L’esercito israeliano conferma l’uccisione di una ragazza palestinese di 15 anni nel raid di Jenin

Redazione MEE

12 dicembre 2022 – Middle East Eye

Un raid israeliano nella città di Jenin, in Cisgiordania, provoca la morte di una adolescente palestinese mentre si intensificano le operazioni nei territori occupati

Una dichiarazione israeliana afferma che i soldati hanno colpito la ragazza involontariamente mentre rispondevano al fuoco contro uomini armati su un tetto. Affermano che pare la ragazza si trovasse sul tetto di una delle case vicino agli uomini armati.

Il Ministero della Salute palestinese ha identificato la vittima come Jana Majdi Zakarneh, morta dopo essere stata colpita alla testa sul tetto della sua casa. Secondo fonti palestinesi il suo corpo è stato ritrovato dopo il ritiro delle forze israeliane.

Durante gli scontri armati con i combattenti palestinesi scoppiati nella città chiave di Jenin vi sono stati altri tre feriti. Secondo i media palestinesi un’unità militare israeliana sotto copertura è entrata a Jenin e, in risposta, i combattenti palestinesi hanno tentato di respingere le forze israeliane provocando una sparatoria.

In una serie di tweet l’esercito israeliano ha confermato il raid e l’esecuzione di tre arresti.

Le fazioni palestinesi a Jenin hanno annunciato che ci sarebbe stato uno sciopero generale nel campo profughi per commemorare la morte di Zakarneh.

Durante il raid le forze israeliane hanno preso d’assalto diverse case, danneggiato un certo numero di veicoli e cecchini si sono arrampicati sui tetti degli edifici.

Hussein al-Sheikh, segretario generale del comitato esecutivo dell’OLP, ha affermato che Zakarneh è stata “una vittima della brutalità dell’occupazione a Jenin”.

“Il suo sangue dimostra questo persistente comportamento criminale che viola tutte le norme e rivela la verità sul brutale comportamento razzista delle forze di occupazione”, ha aggiunto Sheikh.

L’anno con il maggior numero di vittime [palestinesi] mai registrato

Giovedì della scorsa settimana quattro palestinesi sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco dell’esercito israeliano a Jenin, tra cui un adolescente di 17 anni. L’esercito israeliano ha detto che le sue forze stavano conducendo un’operazione per arrestare 15 uomini ricercati a Jenin quando palestinesi armati hanno iniziato a sparare contro di loro.

Dopo gli ultimi decessi, il numero di palestinesi uccisi dall’inizio di quest’anno è salito a 218, di cui 52 nella Striscia di Gaza e 166 in Cisgiordania, rendendolo uno degli anni con più uccisioni di palestinesi dal 2005.

Le autorità israeliane hanno recentemente condotto quasi ogni notte rastrellamenti in tutta la Cisgiordania che spesso portano al ferimento o all’uccisione di palestinesi.

Le operazioni hanno portato a più di 2.500 arresti, secondo le autorità israeliane.

Molti degli scontri mortali si sono verificati nell’area di Jenin e Nablus, dove le forze israeliane hanno ripetutamente condotto rastrellamenti.

Le morti di giovedì arrivano quest’anno nel mezzo di un culmine di violenza israeliana contro i palestinesi in Cisgiordania e di una ripresa della resistenza armata palestinese.

La “politica di sparare per uccidere” di Israele viene largamente criticata all’ aumentare del numero di morti palestinesi per mano delle sue forze.

Altri 49 palestinesi sono stati uccisi durante un bombardamento israeliano su Gaza ad agosto.

Nel frattempo, 29 israeliani, soldati inclusi, sono stati uccisi dai palestinesi nello stesso periodo, il numero più alto dal 2008.

* Questo articolo è stato corretto martedì 13 dicembre per chiarire che Jana Majdi Zakarneh aveva 15 anni quando le hanno sparato.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Una lobby israeliana ammette di aver mentito riguardo ad un’associazione palestinese per i diritti

Maureen Clare Murphy

13 dicembre 2022 – The Electronic Intifada

Il principale gruppo lobbistico olandese a favore di Israele ha rimosso dal proprio sito web tre articoli contenenti diffamazioni nei confronti di Al-Haq, una nota associazione palestinese per i diritti umani.

Dopo che Al-Haq ha avviato un’azione legale contro di esso il Centro di Informazione e Documentazione Israele (CIDI) ha ammesso che gli articoli contenevano false accuse che danneggiavano “il buon nome dell’organizzazione”.

Una di tali accuse è che Al-Haq avrebbe “stretti legami con gruppi terroristi palestinesi” e farebbe parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), una fazione marxista-leninista bandita da Israele, USA e UE.

Nell’ottobre 2021 Israele ha etichettato Al-Haq e diverse altre famose associazioni della società civile palestinese come organizzazioni terroriste, sostenendo che esse erano organizzazioni collaterali al FPLP. Israele non ha fornito alcuna prova a riscontro delle sue accuse, che sono state respinte da 10 Paesi europei, compresa l’Olanda, che finanziano le organizzazioni.

Il CIDI ha anche ammesso che è “falso sostenere che Al-Haq compaia in diversi elenchi internazionali di terroristi” e che non vi è prova dell’accusa che essa storni i finanziamenti europei al FPLP o che sia stata bandita dalle società di carte di credito.

Al-Haq ha accusato il CIDI di diffamazione per aver amplificato le infondate accuse nei suoi confronti.

Concordando con la veridicità dell’accusa di Al-Haq, il CIDI di fatto riconosce che la definizione di organizzazione “terroristica” da parte del governo israeliano è senza fondamento e diffamatoria.

Il CIDI ha condotto a lungo una campagna per porre fine all’assistenza olandese alle associazioni palestinesi ed ha ricalcato le campagne del governo israeliano che le diffamavano come fiancheggiatrici di organizzazioni terroristiche.

Israele e strutture di copertura come il CIDI hanno preso di mira Al-Haq soprattutto a causa dell’attività dell’organizzazione in difesa della giustizia internazionale, in particolare presso la Corte Penale Internazionale (CPI).

Circa 200 organizzazioni in Palestina e in tutto il mondo hanno chiesto a Karim Khan, il procuratore capo della CPI, di condannare le definizioni di Israele contro Al-Haq e due altre associazioni palestinesi, fornendo prove e rappresentando le vittime presso la Corte.

Il problema della “arbitraria criminalizzazione” da parte di Israele di associazioni della società civile palestinese è stato sollevato nel corso dell’assemblea degli Stati membri della CPI la settimana scorsa.

In una dichiarazione comune, Al-Haq e altre organizzazioni, comprese Human Rights Watch, Al Mezan e il Centro Palestinese per i Diritti Umani, hanno chiesto di agire rispetto alle minacce e agli attacchi contro i difensori dei diritti umani che collaborano con la Corte.

Al-Haq, Al Mezan e il Centro Palestinese per i Diritti Umani hanno convenuto, durante l’assemblea degli Stati membri, di mettere in evidenza l’ostruzionismo di Khan rispetto all’indagine sulla Palestina avviata dal suo predecessore all’inizio dello scorso anno.

I critici affermano che il doppio standard della generosa allocazione delle risorse della Corte per l’indagine in Ucraina mentre viene affossata l’inchiesta sulla Palestina ha ulteriormente compromesso la credibilità della CPI.

Se la CPI non agirà sulla Palestina, verrà disconosciuta in quanto strumento al servizio degli interessi dei potenti Stati occidentali, lasciando che i palestinesi prendano le leggi nelle proprie mani, hanno dichiarato i difensori dei diritti umani durante l’evento in corso all’Aja.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




C’è una ragione per cui la Germania sta prendendo di mira gli intellettuali post-coloniali

Hebh Jamal


12 dicembre 2022 – Al Jazeera

Il postcolonialismo minaccia la percezione che lo Stato tedesco ha della propria identità nazionale e di quella di Israele

All’inizio di quest’anno, documenta quindici, quindicesima edizione della principale mostra di arte contemporanea in Europa che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Kassel, si è trovata al centro di un acceso dibattito sui presunti legami tra l’antisemitismo e il pensiero postcoloniale.

Tutto ciò è iniziato con Ruangrupa, il collettivo di artisti con sede a Giacarta che ha curato l’edizione di quest’anno e che ha scelto di centrare la mostra, della durata di 100 giorni, su artisti del Sud globale e sul loro lavoro che chiede uguaglianza, condivisione, sostenibilità e, cosa fondamentale, liberazione dall’oppressione colonialista.

L’esposizione non era affatto concentrata sulla Palestina, con pochi collettivi palestinesi invitati a presenziare alla mostra, che dura vari mesi. Tuttavia la loro partecipazione, insieme all’appoggio reso pubblico di Ruangrupa al movimento palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), è bastata ai media tedeschi per etichettare l’esposizione di quest’anno come “antisemita”. Numerosi giornalisti hanno contestualizzato le accuse di antisemitismo contro documenta quindici anche come un processo al postcolonialismo.

Per esempio, commentando la cosiddetta “débacle” di documenta, un giornalista tedesco ha scritto che “finché lo Stato di Israele è un problema per il postcolonialismo, il postcolonialismo deve rimanere un problema per l’Occidente.” Un altro ha sostenuto che, poiché il libro dell’intellettuale palestinese Edward Said Orientalismo può essere considerato uno dei testi fondativi del pensiero postcoloniale, l’argomento “presta il fianco al tradizionale e antiisraeliano antisemitismo e nasce con un’ossessione nei confronti di Israele.”

Il dibattito sul presunto antisemitismo del pensiero postcoloniale non è rimasto circoscritto solo alla sfera dei media. A luglio, durante un incontro della commissione Cultura e Media del Bundestag [il parlamento tedesco, ndt.] sulle accuse di antisemitismo relative a questa edizione di Documenta, il partito di destra AfD ha chiesto in nome della lotta contro l’antisemitismo che nessun finanziamento federale venisse concesso a progetti di ricerca in settori culturali o educativi “che cerchino di diffondere contenuti ideologici postcoloniali”. E in ottobre l’Università della Ruhr a Bochum ha ospitato una conferenza intitolata “Antisemitismo postcoloniale tra Desmond Tutu e Documenta”, che, secondo la descrizione ufficiale, intendeva “comprendere le peculiarità dell’antisemitismo postcoloniale e le sue argomentazioni utilizzando come esempio la figura di Desmond Tutu.”

Come dimostra la menzione in questo contesto del famoso attivista per la giustizia razziale e premio Nobel per la Pace arcivescovo Desmond Tutu, in Germania il dibattito sul cosiddetto “antisemitismo postcoloniale” non è iniziato con documenta quindici.

In effetti nel 2020 lo studioso camerunense Achille Mbembe, considerato all’avanguardia nel campo del pensiero postcoloniale, era già stato accusato di “relativizzare l’Olocausto” e etichettato come antisemita dai media tedeschi per aver definito Israele uno Stato di apartheid e aver appoggiato il movimento BDS.

Tali accuse nei confronti di pensatori, artisti e attivisti postcoloniali che criticano Israele sono una diretta conseguenza dell’impegno dello Stato e del sistema politico tedeschi ad appoggiare incondizionatamente lo Stato di Israele come un modo per fare ammenda dei passati crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Dalla caduta del Terzo Reich e dalla formazione di Israele la Germania ha concepito la difesa di Israele e dei suoi interessi come parte della propria ragion di stato. E oggi non si tratta solo di fornire appoggio politico, finanziario e morale a Israele, ma anche di accettare come un dato di fatto le affermazioni di Israele secondo cui qualunque critica allo Stato ebraico, o azione a sostegno della lotta per la liberazione dei palestinesi, sia intrinsecamente e indiscutibilmente antisemita.

Per esempio nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione che etichetta il movimento BDS come entità che utilizza tattiche antisemite per raggiungere i suoi obiettivi politici e ha chiesto al governo di “non fornire spazi e strutture gestite dal Bundestag a organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto di Israele ad esistere.”

In effetti la Germania è riuscita a rendere quanto meno tabù, se non criminale, qualsivoglia appoggio alla liberazione dei palestinesi e discorso contro l’occupazione israeliana. Quanti sono fortemente determinati a mettere a tacere le voci palestinesi in nome della “lotta contro l’antisemitismo” hanno vietato proteste da parte dei palestinesi, annullato eventi palestinesi, etichettato come razzisti intellettuali palestinesi e cacciato giornalisti palestinesi dal loro lavoro.

Le aggressioni contro gli studi postcoloniali sono state per varie ragioni il passo successivo naturale di questa falsa lotta contro l’antisemitismo.

Il postcolonialismo, lo studio critico accademico dell’eredità culturale, politica ed economica del colonialismo, minaccia la percezione dello Stato tedesco dell’identità nazionale propria e di Israele in vari modi.

Primo, esso interpreta i genocidi come intrinsecamente connessi al colonialismo, e quindi vede l’Olocausto non come un’eccezione nella storia, un crimine diverso da ogni altro, ma solo come un altro sottoprodotto orripilante del colonialismo tedesco.

Quarant’anni prima dell’Olocausto i tedeschi furono responsabili di un altro genocidio, contro gli Herero e i Nama,” ha spiegato nel 2017 lo storico Jürgen Zimmerer. “Nell’Africa del Sudovest tedesca nacque uno Stato razzista, c’era un’ideologia, c’erano leggi, c’erano strutture militari e burocratiche adeguate e finalizzate a questo obiettivo. Trovo totalmente inverosimile non vedere alcun rapporto con i crimini del ‘Terzo Reich’ avvenuti in seguito.”

Questa idea secondo cui le precedenti atrocità colonialiste in Africa prepararono la strada all’Olocausto evidenzia l’indifferenza della Germania riguardo ai suoi crimini al di fuori dell’Europa e richiede una resa dei conti che con cui lo Stato tedesco non sembra affatto pronto a fare i conti.

Secondo, il postcolonialismo svela somiglianze tra soggetti statali violenti, e quindi evidenzia alcune scomode verità su Israele che la Germania preferirebbe piuttosto non affrontare.

Come hanno evidenziato molti studiosi del colonialismo, subendo per questo una marea di accuse di antisemitismo, Israele ha molto in comune con le violente, oppressive e razziste colonie di insediamento del passato: separa con violenza dai suoi coloni la popolazione indigena della terra che occupa, condiziona la cittadinanza e i diritti fondamentali allo status di coloni, impone blocchi per soffocare ogni resistenza al suo potere e sostiene di fare tutto ciò per controllare la violenza e la barbarie della popolazione locale.

Negli ultimi anni le critiche postcoloniali a Israele hanno conquistato una nuova attenzione globale in seguito alle proteste internazionali di Black Lives Matter [movimento antirazzista nato negli USA contro la violenza della polizia razzista nei confronti degli afro-americani, ndt.] che ha puntato i riflettori non solo sul razzismo istituzionalizzato nell’Occidente, ma anche sulle lotte anticoloniali in corso in tutto il mondo.

In Germania, dove difendere ad ogni costo Israele è visto come un dovere nazionale, tutto ciò ha portato a capillari tentativi di demonizzare le voci a favore dei palestinesi e a mettere in secondo piano i tentativi di una vera decolonizzazione. Documenta quindici è stata la più recente, ma sicuramente non l’ultima, vittima di questa sinistra campagna di diffamazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono solo dell’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Hebh Jamal


Hebh Jamal è universalmente considerata una oppositrice della disuguaglianza educativa, dell’islamofobia e dell’occupazione della Palestina. Si è messa in evidenza su molte tribune mediatiche come il NYTimes, TeenVogue, Netflix documentary Teach Us All e molte altre. Attualmente Hebh frequenta l’ultimo anno al City College di NY. Lavora al NYU Metro Center [Centro Metropolitano per la Ricerca sull’Uguaglianza e la Trasformazione delle Scuole] come collaboratrice nelle politiche per i giovani in quanto continua a lottare contro la segregazione nelle scuole. È stata anche presidentessa degli Studenti per la Giustizia in Palestina del college.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ahmed Mahajana, “il dottore di tutti”

Barry Danino

Haaretz 11 dicembre 2022

Ho parlato la prima volta all’inizio di dicembre con Ahmed Mahajana, da quattro anni interno in chirurgia cardiotoracica presso l’ospedale universitario Hadassah di Gerusalemme ad Ein Karem, che è stato sospeso a metà novembre. L’ho chiamato per dimostrargli il mio sostegno e per dirgli che molti medici israeliani veterani e personale paramedico, sia ebrei che arabi, sono dalla sua parte. Non mi aspettavo delle scuse da Btsalmo [gruppo di destra che sbeffeggia l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem, ndt.]. L’organizzazione di di destra ha ritirato la sua richiesta di licenziare Mahajana, ma ora chiede che il medico renda pubblica (quando sarà reintegrato) una dichiarazione di condanna per ogni terrorismo e attacco a persone innocenti. Il mio lavoro in ospedale non prevede tale disposizione.

Il caso di Mahajana sarà negoziato tra l’ospedale Hadassah e l’Associazione medica israeliana, intervenuta in sua difesa, davanti al giudice in pensione Hila Gerstel. Nel frattempo, nonostante tutto quello che è venuto alla luce negli ultimi giorni, dovrà rimanere a casa.

Mi è chiaro che nell’atmosfera attuale in Israele è sufficiente per qualsiasi ebreo, figuriamoci un agente di polizia, “avere un brutto presentimento nei confronti” di un arabo, che la situazione vada fuori controllo. Quello che non mi è chiaro è perché Mahajana non abbia prima d’ora ricevuto un chiaro sostegno da tutti noi, suoi colleghi medici. Non un appoggio tacito, a porte chiuse, nelle telefonate o nei moltissimi post sui social media, ma un messaggio forte e chiaro che dica “Basta”, firmato dalle persone con nome completo. Com’è possibile che in un’organizzazione che si vanta di essere egualitaria, “un’isola di sanità mentale”, un medico possa essere falsamente accusato e sospeso solo perché è arabo? Come è possibile che il Ministro della Salute, esponente del partito di sinistra Meretz, sia rimasto in silenzio?

La scorsa settimana ho invitato Mahajana a una riunione del personale medico e infermieristico, inclusi medici anziani, amministratori e infermieri, ebrei e palestinesi, per dimostrargli sostegno. Non tutti quelli che ho contattato avevano sentito parlare della questione, e non tutti quelli che ne avevano sentito parlare volevano venire. Molti avevano delle riserve: “Perché dovrei farlo, poi la gente dirà che ho incontrato un sostenitore del terrorismo”, “Potrebbe influenzare il mio studio medico privato”, “Non voglio finire nei guai” – sono le spiegazioni che ho sentito. Mahajana ha raccontato a coloro che erano presenti cosa era successo quell’orribile pomeriggio a lui – a un eccellente medico che lavora giorno e notte e all’improvviso deve sottoporsi a un’udienza umiliante per poi essere licenziato dal suo incarico e persino sottoposto al test della macchina della verità.

Mahajana aveva già raccontato la sua storia ad Haaretz, ma quando la senti raccontata di persona non si può rimanere indifferenti. Il giorno in cui è stata pubblicata la notizia diffamatoria secondo cui “si è fatto un selfie con un terrorista e gli ha dato un dolce” è stato, ha detto, il peggiore della sua vita, e da allora ha ricevuto un numero di telefonate anonime minacciose. Sebbene non sia “amato da tutti”, è “il medico di tutti”. Laureato all’Università di Tel Aviv, ha superato con lode il primo esame di specialità medica (Fase 1), stava finendo la specializzazione all’Hadassah e ha tutte le carte in regola per comparire nella lista dei medici più richiesti del prossimo decennio. Il sistema medico israeliano sa vantarsi del successo di medici arabi come lui, quando vuole.

Il Ministero della Sanità è stato il primo ministero del governo a “raccogliere il guanto di sfida” dopo la pubblicazione del rapporto Palmor (emanato da un comitato interministeriale per la lotta al razzismo, risultato della protesta della comunità ebraica etiope). Circa quattro anni fa il Ministero ha pubblicato le raccomandazioni del comitato che coordina i temi del razzismo, della discriminazione e dell’esclusione nel sistema sanitario. All’inizio della relazione, il prof. Itamar Grotto, all’epoca vicedirettore generale del dicastero, scriveva:

“Quando sono stato nominato presidente del comitato, il mio primo pensiero è stato: ‘Razzismo? Nel sistema sanitario?’ … Nel corso dei lavori del comitato, ho ascoltato testimonianze, discussioni e visto documenti che segnalavano situazioni in cui esistono discriminazione, esclusione e razzismo nel sistema sanitario. Per convincermi che questi fenomeni esistono davvero ho anche intrapreso un percorso personale, e alla fine ho raggiunto la consapevolezza che azioni o decisioni che avevo preso in passato potevano essere percepite ed essere intese come discriminatorie o addirittura razziste.”

Il caso di Mahajana dimostra che anche se noi, personale medico, siamo certi che tra i “camici bianchi” non ci siano discriminazione e razzismo, eppure ci sono. Il sospetto intrinseco nei confronti del personale arabo non è iniziato e non finisce in ospedale. Oggi è Mahajana e domani sarà qualcun altro il cui arabo suonerà minaccioso per qualcuno. Fino a quando il processo di negoziazione non sarà completato e Hadassah non si scuserà sinceramente per l’ingiustizia commessa, il personale medico di tutto il paese deve sostenerlo e gridare contro l’abominevole ingiustizia – non solo per il suo bene, ma soprattutto per il nostro bene e per il bene dei nostri pazienti.

Il dottor Barry Danino è medico senior presso il Centro Medico Sourasky di Tel Aviv (Ospedale Ichilov).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




‘Separazione con solida maggioranza ebraica’: alla conferenza di J Street appello per una versione israeliana delle leggi ‘Jim Crow’

Philip Weiss

10 dicembre 2022 – Mondoweiss

È sicuramente scioccante sentire pubblicizzata la separazione razziale in uno contesto progressista americano, ma, lo scorso fine settimana, alla conferenza di J Street [associazione  ebraica sionista americana che promuove la soluzione a due Stati, N.d.T.] un politico israeliano, Yair Golan, ha promosso come l’unica soluzione alla questione palestinese una esplicita visione di un Israele con leggi ‘Jim Crow’ [norme in vigore nel sud degli USA fra il 1877 e il 1964 per mantenere la segregazione razziale dei servizi pubblici, N.d.T.]. 

L’unica possibilità per Israele è scegliere l’opzione della separazione… Dobbiamo ammetterlo: la realizzazione della visione sionista è quella di una patria per il popolo ebraico con una solida maggioranza ebraica. Questo è l’unico percorso per uno Stato libero, egalitario e democratico.”

Golan, un generale in pensione, è all’estrema sinistra dello spettro politico ebraico in Israele, ex parlamentare del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, N.d.T.] che, nelle ultime elezioni israeliane, non ha neppure superato la soglia di sbarramento. 

Così questa è la vostra tesi proveniente dalla sinistra sionista in Israele. Ospitata dai sostenitori sionisti in America ed è l’idea della segregazione.

Domenica, nel suo discorso dal palco della conferenza, Golan ha descritto la questione palestinese come una “minaccia esistenziale” per Israele: La questione palestinese minaccia di lacerare la società israeliana dall’interno. Non c’è una questione più controversa del futuro dei territori. Nessun’altra ha causato tale violenza politica in Israele, e nessun’altra esige di prendere decisioni così difficili come quelle richieste dal problema palestinese. 

Di fatto Israele ha due opzioni, una devastante e la seconda molto difficile. Israele deve scegliere, e quanto prima, tanto meglio: annessione o separazione. 

Ribadisco: annessione o separazione. Guardando al futuro queste sono le uniche due alternative. L’annessione distruggerà il sogno sionista. In Giudea e Samaria (termini biblici per Cisgiordania) vivono tra i 2,6 e i 3,2 milioni di palestinesi, nella striscia di Gaza 2,1 milioni. In Israele la destra messianica mira ad annettere la Giudea e la Samaria, rioccupare Gaza e ricostruire Gush Khatif (le colonie a Gaza). È folle. 

Questa visione messianica è una completa pazzia. L’unica possibilità di Israele è scegliere l’opzione della separazione. Non la spiegherò ora, ma la separazione può essere attuata nella pratica…

Dobbiamo ammetterlo: la realizzazione della visione sionista è quella di una patria per il popolo ebraico con una solida maggioranza ebraica. Questo è l’unico percorso per uno Stato libero, egalitario e democratico. Tutti gli altri tentativi di costringere a vivere insieme due popoli differenti, all’incirca delle stesse dimensioni, con una lunga storia di ostilità e guerre, sono destinati a fallire. La sfida di creare una collaborazione vera ed egalitaria con una numerosa minoranza araba, i cittadini arabi di Israele, è piuttosto ardua e difficile. 

Neppure la separazione sarà facile da realizzare, ma è l’unica possibilità per un futuro di sicurezza e pace per Israele. Il processo per realizzare la separazione potrebbe significare azioni unilaterali, bilaterali e multilaterali, e Israele, potenza originaria, deve prendere l’iniziativa. 

Signore e signori, è tutta una questione di iniziativa e, mi vergogno nel dire che abbiamo perso questa abilità di prendere l’iniziativa.

Meretz è sceso sotto la soglia del 3,25% per l’elezione in parlamento dopo una campagna politica in cui la questione palestinese non è mai stata neppure discussa dai partiti israeliani.

L’appello per la segregazione di Golan è coerente con altre tesi simili presentate a J Street, come la ricetta per la separazione delle comunità palestinesi ed ebree del defunto Amos Oz.

Gli oratori sionisti progressisti mettono spesso in relazione le loro paure delle violenze che ne seguirebbero nel caso di uno Stato con ebrei e palestinesi in lotta per il potere. Tali timori sono comprensibili, ma in questo momento esiste già una realtà con uno Stato unico e ai palestinesi è inflitta molta violenza che non è contrastata dai sionisti progressisti. E forse dovrebbero smettere di parlare del “sogno” del sionismo come qualcosa da preservare, dato che il sionismo è sicuramente responsabile di “un regime di supremazia ebraica” dal fiume al mare [cioè sia in Cisgiordania che in Israele, N.d.T.] (che la più importante organizzazione per i diritti umani del Paese definisce come una situazione di apartheid). 

Golan ha riconosciuto il potere degli ebrei americani su queste questioni: 

Israele è la patria di tutti gli ebrei. Quale devoto servitore e vero patriota di Israele vi chiedo di continuare a intraprendere tutte le azioni possibili. Noi in Israele abbiamo bisogno della vostra saggezza, della vostra perspicacia, della vostra cultura ebraica senza pari, delle vostre capacità organizzative, della vostra competenza politica e di tutti gli altri mezzi che vogliate impiegare e condividere. Vi ringrazio per l’incredibile lavoro già svolto da voi. 

Mi sembra che gli ebrei americani progressisti e di sinistra debbano farsi valere e smettere di delegare agli israeliani, essere onesti riguardo all’apartheid e presentare il movimento dei diritti civili in America, non il segregazionismo del Sud, come un modello per il cambiamento. Il politico palestinese Ayman Odeh ha fatto proprio questo alla conferenza di J Street, chiedendo agli americani di aiutare Israele e la Palestina a provare una grande trasformazione simile all’opera incompleta per i diritti civili negli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché il governo della “seconda Nakba” vuole ricostruire lo Stato israeliano

Meron Rapoport e Ameer Fakhoury

9 dicembre 2022 – +972 Magazine

In Israele la crociata dell’estrema destra contro il liberalismo laico sta provocando una diffusa opposizione, ma non può essere distinta dalla missione anti-palestinese dello Stato.

È difficile ricordare l’ultima volta che un governo israeliano ha suscitato un’opposizione e una resistenza così diffuse prima ancora di insediarsi. La nuova coalizione di estrema destra del primo ministro entrante Benjamin Netanyahu ha indotto decine di sindaci in tutto il Paese a dichiarare che non collaboreranno con il membro ultra-religioso e palesemente omofobo della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Avi Maoz, destinato a dirigere l’organo responsabile dei corsi extracurriculari [“Dipartimento dell’identità ebraica nazionale”, con delega sui contenuti dei programmi scolastici, ndt.] e che sembra prepararsi a bloccare i programmi educativi volti a insegnare i valori liberali, l’uguaglianza di genere e la tolleranza verso le minoranze.

Gadi Eizenkot, ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha invitato a protestare in massa nelle strade, così come il primo ministro uscente Yair Lapid, che si è impegnato a “proteggere i tribunali, l’esercito e le scuole”. Allo stesso modo, il responsabile dell’Israel Bar Association [l’associazione forense che accoglie tutti gli avvocati israeliani, ndt.] ha affermato che le persone dovrebbero “scendere in piazza” per impedire al governo di attuare i suoi piani rivolti a frenare l’autorità dei tribunali e consentire ai politici di determinare le nomine giudiziarie. Lunedì il capo di stato maggiore uscente, Aviv Kochavi, avrebbe affermato in colloqui riservati che non permetterà a nessun politico – che non sia il ministro della Difesa – di nominare alti ufficiali militari, né di sottrarre ai militari la responsabilità della polizia di frontiera della Cisgiordania. La presidente della Corte Suprema, Esther Hayut, ha affermato che se l’indipendenza del sistema giudiziario dovesse essere messa a repentaglio i giudici non saranno in grado di “adempiere al loro dovere”.

Mentre Netanyahu distribuisce i più importanti incarichi ministeriali agli elementi più estremisti della sua coalizione, il termine “disobbedienza civile” è diventato un grido di battaglia per le persone che costituiscono il cuore pulsante della classe dirigente israeliana. I semi di questa nuova resistenza non sono stati piantati solo in risposta ai termini scritti degli accordi della nuova coalizione, ma anche a seguito delle iniziative che non compaiono sulla stampa.

Sebbene i piani della coalizione coprano varie questioni della vita politica israeliana, possono essere riassunti in due temi principali: primo, consegnare tutti gli “affari palestinesi” su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.] alla destra razzista dei coloni, promuovendo al contempo un’annessione e un apartheid formalizzati; in secondo luogo, imporre all’opinione pubblica israeliana una visione sfacciatamente anti-liberale dell’ebraismo e stravolgere le istituzioni democratiche già indebolite di Israele, in particolare la magistratura.

Il tentativo di rafforzare l’annessione e l’apartheid nei territori occupati può essere immediatamente riscontrabile nel consenso di Netanyahu a dare il controllo dell’Amministrazione Civile e del Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), che gestiscono gli affari quotidiani di milioni di palestinesi sotto occupazione, a Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso, di estrema destra, ndr.] e alla riassegnazione della polizia di frontiera all’autorità di Itamar Ben Gvir [leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, ndt.] come nuovo “ministro della sicurezza nazionale”.

Queste mosse non solo hanno ricevuto forti risposte dalla sinistra radicale e dalle organizzazioni per i diritti umani, ma anche da membri direttivi della sicurezza israeliana, che temono che questa nuova titolarità possa cambiare lo status quo dell’occupazione e portare al crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese come subappaltatore della sicurezza di Israele. Se si aggiungono i tentativi di attuare misure anti-liberali e anti-democratiche si potrà assistere alla discesa in campo di gran parte del settore laico-liberale, e persino di alcuni sostenitori del Likud [partito nazionalista liberista e di destra israeliano, guidato da Netanyahu, ndt.]. Questi due ceppi di resistenza si stanno ora fondendo per formare qualcosa che non si vedeva da decenni.

Un antidoto ai vecchi paradigmi

Quindi ci si deve chiedere perché Netanyahu abbia deciso di unire così saldamente le iniziative anti-palestinesi e anti-liberali della sua coalizione. Il Primo Ministro entrante comprende sicuramente che la sua più grande minaccia dall’interno della società israeliana proviene proprio da coloro che si oppongono ai disegni del nuovo governo sia contro il secolarismo che contro i tribunali. Detto questo, affidare a uno come Avi Maoz l’incarico su programmi educativi aggiuntivi è semplicemente una manovra diversiva per consentire alle politiche anti-palestinesi di passare inosservate, come sostengono alcuni? O fa davvero parte di un pacchetto completo che non può essere scomposto nella somma delle sue parti?

Per capire come siamo arrivati a questo punto in cui due dei membri più dichiaratamente razzisti della Knesset che sostengono una seconda Nakbacome soluzione migliore sono ora responsabili degli affari palestinesi dobbiamo tornare agli anni ’90, quando Israele adottò gli Accordi di Oslo come percorso per affrontare il conflitto israelo-palestinese.

Gli accordi di Oslo si basavano sull’idea che attraverso l’istituzione di uno Stato palestinese o di un qualche tipo di entità che potesse essere etichettata come Stato” – in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, Israele potesse tornare ad essere ebraico e democratico, come i suoi fondatori apparentemente sognavano. Questo processo si basava anche sulla separazione dell’occupazione militare del 1967, a cui i funzionari israeliani ritenevano si potesse porre fine, dalla Nakba del 1948, che causò l’espulsione di oltre 750.000 palestinesi dalla loro patria e il rifiuto di lasciarli tornare, e che Israele vedeva come una questione conclusa. A trent’anni dalla nascita di Oslo appare chiaro che questa strategia è fallita.

Poi è arrivata la violenza brutale della Seconda Intifada [rivolta palestinese esplosa a Gerusalemme il 28 settembre del 2000, in seguito estesa a tutta la Palestina, ndt.], che ha incoraggiato la convinzione che Israele potesse porre fine al conflitto, o almeno ridurlo al minimo, attraverso mosse unilaterali. L’istituzione della barriera di separazione all’interno della Cisgiordania e il disimpegno da Gaza sono stati i due risultati più eclatanti di questa strategia. L’idea di “circoscrivere il conflitto”, che da allora ha guidato il pensiero politico di Israele, potrebbe non essere scomparsa, ma neanche i suoi più grandi assertori sostengono che risolverà il conflitto.

Da quando è tornato al potere nel 2009 Netanyahu ha rafforzato l’idea di mantenere lo “status quo”. Ma questo status quo è stato tutt’altro che stagnante: i successivi governi israeliani hanno perseguito un’annessione strisciante e la lenta costruzione dietro le quinte di un regime di apartheid. Ma al centro della strategia di Netanyahu c’è la convinzione che Israele possa fiorire e prosperare rimuovendo la questione palestinese dall’agenda pubblica. In altre parole, viene spianata la strada verso uno splendido nuovo futuro col rendere la storia palestinese priva di interesse e irrilevante.

Questa politica in generale ha avuto successo e gli Accordi di Abramo, che hanno visto Israele firmare trattati di normalizzazione con diversi Stati arabi, avrebbero dovuto costituire il suggello finale. Ma gli eventi del maggio 2021 e l’esplosione della violenza nelle cosiddette “città miste” di Israele hanno ricordato all’opinione pubblica ebraica ciò che i palestinesi hanno sempre saputo: il conflitto non sta andando da nessuna parte e continua a condizionare la vita di tutti gli ebrei e palestinesi tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo).

Ben Gvir e Smotrich propongono un antidoto a questa situazione in cui sia il paradigma di Oslo che quello dello status quo si sgretolano davanti ai nostri occhi. Entrambi i politici cercano di porre in ginocchio i palestinesi dando loro due opzioni: o una resa totale e l’accettazione della supremazia ebraica in tutto il Grande Israele, o l’emigrazione. Il piano dettagliato di Smotrich per la resa palestinese, pubblicato nel 2017, include una clausola in base alla quale le forze di sicurezza israeliane possono trattare chiunque si opponga a queste due opzioni “con una forza maggiore di quella che usiamo oggi e sulla base di condizioni a noi più favorevoli”. Insomma, una nuova Nakba.

Questo è anche ciò che sta alla base degli accordi di coalizione di Smotrich e Ben Gvir con Netanyahu. Ben Gvir ambisce al controllo della polizia non per diminuire la criminalità nella società araba in Israele, poiché così facendo si otterrebbe l’ultima cosa che desidera: permettere ai cittadini palestinesi di vivere in pace e sicurezza nelle loro comunità. Se la criminalità dovesse diminuire, la causa nazionale tornerà probabilmente al centro della scena, proprio ciò che Ben Gvir vuole impedire. Il ministro della Sicurezza Nazionale entrante vuole uno scontro frontale tra i cittadini palestinesi e le autorità, e prevede di utilizzare la polizia di frontiera in Cisgiordania per lo stesso scopo: intensificare il conflitto.

Allo stesso modo, Smotrich vuole avere il controllo dell’Amministrazione Civile e del COGAT non solo perché andrà a vantaggio dei coloni. La sua massima priorità è portare allo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese, nella speranza di seminare il caos nei centri urbani della Cisgiordania. Tale caos richiederà l’intervento dell’esercito israeliano e Smotrich e Ben Gvir sperano che tale intervento conduca al momento decisivo in cui i palestinesi o cederanno o verranno espulsi.

Separare la democrazia dal colonialismo

Questa situazione così pericolosa ha radici che vanno molto più in profondità di questa schiera relativamente nuova di fondamentalisti. Uno Stato che è nato nel 1948 da una pulizia etnica e che ha tenuto sotto controllo militare milioni di persone per oltre mezzo secolo non può essere considerato una democrazia. Eppure, è imperativo capire esattamente perché la destra ha accelerato ora la sua crociata antiliberale e antidemocratica.

Come altre società di colonizzatori, il sionismo ha cercato di stabilire una “società modello” che fosse democratica – solo per i coloni. In questo senso il colonialismo di insediamento israeliano non è del tutto esclusivo; modelli simili potrebbero essere riscontrati negli Stati Uniti, in Sud Africa e in Australia. Questa società modelloera necessaria per tenere uniti all’interno i coloni ebrei che arrivarono in Palestina per fondare una casa sicura per se stessi, ma che si trovarono di fronte a una società autoctona giustamente resistente.

Tuttavia ciò che distingue il sionismo dalle altre società improntate sul colonialismo di insediamento è che le condizioni per l’ammissione nella società dei coloni si basano sia sull’etnia che sulla religione. I primi coloni in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti erano dei bianchi che arrivavano dall’Europa, ma la società americana trovò il modo di raccogliere i coloni provenienti dall’Asia, dal Sud America, dall’Irlanda e altri luoghi intorno alle sue ambizioni coloniali nei confronti dei nativi americani. In Israele, con la sua esclusività etnico-religiosa, questo è impossibile. E mentre in Nord America la popolazione indigena è stata quasi completamente spazzata via dal genocidio, in Israele-Palestina i palestinesi autoctoni sono rimasti in massa, mettendo a dura prova lo Stato colonizzatore.

Tuttavia negli ultimi anni il contratto sociale ebraico-israeliano che consentiva l’unità e la coesione interna ebraica si è inaridito. Agli occhi di molti ebrei israeliani l’ideale di un modello di società democratica ha perso la sua magia, e ora essi preferiscono una versione diversa del regime in cui l’ebraismo come religione – dalla versione haredi [ultra-ortodossa, ndt.] proposta dallo Shas [partito politico israeliano che rappresenta principalmente gli ebrei ultra ortodossi sefarditi e mizrahì, in gran parte immigrati dai Paesi arabi, ndt.] e United Torah Judaism [alleanza di due partiti politici che rappresentano gli interessi degli ebrei aschenaziti, discendenti degli ebrei dell’Europa centrale e orientale, ndt.], alle visioni nazionaliste-religiose di Smotrich e Ben Gvir — è posto al di sopra delle istituzioni secolari che furono costruite dai fondatori del sionismo.

Le ragioni di questa crisi sono molteplici. Come ha spiegato in queste pagine Avi-ram Tzoreff, questo è in gran parte il risultato della ridistribuzioneall’interno della società coloniale dei frutti della colonizzazione tra la vecchia élite ashkenazita, che ha raccolto i benefici della Nakba e della guerra del 1967, e le classi medie e lavoratrici costituite soprattutto dai mizrahi, che vogliono una fetta più grande della torta.

Queste tendenze sono state rafforzate da diversi altri fattori, tra i quali: il fatto che il sionismo non ha mai veramente deciso se basarsi su una definizione nazionalista o religiosa, il che ha portato all’indebolimento del campo laico in Israele; un cambiamento demografico a favore degli haredi e delle popolazioni nazional-religiose; il processo per corruzione in corso nei confronti di Netanyahu, e il modo in cui egli ha fatto tutto il possibile per minare il sistema giudiziario. Ma soprattutto c’è il fatto che i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde rifiutano di accettare la supremazia ebraica come legge del territorio, sfidando apertamente il regime più e più volte.

L’opposizione del nuovo governo all’Ancien Régime è, in fondo, un’opposizione al vecchio contratto sociale che ha costituito le fondamenta del sionismo laico che ha dato vita allo Stato di Israele. Per cambiare il regime dovrà subordinare i tribunali e i consulenti giuridici ai capricci della coalizione, aggiungendo un forte sapore fondamentalista religioso alle sue nuove politiche, come cambiare i criteri per la Legge del Ritorno in modo che solo gli ebrei “purosangue” possano trasferirsi in Israele.

Inoltre sembra che l’estrema destra veda i resti del vecchio regime, che conserva una versione più gentiledella supremazia ebraica gradita al mondo occidentale, come un ostacolo al progetto di sconfiggere i palestinesi. Pertanto solo la loro versione di uno Stato ebraico – teocratico e fermamente antiliberale, in cui vengano soggiogate le minoranze razziali, etniche e sessuali di ogni tipo – può portare alla vittoria finale di Israele. In questo senso, c’è un’intima connessione tra le ambizioni antipalestinesi e antisecolari della destra. Per intenderci, senza un fondamentalismo messianico a sostenerla la sola logica coloniale  non riuscirà a portare a termine il lavoro.

È molto probabile che Ben Gvir e Smotrich temano che il liberalismo laico possa minare l’intera struttura coloniale, aprirla e distruggerla dall’interno. Lo slogan elettorale di Ben Gvir, in cui ha promesso di ricordare ai cittadini israeliani – e in particolare ai cittadini palestinesi – chi sono i veri “signori della terra”, indica una preoccupazione che la logica liberal-progressista, che la destra sostiene abbia preso il sopravvento sulla maggioranza della società israeliana, possa mettere in pericolo il monopolio ebraico del potere nel Paese. In questo modo, i nuovi signori della terra non stanno giungendo solo per i palestinesi, ma anche per il “tipo sbagliato” di ebrei.

Tuttavia il fatto che in Israele ci siano molte voci che si oppongono a questo nuovo governo non dovrebbe nascondere le profonde connessioni ideologiche che ancora esistono tra molti di loro. Mentre l’opposizione all’esplicita istituzionalizzazione dell’apartheid riguarda il regime israeliano di supremazia ebraica, di fatto gran parte dell’opposizione all’attacco contro il sistema giudiziario e all’opinione pubblica laica mira ancora a preservare la supremazia ebraica, anche se in modo più moderato. E mentre la resistenza interna è attualmente molto più ampia di quanto ci si aspettasse, e probabilmente crescerà, la stragrande maggioranza di coloro che chiedono agli israeliani di scendere in strada non fa domande sull’occupazione o sulla supremazia ebraica. Per loro la questione della democrazia rimane separata dalla questione del colonialismo.

È difficile sapere dove porteranno queste lotte contro il nuovo governo e se si collegheranno alla lotta contro l’annessione, l’apartheid e un’altra espulsione di massa dei palestinesi. Ma non si può negare che siamo arrivati a un momento in cui tutte le contraddizioni iintrinseche del sionismo fin dai suoi primi giorni sono diventate più chiare e importanti che mai.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Al Jazeera porta l’uccisione di Shireen Abu Akleh alla Corte Penale Internazionale CPI

La rete afferma che le prove presentate ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui la giornalista palestinese sarebbe stata uccisa da un fuoco incrociato.

Annette Ekin

6 dicembre 2022 – Al Jazeera

L’Aia, Paesi Bassi Al Jazeera Media Network ha presentato una richiesta formale alla Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare e perseguire i responsabili dell’uccisione dell’esperta giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh.

Abu Akleh, corrispondente televisiva di Al Jazeera per 25 anni, è stata uccisa dalle forze israeliane l’11 maggio mentre stava documentando un raid militare israeliano in un campo profughi a Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

La 51enne nativa di Gerusalemme e cittadina statunitense era un nome familiare e una giornalista molto rispettata che ha dato voce ai palestinesi attraverso la sua copertura dell’occupazione israeliana.

Una strategia più ampia’

La richiesta include un dossier con un’indagine approfondita svolta nell’arco di sei mesi da Al Jazeera che raccoglie tutte le prove rese disponibili da testimoni oculari e riprese video, oltre a nuovo materiale sull’uccisione di Abu Akleh.

La richiesta è presentata alla CPI “nel contesto di un più ampio attacco contro Al Jazeera e i giornalisti in Palestina”, ha affermato Rodney Dixon KC, un avvocato di Al Jazeera, riferendosi ad episodi come il bombardamento degli uffici della rete a Gaza il 15 maggio 2021.

“Non è un incidente isolato, è un omicidio che fa parte di una strategia più ampia su cui l’accusa dovrebbe indagare per identificare e incriminare i responsabili dell’omicidio”, ha detto.

Il focus è su Shireen, e su questo particolare omicidio, questo vergognoso omicidio. Ma le prove che presentiamo prendono in esame tutte le azioni contro Al Jazeera perché essa è stata presa di mira come organizzazione mediatica internazionale.

“E le prove dimostrano che ciò che le autorità [israeliane] stanno cercando di fare è farla tacere”, afferma Dixon.

Al Jazeera spera che il procuratore della CPI “avvii effettivamente le indagini su questo caso” dopo la richiesta della rete, dice Dixon. La richiesta integra la denuncia presentata alla CPI dalla famiglia di Abu Akleh a settembre, sostenuta dal Sindacato della stampa palestinese e dalla Federazione internazionale dei giornalisti.

Un nuovo documentario su Fault Lines [programma televisivo americano di attualità e documentari trasmesso su Al Jazeera English, ndt.] di Al Jazeera mostra come Abu Akleh e altri giornalisti, indossando elmetti protettivi e giubbotti antiproiettile chiaramente contrassegnati con la parola “PRESS”, stavano camminando lungo una strada in vista delle forze israeliane quando sono finiti sotto il fuoco.

Abu Akleh è stata colpita alla testa mentre cercava di proteggersi dietro un albero di carrubo. Anche il produttore di Al Jazeera Ali al-Samoudi è stato colpito alla spalla.

Le nuove prove presentate da Al Jazeera mostrano che “Shireen e i suoi colleghi sono stati colpiti direttamente dalle forze di occupazione israeliane (IOF)”, ha dichiarato martedì Al Jazeera Media Network in un comunicato.

Il comunicato precisa che le prove ribaltano le affermazioni delle autorità israeliane secondo cui Shireen sarebbe stata uccisa in un fuoco incrociato e “conferma, senza alcun dubbio, che non ci sono stati spari nell’area in cui si trovava Shireen, a parte quelli delle IOF diretti contro di lei”.

“Le prove dimostrano che questa uccisione deliberata è stata parte di una campagna più ampia che ha lo scopo di prendere di mira e mettere a tacere Al Jazeera”, afferma la dichiarazione.

Le truppe delle forze di difesa israeliane (IDF) non saranno mai interrogate, ha dichiarato martedì il primo ministro israeliano Yair Lapid.

“Nessuno interrogherà i soldati dell’IDF e nessuno ci farà prediche sulla morale del combattimento, certamente non la rete Al Jazeera”, ha detto Lapid.

Il ministro della Difesa Benny Gantz ha espresso le sue condoglianze alla famiglia Abu Akleh e ha affermato che l’esercito israeliano opera secondo “gli standard più elevati”.

I prossimi passi

Parlando davanti all’ingresso della CPI nella mattinata nuvolosa e frizzante dopo che Al Jazeera ha presentato la sua richiesta, Lina Abu Akleh, che indossava un distintivo con il volto di sua zia, ha detto che la famiglia spera di vedere “presto risultati positivi”.

“Ci aspettiamo che il pubblico ministero cerchi verità e giustizia e ci aspettiamo che il tribunale si impegni a condurre in giudizio per l’uccisione di mia zia le istituzioni e gli individui responsabili di questo crimine”, ha detto.

Il fratello maggiore di Abu Akleh, Anton, ha affermato che la presentazione [della richiesta di indagine] da parte della rete è stata importante per la famiglia.

“Questo per noi è molto importante, non solo per Shireen – niente può riportare indietro Shireen – ma come garanzia che tali crimini vengano fermati e, si spera, la CPI sarà in grado di agire immediatamente per porre fine a questa impunità“.

Walid al-Omari, a capo dell’ufficio di Al Jazeera a Gerusalemme e amico e collega di Abu Akleh, ha affermato che è fondamentale mantenere vivo il caso tra l’opinione pubblica. “Non pensiamo che Israele dovrebbe sfuggire all’obbligo di rispondere giuridicamente”.

Una volta che la CPI avrà esaminato le prove deciderà se indagare sull’uccisione di Abu Akleh nell’ambito delle indagini in corso.

Portare a giudizio i responsabili’

Nel 2021 la CPI ha stabilito la propria giurisdizione sulla situazione nei territori palestinesi occupati. La presentazione di Al Jazeera richiede che l’uccisione di Abu Akleh diventi parte di questa indagine più ampia.

“Stiamo facendo una richiesta per un’indagine che porti alla presentazione di accuse e al perseguimento dei responsabili”, ha affermato Dixon.

Le indagini condotte dalle Nazioni Unite, dalle organizzazioni per i diritti umani palestinesi e israeliane e dagli organi di informazione internazionali hanno concluso che Abu Akleh è stata uccisa da un soldato israeliano.

La famiglia Abu Akleh ha chiesto un’ “indagine approfondita e trasparente” da parte dell’FBI e del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per rivelare la catena di comando che ha portato alla morte di una cittadina statunitense.

“In breve, vorremmo che [il presidente degli Stati Uniti Joe] Biden facesse nel caso di Shireen ciò che la sua e le precedenti amministrazioni statunitensi non sono riuscite a fare quando altri cittadini americani sono stati uccisi da Israele: portare a giudizio gli assassini”, ha scritto Lina Abu Akleh su Al Jazeera nel mese di luglio.

A novembre gli Stati Uniti hanno annunciato un’indagine dell’FBI sull’uccisione di Abu Akleh, notizia accolta favorevolmente dalla sua famiglia.

Ma, ha ammonito Dixon, questa indagine non dovrebbe essere un motivo per cui la Corte penale internazionale non agisca.

“Possono, possono collaborare con… l’FBI, in modo che questo caso non scivoli tra le crepe e che i responsabili siano identificati e processati”.

Poco dopo la presentazione della richiesta alla Corte Penale Internazionale, gli Stati Uniti hanno dichiarato di respingere l’iniziativa.

“La CPI dovrebbe concentrarsi sulla sua missione principale”, ha detto ai giornalisti il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “E tale missione principale è servire come tribunale di ultima istanza per punire e scoraggiare i crimini atroci”.

Sfatare narrazioni mutevoli

Il documentario di Fault Lines esamina attentamente anche le mutevoli narrazioni di Israele.

Israele ha inizialmente incolpato per la morte di Abu Akleh dei palestinesi armati, ma a settembre ha affermato che c’era “un’alta probabilità” che un soldato israeliano avesse “colpito accidentalmente” la giornalista, ma che non avrebbe avviato un’indagine penale.

Hagai El-Ad, direttore dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha rapidamente smentito la falsa affermazione di Israele secondo cui un uomo armato palestinese sarebbe stato responsabile della morte di Abu Akleh, ha detto a Fault Lines: Sono anche molto abituati a farla franca sia nell’arena pubblica che in quella legale nel mentire sull’uccisione di palestinesi”.

Il motivo per cui Al Jazeera ha fatto questa richiesta è perché le autorità israeliane non hanno fatto nulla per indagare sul caso. In realtà hanno detto che non indagheranno, che non c’è alcun sospetto di crimine”, afferma Dixon.

Al Jazeera Media Network definisce l’omicidio un “palese omicidio” e un “crimine atroce”.

“Al Jazeera ribadisce il suo impegno a ottenere giustizia per Shireen e ad esplorare tutte le strade per garantire che gli autori siano ritenuti responsabili e assicurati alla giustizia”, ha affermato la rete.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’accordo tra le polizie di UE e Israele potrebbe essere modificato dopo che sono state sollevate obiezioni riguardo alla condivisione di dati sulla Cisgiordania

Jonathan Shamir

5 dicembre 2022 – Haaretz

Preoccupazioni relative al fatto che i dati dell’Europol possano essere utilizzati in Cisgiordania hanno suggerito alla Commissione Europea di tornare al tavolo negoziale, ma questa volta avrà a che fare con il governo israeliano entrante, di estrema destra

Un accordo di collaborazione che ha richiesto cinque anni di negoziati tra le forze di sicurezza dell’Unione Europea e quelle israeliane ha subito una battuta d’arresto lunedì, quando la Commissione Europea ha annunciato che dovrà riprendere i negoziati per precisare l’inapplicabilità dell’accordo nei territori [palestinesi] occupati. Ciò potrebbe mettere la commissione in contrasto con i partiti di estrema destra del governo israeliano entrante.

Nel 2018 Israele firmò un accordo operativo con Europol per contrastare il crimine transfrontaliero. Un’estensione di questo accordo, raggiunto in settembre, ma non ancora firmato o ratificato, consentirebbe di scambiare informazioni personali, compresi dati biometrici su razza, etnia, fede religiosa e politica e persino orientamento sessuale, per combattere “gravi delitti e terrorismo”,

Ma, mentre il precedente e più ridotto accordo di collaborazione tra Israele ed Europol non limitava esplicitamente la sua applicazione ai confini di Israele prima del 1967 [cioè escludeva i territori palestinesi occupati dopo la guerra del ‘67, ndt.], la bozza di accordo più recente vieta di estendere la condivisione di dati ai territori occupati da Israele.

Nel contempo prevede quelle che una fonte europea ha descritto come eccezioni “senza precedenti”. Esse includono “la prevenzione di un reato penale nel caso di un’imminente minaccia alla vita,” o, con il consenso europeo, quando “necessaria per la prevenzione, l’indagine, la detenzione o il perseguimento di reati penali.”

Ma mentre l’accordo operativo precedente e più limitato tra Israele ed Europol non limitava esplicitamente la sua applicazione ai confini di Israele prima del 1967, la bozza di accordo più recente vieta di estendere la condivisione dei dati ai territori occupati da Israele.

Il rappresentante israeliano presso l’UE Haim Regev aveva già salutato l’accordo di settembre come una “pietra miliare”, ma un parere giuridico del Servizio Legale del Consiglio Europeo e la crescente opposizione da parte di Stati membri rendono sempre più improbabile che si concretizzi.

Il parere legale chiede di eliminare le eccezioni in quanto non rispettano la politica dell’Unione Europea che dal 2012 “specifica inequivocabilmente ed esplicitamente l’inapplicabilità ai territori occupati da Israele nel 1967.”

Secondo l’eurodeputato svedese Evin Incir, almeno 13 su 27 Stati membri “hanno reagito duramente” all’uso di questi dati nei territori palestinesi occupati.

Pur riconoscendo che, nella complessa situazione sul terreno, “dati e informazioni non sono vincolati territorialmente”, Rob Rozenburg, capo della Cooperazione nell’Applicazione della Legge nella Commissione Europea, ha detto al Comitato per le Libertà Civili, la Giustizia e gli Affari Interni che “varie delegazioni sono preoccupate riguardo… alla clausola territoriale e alle eccezioni che sono state proposte.”

Rozenburg ha aggiunto che è stata inviata una lettera all’ambasciatore israeliano presso la UE per avviare una quinta tornata di negoziati, ma il nuovo governo di estrema destra potrebbe dimostrarsi meno collaborativo dei suoi predecessori.

A essere incaricato di supervisionare l’applicazione di questo accordo sarà Itamar Ben-Gvir, nominato ministro della Sicurezza Nazionale. Esponente dell’estrema destra portato al potere da una base elettorale favorevole ai coloni, difficilmente arriverà a un compromesso sull’argomento.

A seconda delle tendenze del suo governo Israele ha opposto differenti livelli di resistenza alla politica di differenziazione dell’Unione Europea. A causa della stessa “clausola territoriale” che impedisce di estendere il progetto alle istituzioni israeliane in Cisgiordania, a settembre Naftali Bennett [ex-primo ministro ed esponente dell’estrema destra dei coloni, ndt.] ha posto il veto all’ingresso di Israele in Creative Europe, un programma di collaborazione culturale con l’Unione Europea.

Con una mossa inconsueta, un protocollo d’intesa tra Unione Europea, Israele ed Egitto sul gas naturale firmato nel giugno 2022 ha omesso di citare tale clausola territoriale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Zona militare chiusa agli attivisti di sinistra

Editoriale di Haaretz

4 dicembre 2022 – Haaretz

Venerdì circa 300 persone si sono recate a Hebron per un tour organizzato da 30 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Breaking the Silence [organizzazione di ex-soldati israeliani contrari all’occupazione, ndt.], l’Associazione per i diritti civili in Israele, Peace Now [organizzazione sionista di sinistra contraria all’occupazione, ndt.] e B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.], sulla scia di diversi recenti episodi di violenza contro palestinesi e attivisti di sinistra in città. Ma le persone che hanno cercato di protestare contro la violenza sia nei loro confronti e dei palestinesi hanno scoperto che l’esercito aveva dichiarato Hebron zona militare chiusa.

“Sulla base della nostra valutazione della situazione, abbiamo deciso di dichiarare una zona militare chiusa in diverse parti della città di Hebron per evitare attriti in quelle aree”, hanno detto le Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] “In linea con questo ordine, è stato vietato l’ingresso ai civili che non vivono in questa zona “.

La decisione dell’IDF di dichiarare Hebron zona militare chiusa al fine di impedire un tour delle organizzazioni per i diritti umani invia un messaggio politico inequivocabile: gli attivisti di sinistra sono da condannare per la violenza dei soldati contro di loro. Nel mondo capovolto dei territori occupati la fonte della violenza sono le persone che protestano contro di essa. La linea di fondo è che le IDF hanno soddisfatto la richiesta espressa sui cartelli tenuti dai contromanifestanti di Im Tirtzu [organizzazione israeliana di estrema destra, ndt.]: “Il popolo di Israele chiede che gli anarchici siano tenuti fuori da Hebron”. Hanno chiesto e ottenuto soddisfazione.

Le IDF hanno ricordato solo tardivamente che conviene prevenire “attriti” e “disturbi della quiete pubblica” limitando l’ingresso in città di non residenti. Dov’era questa idea responsabile due settimane fa, quando l’esercito ha fatto entrare a Hebron decine di migliaia di israeliani per la celebrazione annuale della porzione [parashah] di Hayei Sarah Torah [La parashah racconta le storie delle trattative di Abramo per assicurare un luogo di sepoltura alla moglie Sarah e la missione del suo servo per garantire una moglie a Isacco, figlio di Abramo e Sarah Isacco, ndt], israeliani che hanno provocato disordini, distrutto proprietà, lanciato pietre contro le case, picchiato e insultato sia abitanti palestinesi che membri delle forze di sicurezza e hanno persino ferito una soldatessa? Non solo l’esercito non ha impedito loro di entrare in città, ma ha ordinato agli abitanti palestinesi di Hebron di entrare nelle loro case e ha proibito le attività commerciali.

La scorsa settimana un soldato della Brigata Givati ha picchiato un partecipante a un tour dell’organizzazione Bnei Avraham, e un altro è stato filmato mentre diceva a un secondo membro del gruppo che “Ben-Gvir [politico di estrema destra e futuro ministro della Sicurezza Interna, ndt.] imporrà l’ordine qui” e a un terzo attivista, “ti spaccherò ala faccia”. Certo, il soldato che ha minacciato è stato mandato in cella per 10 giorni, ma poi la sua pena è stata ridotta a quattro giorni.

E a chi l’esercito ha vietato l’ingresso a Hebron? A un attivista palestinese che vive in città, Issa Amro, che ha filmato i soldati della Brigata Givati. Il giudice militare lo ha escluso dal suo stesso quartiere, Tel Rumeida, per sei giorni, dopo che un rappresentante della polizia lo ha definito un “istigatore” perché accompagna i tour degli attivisti israeliani a Hebron e ha affermato che questi “creano tensione”.

La decisione dell’IDF di escludere dalla città gli attivisti di sinistra è stata una decisione politica che mette soldati e coloni da una parte e persone di sinistra e palestinesi dall’altra. Dà slancio alla violenza contro i palestinesi e la sinistra. Se è così che si comporta l’esercito ancor prima che Benjamin Netanyahu abbia formato un governo con Itamar Ben-Gvir, l’indicazione è chiara: il peggio deve ancora venire.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale in Israele sia in ebraico che in inglese.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Mondiali 2022: come i tifosi arabi dicono la verità a Israele sulla Palestina

Emile Badarin

2 dicembre 202-Middle East Eye

Rifiutando le interviste ai giornalisti israeliani, i tifosi arabi si rifiutano di conferire legittimità al sistema di apartheid dello Stato israeliano.

I giornalisti israeliani sono accorsi a Doha questo mese per coprire la Coppa del Mondo, alcuni trasformandola in una missione per far “parlare con Israele” l’opinione pubblica araba. Ma nelle frequenti interazioni catturate tramite i social media, i tifosi hanno cortesemente rifiutato l’offerta in modi diversi.

Alcuni si sono rifiutati di dialogare; altri hanno sottolineato il loro impegno per la causa palestinese; altri si sono semplicemente allontanati dopo aver capito che il giornalista proveniva da Israele.

La politica del riconoscimento ispira la “missione giornalistica” israeliana in Qatar e altrove. Questi giornalisti, come gran parte dell’opinione pubblica israeliana e dei media occidentali, sembrano essersi convinti che la Palestina e i palestinesi siano scomparsi dalla coscienza araba a causa dei mutamenti geopolitici in tutto il mondo arabo.

Per gli “esperti” israeliani e occidentali questi cambiamenti geopolitici hanno rappresentato una versione ridotta della fine della storia in Medio Oriente. Generalmente considerano la presunta “scomparsa” dei palestinesi come un fattore positivo che ha consentito nel 2020 i cosiddetti Accordi di Abramo e la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e quattro Stati arabi.

Forse non c’è occasione migliore per raccogliere i frutti della normalizzazione di una Coppa del Mondo ospitata da uno Stato arabo che ha temporaneamente permesso ai media israeliani di viaggiare liberamente e informare dal Qatar, anche se questo non ha legami ufficiali con Israele. Sembra che alcuni giornalisti israeliani si siano presi la briga di dimostrare che non sono stati solo i regimi arabi a riconciliarsi con – o meglio, a capitolare davanti al progetto coloniale sionista, ma anche la popolazione araba.

In questo senso l’atto di “parlare a Israele” è interpretato come una forma di riconoscimento, o almeno un potente indicatore di avvicinarsi sempre più verso l’evanescente punto finale del colonialismo di insediamento in Palestina. Punto finale che richiede la legittimazione della sovranità di Israele dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo [cioè su tutta la Palestina storica, ndt.] e la deportazione della popolazione indigena.

In Qatar hanno trovato l’opposto. Sebbene Israele abbia ottenuto il riconoscimento di alcuni regimi arabi, inclusa l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, non è riuscito assolutamente a ottenere il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica araba.

Espropriazione dei palestinesi

Parlare con Israele” in questo contesto ha lo scopo di ottenere un riconoscimento popolare che legittimerebbe e normalizzerebbe la struttura del colonialismo d’insediamento israeliano che continua a espropriare i palestinesi. Pertanto, rifiutandosi di parlare, i cittadini arabi inviano un chiaro messaggio a coloro che sono al potere in Medio Oriente e in Occidente: sono contrari alla normalizzazione senza giustizia, indipendentemente da quanti accordi di “pace” firmi Israele con i regimi arabi.

Invece di “parlare” i tifosi arabi hanno mostrato uno specchio davanti alle telecamere israeliane, ricordando agli spettatori ciò che hanno ostinatamente tentato di dimenticare: la Palestina. Ciò ricorda ai giornalisti israeliani e al loro pubblico il colonialismo di insediamento, la pulizia etnica, l’occupazione, i rifugiati palestinesi e la Nakba (catastrofe) in corso dal 1948. I tifosi del Marocco alludevano a questo quando hanno dispiegato una bandiera della Palestina al 48° minuto della partita Marocco-Belgio.

Ciò che sorprende è lo shock israeliano nel vedere riflesso, nonostante il passare del tempo, l’indignazione per la violenza e la costruzione di Israele sulla terra rubata ai palestinesi che non è svanita.

Questa è la stessa realtà coloniale che la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh ha mostrato instancabilmente al mondo, fino a quando un cecchino israeliano le ha sparato uccidendola lo scorso maggio, un omicidio che è stato ripreso dalle telecamere. Inoltre non è un caso che un anno prima, nel maggio 2021, Israele abbia distrutto la torre dei media di Gaza che ospitava diverse agenzie di stampa internazionali che informavano dall’enclave assediata.

Come i tifosi di calcio in Qatar, Abu Akleh e i suoi colleghi giornalisti in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme e altrove hanno alzato degli specchi che hanno riflesso la brutta immagine del colonialismo israeliano che i popoli arabi non hanno né dimenticato né perdonato. Mentre Abu Akleh è stata uccisa e il mondo non può più vedere il riflesso di Israele attraverso la sua macchina fotografica, non è stato possibile reprimere i messaggi dei tifosi in Qatar.

Coscienza distorta

Di conseguenza, alcuni giornalisti israeliani sembrano essersi rivolti alla narrativa del vittimismo per respingere l’immagine inquietante del colono, il che richiede creatività e autoinganno. È notevole la rapidità con cui alcuni sono ricorsi al “manuale” sionista, presentando il loro fallimento nell’ottenere una “buona parola” su Israele come una manifestazione di odio arabo e musulmano e un desiderio di “cancellare (gli israeliani) dalla faccia della terra”.

Non solo in Israele, ma in tutto il mondo del colonialismo d’insediamento europeo, il senso di vittimismo tra i coloni è un veicolo per rivendicare un’innocenza che galleggia in una coscienza distorta che rappresenta l’anormale e l’ingiusto come normale e giusto.

In questa prospettiva, Israele è solo un altro Stato “normale”- se non l’unico Stato civile e rispettoso dei diritti umani in Medio Oriente, indipendentemente dal fatto che secondo Human Rights Watch ha varcato la soglia dell’apartheid – che ha relazioni “normalizzate” con diversi Stati arabi: uno Stato che gli arabi dovrebbero ammirare, con cui fare amicizia e guardare come un esempio.

Affinché questa normalità immaginaria abbia un senso gli israeliani devono vivere il mito sionista della terra senza popolo per un popolo senza terra. Pertanto devono attivamente dimenticare che i palestinesi esistono davvero, anche dopo un secolo di espropriazione ed eliminazione da parte del colonialismo d’insediamento sionista. L’ironia di far dimenticare continuamente i palestinesi è che li rende più presenti.

Il movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti ha sostenuto la necessità di dire la verità al potere nella lotta contro la segregazione razziale e l’ingiustizia. Ma cosa succede se il parlare stesso può essere trasformato in un veicolo per togliere potere e spogliare?

Tentando di far parlare il popolo arabo con Israele i giornalisti hanno cercato un riconoscimento popolare che conferisse legittimità normativa all’apartheid e all’ingiustizia israeliane. Rifiutarsi di parlare è un atto di resistenza. Paradossalmente [il rifiuto di parlare, ndt.] sta dicendo la verità al potere dei regimi arabi, di Israele e del resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)