Rachel Corrie ha dato la vita per la Palestina

Tom Dale

16 marzo 2024 – Jacobin

In questo giorno nel 2003 l’IDF (esercito israeliano) uccise l’attivista americana Rachel Corrie mentre difendeva le case di Rafah dalla distruzione. Ora che Israele minaccia di invadere questa città un volontario che fu accanto a Rachel scrive della sua eredità – un invito alla ferma solidarietà con i gazawi.

Oggi non c’è nessuna città al mondo più colma di sofferenza e inquietudine di Rafah, addossata al

A partire da metà ottobre le forze Israeliane hanno già spianato la loro strada attraverso Gaza City e Khan Younis, compiendo massacri, distruggendo case e lasciandosi dietro terrore e morte per fame. Più di un milione di palestinesi sono fuggiti a sud a Rafah, facendo aumentare la sua popolazione di sette volte la sua dimensione precedente.

Ma adesso l’obbiettivo di Israele è puntato sulla stessa Rafah, con la minaccia di un’invasione devastante.

Rafah oggi è una città fatta di strutture di tela e plastica quanto di cemento; fredda e spesso fradicia, affamata e devastata. Le malattie si diffondono mentre la gente baratta quel poco cibo di cui dispone con le medicine e le donne strappano pezzi delle tende per usarli come assorbenti. Gli orfani – forse diecimila a Rafah – badano a sé stessi come meglio possono.

L’anno scorso Israele ha lanciato volantini su Khan Younis dicendo ai palestinesi di andare nei “rifugi” a Rafah, per sfuggire al conflitto. Ma là non ci sono rifugi e non c’è stata via di fuga. All’inizio della guerra un amico ha perso 35 membri della sua famiglia estesa in un solo attacco aereo sulla città. In maggioranza erano donne e bambini.

Più frequente degli attacchi a Rafah stessa è il suono dell’eco degli attacchi aerei dal nord, un sinistro avvertimento che il peggio può ancora arrivare.

Il mese scorso il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha sostenuto che rinunciare a invadere Rafah equivarrebbe ad una sconfitta del suo Paese e che ordinerà l’invasione anche se tutti gli ostaggi fossero rilasciati.

Il segretario di stato USA Anthony Blinken ha detto che Washington non sosterrà un’invasione di Rafah in assenza di un “chiaro” piano di protezione dei civili e che non è ancora stato approntato alcun piano. Si dice che i dirigenti israeliani stiano elaborando uno schema per trasferire i palestinesi che sono a Rafah in “isole umanitarie” a nord – dove già scarseggiano cibo e medicinali e la gente è morta di fame.

Il presidente Joe Biden ha detto che un’invasione di Rafah costituirebbe una “linea rossa”, ma non ha ventilato alcuna conseguenza nel caso Israele oltrepassi tale linea rossa, come ne ha oltrepassate tante altre. Netanyahu, come ha già fatto in precedenza, ha risposto sprezzantemente: “Ci andremo. Non li risparmieremo.”

Rasa al suolo, crivellata di proiettili e svuotata”

All’epoca della seconda Intifada, nel 2002-2003, vivevo a Rafah come volontario per l’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione a guida palestinese che sostiene la resistenza nonviolenta all’occupazione. Tra i miei colleghi c’era Rachel Corrie, una volontaria americana di Olimpia, nello stato di Washington negli Stati Uniti, con uno spassoso senso dell’umorismo che nascondeva la serietà riguardo alla vita – ed al suo scopo – che non avrei del tutto compreso fino a quando lessi i suoi scritti anni dopo. Più tardi si unì al gruppo Tom Hurndall, un talentuoso fotografo che venne colpito alla testa da un cecchino dell’esercito israeliano nell’aprile 2003 e morì l’anno seguente dopo 9 mesi di coma.

Anche allora Rafah fu “rasa al suolo e crivellata di proiettili e svuotata”, come scrisse Rachel in un messaggio ai suoi genitori. Passavamo la maggior parte delle notti nelle case di famiglie vicino al confine con l’Egitto. Israele vi aveva creato una striscia di terra vuota, demolendo case per creare una zona di tiro libero e quindi un vantaggio tattico per le sue truppe posizionate lungo il confine. A volte avvertivano coi megafoni le famiglie di andare via, a volte sparavano nelle case finché le famiglie fuggivano. In ogni momento del giorno o della notte, attraverso demolizioni o no, potevano sparare inondando le case di pallottole.

Non tutti i proiettili sparati contro un muro entravano nell’edificio, ma alcuni sì, specialmente quelli sparati da armi più potenti. Tutti coloro che si trovavano in casa del nostro amico Abu Jamil, compresa Rachel, non poterono non accorgersi, mentre giocavano con i suoi figli, dei fori lasciati dai proiettili che avevano colpito il muro interno ad altezza della testa, sopra il lavello della cucina.

Quando i palestinesi ci chiamavano andavamo ad opporci ai bulldozer armati israeliani che lavoravano lungo la striscia di confine, tenendoli d’occhio e cercando di intervenire se andavano a demolire una casa. Alcune volte li abbiamo rallentati, abbiamo creato impaccio, concedendo a una famiglia qua o là una tregua di qualche giorno o settimana. Forse abbiamo attirato l’attenzione del mondo su quella striscia di terra più frequentemente che se non fossimo stati là. Ma la demolizione andava avanti e il mondo aveva altre preoccupazioni: l’invasione dell’Iraq era imminente.

Il 16 marzo 2003 poco dopo le 17 vidi che uno dei bulldozer di Israele di fabbricazione USA, enorme e imponente, si dirigeva verso la casa del dottor Samir Nasrallah e della sua giovane famiglia. Rachel, amica del dottor Samir, si mise tra il bulldozer e la casa. Mentre il bulldozer si muoveva verso di lei la sua lama iniziò spingere davanti a sé a un monticello di terra. Quando il monticello raggiunse Rachel lei vi si arrampicò, faticando per mantenersi in appoggio sulla terra molle, reggendosi con le mani fin quando la sua testa fu sopra il livello della lama. Il conducente deve averla guardata negli occhi, ma proseguì imperterrito e lei cominciò a perdere l’equilibrio.

Qualche settimana prima di quel giorno Rachel sognò di cadere e lo scrisse sul suo diario:

…cadevo verso la morte da qualcosa di polveroso e liscio e frammentato come le scogliere dello Utah, ma mi sono aggrappata e quando ogni nuovo punto d’appoggio o pezzo di roccia si rompeva io allungavo la mano mentre cadevo e ne afferravo un altro. Non ho avuto il tempo di pensare a niente – solo di reagire…e ho sentito “Non posso morire, non posso morire”, ancora e ancora nella mia testa.

Il terreno sul confine di Rafah, un’irregolare mistura di argilla e terra, ha una tonalità calda non tanto diversa da quella delle scogliere dello Utah. A distanza di anni, come molti degli scritti di Rachel, l’incubo sembra essere stato premonitore.

Benché ci provasse, Rachel non riuscì a mantenere l’equilibrio; il bulldozer avanzò deciso, la travolse, la spinse sotto la terra, la schiacciò. Morì mentre le tenevo le mani nell’ambulanza verso l’ospedale. Nel mio primo resoconto dei fatti, scritto due giorni dopo, specificai che dieci palestinesi erano stati uccisi a Gaza dopo Rachel, senza che lo si sapesse al di fuori dell’enclave stessa.

A parte la mia personale amicizia con Rachel, c’è disagio nel raccontare ciò che è necessario ribadire soprattutto oggi, alla luce della devastazione che Rafah subisce. Parte del nostro obbiettivo, tutti quegli anni addietro, era far risaltare un sistema razzista di violenza e il sistema razzista di narrazione che lo accompagna, al fine di sovvertire quei sistemi stessi. Alcuni potrebbero pensare che un simile tentativo sia sempre stato idealista o che qualunque tentativo di mettere in luce un simile sistema razzista, come il nostro sforzo di attirare lo sguardo internazionale su Gaza, è inevitabile che avvalori quel sistema.

Ciononostante, avendo fatto la mia scelta più di vent’anni fa, mi ritengo impegnato. Ogni qualvolta mi si chiede di parlare di Rachel lo faccio, non solo per onorare un’amica, ma con l’idea che forse la sua storia è un modo per far capire ad alcune persone, lontane dalla Palestina, delle verità più ampie sulla violenza dell’occupazione e sulle politiche che la rendono possibile. E che quelle verità in definitiva ci riportano indietro ai palestinesi e a Rafah. Credo che conducano anche ad altri luoghi.

L’esercito israeliano agisce nella convinzione dell’impunità. Perciò quando un fatto eccezionale, come l’uccisione di un non-palestinese, lascia presagire una resa dei conti, il sistema è poco preparato a rispondere. Il risultato spesso consiste in una serie di stravaganti menzogne. Nel caso di Rachel le autorità evitarono di contestare i dettagli dei nostri testimoni oculari. Sostennero invece che Rachel “si era nascosta dietro un terrapieno” e fu colpita dalla caduta di una lastra di cemento. I nostri fotografi sul posto, sia prima che dopo l’uccisione di Rachel, dimostrarono che lei si trovava in terreno aperto.

Secondo uno schema abituale la risposta ufficiale fu, in ordine approssimativo: non lo abbiamo fatto noi, lo abbiamo fatto ma non è stata colpa nostra, anche se è stata colpa nostra non siamo responsabili e comunque erano dei terroristi. Il comandante dell’esercito nel sud della Striscia di Gaza all’epoca dell’uccisione disse a un tribunale di Haifa, probabilmente con un’espressione seria, che “un’organizzazione terroristica ha inviato Rachel Corrie a intralciare i soldati dell’esercito. Lo dico con conoscenza di causa.” Gli osservatori dell’attuale guerra ricorderanno una serie di analoghe dichiarazioni “categoriche”.

L’impunità di Israele è merce di esportazione americana

I volontari che vanno in luoghi di guerra per stare accanto a chi è in prima linea sono sempre stati il fulcro della tradizione internazionalista. E ciò è vero ancora oggi, sia che accompagnino i pastori e i raccoglitori di olive sulle colline della Cisgiordania, sia che portino rifornimenti ai soldati ucraini sul fronte della guerra con la Russia, o forniscano assistenza medica ai rivoluzionari del Myanmar, o combattano il cosiddetto stato islamico insieme alle Unità di Protezione Popolare nel nordest della Siria. Questi impegni e le persone che li assumono non vanno idealizzati. Ma la profonda solidarietà e relazione che incarnano sono straordinarie.

Però questo genere di cose non è per tutti. E non deve esserlo. La solidarietà dei volontari che si recano in una zona di guerra per stare accanto a chi è in prima linea deve accompagnarsi ad un progetto complementare che cerca di mobilitare la potenza degli Stati – soprattutto degli Stati Uniti – verso gli stessi obbiettivi. E’ qualcosa in cui la maggioranza della gente può essere coinvolta in qualche modo. Nel caso della Palestina comincia con la creazione di sostegno pubblico e pressione politica verso un cessate il fuoco e un’interruzione degli aiuti militari a Israele. Ciò include una pressione incessante nei confronti di Biden e la difesa dei sostenitori del cessate il fuoco nel Congresso da coloro che vogliono punire la loro posizione.

Gli Stati Uniti avallano l’occupazione israeliana attraverso un massiccio aiuto militare e finanziario e ciò significa avallare l’attuale guerra a Gaza. Jeremy Konyndyk, un ex alto funzionario dell’amministrazione Biden, ha detto al Washington Post che l’amministrazione aveva agevolato “un numero straordinario di vendite nel corso di un brevissimo intervallo di tempo, il che suggerisce fortemente che la campagna israeliana non sarebbe stata sostenibile senza questo livello di supporto USA.”

Il risultato, sempre dolorosamente evidente a Rafah, è che l’impunità di Israele è merce di esportazione americana. Ma l’annullamento del sostegno non sarà con tutta probabilità sufficiente. Saranno necessarie sanzioni finalizzate a costringere al riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Dovranno andare ben oltre il prendere di mira singoli coloni o i loro sostenitori.

La richiesta di sanzioni è una sfida diretta al principale cardine non dichiarato della politica USA verso Israele. Biden e i suoi subalterni parleranno della necessità di uno Stato palestinese e della necessità per Israele di mostrare moderazione. Ma il loro principio fondamentale, che è stato assoluto per tre decenni ed era predominante nei decenni precedenti, è che Israele non deve mai essere costretto a fare simili concessioni. Israele può essere blandito, lusingato, persuaso e spronato, ma mai obbligato. La conseguenza è che la Palestina è tenuta in permanente stato di eccezione.

Un parente del dottor Nasrallah, il farmacista la cui casa di famiglia Rachel stava difendendo quando fu uccisa, mi ha detto che era come se Rafah fosse stata risucchiata in un “buco nero dove le leggi internazionali non valgono e il mondo non ci può vedere né sentire.”

Descrive quando è tornato a casa un pomeriggio sulla scena di una carneficina, in seguito ad un attacco aereo su un edificio vicino in cui almeno due famiglie sono state interamente spazzate via e un’altra ha perso due bambini. (Gli amici di Nasrallah stanno raccogliendo soldi per aiutarli a mettersi al sicuro.) Un parente che ha chiesto di non rivelare il suo nome ha detto che era ormai normale vedere uomini scoppiare in lacrime al minimo attacco perché indifesi e incapaci di provvedere alle loro mogli o figli. “Stiamo parlando, dice, del labile confine tra la vita e la morte.”

Un’invasione di Rafah, che potrebbe avvenire tra qualche settimana, sarebbe un disastro “oltre ogni immaginazione”, dicono i medici delle Nazioni Unite. Come ha detto Rachel poche settimane prima di essere uccisa: “Penso che per tutti noi sia una buona idea abbandonare tutto e dedicare la nostra vita a far sì che questo abbia fine.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’aiuto umanitario è uno strumento genocida nelle mani di Israele e degli USA

Ramona Wadi

12 marzo 2024 – Middle East Monitor

Israele non ha alcuna intenzione di consentire che una quantità significativa di aiuti umanitari arrivi a Gaza. Anche la società dei coloni ha affermato che a Gaza i palestinesi non meritano aiuto finché non saranno rilasciati tutti gli ostaggi israeliani, nonostante il fatto che non c’è alcun rapporto tra l’imposizione di una carestia genocida e una garanzia del ritorno degli ostaggi nello Stato occupante. A parte, cioè, il fatto che se Gaza muore di fame, lo stesso faranno gli ostaggi.

Fare del genocidio uno spettacolo in nome dell’aiuto umanitario è una cosa in cui la comunità internazionale eccelle. Israele ha distrutto camion che portavano aiuti e ucciso palestinesi che vi si arrampicavano per una misera quantità di cibo. La Giordania e gli USA hanno tentato lanci umanitari dal cielo, alcuni dei quali sono caduti in mare. Un altro bancale di cibo lanciato dal cielo ha ucciso dei palestinesi perché il paracadute non si è aperto. Non solo è stato un aiuto sprecato, ma il cibo era sufficiente per qualche migliaio di palestinesi, mentre tutta Gaza muore di fame.

Si sta per costruire un molo galleggiante sulle coste di Gaza che sarà utilizzato per trasferire aiuti dalle navi all’enclave. Lo costruiranno soldati USA. Sembra che militarizzare l’aiuto umanitario non sia mai stato così facile, e dal punto di vista umanitario mai così tirato per le lunghe. Costruire il molo potrebbe richiedere fino a 60 giorni, e il generale Frank S. Besson, di USAV [Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria, ndt.], è già salpato con le attrezzature necessarie. Gli USA schiereranno 1.000 soldati per la costruzione del pontile lungo 550 metri e, secondo dichiarazioni del presidente USA Joe Biden, “il governo israeliano ne garantirà la sicurezza.” Non è certo un’idea rassicurante. Al contrario è la garanzia che, 60 giorni dopo, i palestinesi continueranno a morire di fame nel genocidio pianificato da Israele.

L’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees [agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro dei Profughi Palestinesi] (UNRWA) ha ammorbidito le sue critiche al piano USA per la consegna di aiuti. “Qualunque tentativo di far entrare aiuti umanitari a Gaza per aiutare persone disperate è assolutamente benvenuto,” ha detto la direttrice della comunicazione Juliette Touma, notando nel contempo che il trasporto di aiuti umanitari sarebbe più efficace via terra. Il comunicato è esplicitamente attento a non irritare Israele e gli USA, e anche paternalistico nei confronti del popolo palestinese. Se le preoccupazioni dell’UNRWA riguardo alla neutralità non fossero state il principale obiettivo nel rilasciare comunicati, il piano degli USA avrebbe incontrato un’obiezione di principio. Cercare di compiacere Israele non ammorbidirà i progetti dello Stato occupante per la chiusura dell’UNRWA, come ha riportato ieri il Times of Israel riguardo al piano dell’esercito israeliano di sostituire l’agenzia con un’alternativa come il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU. Il che dimostra ancora una volta che l’ONU non trova alcuna contraddizione riguardo a lavorare con violatori dei diritti umani per salvaguardare i diritti umani. 

Il molo galleggiante per l’aiuto umanitario è una perdita di tempo, non uno sforzo ben accetto.

Rimane da vedere a cosa servirà il pontile, se ci sono in serbo ulteriori motivazioni. Il ministro degli Esteri dello Stato di apartheid Israel Katz ha parlato di costruire un’isola artificiale al largo delle coste di Gaza per facilitare l’espulsione forzata del popolo palestinese dall’enclave. Ogni gesto umanitario da parte degli USA per il quale Israele non ha concrete obiezioni, come nel caso di questo molo, dovrebbe dunque far suonare il campanello d’allarme. Secondo l’esperto giordano di questioni militari e strategiche Hisham Khreisat “il porto galleggiante al largo delle coste di Gaza è una finzione umanitaria che nasconde la migrazione volontaria verso l’Europa.” Fai entrare gli aiuti, fai uscire i palestinesi.

L’aiuto umanitario è uno strumento genocida nelle mani di Israele e degli USA.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’amore ai tempi del genocidio

Susan Abulhawa

12 marzo 2024 – Al Jazeera

Continuano gli atti di amore e di eroismo in mezzo alla carneficina di Israele a Gaza.

Durante un recente viaggio nel sud di Gaza, per settimane ho raccolto storie di donne ricoverate in ospedale, ognuna delle quali era là per ristabilirsi da quelle che si chiamano “ferite di guerra”. Ma non si tratta di una guerra perché solo una delle parti ha un vero esercito. Solo una delle parti è uno Stato con una completa dotazione militare.

Queste vittime erano madri, donne e bambini, i cui deboli corpi sono stati straziati, lacerati, spezzati e bruciati. Le loro ferite più profonde non sono visibili finché loro non rivelano come hanno vissuto durante gli ultimi cinque mesi.

All’inizio raccontano le cose principali: una bomba ha distrutto la casa, sono state estratte dalle macerie, hanno riportato gravi ferite, membri della famiglia sono stati uccisi e la situazione era terribile. Questo è quanto hanno sempre detto sugli orrori inimmaginabili che hanno vissuto e continuano a vivere.

Ma io cerco i dettagli. Che cosa stavi facendo pochi minuti prima? Quale è stata la prima cosa che hai visto, la prima che hai sentito? Quale era l’odore? Fuori era buio o chiaro?

Le spingo a guardare a fondo nella struttura molecolare di ogni fatto – la sabbia in bocca, la polvere nei polmoni, il peso di qualcosa, il liquido tiepido che scende per la schiena, il dito deformato che si vede ma non si sente, il momento in cui ci si rende conto, l’attesa di essere salvate e la paura che nessuno arrivi, il suono nelle orecchie, gli strani pensieri, ciò che si muove e ciò che non può muoversi, l’attesa della morte e la speranza che sia rapida, il desiderio di vivere.

Nei mesi e settimane da quando uno degli eserciti più potenti del mondo ha preso di mira le loro vite non hanno ancora affrontato, né tantomeno verbalizzato, i dettagli di questo genocidio. Appena si avventurano oltre le linee generali delle proprie storie i loro occhi si incupiscono e a volte incominciano a tremare. Il minimo rumore inatteso le spaventa.

Le lacrime si addensano e potrebbero scendere, ma solo in poche si consentono di piangere. Poche lasciano che gli orrori che hanno in testa oltrepassino le barriere. Non si tratta di qualche forza sovrumana. Proprio il contrario. Sono stordite in modo tale che è come dovessero ancora comprendere l’enormità di ciò che hanno vissuto e continuano a vivere.

Jamila

Una giovane madre, Jamila (non è il vero nome), ha pianto per la prima volta quando ha toccato il corpo senza vita di suo figlio di sei anni nel buio, con le dita accidentalmente affondate nel suo cervello. Lei è una delle poche che hanno pianto, sopraffatta dal ricordo.

La loro famiglia era stata presa di mira da un carro armato, non da un missile. Un drone, secondo lei forse con sensori termosensibili, ha aleggiato fuori dal loro edificio e un bombardamento li ha inseguiti mentre correvano da un lato all’altro del loro appartamento, incapaci di uscire.

Era certa che qualcuno dietro a uno schermo stesse giocando con loro prima di assestare il colpo finale che ha trapassato il bambino e ha ferito suo padre. Poi si è fatto silenzio. I colpi del carro armato sono terminati, “come se fossero arrivati solo per uccidere il mio adorato figlio”, dice.

Non ha pianto allora. Non ha emesso alcun suono. “Mio marito era preoccupato e mi ha detto di piangere, ma io non l’ho fatto. Non so perché”, dice.

Due settimane dopo, dopo essere fuggita da un posto all’altro, un soldato israeliano ha sparato a sua figlia Nour di tre anni mentre la teneva in braccio, frantumandole entrambe le gambe, mentre si nascondevano in preda al terrore dentro un ospedale che pensavano fosse sicuro.

Quando l’ho incontrata la piccola Nour aveva barre di metallo sporgenti dalle sue magre cosce e una lunga cicatrice che correva lungo il polpaccio destro, da dove era uscito il proiettile. I medici l’avevano dimessa alcuni giorni prima, ma le avevano permesso insieme a sua madre Jamila di restare qualche giorno in più fino a che potessero in qualche modo ottenere una tenda da qualche parte.

Il marito di Jamila, a malapena in grado di camminare per le ferite riportate, aveva vissuto in una tenda con un gruppo di uomini, il massimo che può fare è procurarsi un po’ di cibo e di acqua ogni giorno. E’ venuto a trovarle una volta mentre ero là dopo essere riuscito a risparmiare 10 shekel (circa 3 dollari) per il trasporto e per un regalino a sua figlia.

La manifestazione della minima intimità fisica tra innamorati è un fatto privato a Gaza, ma non esiste privacy in un ospedale dove 40 pazienti e chi li assiste dividono una singola stanza, con file di letti appiccicati con solo lo spazio sufficiente a camminare tra l’uno e l’altro.

Jamila era al settimo cielo per aver trascorso un’ora con suo marito dopo un mese che non lo vedeva né sapeva nulla di lui (il suo telefono era stato distrutto nel bombardamento). Ma in seguito mi ha detto che le sarebbe piaciuto abbracciarlo, magari anche baciarlo sulle guance. “Soffre così tanto”, ha detto, reggendo il suo dolore con il proprio e quello di un’intera nazione sulle sue esili spalle.

Nina

Nina (non è il vero nome) ha un sorriso disarmante ed è di un espansivo buon carattere. E’ ansiosa di raccontarmi come ha salvato suo marito dalle grinfie dei soldati israeliani.

Si era sposata da appena un anno quando il bombardamento vicino a casa sua si è intensificato. Le registrazioni diffuse online da alcune di quelle notti sono inimmaginabili. Un esercito di draghi che calpestano e bruciano tutto intorno facendo tremare gli edifici, rompendo i vetri, terrorizzando giovani e vecchi; tuoni e terremoti, mostri che si avventano da sopra e da sotto.

Il marito di Nina, Hamad (anche questo non è il vero nome), prese la decisione di andare via insieme a diversi membri della sua famiglia – i genitori, gli zii, le zie e i loro congiunti e figli – e alcuni loro vicini. In tutto erano circa 75 persone, che andavano di città in città, senza trovare un posto sicuro in cui rimanere per più di pochi giorni ogni volta.

Circa una settimana dopo la partenza Nina ha saputo che la casa della sua famiglia era stata bombardata. In un solo istante, da un bottone schiacciato da un israeliano di una ventina d’anni, 80 membri della sua famiglia sono stati assassinati – padre, fratelli, zie, zii, cugini, nonni, nipoti.

Inizialmente le era stato detto che sua madre era morta, ma per fortuna si è saputo che era sopravvissuta. E’ stata gravemente ferita e ricoverata in ospedale, dove Nina è diventata la sua cara assistente. Ecco come mi è capitato di incontrare questa straordinaria giovane donna.

Nina, suo marito e gli altri del gruppo alla fine si sono fermati temporaneamente a Gaza City, da cui sono andati via lungo i muri di barriera per raggiungere un riparo. Si sono mossi uno alla volta, considerando che se Israele gli avesse sparato non sarebbero morti tutti. Perdere una persona era meglio di 75 in un colpo solo.

Effettivamente una persona fu colpita da un cecchino dopo che quasi la metà di loro ce l’aveva fatta, frazionando il gruppo per un po’ finché nuovamente hanno trovato il coraggio di correre, di nuovo uno per volta. I bambini sono stati divisi tra i genitori. Mezza famiglia uccisa è meglio che una intera. Queste erano le scelte che dovevano fare, non diversamente da La scelta di Sofia (romanzo di William Styron, 1976, ndt.)

Dopo non molto il loro rifugio è stato circondato dai carri armati. Un elicottero “quadrirotore” – una nuova invenzione del terrore israeliana – è volato nelle stanze, cospargendo i muri sopra di loro di pallottole. Tutti gridavano e piangevano, “anche gli uomini”, dice Nina. “Mi ha spezzato il cuore vedere i forti uomini della nostra famiglia tremare di paura in quel modo.”

Infine sono entrati i soldati. “Almeno 80”, dice. Hanno separato gli uomini dalle donne e dai bambini, spogliando i primi di tutto tranne i boxer, in pieno inverno. Le donne e i bambini sono stati ammassati in uno sgabuzzino, gli uomini divisi in due aule. Per tre notti e quattro giorni hanno sentito le grida dei loro mariti, padri e fratelli che venivano picchiati e torturati nelle altre stanze, finché alla fine i soldati hanno ordinato alle donne, in un arabo sgrammaticato, di prendere i loro figli e “andare a sud”.

Tutte le donne hanno obbedito, tranne Nina. “Non mi importava più niente. Ero pronta a morire, ma non sarei partita senza mio marito.” E’ andata di corsa nelle stanze dove venivano tenuti gli uomini, chiamando Hamad. Nessuno ha osato rispondere. Era buio e i soldati la stavano trascinando via. Ha lottato con loro mentre ridevano, probabilmente divertiti dalla sua isteria. La chiamavano “pazza”.

Ha riconosciuto i boxer rossi di suo marito nella seconda stanza ed è corsa da lui, strappandogli la benda dagli occhi, baciandolo, abbracciandolo, promettendo di morire con lui se fosse stato il caso. Alternava le imprecazioni contro i soldati alle preghiere di rilasciare suo marito. Infine gli hanno tagliato i lacci di plastica e lo hanno lasciato andare.

Ma lei non aveva finito. Mentre Hamad si avviava, è tornata dentro per raccogliere i vestiti per lui e per i suoi zii seduti nudi al freddo. Non sarebbero stati rilasciati ancora per settimane. Alcuni di quegli uomini sarebbero stati uccisi.

Lei e Hamad sono scappati insieme. Quando finalmente sono arrivati in un posto sicuro si sono resi conto che la gamba di lui era rotta, i suoi polsi erano tagliati dai lacci di plastica e sulla schiena aveva impressa la stella di Davide.

Tra le urla che Nina aveva sentito nei giorni precedenti vi erano quelle di suo marito, mentre un soldato con un coltello incideva il simbolo ebraico sulla sua schiena.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




I medici di Gaza hanno riferito alla BBC che le truppe israeliane li hanno picchiati e umiliati dopo i raid in ospedale

Alice Cuddy

12 marzo 2024 BBC

Il personale medico palestinese a Gaza ha detto alla BBC che sono stati bendati, trattenuti, costretti a spogliarsi e ripetutamente picchiati dalle truppe israeliane dopo l’attacco al loro ospedale il mese scorso.

Ahmed Abu Sabha, un medico dell’ospedale Nasser, ha raccontato di essere stato detenuto per una settimana in cui, ha detto, è stato aggredito da cani con la museruola e gli è stata rotta una mano da un soldato israeliano.

Il suo racconto combacia perfettamente con quello di altri due medici che hanno voluto restare anonimi per paura di ritorsioni.

Hanno raccontato alla BBC di essere stati umiliati, picchiati, inzuppati con acqua fredda e costretti a inginocchiarsi in posizioni scomode per ore. Hanno detto di essere stati detenuti per giorni prima di essere rilasciati.

La BBC ha dato i dettagli delle loro accuse alle Forze di Difesa Israeliane (IDF). Non hanno risposto direttamente alle domande su quei resoconti, né hanno negato specifiche accuse di maltrattamenti. Ma hanno negato che il personale medico sia stato maltrattato durante l’operazione.

Hanno affermato che “qualsiasi abuso sulle persone fermate è contrario agli ordini dell’IDF ed è quindi severamente proibito”.

Il 15 febbraio l‘IDF ha fatto irruzione nell’ospedale di Khan Younis, nel sud di Gaza, uno dei pochi nella Striscia ancora funzionante, affermando che secondo l’intelligence l’ospedale ospitava agenti di Hamas.

Hanno detto anche che vi erano stati trattenuti ostaggi israeliani presi da Hamas il 7 ottobre – e alcuni degli ostaggi hanno pubblicamente confermato di essere stati trattenuti a Nasser. Hamas ha negato che i suoi combattenti operino all’interno di strutture mediche.

Un filmato girato di nascosto in ospedale il 16 febbraio, il giorno in cui i medici sono stati arrestati, è stato condiviso con la BBC.

Mostra una fila di uomini in mutande davanti all’edificio del pronto soccorso dell’ospedale, inginocchiati con le mani dietro la testa. Davanti ad alcuni di loro giacciono camici medici.

“Chiunque abbia provato a muovere la testa o a fare qualsiasi movimento è stato picchiato“, ha detto alla BBC il primario dell’ospedale dottor Atef Al-Hout. “Li hanno lasciati per circa due ore in quella posizione vergognosa.”

L’IDF ha dichiarato alla BBC: “Di norma, durante il processo di arresto, è spesso necessario che i sospetti terroristi consegnino i loro vestiti in modo che possano essere perquisiti e per assicurarsi che non nascondano giubbotti esplosivi o altre armi.

“I vestiti non vengono restituiti immediatamente ai detenuti, per il sospetto che possano nascondere mezzi utilizzabili per scopi ostili (come coltelli). I vestiti vengono restituiti ai detenuti quando è possibile farlo.”

Il personale medico ha detto che sono stati poi portati in un edificio ospedaliero e picchiati, e poi trasportati mezzi nudi in una struttura di detenzione.

Il dottor Abu Sabha, medico 26enne appena qualificato e volontario a Nasser, ha descritto alcuni momenti del suo trattamento durante la detenzione, torture come far stare i detenuti in piedi per ore senza pausa. Ha detto che altre punizioni inflitte ai detenuti erano di metterli a pancia in giù per lunghi periodi e di procrastinare i pasti.

Un esperto di diritti umani ha affermato che il filmato e la testimonianza del personale medico intervistato dalla BBC sono “estremamente preoccupanti”. Ha detto che alcuni dei resoconti forniti alla BBC “rientrano molto chiaramente nella categoria di trattamento crudele e disumano”.

Lawrence Hill-Cawthorne, co-direttore del Centro per il Diritto Internazionale dell’Università di Bristol, ha dichiarato: “Questo va contro ciò che è stata per molto tempo un’idea fondamentale del diritto da applicare nei conflitti armati, ovvero che gli ospedali e il personale medico vanno protetti.”

“Il fatto che curino cittadini dello schieramento nemico non deve in alcun modo minare la loro tutela“, ha affermato.

La BBC ha indagato sulla vicenda dell’ospedale per diverse settimane, parlando con medici, infermieri, farmacisti e sfollati accampati nel cortile. Abbiamo effettuato un controllo incrociato dei dettagli dei racconti.

Ci sono stati forniti i nomi di 49 membri del personale medico di Nasser che si ritiene siano stati detenuti. Di questi, 26 sono stati nominati da più fonti: i medici sul campo, il Ministero della Sanità gestito da Hamas, alcune associazioni internazionali e le famiglie delle persone scomparse.

I tre medici che affermano di essere stati arrestati e successivamente rilasciati non hanno ancora reso pubblico il loro resoconto. Fra loro abbiamo intervistato due volte il dottor Abu Sabha. La sua storia è apparsa coerente e abbiamo verificato i punti chiave del suo resoconto in maniera indipendente.

Le famiglie di altri cinque medici dell’ospedale hanno detto alla BBC che i loro cari sono scomparsi. Inoltre, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha confermato alla BBC di aver ricevuto decine di telefonate da persone che affermano che i loro familiari, compresi alcuni medici che erano a Nasser, sono scomparsi.

I medici rimasti a Nasser affermano che l’operazione dell’IDF presso l’ospedale ha reso impossibile prendersi cura dei pazienti. Secondo il primario dottor Hout quando l’IDF ha preso il controllo vi venivano curati quasi 200 pazienti, molti dei quali “costretti a letto”, di cui sei nell’unità di terapia intensiva.

Il personale autorizzato a rimanere ha detto di aver ricevuto l’ordine di spostare pazienti gravemente malati tra gli edifici, di aver dovuto interrompere il proprio lavoro per essere interrogati e di aver ricevuto in carico pazienti che non erano preparati a gestire, il tutto lavorando in condizioni soffocanti e antigeniche.

Numerosi medici hanno affermato che 13 pazienti sono morti nei giorni successivi all’occupazione da parte di Israele.

Hanno detto che molti fra questi pazienti sono morti a causa delle condizioni dell’ospedale, inclusa la mancanza di elettricità, acqua e altri beni essenziali necessari per far funzionare Nasser. Non è possibile verificarlo in modo indipendente. Un medico ha condiviso foto di corpi in sacchi sui letti che, come abbiamo verificato, sono state scattate in un reparto dell’ospedale.

L’IDF ha detto alla BBC di aver “fornito all’ospedale centinaia di razioni di cibo e un generatore alternativo che ha permesso di continuare a funzionare e curare i pazienti ricoverati“.

I “sistemi essenziali” dell’ospedale avrebbero continuato a funzionare durante le operazioni dell’IDF grazie a un sistema continuo di alimentazione elettrica, hanno affermato.

Il 18 febbraio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che l’ospedale era a corto di cibo e forniture mediche di base e aveva cessato di funzionare. I restanti pazienti sono stati inviati in altri ospedali intorno a Gaza e il personale medico che vi lavorava se n’è andato poco dopo.

Un dottore: “Pensavo che mi avrebbero giustiziato”

I detenuti rilasciati e altri medici hanno detto alla BBC che l’edificio della maternità, chiamato Mubarak, è diventato il luogo in cui l’IDF interrogava e picchiava il personale. Il dottor Abu Sabha ha detto che inizialmente era stato scelto perché stesse con i pazienti dopo il raid, ma in seguito è stato portato a Mubarak che secondo lui era diventato “praticamente un luogo di tortura”.

Tutti e tre i detenuti con cui ha parlato la BBC hanno affermato di essere stati stipati con molti altri su veicoli militari e picchiati mentre venivano trasportati. I soldati li hanno picchiati con bastoni, tubi, calci di fucili e pugni, hanno detto.

“Eravamo nudi. Indossavamo solo dei boxer. Ci hanno ammassati uno sopra l’altro. E ci hanno portato fuori da Gaza”, ha detto uno dei medici che ha voluto rimanere anonimo. “Per tutto il percorso siamo stati picchiati, insultati e umiliati. E ci hanno versato addosso acqua fredda”.

Il dottor Abu Sabha ha detto che durante il viaggio i soldati hanno fatto scendere i detenuti dal veicolo. “Ci hanno portato su un pezzo di terreno coperto di ghiaia, ci hanno costretto a inginocchiarci e bendato gli occhi… C’era una fossa nel terreno e pensavamo che ci avrebbero giustiziati e seppelliti qui. Abbiamo iniziato tutti a pregare. “

Ha detto che è stato poi portato in un edificio dove lui e gli altri detenuti sarebbero stati detenuti.

Gli altri due detenuti rilasciati hanno detto che ad un certo punto sono stati sottoposti a controlli medici ma non medicati. Uno ha detto che invece di ricevere cure per una ferita, un soldato dell’IDF lo ha colpito nel punto in cui era ferito.

“Mi hanno messo sopra una sedia ed era come per un’impiccagione“, ha detto. “Ho sentito il rumore delle corde, quindi ho pensato che sarei stato giustiziato.

“Dopo di che hanno rotto una bottiglia e [col vetro] mi hanno fatto dei tagli sulla gamba e hanno lasciato che sanguinasse. Poi hanno iniziato a portare dentro un medico dopo l’altro e hanno iniziato a metterli uno accanto all’altro. Sentivo i loro nomi e le loro voci.”

L’IDF ha detto alla BBC che “non effettua e non ha effettuato finte esecuzioni di detenuti e respinge tali affermazioni”.

Tutti e tre i detenuti con cui ha parlato la BBC hanno affermato di essere stati stipati in massa su veicoli militari e picchiati mentre venivano trasportati. I soldati li hanno picchiati con bastoni, manichette, calci di fucili e pugni, hanno detto.

Il dottor Abu Sabha ha detto alla BBC che i detenuti venivano regolarmente puniti per quelle che erano ritenute infrazioni. “A un certo punto, la benda mi si è abbassata un po’ ma avevo le mani ammanettate sulla schiena e non potevo aggiustarla.

“Mi hanno portato fuori per la punizione… mi hanno lasciato in piedi con le mani alzate sopra la testa e il viso rivolto in basso per tre ore. Poi, lui [un soldato] mi ha chiesto di avvicinarmi. L‘ho fatto, lui ha preso a colpirmi la mano finché non me l’ha rotta.”

Più tardi quello stesso giorno è stato portato in bagno, picchiato e gli hanno aizzato contro cani con la museruola, ha raccontato.

Il giorno dopo, un medico israeliano gli ha fatto un gesso e poi i soldati gli hanno disegnato sopra una stella di David, ha continuato. Quel gesso è stato poi cambiato da un medico di Gaza e Ahmed l’aveva ancora durante la sua intervista con la BBC.

La BBC ha confermato che dopo la sua detenzione il dottor Abu Sabha si è sottoposto a una radiografia e ha dovuto curarsi una mano rotta in un ospedale da campo a Gaza, e che è arrivato lì con un gesso con disegnata una stella di David.

L’IDF non ha risposto alle domande della BBC sull’ingessatura del dottor Abu Sahba.

A nessuno dei tre medici sono state fatte accuse specifiche, ma due hanno affermato che gli interrogatori si sono concentrati sulla presenza di ostaggi o combattenti di Hamas all’interno dell’ospedale.

Hanno detto che è stato loro chiesto anche dove si trovassero il 7 ottobre, quando uomini armati di Hamas hanno fatto irruzione da Gaza in Israele uccidendo circa 1.200 persone, prendendone in ostaggio altre 253. Si ritiene che più di 130 ostaggi siano ancora detenuti da Hamas. Funzionari israeliani hanno detto che almeno 30 di loro sono morti.

Il Ministero della Sanità a Gaza, gestito da Hamas, afferma che più di 31.000 persone sono state uccise dagli attacchi aerei di ritorsione di Israele e dalloffensiva di terra in corso.

Uno dei detenuti rilasciati ha detto che due giorni dopo essere stato interrogato, gli ufficiali dell’IDF gli hanno detto che non c’erano prove e che sarebbe stato rilasciato.

“Gli ho chiesto: ‘Chi mi risarcirà di tutte le percosse e le umiliazioni che ho subito, che mi avete fatto, mentre sapevo che non ero colpevole di nulla?’ Ha cominciato a borbottare: Non ho niente contro di te. Nessuna accusa“.

Il dottor Abu Sabha ha detto alla BBC di non essere mai stato interrogato durante i suoi otto giorni di detenzione.

I tre medici con cui abbiamo parlato dicono di essere stati riportati a Gaza bendati dopo il rilascio.

La BBC ha confermato il resoconto del dottor Abu Sabha secondo cui sarebbe rientrato a Gaza dal valico di Kerem Shalom, controllato da Israele, vicino al punto più meridionale della Striscia dove si incontrano Gaza, Israele ed Egitto.

I resoconti dei medici sono in contrasto con un diverso resoconto fornito alla BBC da un alto funzionario dell’IDF, che afferma non fosse stato effettuato alcun arresto del personale medico a Nasser, “a meno che non sapessimo che fosse possibile ottenere questa o quella informazione di intelligence” da loro.

“Avevamo ragionevoli motivi per ritenere che avessero delle informazioni, quindi li abbiamo presi per interrogarli e porgli delle domande, ma non oltre”, ha detto il funzionario.

“Non c’erano manette, non li abbiamo portati via per interrogatori, né in arresto anticipato, ma allo scopo di interrogarli e cercare di ottenere informazioni sugli ostaggi o sui comandanti di Hamas che erano in ospedale… un interrogatorio molto semplice e questo è quanto.”

Alcuni ostaggi prelevati da Israele il 7 ottobre hanno raccontato di essere stati portati nel complesso ospedaliero di Nasser in ambulanza. Una donna presa in ostaggio e rilasciata ha detto che suo marito, che è ancora a Gaza, era coperto da un lenzuolo per sembrare un cadavere.

Hanno descritto di essere stati tenuti in stanze piccole e costretti a chiamare se avevano bisogno di andare in bagno. Uno ha descritto il periodo trascorso in prigionia come “guerra psicologica”.

L’IDF afferma di aver scoperto che Hamas ha utilizzato l’ospedale Nasser

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) afferma che dal 7 ottobre Israele ha sospeso le visite ai detenuti, il che significa che non ha più potuto visitare alcun detenuto.

Ha detto alla BBC che sono “profondamente preoccupati” per le notizie di arresti e continue detenzioni di medici.

“Ovunque e chiunque essi siano, i detenuti devono essere trattati umanamente e con dignità in ogni momento, in conformità con il diritto internazionale umanitario”, affermano.

“Il CICR ha continuamente richiesto, ed è pronto a riprendere immediatamente, le visite ai detenuti al fine di monitorare il trattamento e le condizioni di detenzione.”

Un rapporto interno delle Nazioni Unite visto dalla BBC descrive diffusi abusi nei confronti dei palestinesi che sono stati catturati e interrogati nei centri israeliani di detenzione improvvisati dall’inizio della guerra, e sono simili ai resoconti forniti dai medici. L’IDF ha precedentemente negato accuse specifiche contenute nel rapporto delle Nazioni Unite, compreso il rifiuto dell’accesso all’acqua, alle cure mediche e alla biancheria da letto.

A Nasser “l’ospedale riusciva a malapena a funzionare”

Nel frattempo nell’ospedale Nasser è stato permesso ad alcuni medici di restare e prendersi cura dei restanti pazienti. Alcuni pazienti erano stati arrestati durante il raid, secondo il primario dottor Hout.

In un video fornitoci da un testimone oculare di Nasser, i soldati dell’IDF trasportano due letti d’ospedale e le mani degli occupanti sono alzate sopra la testa e legate. Abbiamo verificato che fosse autentico.

In un filmato separato pubblicato dall’IDF, si possono vedere persone sdraiate sui letti nell’area dell’ospedale con le mani legate e le braccia sollevate in una posizione simile. Non sappiamo chi siano queste persone o cosa sia successo loro dopo questo filmato.

L’IDF ha affermato: “Sottolineiamo che le mani dei pazienti che non erano sospettati di coinvolgimento nel terrorismo non erano legate”.

I medici rimasti temevano di essere uccisi se avessero sfidato l’ordine di non lasciare l’edificio, ha detto alla BBC il dottor Hatim Rabaa, che lavorava anche lui al Nasser, in una telefonata il 22 febbraio mentre in sottofondo risuonavano le esplosioni. Tuttavia, sono scesi nel cortile per prendere acqua, temendo che i pazienti altrimenti sarebbero morti, ha detto.

“La gente moriva di sete. Sulle spalle portavo 12 litri d’acqua per darla da bere. Cos’altro potevo fare?”

Diversi medici hanno affermato che l’IDF non avrebbe concesso loro il permesso di seppellire o addirittura spostare i corpi dei pazienti morti in seguito all’operazione. I corpi sono rimasti all’interno insieme al personale e ai pazienti e cominciavano a decomporsi, hanno detto i medici.

“L’odore riempiva tutto il reparto“, ha detto il dottor Rabaa. “I pazienti gridavano ‘per favore portateli via da qui’. Io gli dicevo ‘non posso deciderlo io‘.”

Il dottor Rabaa faceva parte di un piccolo gruppo di medici scelti per rimanere con i pazienti. Ha detto che anche lui era stato spogliato fino alla biancheria intima e fatto inginocchiare davanti al pronto soccorso, ma poi è stato portato via nell’edificio dove erano tenuti i pazienti.

Ha detto che non sa cosa sia successo ai suoi colleghi che ha lasciato nel cortile.

La BBC ha posto all’esercito israeliano domande dettagliate sulle accuse.

Nella sua risposta, l’IDF ha detto alla BBC che “sono stati arrestati circa 200 terroristi e sospetti di attività terroristica, compresi alcuni che si sono spacciati per squadre mediche”. Hanno detto che “sono state trovate molte armi, nonché medicinali chiusi destinati agli ostaggi israeliani”.

Hanno affermato di aver operato in “modo preciso e mirato, creando danni minimi all’attività in corso dell’ospedale e senza danneggiare i pazienti o il personale medico”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Successo nell’ostacolare la macchina da guerra israeliana

Huda Ammori

11 Marzo 2024-Declassified UK

Negli ultimi tre mesi Palestine Action ha costretto quattro società britanniche a tagliare i legami con la società di armi israeliana Elbit Systems.

Mentre il genocidio di Gaza infuria molte persone cercano modi concreti per smantellare la macchina da guerra israeliana.

Per molti anni Palestine Action ha intrapreso un’azione diretta e coerente contro Elbit Systems, la più grande azienda di armi israeliana. Un killer un tempo silenzioso che opera in tutta la Gran Bretagna è diventato l’obiettivo più noto del movimento di solidarietà con la Palestina.

Ma prendere di mira Elbit richiede anche comprendere che l’azienda non agisce da sola. Coloro che facilitano le operazioni della Elbit traggono profitto anche dallo spargimento di sangue palestinese e possono essere più suscettibili alle pressioni esterne.

Per mantenere le fabbriche di armi funzionanti, Elbit ha bisogno di appaltare una moltitudine di servizi tra cui fornitori, reclutatori di personale, gestori di strutture e trasporti.

Alcune delle fabbriche non sono di proprietà della Elbit, che quindi richiede ai proprietari e ai gestori immobiliari di ospitare le sue attività criminali. Coloro che lavorano direttamente con Elbit sono considerati obiettivi secondari della campagna di Palestine Action.

Poiché la campagna contro Elbit è cresciuta nel corso degli anni, sono aumentate anche le azioni contro obiettivi secondari. Tra queste: dipingere i loro edifici con vernice rossa per simboleggiare lo spargimento di sangue palestinese, lo smantellamento di infrastrutture, atti vandalici e assalti agli uffici.

Le azioni intraprese hanno dato i loro frutti poiché solo negli ultimi tre mesi quattro società hanno tagliato i legami con Elbit dopo campagne mirate.

Obiettivi secondari

Il 1° dicembre dello scorso anno è stato annunciato che Fisher German, i gestori della proprietà della fabbrica di motori UAV [per droni, n.d.t.] di Elbit a Shenstone, nello Staffordshire, hanno abbandonato ogni collaborazione con Elbit. La notizia è arrivata dopo una campagna di due anni contro l’azienda che prevedeva ripetute verniciature e occupazioni dei loro uffici in tutto il paese.

Dopo una campagna di due mesi i soci di iO, gli unici reclutatori di Elbit nel Regno Unito, hanno concluso la loro collaborazione con il produttore di armi israeliano, che era anche il loro più grande cliente.

La campagna contro di loro è iniziata con l’assalto degli attivisti ai loro nuovissimi uffici di Manchester presso l’edificio Express, a cui è seguita rapidamente la copertura con vernice rossa spruzzata su quattro dei loro uffici in tutto il paese.

Prima che i soci di iO annunciassero di aver rescisso il loro contratto con Elbit, sono stati espulsi dai loro uffici di Manchester a causa di “problemi di sicurezza” nell’edificio Express.

La vittoria successiva ha richiesto solo un’azione! Naked Creativity, il sito web indicizzato che pubblicizza la fabbrica UAV Tactical Systems di Elbit a Leicester, ha smesso di lavorare con Elbit dopo che i loro uffici di Londra sono stati verniciati con lo slogan “Drop UAV”.

Ultima, ma forse la più significativa, una delle maggiori compagnie di navigazione del mondo, Kuehne+Nagel, ha dichiarato di aver smesso di collaborare con Elbit e che si asterrà dal farlo in futuro.

Il colosso della logistica è una delle sole sei società autorizzate alla raccolta, consegna e smaltimento sicuro di armi in Gran Bretagna.

Ridurre il bacino degli appaltatori

Lavorare con Elbit ora comporta il rischio aggiuntivo di Palestine Action. Per la compagnia israeliana di armamenti questo significa l’obbligo di informare ogni nuovo potenziale appaltatore della pressione che dovrà affrontare.

Anche se non lo facessero, una semplice ricerca su Google rivelerà il loro potenziale destino. Ridurre il potenziale bacino di appaltatori significa che Elbit , a differenza di altre società, non sarà in grado di ottenere il miglior prezzo per i servizi esterni, il che può ridurre la loro competitività e i margini di profitto.

La reputazione costruita da Palestine Action per l’instancabile azione diretta ha reso più rapido il raggiungimento delle vittorie.

Per coloro che lavorano con Elbit il dilemma che si pone è: sostenere anni di azione diretta contro di noi o porre fine ai nostri legami con Elbit il prima possibile ed evitare lo scontro?

Sempre più aziende stanno optando per quest’ultima ipotesi.

Per Elbit, la pressione perché cessi le operazioni in Gran Bretagna continua a crescere. Dopotutto, per i trafficanti di armi il denaro è l’aspetto più importante.

Poiché continuano a non essere in grado di mantenere un modello di produzione affidabile a causa della tempistica imprevedibile delle azioni contro di loro e lavorano costantemente per trovare nuovi appaltatori a un prezzo peggiore, a che punto interromperanno e cesseranno le operazioni in questo paese?

Sancire la vittoria

Forse il risultato più significativo dell’azione diretta contro obiettivi secondari è il modo in cui vengono sancite le vittorie.

Invece che evitare di ammettere che la dissociazione da Elbit sia dovuta alle pressioni della campagna ciascuna delle quattro società che hanno recentemente tagliato i legami con Elbit ha dovuto inviare direttamente un’e-mail di conferma a Palestine Action.

Questo è diventato un requisito necessario per cessare la campagna contro un’azienda complice.

Nel mezzo di un genocidio è necessario intraprendere ogni strada per isolare, danneggiare e distruggere la macchina da guerra israeliana.

Concentrare i nostri sforzi su Elbit Systems e su tutti coloro che li facilitano si sta rivelando una strategia di successo, una strategia che molti altri possono seguire per incanalare la nostra rabbia verso risultati.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Ecco cosa dice in realtà per conto dell’ONU Pramilla Patten nel suo rapporto sulle violenze sessuali del 7 ottobre

Rete di solidarietà femminista per la Palestina

11 marzo 2024 – Mondoweiss

Il rapporto dell’ONU sulle violenze sessuali del 7 ottobre non ha evidenziato prove di stupri sistematici da parte di Hamas o di qualsiasi altro gruppo palestinese, nonostante i media abbiano ampiamente riportato il contrario. Ma ci sono problemi più profondi riguardo alla credibilità del rapporto.

Negli ultimi quattro mesi una campagna propagandistica concertata, organizzata dal governo israeliano e amplificata attraverso vari organi d’informazione occidentali, ha accusato Hamas di aver usato il 7 ottobre lo stupro come arma di guerra. Dichiarazioni su una pianificazione e messa in atto da parte di Hamas di violenze sessuali (con atti che vanno dal fortemente grottesco all’apertamente feticistico e bizzarro) sono state usate per dipingere la resistenza palestinese come disumana e per giustificare il genocidio in corso a Gaza da parte di Israele. Analisi recenti che dimostrano il carattere fallace di queste affermazioni invenzioni, errori materiali e cattive pratiche giornalistiche, asserzioni di testimoni e primi soccorritori non attendibili, affiliazioni militari israeliane di fonti chiave, nonché l’assenza di prove legali o di attestazioni video o fotografiche hanno aperto una breccia nell’opinione corrente.

Il 4 marzo la Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, Pramila Patten, ha pubblicato un rapporto basato su una visita condotta dal 29 gennaio al 14 febbraio in Israele e nella Cisgiordania occupata per raccogliere, analizzare e verificare le accuse di violenze sessuali legate al conflitto commesse secondo quanto riferito durante i brutali attacchi terroristici condotti da Hamas il 7 ottobre 2023. Il rapporto, che descrive in dettaglio i risultati del sopralluogo di Patten, è emerso in un momento cruciale. Contemporaneamente, mentre la narrazione israeliana secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche si sta sgretolando, e gli organi di informazione che hanno diffuso tale narrazione sono sotto pressione, il rapporto viene ampiamente proclamato come una difesa di entrambi [Israele e organi di informazione, ndt.].

La nostra analisi mostra che questo non è vero. Il rapporto, infatti, non giunge a molte delle conclusioni per le quali viene elogiato dagli organi di informazione occidentali e molte delle sue conclusioni destabilizzano la narrazione israeliana. Nel rilevare tali conclusioni segnaliamo che il rapporto contiene gravi limiti e discrepanze. È importante capire perché non ci si può fidare del rapporto, dal momento che ha dato nuova vita alla macchina propagandistica sugli stupri di massa utilizzata per giustificare il genocidio di Israele a Gaza.

1. La mancata indagine e i problemi riguardo la metodologia di Patten

Lufficio di Patten non ha né i mezzi né il mandato per indagare su quanto accaduto il 7 ottobre, e le sue risultanze non soddisfano lo standard legale della prova. Al contrario, lufficio della Rappresentante Speciale sulla Violenza Sessuale nei conflitti ha il compito di raccogliere informazioni” e impegnarsi nelpatrocinio legale”.

Ironicamente è proprio lassenza di qualsiasi capacità o potere di indagare che probabilmente ha indotto Israele a rivolgere un invito a Patten. Questo nonostante il rifiuto di Israele di collaborare con lindagine ufficiale dell’ONU attualmente in corso. Nonostante Patten non abbia nascosto che la sua principale preoccupazionenel produrre il rapporto sia stata quella di fare di tutto per gli ostaggi rimasti, ciò che rende la sua missione utile a Israele è la sua compiacenza e deliberata ignoranza nel momento in cui non indaga sulla serie di fatti connessi al 7 Ottobre il suo prima e dopo, contestualmente e storicamente. Non c’è da stupirsi che la missione di Patten abbia goduto della piena cooperazionedel governo israeliano (paragrafo 32), dal momento che era noto in anticipo che la missione non avrebbe potuto anzi, non avrebbe voluto sondare troppo in profondità.

Dopo la pubblicazione del recente rapporto sulla sua missione Patten ha sostenuto che qualsiasi verdetto definitivo sulle violenze sessuali avvenute il 7 ottobre richiederebbe un’indagine ufficiale delle Nazioni Unite.[1] [2] Ma è proprio questa indagine dellONU, presieduta da Navi Pillay, già in corso, che il governo israeliano ha più volte bloccato. Il 15 gennaio, ad esempio, Israele ha dato istruzioni ai medici che avevano curato i sopravvissuti del 7 ottobre di non collaborare con gli investigatori dell’ONU. Lo stesso rapporto di Patten cita la mancanza di cooperazione da parte dello Stato di Israele con gli organi competenti delle Nazioni Unite dotati di mandato investigativo. (Paragrafo 55) Eppure, allo stesso tempo, Israele presenta in modo fuorviante il rapporto di Patten come una convalida dell’ONU alla sua affermazione secondo cui Hamas il 7 ottobre avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche.

Per dimostrare quanto sia facile fare uso strumentale del rapporto di Patten, dobbiamo solo ricercare nel suo contesto il significato di “informazione credibile. Durante il suo incontro con i giornalisti Patten ha ripetutamente legittimato il rapporto sostenendo che seguirebbe la metodologia dell’ONU. Ma un esame più attento rivela che quando l’applicazione dell’onere della provautilizzata dagli organi investigativi dell’ONU – “ragionevoli motivi per ritenere” – viene trasferita in un contesto in cui non è possibile alcuna indagine le informazioni possono facilmente essere distorte e utilizzate come armi (paragrafo 26). Nel rapporto le interviste con testimoni secondari anonimi costituiscono alcune delle principali fonti di informazioni credibilima la loro inclusione si basa sulla valutazione personale della credibilità e affidabilità dei testimoni incontratida parte del team della missione. (Paragrafo 26)

In altre parole, ci viene chiesto di fidarci del giudizio di Patten e di prendere il suo rapporto per oro colato. Tale fiducia sarebbe stata più facile se il rapporto avesse incluso citazioni o riferimenti che spiegassero le fonti su cui si basa a proposito delle sue informazioni credibili. Pur comprendendo che le informazioni sensibilidebbano essere rese anonime quando si ha a che fare con dei testimoni (par. 31), ciò oltrepassa il confine delloccultamento quando le informazioni in questione provengono da istituzioni nazionali israeliane o organizzazioni della società civile; le pubblicazioni non vengono citate, né viene identificato alcun funzionario governativo o primo soccorritore (anche se questi hanno già emesso dichiarazioni pubbliche).

Sappiamo, ad esempio, che Patten ha parlato con uomini della ZAKA [vedi infra, ndt] come Yossi Landau (come lei stessa ha ammesso nella conferenza stampa). Landau è stato una figura centrale nella diffusione di false storie intorno al 7 ottobre, tutte ora screditate. Mentre il rapporto di Patten confuta una falsa storia su una donna incinta [a Be’eri] il cui ventre sarebbe stato squarciato prima di essere uccisa e il feto pugnalato mentre era ancora dentro di lei(paragrafo 65), storia che origina anch’essa da Landau, ripete anche, senza metterle in discussione, altre affermazioni fatte pubblicamente da Landau. Ad esempio, il rapporto avalla le ragioni fornite da Landau al New York Times secondo cui il numero limitato di foto scattateda gruppi volontari di ricerca e salvataggio sarebbe dovuto alla loro estrazione religiosa conservatricee per rispetto al defunto” (paragrafo 46) – il tutto senza mai nominare Landau.

Trasmettere queste informazioni in termini generici, senza fonti o attribuzioni, conferisce alle stesse unaura di obiettività” e imparzialità”. Questa mancanza di trasparenza rende quasi impossibile pesare e valutare le informazioni che riceviamo dal rapporto.

Un ulteriore problema è legato al fatto che il piccolo numero di testimoni della violenza sessuale del 7 ottobre sia già stato ampiamente screditato. Si è scoperto che molti hanno mentito esplicitamente nella loro testimonianza, la maggioranza ha legami diretti o indiretti con l’esercito israeliano, tutti i testimoni chiave hanno cambiato la loro testimonianza in modo abbastanza significativo da minare la loro credibilità, e molti appartengono all’organizzazione sionista conservatrice ZAKA, che, secondo il portavoce Yehuda Meshi-Zahav, si considera un braccio del ministero degli Affari esteri”.

Sappiamo già che la squadra di Patten, nonostante abbia lanciato un appello pubblico, non ha incontrato un solo sopravvissuto alla violenza sessuale dal 7 ottobre (par. 48). A meno che Patten, con pochi contatti sul campo e di fronte a quella che lei stessa ha definito disponibilità estremamente limitata di vittime sopravvissute e testimoni di violenze sessuali, sia stata in qualche modo in grado di evocare una serie completamente nuova di testimoni nell’arco di due settimane dobbiamo presupporre che i testimoni credibilidi Patten provengano da questo gruppo già screditato. È quindi altamente improbabile che siano credibili.

Ancora più problematica è lassenza di citazioni delle fonti, data la provenienza di gran parte delle informazioni contenute nel rapporto. Il rapporto stesso afferma che il raggiungimento dell’obiettivo della squadra è stato limitato dal fatto che le informazioni su cui faceva affidamento provenivano in gran parte da istituzioni nazionali israeliane(Paragrafo 55) fra cui: il Presidente di Israele e la First Lady, i ministeri competentile Forze di Difesa Israeliane (IDF), lAgenzia di Sicurezza Israeliana (Shin Bet), e la Polizia Nazionale israeliana incaricata delle indagini sugli attacchi del 7 ottobre (Lahav 433); [e] diversi incontri di lavoro alla base militare di Shura, lobitorio in cui furono trasferiti i corpi delle vittime, nonché un incontro al Centro Nazionale Israeliano di Medicina Legale” (par. 33).

In tutto, la squadra ha condotto 33 incontri con rappresentanti delle istituzioni nazionali israeliane. (par. 33) Rendere tali informazioni generiche e comunicarle con tono impersonale oscurando le fonti dà lillusione di obiettività”, anche se il rapporto rimane fortemente dipendente dalle fonti israeliane. In quanto tale, il rapporto non è solo metodologicamente imperfetto, ma anche pericoloso.

Nella conferenza stampa del 4 marzo Patten ha ammesso che, senza unindagineci occuperemmo delle violenze sessuali praticamente nel vuoto(Minuto 20:36, corsivo nostro). Questa decontestualizzazione consente di far finta che le storie degli stupri di massa del 7 ottobre non abbiano avuto un ruolo persistente nel giustificare il genocidio di Gaza. In questo senso, la mossa di delegittimare nel rapporto due presunti casi di violenza sessuale che hanno avuto un’ampia diffusione (entrambi completamente confutati molto prima della pubblicazione del rapporto) ha avuto l’effetto di convalidare i giudizi di credibilità espressi nel resto del rapporto e confondere i critici. [3] Il rapporto può quindi sembrare in accordo con i principi di indipendenza, imparzialità, obiettività, trasparenza, integrità” (paragrafo 30), anche se presenta una visione parziale del quadro del 7 ottobre.

Patten afferma di comprendere il rischio che il suo rapporto venga strumentalizzato. Quindi potremmo chiederci perché ha accettato linvito in Israele quando sapeva che gli israeliani stavano rifiutando laccesso alla Commissione dInchiesta dell’ONU, lagenzia con poteri investigativi. Come mostriamo nella nostra analisi della diffusione del rapporto Patten nei media occidentali, il rapporto è già stato citato come sostegno ufficiale dell’ONU alle affermazioni di Israele e utilizzato per rivitalizzare la propaganda sugli stupri di massa, proprio quando quella propaganda era stata pubblicamente sfatata. Ciò essenzialmente rende Patten una complice volontaria del genocidio israeliano a Gaza.

2. Sfatando la narrazione sullo stupro di massa

Nonostante la sua complicità con la narrazione israeliana il rapporto di Patten mina molti dei principi fondamentali di tale versione. Gli organi di informazione di massa occidentali sono attualmente impegnati in una campagna concertata per ignorare questo fatto, dal momento che interpretano il rapporto come una conferma delle affermazioni secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso uno stupro sistematico. In realtà, il rapporto non giunge esplicitamente a questa conclusione. Qui elenchiamo diversi riscontri del rapporto e spieghiamo come e perché minano la narrazione di Israele.

2.1 Il rapporto delle Nazioni Unite non rileva che il 7 ottobre abbia avuto compimento alcun “disegno preordinato” di violenza sessuale

Questa è stata l’affermazione principale di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella nel loro articolo, ormai completamente screditato, “‘Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7” [“grida senza parole”: come Hamas il 7 ottobre ha utilizzato la violenza sessuale come arma, ndt], in cui sostenevano che i combattenti di Hamas non avrebbero compiuto atti di stupro occasionali e isolati, ma avrebbero invece messo in attoun più ampio disegno preordinato di violenza di genere, utilizzando lo stupro come arma di guerra. Tuttavia, quando, 52 minuti dopo l’inizio della conferenza stampa di Patten del 4 marzo, Farnaz Fassihi del Times ha chiesto: “Potrebbe affermare di aver riscontrato un disegno preordinato di violenza sessuale come strategia di Hamas, sia negli attacchi del 7 ottobre che riguardo gli ostaggi?” Patten ha risposto no in maniera decisa.

In un momento successivo della conferenza stampa, quando la giornalista di Haaretz Liza Rozovsky le ha chiesto: “Ho ragione nel dire che non si può concludere che la violenza sessuale sia stata di carattere sistematico?” Patten ha ribadito la risposta, affermando: “No…il fattore distintivo rispetto al compito che ci eravamo prefissati, la raccolta e la verifica di informazioni allo scopo di includerle nella relazione annuale del Segretario Generale piuttosto che un’indagine, nel qual caso si sarebbe indagata l’eventuale esistenza di aspetti più ampi e sistematici. Non abbiamo approfondito quegli aspetti. (Minuto 57:53)

Il rapporto di Patten non ha potuto né “stabilire l’estensione della violenza sessuale” (par. 86), né “trarre conclusioni sullattribuzione delle presunte violenze sessuali a specifici gruppi armati”. (par. 78) Patten lo ribadisce più avanti, nella stessa audizione, quando spiega:

Non mi addentro sull’estensione, nella relazione non ho dei numeri. Perché per me un caso è più che sufficiente. Non si tratta di… non ho eseguito un esercizio di contabilità. La prima lettera che ho ricevuto dal governo israeliano parlava di centinaia se non migliaia di casi di brutale violenza sessuale perpetrata contro uomini, donne e bambini. Non ho trovato niente, niente del genere. (corsivo aggiunto)

Qui vale la pena chiarire che, mentre il grado di estensione non rientra nellambito del lavoro della missione, lo è la ricerca di disegni preordinati. Vale a dire, il mandato della SRSG-SVC comprende la raccolta, lanalisi e la verifica delle informazioni esistenti, nonché di quelle ricevute in modo indipendente, su episodi e modelli preordinati di violenza sessuale legata ai conflitti(par. 25, corsivo nostro).

È quindi significativo il fatto che non sia stata constatata di fattol’attuazione il 7 ottobre di un disegno preordinato di violenza sessuale. Questo nonostante l’evidente parzialità nellaffidarsi a fonti (di istituzioni nazionali israeliane) di cui soffre il rapporto. Anche al livello molto più basso di informazione credibile(debole come prova, ma con valore indiziario), Patten è chiara durante la conferenza stampa sul fatto che non sia stato riscontrato alcun disegno preordinato di violenza sessuale.

In effetti, il massimo che si può intendere che il rapporto delle Nazioni Unite affermi sono informazioni credibilisu casi differenti. Potenzialmente per compensare lassenza di uno schema preordinato, il rapporto contestualizza in luoghi diversi informazioni riguardanti lo stupro e lo stupro di gruppo. Elenca almeno treluoghi distinti per i quali sostiene che vi siano informazioni credibili di atti di violenza sessuale: il festival musicale Nova e le aree circostanti”; strada 232 e altre vie di fuga’”; e il Kibbutz Re’im. Questa molteplicità di luoghi è ingannevole. A un esame più attento, almeno due dei contesti risultano indistinguibili: il festival musicale Nova si è svolto in un prato che confina con la strada 232, quindi fingere che il festival e zone circostantinon includesse anche la strada 232 è un gioco di prestigio che porta ad alcune delle peggiori incoerenze del rapporto. Nel rapporto ci viene detto:

“Altre fonti credibili sul sito del festival musicale Nova hanno descritto di aver visto numerosi individui assassinati, per lo più donne, i cui corpi sono stati trovati nudi dalla vita in giù, alcuni completamente nudi, con alcuni colpi di pistola alla testa e/o legati, di cui alcuni con le mani dietro la schiena e legati a strutture come alberi o pali. (Par. 58, corsivo nostro)

Eppure il riepilogo colloca questi corpi legati a strutture come alberi e pali lungo la Strada 232. (punto 13) Questo errore è significativo poiché l’impressione di molteplici testimonianze e di una ripetizione di indizi circostanziali di violenza sessuale, quando, in realtà, sono descritti gli stessi episodi. In altre parole, le conclusioni del rapporto vanno oltre e gonfiano anche le affermazioni minime che si possono ricavare dalle cosiddette informazioni credibili raccolte.

Inoltre, quasi tutti i casi di violenza sessuale trattati dal rapporto ci sono familiari grazie a precedenti rapporti e articoli dei media, che si tratti del New York Times, della presa di posizione di Physicians for Human Rights Israel [medici per i diritti umani Israele, ndt.], del rapporto più recente dellAssociation of Rape Crisis Centers in Israel [associazione dei centri antistupro israeliani, ndt.] o una serie di altre fonti. C’è solo un nuovo caso di stupro che il rapporto dell’ONU tenta di aggiungere alla lista già molto limitata di presunti casi che ha iniziato a circolare all’infinito nella sfera pubblica da quando la propaganda di massa sugli stupri è iniziata in grande stile a novembre. Questo caso è localizzato nel terzo sito, il Kibbutz Re’im (2 km a sud-ovest del sito del festival musicale Nova). Viene descritto come lo stupro di una donna allesterno di un rifugio antiaereo allingresso del kibbutz Reim, confermato da testimonianze e materiale digitale”. (par. 61) È basandosi quasi esclusivamente su questo caso che il rapporto giudica che vi siano fondati motivi per ritenere che nel kibbutz Reim si siano verificati casi di violenza sessuale, tra cui lo stupro”. (par. 61)

Tuttavia la descrizione all’esterno di un rifugio antiaereo all’ingresso del kibbutz Re’im” è fuorviante, perché il rifugio antiaereo si trova all’esterno del kibbutz sulla strada 232. Anche se questo caso è classificato nel rapporto dell’ONU sotto l’intestazione che fa riferimento al kibbutz Re’im, avrebbe potuto benissimo essere classificata sotto l’intestazione: strada 232”; infatti fa parte delle aree circostanti al sito del festival Nova. La ragione per cui ciò è importante è che questo è l’unico caso di presunta informazione credibile di stupro in un kibbutz. Finora, in tutti i resoconti e le storie dei media, pochissimi presunti stupri sono stati localizzati nei kibbutz, e tutti questi sono stati confutati. Lo stesso rapporto dell’ONU giudica le altre accuse di violenza sessuale nei kibbutz non verificate (kibbutz Kfar Aza) o infondate (tre accuse nel kibbutz Beeri, che è lunico kibbutz visitato dalla squadra della missione).

Dato che Hamas non sapeva che il 7 ottobre nel campo vicino a Re’im si sarebbe svolto il Nova Music Festival (il rave avrebbe dovuto concludersi il 6 ottobre), se avesse pianificato di utilizzare lo stupro o la violenza sessuale come arma di guerra contro i civili, avrebbe preso di mira i kibbutz. Eppure non ci sono state presentate informazioni credibili su violenze sessuali in nessuno dei kibbutz. [4]

Nonostante le apparenze contrarie, il rapporto dell’ONU non ha cambiato la situazione. Ciò getta ulteriori dubbi sulle affermazioni secondo cui il 7 ottobre la resistenza palestinese avrebbe commesso uno stupro sistematico.

2.2 Il rapporto non attribuisce alcun atto di violenza sessuale a Hamas o ad altre organizzazioni di resistenza palestinesi

Nonostante la trionfante dichiarazione del presidente israeliano Isaac Herzog secondo cui il rapporto conferma con limpidezza e coerenza morale i crimini sessuali sistematici, premeditati e continui commessi dai terroristi di Hamas contro le donne israeliane, il rapporto non rileva esplicitamente che Hamas in particolare abbia commesso alcun crimine. Nella conferenza stampa, Patten spiega che:

Dati i molteplici attori presenti, Hamas, la Jihad islamica palestinese, altri gruppi armati, civili, armati e disarmati, non mi sono addentrata nellattribuzione, considerati i tempi e dato il fatto che non stavo conducendo unindagine.

Lo stesso rapporto della missione rileva che Hamas ha formalmente negato le accuse di aver commesso degli stupri il 7 ottobre e ribadisce che non ritiene alcun gruppo responsabile di possibili casi di violenza sessuale:

“Dato che la missione non era investigativa non ha raccolto informazioni e/o tratto conclusioni sull’attribuzione di presunte violenze sessuali a specifici gruppi armati.” (Paragrafo 78)

Vari titoli di mezzi di informazione hanno scelto di ignorare tale affermazione: CBS News ha riferito che LONU dichiara di avere ‘fondati motivi per ritenere’ che il 7 ottobre Hamas abbia compiuto attacchi sessuali,” e Associated Press e Time che “Linviata dell’ONU afferma che esistono ‘fondati motivi’ per ritenere che il 7 ottobre Hamas abbia commesso violenze sessuali. Titoli che affermano che il rapporto di Patten abbia attribuito la violenza sessuale a Hamas sono apparsi anche su The Guardian, The Financial Times e The Washington Post.

2.3 Il rapporto non individua un singolo elemento di prova audiovisivo o fotografico che confermi lo stupro

Questo nonostante il fatto che un patologo forense e un analista digitale del team della missione abbiano esaminato:

Oltre 5.000 foto, circa 50 ore e diversi file audio di filmati degli attacchi, forniti in parte da varie agenzie statali e attraverso una revisione online indipendente di varie fonti aperte, per identificare potenziali casi e indicazioni di violenza sessuale legata al conflitto. Il contenuto comprendeva gli attacchi reali e le loro conseguenze immediate, catturati attraverso bodycam e telecamere da cruscotto dei combattenti, cellulari individuali, televisioni a circuito chiuso e telecamere di sorveglianza del traffico. (Paragrafo 34)

Nella sezione dedicata alle conclusioni del rapporto Patten scrive che “Attraverso la valutazione medico-legale delle foto e dei video disponibili non è stato possibile identificare alcuna indicazione tangibile di stupro”. (Paragrafo 74)

Inoltre il rapporto aggiunge in una nota che:

La squadra della missione ha preso atto delle affermazioni delle autorità israeliane secondo cui alcuni dei materiali online incriminanti, compresi quelli che raffiguravano specificamente atti di violenza sessuale, sarebbero stati rimossi… è opinione della squadra della missione che se fossero stati diffuse sui principali mezzi di comunicazione evidenti prove digitali di violenze sessuali o di ordini di commettere violenza sessuale, ciò sarebbe stato probabilmente scoperto, dato il volume delle informazioni pubblicate online e ulteriormente diffuse, rendendo improbabile la rimozione di ogni traccia di tale materiale. (Paragrafo 77)

2.4 Il rapporto conferma che i testimoni hanno diffuso storie false sulle violenze sessuali del 7 ottobre

Confermando ciò che giornalisti e attivisti indipendenti dimostrano ormai da mesi il rapporto si è prodigato nel constatare la manipolazione di prove e testimonianze, affermando che:

“Va rilevato che i testimoni e le fonti con cui la squadra della missione ha collaborato hanno adottato nel tempo un approccio sempre più cauto e circospetto riguardo ai resoconti precedenti, fino a ritrattare in alcuni casi le dichiarazioni rese in precedenza.” (Par. 64)

E:

“interpretazioni forensi imprecise e inaffidabili da parte di alcuni non professionisti hanno costituito una sfida ulteriore.” (Paragrafo 10)

Tra queste interpretazioni imprecise sono compresi rapporti ampiamente diffusi (con riedizioni da parte di BBC, NBC News, The New York Post, Unherd e altri) secondo cui una donna sarebbe stata trovata al Kibbutz Beeri con oggetti come coltelli inseriti nei genitali. Tuttavia, quando la squadra della missione ha esaminato le foto, non ha trovato nulla del genere. (Minuto 55:10)

Nella sua conferenza stampa Patten suggerisce che le interpretazioni errate dei primi soccorritori potrebbero essere state intenzionali: “Potrebbero non essere stati in malafede, non lo so, ma è un fatto che abbiamo trovato molti casi di interpretazioni forensi inaffidabili e imprecise da parte di persone inesperte. (Minuto 56:20)

Le allusioni a “persone inesperte” o ai primi soccorritori si riferiscono quasi certamente alla ZAKA, un’organizzazione religiosa conservatrice ultra-ortodossa intervenuta sulla scia del 7 ottobre come gruppo di primi soccorritori. Mondoweiss ha già ampiamente documentato l’inaffidabilità dell’organizzazione e il loro coinvolgimento nella fabbricazione di prove delle atrocità del 7 ottobre.

Il governo israeliano riconosce la ZAKA come lunica organizzazione responsabile della gestione delle morti dovute ad attacchi terroristici” in Israele. Ormai abbiamo ampie prove che i membri della ZAKA, che mantengono una posizione religiosa radicale contraria alle autopsie e alle procedure forensi, hanno usato la loro immaginazioneper inventare storie elaborate di brutalità sessuale sulla scia del 7 ottobre. Il rapporto di Patten sottolinea le pratiche inaffidabili della ZAKA, ma ignora opportunamente lo stretto rapporto della ZAKA con il governo israeliano: lorganizzazione riceve finanziamenti governativi e si coordina con i principali ministeri governativi, il tutto atteggiandosi a organizzazione non governativa neutrale. Il portavoce della ZAKA Yehuda Meshi-Zahav ha affermato che lorganizzazione agisce come un braccio del ministero degli affari esterie il 23 novembre 2023 Benjamin Netanyahu ha incontrato i membri della ZAKA, dicendo loro: Voi avete un ruolo importante nellinfluenzare lopinione pubblica, che a sua volta influenza i leader. Siamo in guerra; e questa continuerà”.

Il rapporto di Patten funziona come una distrazione dal genocidio

Nonostante il fatto che il rapporto di Patten non riscontri alcuna informazione credibile a sostegno di una serie di stupri avvenuti il 7 ottobre, che non abbia poteri investigativi e che mantenga evidenti lacune di credibilità che non può colmare nellambito del suo mandato, i media occidentali hanno seguito le indicazioni guida del governo israeliano nellinquadrare il rapporto come una conferma della versione di Israele secondo cui il 7 ottobre Hamas avrebbe commesso violenze sessuali sistematiche.

Allo stesso tempo, questi organi di informazione ignorano il totale rifiuto di Israele di collaborare con lindagine ufficiale dell’ONU su tali affermazioni. Dobbiamo vedere il rapporto di Patten per quello che è: un tentativo di dare una patina di legittimità ad affermazioni che sono state ampiamente smentite riciclando testimonianze anonime sotto la copertura della metodologia ONU” – ma senza il mandato investigativo necessario per legittimare quella metodologia. Il rapporto di Patten non individua esplicitamente una tipologia di violenza sessuale, non fornisce alcuna indicazione sulla sua proporzione e non fa il nome di alcun possibile autore. Ciò non sembra preoccupare Patten, che ribadisce continuamente di agire nel suo ruolo di difensora delle vittime di violenza sessuale legata ai conflitti e non di inquirente.

Ma difensora di chi? In definitiva, uno dei maggiori problemi di questo rapporto è che funge da distrazione una distrazione dalla difficile situazione di migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi che continuano a essere sottoposti ad abusi sessuali accertati e torture nelle carceri delloccupazione; dal destino attuale di quelle donne i cui indumenti intimi i soldati israeliani hanno fotografato dopo aver bombardato le loro famiglie e le loro case; da persone costrette a identificare i propri figli, mariti e padri spogliati e lasciati con i soli indumenti intimi, umiliati sessualmente e torturati.

È una distrazione dallagonia delle madri che ora sono costrette a guardare i loro figli morire di fame; dal terrore di oltre 50.000 donne incinte a Gaza senza cibo, acqua o assistenza medica e senza un posto sicuro dove partorire; dal dolore delle donne palestinesi che piangono i 30.000 martiri già massacrati nel genocidio in corso da parte di Israele.

Come femministe, rifiutiamo categoricamente luso delle accuse di violenza sessuale come arma per giustificare queste atrocità e ci uniamo alle femministe di tutto il mondo nel chiedere che coloro che condividono questa propaganda siano ritenuti responsabili di complicità nel genocidio e di aver anzi costruito il consenso per la sua attuazione.

Note

[1] La prima e principale raccomandazione del rapporto Patten è che venga svolta unindagine. (Par. 88).

[2] Questa non è la prima volta che Patten si nasconde dietro la sua mancanza di mandato investigativo per diffondere affermazioni dubbie senza prove. Nellottobre 2022, quando le è stato chiesto se avesse prove a sostegno della sua affermazione secondo cui i soldati russi avevano commesso uno stupro di gruppo utilizzando il Viagra (unaffermazione circolata per la prima volta online), Patten è apparsa offesa. Non è compito del mio ufficio andare a indagare, ha ribattuto, ho un mandato di patrociniola mia sede è a New York, in un ufficio a New York, e ho un mandato di patrocinio. L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (OHCHR), che ha il mandato di indagare, nel suo ampio rapporto non ha fatto menzione delle affermazioni sul Viagra.

[3] Sfatando le invenzioni già falsificate riguardanti il Kibbutz Be’eri (paragrafo 65), screditando ZAKA (già un facile bersaglio per Haaretz) e fornendo interpretazioni alternative di foto e video post mortem di “danni devastanti da ustione”, il rapporto dell’ONU si posiziona come autocorrettivo e quindi rinnova la narrazione dello stupro di massa in una forma più credibile.

[4] Inoltre, alcuni dei sopravvissuti nei kibbutz hanno testimoniato di essere stati trattati umanamente dai combattenti palestinesi che li avevano fatti prigionieri (come nell’esempio spesso citato di Yasmin Porat).

Rete di Solidarietà Femminista per la Palestina

La Rete di Solidarietà Femminista per la Palestina è un collettivo internazionale di accademiche, avvocatesse e organizzatrici femministe antimperialiste e anticolonialiste impegnate contro la propaganda colonialista dei coloni sionisti e a favore di una Palestina libera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una nuova ondata di avamposti dei coloni sta terrorizzando e cacciando i palestinesi dalle loro terre

Imad Abu Hawash 

8 marzo 2024 – +972 Magazine

I palestinesi in Cisgiordania raccontano di come i coloni israeliani, con il sostegno dei militari, stiano intensificando la loro occupazione delle terre per costruzioni illegali.

Sin dalla fine di dicembre i palestinesi che abitavano nel villaggio di Battir, a ovest di Betlemme nella Cisgiordania occupata, sono stati allontanati da porzioni significative delle loro terre. Semplicemente un gruppo di coloni israeliani un giorno è arrivato nella zona che l’UNESCO ha designato come sito del patrimonio mondiale e fondato un nuovo avamposto con alcune baracche per viverci e tenere il bestiame.

Alcuni coloni e pastori hanno preso il controllo dell’area e iniziato a pascolare le proprie greggi sulle terre del villaggio, impedendo ai palestinesi di raggiungere i pascoli,” ha detto a +972 Magazine Ghassan Alyan, un abitante del villaggio. “Hanno persino fatto volare dei droni fra le nostre greggi per disperderle, minacciando di sparare.” 

Di conseguenza contadini e pastori di Battir hanno completamente perso l’accesso alla terra che era la fonte del loro sostentamento. “È diventato impossibile per i palestinesi raggiungere la zona, i coloni possono sparare contro chiunque vi si trovi. I coloni indossano uniformi militari e si spostano con la protezione dell’esercito,” ha continuato Allyan, osservando che la tendenza dei coloni ad arruolarsi nella riserva dell’esercito nel corso della guerra di Israele contro Gaza ha reso più difficile distinguerli dai soldati.  

La gente del villaggio era solita andare a fare escursioni in questa zona, ma ora nessuno può uscire e godersi la natura,” ha aggiunto Alyan. “I coloni girano in macchina usando le nuove strade sterrate che hanno aperto dopo aver stabilito l’avamposto. Gli abitanti di Battir sono terrorizzati. Nessuno si avvicina a questa zona.” 

Negli ultimi cinque mesi in Cisgiordania ampie estensioni di terra di proprietà palestinese sono state di fatto annesse dai coloni israeliani. In alcune zone come Battir i coloni hanno stabilito degli avamposti completamente nuovi, nove secondo una relazione di Peace Now [organizzazione progressista e pacifista israeliana, ndt.].

Se tutte le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali ai sensi del diritto internazionale, la costruzione di avamposti non autorizzati è tecnicamente illegale persino per la legge israeliana. Ciononostante l’esercito israeliano invariabilmente protegge i coloni e in genere lo Stato permette loro di allacciarsi alla rete elettrica e idraulica, a differenza delle comunità palestinesi sulle cui terre sono costruite. 

E con l’attuale governo israeliano di estrema destra la distinzione è ancora più nebulosa: a dicembre il ministro della Finanze Bezalel Smotrich ha destinato agli avamposti in Cisgiordania circa 19 milioni di euro di fondi statali.  

Nel frattempo, secondo il rapporto di Peace Now, dal 7 ottobre i coloni hanno anche asfaltato o portato avanti la costruzione di almeno 18 nuove strade senza un’autorizzazione governativa preventiva, permettendo l’espansione di colonie e avamposti e isolando nel contempo i palestinesi dalle proprie terre. E in parecchi casi, con la copertura della guerra e la collaborazione attiva o tacita dell’esercito, i coloni hanno semplicemente occupato le terre con la forza, le minacce o i decreti militari. 

Quando la guerra finirà i coloni si saranno allargati drammaticamente’

Il 26 novembre al calare dell’oscurità sul villaggio di Ar-Rihiya, proprio a sud di Hebron, il rumore delle escavatrici riempiva l’aria. “I coloni (dal vicino insediamento di Beit Hagai) hanno cominciato a tracciare una strada sterrata che si estende su centinaia di dunam,” ha detto a +972 Ahmad al-Tubasi, un abitante di Ar-Rihiya. “Abbiamo chiamato varie volte la polizia israeliana e quando è finalmente arrivata gli escavatoristi erano scomparsi. La polizia ha fatto finta di non sapere cosa stesse succedendo.” 

Poche settimane dopo i coloni sono ritornati. Odeh al-Tubasi, un contadino che ara la terra di molti abitanti del villaggio, ha raccontato cosa è successo: “Stavo lavorando alle colture invernali quando, a circa 250 metri di distanza, è apparso un veicolo militare, seguito da un altro bianco da cui sono scesi quattro coloni. Ero attanagliato dalla paura mentre si avvicinavano. Mi sono allontanato velocemente con il mio trattore e sentivo che i coloni urlavano in ebraico, ‘Non ritornare qua, ti è proibito entrare e lavorare. Questa è la nostra terra!’” 

La sequenza di eventi spesso segue questo schema: prima i coloni erigono case mobili su terra palestinese, poi la occupano o costruiscono infrastrutture chiave come strade, di solito senza permessi, e poi, dopo attacchi sostenuti e molestie senza intervento di esercito o polizia, espellono i palestinesi dai terreni. Dagli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, oltre 1.000 palestinesi sono stati forzatamente sfollati in questo modo dai villaggi dell’Area C della Cisgiordania, circa il 60% del territorio sotto il totale controllo di Israele, dove sono situate tutte le colonie e gli avamposti.  

L’anno scorso gli abitanti di Beit Awwa, a ovest di Hebron, si sono trovati nel bel mezzo di questo processo con la costruzione di un nuovo avamposto sulle terre del villaggio. La scorsa estate coloni israeliani dall’avamposto di Havat Negohot, con l’appoggio dell’esercito, hanno cominciato a spianare parecchi dunam di terra e a erigere strutture temporanee a circa 50 metri dalle case dei palestinesi. I coloni hanno bloccato l’unica strada che consente l’accesso a sei case dei palestinesi e ai terreni agricoli, costringendo gli abitanti di quelle case a percorrere strade distanti e sterrate e portare cibo e acqua sulle spalle o a dorso d’asino. 

Dopo il 7 ottobre i coloni hanno tracciato una nuova strada ed eretto altre cinque baracche di alluminio, espandendo ulteriormente l’avamposto. Il comune di Beit Awwa, in collaborazione con gli abitanti, ha presentato alla Corte Suprema israeliana una petizione urgente richiedendo la riapertura delle strade. Il 29 gennaio c’è stata un’udienza ma non è stata raggiunta alcuna decisione. 

Secondo Peace Now i coloni, nel tentativo di collegare il nuovo avamposto alla colonia di Negohot, essa stessa costruita su terre appartenenti a Beit Awwa, hanno continuato a lavorare sulla strada mentre era in corso l’azione legale. La nuova strada è stata illegalmente asfaltata senza un vero permesso di progettazione o costruzione, mentre la strada che viene usata dagli abitanti palestinesi resta chiusa.  

Insediare un nuovo avamposto esacerba le nostre sofferenze,” ha detto +972 Yousef al-Swaiti, il sindaco di Beit Awwa. “Quando la guerra sarà finita i coloni si saranno allargati drammaticamente nelle vicinanze del villaggio. Nessuno potrà andarci. Coloni armati potrebbero sparare a qualsiasi abitante del villaggio che tentasse semplicemente di avvicinarsi alla terra confiscata.” 

Attacchi contro gli abitanti del villaggio sono ormai all’ordine del giorno da parte sia di coloni che di soldati. Il 15 novembre Nouh Kharub è stato aggredito da soldati mentre se ne stava seduto con la famiglia sul terreno davanti a casa a Khallet a-Taha, nella periferia orientale di Beit Awwa. 

Uno di loro mi ha picchiato varie volte con un fucile,” ha raccontato. “Sia i soldati che il colono che li aveva accompagnati ci urlavano contro: ‘È vietato ritornare qui,’ e, ‘Vi uccideremo.’ Ci siamo trovati intrappolati in casa, nessuno di noi poteva ritornare a casa nostra mentre i coloni erigevano un nuovo avamposto a 100 metri di distanza.” 

La stessa sorte è toccata a Mohammad Aqtil: la costruzione dell’avamposto ha impedito a lui e alla sua famiglia di accedere alle terre a Khallet a-Taha. “Fuori casa i miei movimenti e quelli dei miei figli sono limitati,” ha spiegato Aqtil. “Non ci è permesso fare niente sulla terra.

Soldati mi dicono in continuazione, ‘Questa è una zona militare, questa casa non è vostra, queste sono terre demaniali.’ Allo stesso tempo i coloni erigono un avamposto con edifici e tende, circondandolo di filo spinato e collegandolo con una strada asfaltata che porta a Negohot. La costruzione è avanzata rapidamente dopo la dichiarazione di guerra.”

È come se volessero vendicarsi’

Talvolta non è necessaria una nuova costruzione per buttar fuori i palestinesi dalle loro terre. Il 2 gennaio il 48enne Yousef Makhamra del villaggio di Khirbet al-Tha’la, in una parte della Cisgiordania meridionale nota come Masafer Yatta, è uscito per arare la sua terra con altri due contadini palestinesi. A causa dell’impennata in anni recenti degli attacchi in questa zona da parte di coloni e soldati israeliani contro i palestinesi al lavoro sulle proprie terre erano accompagnati da attivisti israeliani come “presenza protettiva”, nella speranza di scoraggiare o almeno documentare tali incidenti. Quel giorno è stato tutto inutile. 

Avevamo cominciato a seminare quando è arrivato un veicolo militare,” ha detto Makhamra a +972. Dalla camionetta sono usciti parecchi soldati israeliani e 3 coloni vestiti con pantaloni militari, uno dei quali era Bezalel Dalia che Makhamra sapeva provenire dall’avamposto di Nof Nesher. 

Si sono lanciati contro di noi e mi hanno ammanettato le mani dietro la schiena e lo stesso hanno fatto con Jamil [un altro contadino],” ha continuato. “Alcuni dei coloni hanno impedito agli attivisti israeliani di fare delle riprese mentre Dalia mi prendeva a calci. “Gli ho detto, ‘Vattene via, sono malato,’ ma ha continuato a prendermi a calci. 

Ho avuto molta paura perché i coloni erano con i soldati,” ha continuato Makhamra. “Era come se cercassero vendetta [per il 7 ottobre]. Uno di loro ha detto, ‘Questa è terra per i coloni.’”

Dopo pochi minuti sono arrivati altri attivisti israeliani e i soldati hanno prontamente tolto le manette a Makhamra e Jamil. Uno degli attivisti ha consegnato ai soldati una decisione della Corte che afferma il diritto dei contadini palestinesi a coltivare la terra. Tuttavia l’ufficiale ha insistito che smettessero di lavorare fino a che qualcuno dell’Amministrazione Civile, il corpo dell’esercito responsabile dell’amministrazione dell’occupazione, potesse confermare che i contadini avevano veramente questo diritto. 

I contadini hanno aspettato parecchie ore prima che arrivasse un rappresentante dell’Amministrazione Civile e li autorizzasse a continuare a lavorare. Ma un’ora dopo, un altro colono, Issachar Mann dell’avamposto di Havat Maon, è arrivato con dei soldati che di nuovo hanno chiesto ai contadini palestinesi di interrompere il lavoro fino a una valutazione dell’Amministrazione Civile, nonostante fosse appena arrivato un rappresentante ad autorizzare i lavori. 

Questa volta non è arrivato nessun altro e dopo altre quattro ore i soldati hanno emesso un ordine militare di abbandonare la zona. Da allora i contadini palestinesi di Khirbet al-Tha’la che, come Makhamra, lavorano terre vicine alle colonie e agli avamposti non sono più stati in grado di raggiungerle. 

Il primo marzo il comandante della divisione cisgiordana dell’esercito israeliano ha emesso un ulteriore ordine militare dichiarando che le terre di Khirbet al-Tha’la vicino alle colonie e agli avamposti sono una zona militare chiusa. L’esercito ha rifiutato di confermare a +972 se l’ordine resta in vigore.

E se i miei bambini fossero stati in casa?’

Raed Yassin e la sua famiglia vivono alla periferia del villaggio di Burqa, a nord ovest di Nablus. La loro casa è situata ad appena 50 metri da un avamposto che in anni recenti è diventato un simbolo del potere dei coloni: Homesh.

All’inizio un insediamento autorizzato dal governo alla fine degli anni ’70 su terre appartenenti agli abitanti di Burqa, è stato uno dei quattro insediamenti nella Cisgiordania settentrionale che Israele aveva abbandonato in concomitanza con il “disimpegno” da Gaza nel 2005. Ma presto i coloni cominciarono a ritornare illegalmente alla colonia smantellata, ricostruendo una yeshiva (scuola religiosa) tutte le volte che le autorità la demolivano.

La loro persistenza ha dato frutti alla fine del 2022 con l’insediamento del governo israeliano di estrema destra che, come uno dei suoi primi ordini del giorno, ha abrogato la Legge del Disimpegno, permettendo quindi ai coloni di entrare legalmente nei territori che erano stati abbandonati. Lo scorso maggio i coloni hanno cominciato lavori di costruzione per espandere la yeshiva, sempre in violazione della legge ma con l’appoggio del ministero della Difesa. Dal 7 ottobre quella costruzione, e gli attacchi contro i palestinesi di Burqa, hanno visto un’impennata. 

L’aggressione più recente è avvenuta il 9 gennaio. “Ero nel mio campo e mia moglie e i bambini erano fuori casa in visita a parenti,” ha raccontato Yassin. “Nel corso della giornata ho ricevuto una chiamata da uno degli abitanti della zona perché i coloni stavano attaccando la nostra casa. Ci sono ritornato di corsa ma quando sono arrivato si erano già ritirati. 

Dalle immagini delle nostre cineprese di sorveglianza ho visto 15 coloni mascherati tagliare la recinzione intorno alla casa, danneggiare i dintorni, rompere i tubi della fogna, sradicare alberi e cercare di togliere le protezioni di finestre e porte,” ha continuato. “Era spaventoso: e se i miei bambini fossero stati a casa?” 

Dall’inizio della guerra Yassin e la sua famiglia sono stati costretti a dormire varie notti a casa di parenti che vivono nel villaggio, ma più all’interno, lontano da Homesh. “Le notti che passiamo a casa io sto sempre sveglio,” ha detto. “Potrebbero venire i coloni e incendiarla.” 

Coloni con uniformi militari controllano tutto’

Anche i palestinesi del villaggio di Qaryut, situato tra Nablus e Ramallah, sono stati privati dell’accesso a una porzione ancora maggiore delle loro terre in conseguenza della violenza dei coloni. 

Qaryut si estende su un’area di circa 20.000 dunam (circa 2000 ettari), la maggior parte classificata come Area C e piantata a olivi. Tuttavia negli ultimi 50 anni il villaggio è stato gradualmente circondato da colonie israeliane: Eli, costruita nel 1984, Shvut Rachel, del 1995 e Shilo del 1979. Collettivamente queste colonie, così come parecchi altri insediamenti recentemente costruiti, hanno confiscato più di 14.000 dunam (1400 ettari) delle terre del villaggio.

Dal 7 ottobre la situazione è ulteriormente peggiorata. “Alla maggior parte della popolazione del villaggio, oltre 3.000 persone, è stato impedito di raccogliere le olive,” si è lamentato Ghassan al-Saher, un abitante del villaggio. “Sia i coloni che l’esercito hanno impedito l’accesso ai terreni, bloccando la strada con del terriccio. I coloni hanno occupato i campi e tagliato numerosi alberi.” 

Secondo al-Saher i coloni hanno deliberatamente distrutto infrastrutture palestinesi nel villaggio. Hanno attaccato una struttura agricola costruita con il sostegno della Croce Rossa Internazionale di cui avevano beneficiato 10 famiglie palestinesi, danneggiando serre, serbatoi dell’acqua e tagliando le tubature dell’acqua. Hanno anche occupato la sorgente di Qaryut, vitale per il villaggio. “L’hanno trasformata in un parco per loro,” ha detto al-Saher. “Chiunque si avvicini alla sorgente rischia di essere ucciso.”

Un altro abitante, Bashar al-Qaryuti, ha aggiunto: “Quando è cominciata la guerra abbiamo perso tutte le terre del villaggio classificate come Area C. La vita nel villaggio si è paralizzata: non possiamo raggiungere le nostre terre nelle vicinanze. Hanno attaccato il villaggio e aperto il fuoco. Molti giovani del villaggio non dormono la notte per paura di un attacco dei coloni. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto

Susan Abulhawa

6 marzo 2024 – The Electronic Intifada

In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20:00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere.

Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito.

Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante.

Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così.

Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore.

Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria.

Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca.

Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio.

Quello che io vedo è un olocausto, lincomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.

Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto laeroporto di Heathrow a Londra.

Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie.

Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia.

Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato lassenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi.

La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla.

la bouganvillea sopravissuta a Gaza (Susan Abulhawa)

Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie derba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola.

Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio.

Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi.

Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg.

Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli.

Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete.

La farina è scarsa e più preziosa delloro.

Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno.

E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti.

Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri 12 in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino.

Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare.

Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt.], e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale.

Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria.

La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca.

Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso.

Ad un certo punto lumiliazione della sporcizia è inevitabile. Ad un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco.

Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco.

Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se sia stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri.

Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno.

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese?

Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale.

Di storie. Di ricordi, libri e cultura.

Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo.

Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università.

Il genocidio è la demolizione intenzionale dellumanità di un altro. È la riduzione di unantica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare lindicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino.

È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dellumanità dei palestinesi.

Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming limmagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti.

Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel 21° secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele cambierà il testo della canzone presentata all’Eurovision dopo l’intervento del suo Presidente

Redazione

4 marzo 2024-Middle East Eye

Su richiesta del Presidente israeliano rivisto il testo della canzone presentata al concorso che conteneva riferimenti all’attacco di Hamas del 7 ottobre.

Israele ha accettato di cambiare il testo della canzone con cui intende partecipare all’Eurovision Song Contest dopo che gli organizzatori hanno contestato gli evidenti riferimenti alla guerra a Gaza.

L’emittente nazionale Kan è responsabile della scelta delle candidature nazionali per la competizione, che si svolgerà a Malmö, in Svezia, dal 7 all’11 maggio.

La principale proposta israeliana è October Rain, una ballata dell’artista solista Eden Golan.

Il testo originale della canzone, secondo Kan, include versi come “Non c’è più aria per respirare” e “Erano tutti bravi bambini, ognuno di loro”.

I testi sono evidenti riferimenti all’attacco a sorpresa dei combattenti palestinesi nel sud di Israele il 7 ottobre.

Kan ha annunciato domenica di aver chiesto agli autori di October Rain e del secondo classificato, Dance Forever, di modificare i testi “preservando la loro libertà artistica”.

A seguito delle revisioni, Kan presenterà ufficialmente la canzone israeliana al comitato dell’Eurovision.

La canzone October Rain verrà ribattezzata Hurricane, ha annunciato l’emittente. Il testo modificato non è stato ancora rivelato.

Kan inizialmente aveva detto che non avrebbe cambiato il testo, ma ha accettato di farlo su richiesta del Presidente israeliano Isaac Herzog.

“Il Presidente ha sottolineato che in questo particolare momento, in cui coloro che ci odiano cercano di emarginare e boicottare lo Stato di Israele in ogni modo, Israele deve far risuonare la sua voce con orgoglio e a testa alta e alzare la sua bandiera in ogni forum mondiale, soprattutto quest’anno”, ha scritto l’emittente Kan in una nota.

“Non politico”

Gli organizzatori di Eurovision, la European Broadcasting Union (EBU), affermano che il concorso è un evento non politico e che i concorrenti possono essere squalificati per aver violato le regole.

Il mese scorso hanno annunciato che stavano indagando sui testi della proposta israeliana, ma che le procedure erano riservate.

“Se una canzone è ritenuta inaccettabile per qualsiasi motivo, alle emittenti viene data l’opportunità di presentare una nuova canzone o un nuovo testo, secondo le regole del concorso”, ha affermato l’EBU.

Diversi musicisti – tra cui artisti provenienti da Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Islanda – hanno chiesto che Israele venga sospeso dal concorso per l’uccisione dei palestinesi a Gaza dal 7 ottobre.

Due anni fa la Russia fu squalificata dalla competizione per l’invasione dell’Ucraina.

L’EBU ha sostenuto che la situazione a Gaza è diversa da quella dell’Ucraina e ha resistito alle richieste di rimuovere Israele.

Israele ha gareggiato all’Eurovision dal 1973, vincendo la competizione in quattro occasioni.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guerra a Gaza: un bambino palestinese muore di fame e malnutrizione a Gaza

Nadda Osman

4 marzo 2024 – Middle Est Eye

Yazan al-Kafarna, un bambino di 10 anni affetto da paralisi cerebrale infantile, è morto all’ospedale al-Najjar a Rafah per le conseguenze della malnutrizione

Un bambino di Gaza, identificato come Yazan al-Kafarna, è stato uno degli ultimi a morire di fame e malnutrizione nell’enclave assediata dall’inizio della guerra il 7 ottobre.

Secondo quanto riportato dai media locali Kafarna è morto all’ospedale al-Najjar di Rafah lunedì, portando il numero totale di bambini morti per malnutrizione a 16 da ottobre.

Immagini e video di Kafarna diffusi dal 2 marzo lo mostrano disteso in un letto di ospedale con le guance scavate.

In un video suo padre mostra una foto del figlio, in evidenti condizioni di salute, risalente a prima della guerra.

Prima della guerra stava bene, poteva usufruire di tutto il cibo e le cure mediche di cui aveva bisogno. Quando è iniziata la guerra tutto è stato interrotto…questo è successo perché gli è mancato il nutrimento e il cibo necessario”, ha detto, aggiungendo che la foto di suo figlio era stata scattata solo una settimana prima dell’inizio della guerra.

La famiglia di Kafarna è stata sfollata da Beit Hanoun a (nord-est di) Gaza a Rafah nel sud.

In un’intervista i familiari hanno detto a Al Jazeera in versione araba che Kafarna è arrivato a un punto in cui sopravviveva con solo qualche boccone di pane.

Viveva dei pezzi di pane che trovavamo con molta difficoltà e compravamo a costi altissimi. Se non riuscivamo a trovare del cibo gli davamo dello zucchero perché potesse restare in vita. La ragione principale per cui ha raggiunto uno stadio in cui sembra uno scheletro è la mancanza di cibo”, ha detto Mohammed al-Kafarna, un membro della famiglia.

Secondo Kafarna Yazan è arrivato a un punto in cui aveva bisogno di cibo e di nutrienti specifici perché si mantenesse in vita dopo aver perso così tanto peso corporeo, tuttavia la famiglia non poteva procurarsi ciò di cui necessitava.

Yazan era affetto da paralisi cerebrale infantile fin dalla nascita, il che significa che aveva dovuto seguire una dieta speciale e assumere integratori alimentari. Tuttavia la famiglia ha detto che dall’inizio della guerra non aveva avuto più accesso a queste cose.

I giornalisti a Gaza hanno documentato la morte di altri bambini a causa di malnutrizione e fame.

La guerra della fame’

Hossam Shabat, un giornalista di Gaza, ha detto che una bambina è morta per mancanza di latte, mentre un’altra, Heba Ziadeh, è morta all’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza per disidratazione e malnutrizione.

La scorsa settimana il portavoce del Ministero della Sanità di Gaza, Ashraf al-Qudra, ha affermato che “l’occupazione israeliana sta conducendo una nuova guerra contro gli abitanti di Gaza, la guerra della fame”, aggiungendo che il numero delle persone che muoiono di fame e malnutrizione è in crescita, soprattutto tra i bambini.

Ha spiegato che il sistema sanitario nel nord di Gaza ora è del tutto incapace di soddisfare le necessità del territorio assediato, soprattutto dopo che l’ospedale Kamal Adwan è stato occupato dalle forze israeliane. 

Gaza è sull’orlo della carestia, ha avvertito a fine febbraio il capo dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA).

L’ultima volta che l’Unrwa è stata in grado di fornire aiuti alimentari nel nord di Gaza è stata il 23 gennaio”, ha scritto Philippe Lazzarini sui social media.

Almeno 500.000 persone stanno affrontando la carestia mentre quasi l’intera popolazione di Gaza, 2.3 milioni di persone, sta patendo una grave penuria di alimenti, come mostrano i dati dell’ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari.

A fine febbraio almeno due neonati sono morti per malnutrizione e disidratazione a Gaza.

Le organizzazioni di aiuti hanno avvertito che il blocco di cibo e acqua verso l’enclave palestinese può configurare un crimine contro l’umanità.

Randa Ghazy dell’ONG Save the Children ha affermato che Gaza sta subendo “il peggior livello al mondo di malnutrizione”.

Le donne incinte non ricevono il nutrimento e le cure di cui necessitano, il che le rende più vulnerabili alle malattie e al crescente rischio di morte durante il parto”, ha detto a Middle East Eye.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)