHOUTI

6 FEBBRAIO 2023 – MONDOWEISS

Dopo un assedio di dieci giorni imposto a Gerico e dintorni l’esercito israeliano ha assaltato il campo profughi di Aqbat Jabr e ha ucciso 5 palestinesi

Lunedì mattina, 6 febbraio, le forze israeliane hanno condotto un’incursione mortale nel campo profughi di Aqbat Jabr, situato a sud-ovest di Gerico, nella Valle del Giordano. Aqabat Jabr è il più grande campo profughi della Cisgiordania.

Il raid arriva più di una settimana dopo che un palestinese avrebbe aperto il fuoco in un ristorante vicino alla colonia illegale di Almog il 28 gennaio. Nessuno è rimasto ferito nella sparatoria e lo sparatore è fuggito. Le forze israeliane hanno successivamente lanciato una caccia all’uomo di una settimana che ha comportato la chiusura dell’area di Gerico e che è culminata con l’incursione di questa mattina.

I palestinesi descrivono l’incursione come una “missione omicida” che prende di mira i combattenti della resistenza ricercati nell’area.

L’esercito israeliano ha inizialmente riferito che almeno quattro palestinesi sono stati uccisi e uno gravemente ferito, anche se i media palestinesi e israeliani sostengono che il bilancio delle vittime sia più alto alcuni parlano dell’uccisione di sette persone.

I cinque palestinesi uccisi sono stati identificati dal Ministero della Salute palestinese (MOH) come Ra’fat Wael Oweidat, 21 anni, Ibrahim Wael Oweidat, 27, Malek Ouni Lafi, 22, Adham Majdi Oweidat, 22, e Thaer Oweidat, 28.

Inoltre i media israeliani hanno riferito che l’esercito ha trattenuto i corpi di tutti i palestinesi uccisi.

Il ministero della Salute palestinese deve ancora confermare ufficialmente il numero totale delle vittime. Prima di mezzogiorno ora locale ha rilasciato una dichiarazione secondo cui “non ci sono informazioni ufficiali sullo stato di salute dei cittadini arrestati dalle forze di occupazione durante l’attacco alla città”.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese almeno tre palestinesi sono stati feriti con proiettili veri durante l’incursione. Nel campo sono stati arrestati altri otto palestinesi.

L’incursione su Aqbat Jabr

L’incursione di lunedì mattina avviene più di una settimana dopo una presunta sparatoria in un ristorante vicino ad Almog. Secondo fonti militari israeliane e l’agenzia di notizie Aqsa, affiliata ad Hamas, i combattenti che hanno effettuato la sparatoria erano membri delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas.

Sabato, appena due giorni prima dell’incursione mortale di lunedì, l’esercito ha condotto un’operazione simile nello stesso campo profughi con il pretesto di cercare i colpevoli della sparatoria, ma l’esercito israeliano ha annunciato di non essere stato in grado di arrestare i combattenti della resistenza responsabili.

L’incursione odierna è avvenuta all’alba, quando, secondo gli abitanti del campo, le forze israeliane hanno circondato una casa.secondo i rapporti militari israeliani che sono stati confermati da fonti di notizie palestinesi locali e dagli abitanti del campo.

Secondo i rapporti militari israeliani confermati da fonti di notizie palestinesi locali e dagli abitanti del posto l’invasione è durata almeno quattro ore

Secondo il corrispondente dell’esercito israeliano Itay Blumenthal l’esercito ha preso di mira e ucciso i due combattenti della resistenza armata presumibilmente responsabili della sparatoria all’incrocio della colonia di Almog e ne ha ucciso altri tre durante gli scontri.

Secondo i giornalisti e il personale medico sul posto è stato negato l’accesso al campo ai giornalisti e al personale medico.

Poche ore dopo l’incursione un testimone oculare ha detto: “Questa è una politica sistematica della macchina da guerra israeliana per prevenire la denuncia dei crimini quotidiani commessi contro i palestinesi”.

Aggiunge: “Questo mira a spezzare il popolo palestinese, siamo presi di mira nelle nostre case, nelle nostre fattorie e non si fa nulla. Ci sono crimini di guerra organizzati che vengono compiuti per allontanarci dalle nostre case” e chiede: “fino a quando la comunità internazionale rimarrà in silenzio e non sarà in grado di fermare questi crimini?”

Un assedio di dieci giorni

A seguito dell’incursione nel campo di sabato 4 febbraio, che ha visto scontri sia armati che disarmati da parte degli abitanti del campo, l’esercito israeliano ha rilasciato una dichiarazione in cui rilevava la sua incapacità di catturare i responsabili della sparatoria.

Dal 4 febbraio tutti i punti di entrata e di uscita intorno a Gerico sono stati bloccati dai militari, mentre l’esercito ha eretto diversi posti di blocco volanti nell’area circostante perquisendo le auto e trattenendo i palestinesi in viaggio da e per Gerico.

Secondo la Palestine Prisoners Society nell’arco di dieci giorni più di 23 palestinesi sono stati arrestati ad Aqbat Jabr , compresi almeno due minori. Altri 13 palestinesi sono stati arrestati durante incursioni militari in Cisgiordania, in particolare nei distretti di Nablus e Ramallah.

La scorsa settimana l’esercito israeliano ha anche chiesto di rafforzare la sua presenza in Cisgiordania dispiegando nuovi battaglioni in varie aree.

I palestinesi entrano in sciopero generale

In seguito alle uccisioni nel campo profughi i palestinesi di Gerico hanno risposto bruciando pneumatici e protestando contro le forze israeliane intorno ai punti di ingresso della città.

Vari gruppi politici palestinesi hanno chiesto di rispondere con ulteriori reazioni agli assalti israeliani e agli attacchi contro i palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme. A Gerico, Ramallah, Salfit, Hebron e Nablus i palestinesi hanno dichiarato uno sciopero generale, chiudendo i negozi per tutto il giorno. Gruppi di queste località hanno anche chiesto ad altri paesi e città di osservare lo sciopero.

I consigli studenteschi di Birzeit, Gerusalemme e Hebron hanno chiesto un “giorno della rabbia” pubblico e il confronto con l’esercito israeliano ai posti di blocco militari.

La resistenza armata palestinese ha continuato a diffondersi in Cisgiordania e a Gerusalemme. Mentre la resistenza armata era inizialmente concentrata nel campo profughi di Jenin e Nablus, si è poi diffusa fino alla nascita di piccoli gruppi armati in aree come Ramallah, Tubas, Salfit, Tulkarem, Hebron e Gerico.

Il 26 gennaio le forze israeliane hanno invaso il campo profughi di Jenin e ucciso dieci palestinesi in quello che è diventato noto come il massacro del giovedì nero. Da allora sono state segnalate diverse sparatorie in vari punti del territorio occupato.

Dall’inizio dell’anno, le forze israeliane e i coloni armati hanno ucciso 41 palestinesi. Nelle prime cinque settimane del 2023 sono stati uccisi più palestinesi che in tutti i primi quattro mesi dello scorso anno, segnalando una probabile escalation della violenza nella regione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)